Language of document : ECLI:EU:C:2007:715

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

DÁMASO RUIZ-JARABO COLOMER

presentate il 27 novembre 2007 1(1)

Causa C‑506/06

Sabine Mayr

contro

Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Oberster Gerichtshof (Austria)]

«Direttiva 92/85/CEE – Tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti – Nozione di lavoratrice gestante – Direttiva 76/207/CEE – Discriminazione fondata sul sesso»





I –    Introduzione

1.        Per molto tempo la gravidanza è stata circondata da un alone di mistero; non esistevano ancora i test rapidi di gravidanza, né i progressi della tecnica avevano già permesso immagini del feto nel ventre materno. In passato la donna incinta non aveva certezza immediata della propria condizione e spesso il dubbio durava settimane. Alcuni osservatori, i pionieri della scienza medica in particolare, tentarono di descrivere i sintomi della gestazione. Plinio il vecchio, nel libro VII della Storia Naturale, scrive che «mali di testa a partire dal decimo giorno dopo il concepimento, capogiri e ottenebramenti della vista, nausea per il cibo e vomito sono il segno che ha cominciato a formarsi un essere umano» e aggiunge che «la donna che aspetta un maschio ha un colorito migliore e un parto più facile» (2).

2.        La maggior parte delle società si è preoccupata di attribuire una posizione speciale alla donna incinta, sia per renderle omaggio sia per proteggerla – insieme alla sua creatura – dai cattivi presagi e dai rischi connessi alla maternità. Nel suo celebre libro I riti di passaggio (pubblicato nel 1909) l’etnologo francese Arnold Van Gennep descrive alcuni rituali che, nelle società primitive, accompagnano i mutamenti cui vanno incontro gli esseri umani: gravidanza, nascita, matrimonio e morte (3).

3.        In Memorie di due giovani spose una delle eroine di Balzac, incinta per la prima volta, si sorprende di non avvertire nulla di speciale all’inizio e di scoprire il suo stato nello sguardo degli altri e non nel proprio corpo; ella conclude, così, che «la gravidanza è solo un fatto mentale» e che, nell’attesa dei sintomi, subentra troppa curiosità di conoscere la sua data d’inizio (4). Francisco de Goya ritrasse la bella contessa di Chincon nello splendore dei suoi 21 anni senza nascondere il figlio che attendeva: il geniale aragonese lo segnala discretamente cingendole il capo con una delicata corona di spighe di grano, simbolo di fertilità (5).

4.        La signora Mayr sicuramente intendeva tenere per sé il suo desiderio di maternità. Non è peregrino pensare che avrebbe preferito tacere per qualche mese questo dettaglio così intimo e personale della sua vita. Ma non le è stato possibile, poiché il processo di procreazione assistita al quale è dovuta ricorrere l’ha costretta a svelare immediatamente il segreto. Dopo essersi sottoposta ad aspirazione del follicolo, quando i suoi ovuli erano già stati fecondati in vitro, ma gli embrioni ancora non introdotti nell’utero, l’impresa le ha notificato la risoluzione del rapporto di lavoro.

5.        L’Oberster Gerichtshof (Corte di cassazione austriaca) chiede alla Corte di giustizia di interpretare la nozione di «lavoratrice gestante» di cui all’art. 2, lett. a), della direttiva 92/85/CEE (6) e di precisare, in particolare, se, al momento del licenziamento, l’interessata potesse essere considerata gestante, tutelata ai sensi di detta disposizione.

6.        L’ordinanza di rinvio pone, quindi, il problema di determinare il momento a partire dal quale comincia la gestazione agli effetti della citata direttiva. Una questione molto delicata, giacché indirettamente potrebbe sfociare in una discussione medico-etica sull’origine della vita qui ultronea e inconferente.

II – Contesto normativo

A –    La normativa comunitaria

1.      La direttiva 92/85

7.        La questione pregiudiziale in esame si incentra sulla direttiva 92/85/CEE, segnatamente sul suo art. 2, lett. a), che definisce «lavoratrice gestante» ogni lavoratrice gestante che «informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».

8.        Tra le garanzie riconosciute alle lavoratrici cui si applica la direttiva figura il divieto di licenziamento, per garantire «l’esercizio dei diritti di protezione della sicurezza e della salute». Ai termini dell’art. 10, gli Stati membri adottano le misure necessarie per vietare il licenziamento di tali lavoratrici nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità, tranne nei casi eccezionali non connessi al loro stato ammessi dalle legislazioni o dalle prassi nazionali e, se del caso, a condizione che l’autorità competente abbia dato il suo accordo (punto 1); qualora la lavoratrice sia licenziata durante tale periodo, il datore di lavoro deve fornire per iscritto giustificati motivi (punto 2).

2.      La direttiva 76/207

9.        Sebbene il giudice del rinvio non la menzioni esplicitamente, ai fini della presente controversia rileva anche la direttiva 76/207/CEE (7). All’art. 2, n. 1, in nome del principio della parità di trattamento, essa esclude «qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia», puntualizzando al n. 3 che le disposizioni della direttiva non ostano «alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità».

10.      A sua volta l’art. 5 enuncia che l’applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che sia garantito agli uomini e alle donne il medesimo trattamento, senza discriminazioni fondate sul sesso.

11.      La direttiva 76/207 è stata modificata dalla direttiva 2002/73/CE (8), a sua volta abrogata e sostituita dalla direttiva 2006/54/CE (9). Nessuna di queste due ultime direttive si applica, tuttavia, al caso di specie, poiché i termini per l’attuazione della direttiva 2002/73 e per l’approvazione della direttiva 2006/54 sono posteriori ai fatti di causa.

B –    La normativa austriaca

12.      Conformemente all’art. 10 del Mutterschutzgesetz (legge austriaca di tutela della maternità; in prosieguo: l’«MSchG»), le dipendenti non possono essere legittimamente licenziate durante il periodo di gravidanza, né nei quattro mesi successivi al parto, purché abbiano informato il datore di lavoro del loro stato prima del licenziamento oppure entro cinque giorni dalla sua comunicazione o notifica.

13.      Dal canto suo, il Fortpflanzungsmedizingesetz (legge austriaca sulla riproduzione medicalmente assistita; in prosieguo: l’«FMedG») definisce «entwicklungsfähige Zellen» gli ovuli fecondati e le cellule che ne derivano (art. 1, n. 3) e ne ammette la conservazione anche per dieci anni (art. 17, n. 1).

III – Fatti, causa principale e questione pregiudiziale

14.      Sabine Mayr lavorava come cameriera per la Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG dal 3 gennaio 2005.

15.      Dopo circa un mese e mezzo di trattamento ormonale, si sottoponeva l’8 marzo 2005 ad aspirazione del follicolo. Con certificato medico era posta in congedo dall’8 al 13 marzo 2005, data prevista per il trasferimento nell’utero di due embrioni (10).

16.      Il 10 marzo, intanto, nel corso di una telefonata, l’impresa le annunciava la cessazione del rapporto di lavoro con effetto dal 26 marzo 2005. Con una lettera dello stesso 10 marzo la signora Mayr informava la società dell’intervento programmato per il 13 marzo. Secondo il giudice remittente, si deve ritenere che alla data della comunicazione del licenziamento gli ovuli prelevati alla ricorrente fossero già stati fecondati con gli spermatozoi del partner e si fosse, dunque, già in presenza di embrioni in vitro.

17.      Su queste premesse la signora Mayr reclamava dalla società convenuta il pagamento dello stipendio e della quota corrispondente della sua retribuzione: il licenziamento comunicato il 10 marzo 2005 sarebbe stato inefficace in quanto, a partire dalla fecondazione artificiale degli ovuli avvenuta l’8 marzo 2005, avrebbe trovato applicazione nei suoi confronti la tutela prevista dall’art. 10, n. 1, dell’MSchG. La società, da parte sua, chiedeva il rigetto dell’istanza, in quanto al momento della notifica del licenziamento non sarebbe sussistita gravidanza.

18.      In primo grado, il Landesgericht Salzburg (Tribunale di Salisburgo) accoglieva il ricorso della signora Mayr ritenendo che, conformemente alla giurisprudenza dell’Oberster Gerichtshof, la tutela della donna sancita dall’art. 10 del MSchG decorresse dalla fecondazione dell’ovulo, compresa la fecondazione in vitro, poiché la finalità del MSchG sarebbe di garantire la sussistenza economica della madre.

19.      La Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG adiva l’Oberlandesgericht Linz (Corte d’appello di Linz), che annullava la sentenza di primo grado con l’argomento che, in qualunque momento della gestazione comincino le variazioni ormonali, una gravidanza isolata dal corpo della donna sarebbe impensabile. Di conseguenza, nel caso della fecondazione in vitro, la gravidanza – e, per questo, la tutela contro il licenziamento – inizierebbe con il trasferimento dell’ovulo fecondato nell’utero.

20.      Contro la sentenza di appello la signora Mayr ha presentato ricorso all’Oberster Gerichtshof. Ritenendo che la soluzione della controversia dipenda dall’interpretazione di norme di diritto comunitario, la Corte di cassazione austriaca ha sottoposto alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 234 CE, la seguente questione pregiudiziale:

«Se rappresenti una “lavoratrice gestante” ai sensi dell’art. 2, lett. a), prima metà della frase, della direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, n. 1, della direttiva 89/391/CEE), la lavoratrice che si sottopone ad una fecondazione in vitro, qualora al momento della comunicazione del licenziamento i suoi ovuli siano stati già fecondati con gli spermatozoi del partner, e si sia quindi già in presenza di embrioni in vitro, ma questi non siano stati ancora trasferiti nel corpo della donna».

IV – Il procedimento dinanzi alla Corte di giustizia

21.      La domanda di pronuncia pregiudiziale è stata depositata nella cancelleria della Corte di giustizia il 14 dicembre 2006.

22.      Hanno depositato osservazioni scritte la convenuta nella causa principale, la Commissione ed i governi ellenico, italiano e austriaco.

23.      All’udienza, che ha avuto luogo il 16 ottobre 2007, hanno svolto osservazioni orali i rappresentanti del governo austriaco, del governo ellenico e della Commissione.

V –    Analisi della questione pregiudiziale

A –    Sull’applicabilità della direttiva 92/85

1.      La nozione di «lavoratrice gestante»

24.      I dubbi dell’Oberster Gerichtshof vertono sull’ambito di applicazione della direttiva 92/85, in particolare su cosa intendere, ai fini della tutela lavorativa ivi prevista, per «lavoratrice gestante».

25.      La direttiva 92/85 si fonda sull’art. 118 A del Trattato (ora art. 138 CE) per proteggere la sicurezza e la salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento. A tal fine, all’art. 10, essa vieta il licenziamento di una lavoratrice «nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità» (11). È dunque escluso sin dall’inizio della gravidanza il licenziamento della «lavoratrice gestante» definita all’art. 2, lett. a), a condizione – precisa quest’ultimo – che l’interessata abbia informato del proprio stato il datore di lavoro «conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».

2.      Una condizione preliminare: informare il datore di lavoro

26.      Sorvolando, per ora, sul problema – certo cruciale – del momento in cui comincia la gravidanza, trattiamo subito dell’obbligo di informare il datore di lavoro, poiché la società convenuta nella causa principale sostiene nelle osservazioni che la signora Mayr, quand’anche incinta nel senso medico del termine al momento del licenziamento, non avrebbe diritto alla tutela offerta dalla direttiva per non aver informato del proprio stato il datore di lavoro.

27.      L’art. 2 rimette alla legislazione degli Stati membri il compito di stabilire come e quando debba essere eseguita la comunicazione e ai giudici nazionali il compito delle corrispondenti verifiche. In base alla normativa austriaca citata pare, tuttavia, di potersi già affermare che la comunicazione è avvenuta nei termini, visto che l’art. 10 dell’MSchG considera valide le comunicazioni fino a cinque giorni dall’annuncio del licenziamento e che la sig.ra Mayr ha informato per iscritto l’impresa dell’andamento della sua gravidanza lo stesso giorno della conversazione telefonica.

3.      L’inizio della gravidanza come condizione fisica della donna meritevole di tutela

28.      Veniamo, a questo punto, al nocciolo del problema: chiarire quando una donna sia incinta e, pertanto, tutelata dalla direttiva 92/85, che nulla prevede al riguardo [il rinvio dell’art. 2, lett. a), alle «legislazioni e/o prassi nazionali» riguarda solo la comunicazione al datore di lavoro, come giustamente osserva la Commissione nelle osservazioni scritte]. Il silenzio della direttiva obbliga ad interpellare la scienza medica.

29.      Prima di addentrarci nel discorso, è importante ricordare che ci si confronta spesso col problema dell’accertamento dell’inizio della gravidanza nel contesto di discussioni sull’aborto. Dipendendo dal momento in cui questo inizio è stabilito, alcune misure sono reputate strumenti (preventivi) di controllo delle nascite (i contraccettivi, per esempio), altre, invece, tecniche di interruzione della gravidanza. Le connotazioni etiche del dibattito permettono di separarlo dal problema strettamente giuridico di cui è investita la Corte di giustizia, chiamata a stabilire quando una donna benefici della tutela della direttiva 92/85 e non quando inizi il processo biologico diretto alla nascita di un nuovo individuo.

30.      I ginecologi e gli ostetrici fanno solitamente decorrere l’inizio della gestazione da momenti differenti: dal giorno dell’ultima mestruazione, da quello dell’ovulazione, dalla data della fecondazione o dell’impianto o ancora da quando la gravidanza può essere constatata chimicamente. Comunque sia, per tradizione la gravidanza s’intende iniziata con il «concepimento».

31.      Nel 1875, basandosi su alcuni studi sulla riproduzione dei ricci di mare, Oskar Hertwig scoprì che la fecondazione comincia con la penetrazione dello spermatozoo nell’ovulo (12). Da allora il concepimento è collegato al processo descritto dallo zoologo tedesco, ma a metà del secolo scorso è stato ridotto al fenomeno dell’impianto, riferito all’annidamento nella parete dell’utero prima dell’ovulo fecondato e poi della blastocisti.

32.      Giova un breve riepilogo (13): una volta che lo spermatozoo ha fecondato l’ovocita, lo zigote discende nell’utero e si segmenta. Nell’arco approssimativamente di cinque giorni dalla fecondazione già si constata una massa cellulare interna, che si sviluppa formando l’embrione, ed un anello esterno, che forma la placenta. Intorno al sesto giorno questa blastocisti si attacca alla mucosa dell’utero; il processo è chiamato annidamento o impianto.

33.      Fecondazione e impianto sono, pertanto, i due fenomeni dei quali, alternativamente, gli studiosi si servono per determinare l’inizio della gravidanza. Una scelta non scevra da pregiudizi e conseguenze pratiche (14), che diventa ancor più complessa quando, come nel caso della signora Mayr, si tenta la procreazione con trattamenti tecnico-sanitari. Indipendentemente dalla validità scientifica di tali due posizioni, più circostanze mi inducono a pensare che la tutela giuridica della gestante cominci con l’impianto della blastocisti nell’utero. Mi fondo su quattro argomenti di diversa rilevanza: a) la letteratura specialistica, che si orienta in questo senso; b) il significato stesso del termine «gravidanza», che non contraddice questo approccio scientifico; c) l’obiettivo principale della direttiva 92/85, che intende promuovere la sicurezza e la salute della lavoratrice gestante; e d) per ultimo, il fatto che tale tutela non può protrarsi sine die.

a)      La nozione di gravidanza secondo la FIGO

34.      Decisiva in materia è la posizione di talune organizzazioni ed istituzioni internazionali di indubbia autorevolezza che difendono il momento dell’impianto. Il Comitato per gli aspetti etici della riproduzione umana della Federazione Internazionale di Ginecologia e Ostetricia (FIGO), per esempio, nella dichiarazione resa al Cairo nel marzo 1998, ha descritto la gravidanza come la parte del processo di riproduzione umana «che comincia con l’impianto del “conceptus” nel seno materno e termina o con la nascita di un bambino o con un aborto» (15).

35.      Conformemente a questa interpretazione, quando le fu comunicato il licenziamento, la signora Mayr non era una lavoratrice gestante ai sensi della direttiva 92/85, poiché in quell’istante i suoi ovuli, pur già fecondati in laboratorio, non erano stati ancora trasferiti nel suo organismo; mancava, quindi, l’annidamento (16).

36.      Più precisamente, la signora Mayr, a seguito di un trattamento ormonale di circa un mese e mezzo, si era sottoposta a un prelievo follicolare l’8 marzo 2005 e il suo medico curante l’aveva messa in congedo per cinque giorni. Il 10 marzo è stata licenziata; a quella data i suoi ovuli erano già stati coltivati in laboratorio e, a quanto risulta, fecondati. Il trasferimento degli embrioni risultanti avvenne tre giorni dopo, il 13 marzo.

37.      Pertanto, se la gravidanza inizia solo dall’impianto del «conceptus» nel seno materno, come intende la FIGO, al momento del licenziamento la signora Mayr non sarebbe stata incinta.

b)      L’accezione comune del termine «gravidanza»

38.      Detto corollario è in linea con la comune accezione del termine «gravidanza» per la scienza medica, che se ne serve per definire il processo compreso tra il concepimento e il parto. Tale accezione è altresì attestata in quel rifugio dall’inclemente realtà che sono i dizionari (17). La gestazione è identificata con lo sviluppo di un nuovo essere nel ventre materno, ma alla data del licenziamento la signora Mayr ancora non era giunta a questa fase. Non rileva che poco dopo ella sia rimasta incinta, né che, alla cessazione del lavoro, gli ovuli fossero già fecondati in laboratorio, poiché non si tratta di stabilire se lo zigote già fosse un nasciturus in senso giuridico, come suggerisce la convenuta (18), ma se ci fosse o meno gravidanza.

39.      Dissento del pari dal governo ellenico allorché sostiene, al paragrafo 17 delle osservazioni scritte, che il fatto che, nell’ipotesi di una fecondazione in vitro, l’interessata possa ripensarci fino al momento del trasferimento dell’ovulo fecondato non rende la sua condizione diversa da una gravidanza naturale, che pure può essere interrotta volontariamente. Senza esprimere giudizi morali sulle due fattispecie, risulta tra loro una differenza giuridicamente rilevante: nel caso della fecondazione in vitro non c’è vita nel seno materno finché non avviene l’impianto.

40.      Da parte sua, il governo austriaco si fonda sulla finalità di tutela perseguita dalla direttiva 92/85 per affermare che la gravidanza, mentre in caso di concepimento naturale comincia con la penetrazione dell’ovulo da parte dello spermatozoo nel corpo della donna, in una fecondazione in vitro decorrerebbe dal trasferimento nell’utero degli ovociti fecondati in laboratorio, senza dover attendere l’«annidamento» (che richiederebbe altri cinque o sei giorni). Ma tutte queste divagazioni non mi sembrano necessarie; è sufficiente sapere che gli embrioni non erano ancora nell’utero della signora Mayr per escludere che quest’ultima fosse incinta quando le fu notificato il licenziamento.

c)      La ratio legis della direttiva

41.      La conclusione che la signora Mayr non fosse incinta è in linea con la ratio della direttiva 92/85, la cui tutela mira a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute delle lavoratrici gestanti, con ciò intendendo la loro condizione fisiologica. Il quindicesimo ‘considerando’ della direttiva precisa che il divieto di licenziare le dipendenti è diretto ad evitare le conseguenze pregiudizievoli che tale decisione genererebbe sulla loro integrità fisica o psichica.

42.      È questa l’interpretazione che ne ha offerto anche il giudice comunitario dichiarando, nelle sentenze 30 giugno 1998, causa Brown (19), e 4 ottobre 2001, causa Tele Danmark (20), che l’art. 10 della direttiva 92/85 intende scongiurare il rischio che una minaccia di licenziamento induca l’interessata ad interrompere volontariamente la gravidanza (21). La norma di cui l’Oberster Gerichtshof chiede sia precisato l’ambito di applicazione mira a proteggere la condizione biologica della gestante. La – parimenti auspicabile – tutela del diritto della donna a procreare (in astratto), a rimanere incinta e a partorire, senza che il suo lavoro costituisca un ostacolo insuperabile, appare assicurata anch’essa a livello comunitario, ma non dalla direttiva 92/85.

d)      La possibilità di posticipare il trasferimento degli embrioni

43.      Un altro argomento mi induce a negare il beneficio della tutela della direttiva 92/85 ad una lavoratrice che, come la signora Mayr, si sia già sottoposta, al momento del licenziamento, all’agoaspirazione degli ovuli, ma non ancora al trasferimento in utero degli embrioni risultanti dalla fecondazione in vitro, tale che né il processo possa dirsi concluso, né l’impianto avvenuto. Tra l’una e l’altra operazione trascorrono di solito diversi giorni, inoltre gli ovuli fecondati in laboratorio non sempre sono trasferiti immediatamente nel grembo materno, ma possono essere congelati per un certo tempo nell’eventualità di un’utilizzazione.

44.      Gli Stati membri offrono un ampio ventaglio di disposizioni che vanno dal divieto di conservare gli ovuli fecondati, posto dalla legislazione italiana (22), al permesso, nella recente legge spagnola del 26 maggio 2006, n. 14, sulle tecniche di riproduzione umana assistita (23), di prolungare la crioconservazione degli ovuli, del tessuto ovarico e dei preembrioni in soprannumero fino a che i responsabili medici diagnostichino che la ricevente non soddisfa i requisiti clinici necessari per la riproduzione assistita (24). Altre legislazioni nazionali autorizzano la conservazione dei preembrioni vitali per un tempo massimo che, in Austria, è di dieci anni (art. 17, n. 1, dell’FMedG).

45.      Su queste premesse, se la Corte di giustizia dichiarasse (come chiede, per esempio, il governo ellenico) che la tutela della direttiva 92/85 alla gestante comincia con la fecondazione dell’ovulo e non con l’impianto, il divieto di licenziamento di cui all’art. 10 si protrarrebbe per un periodo indeterminato ed eccessivo, vanificando l’obiettivo della norma che è di soccorrere le donne già incinte, considerata la vulnerabilità del loro stato, e non quelle che, in un modo o nell’altro, aspirino alla maternità.

46.      Peraltro, sebbene giuridicamente questa possibilità sia vietata in quasi tutti gli Stati membri, è tecnicamente possibile impiantare ovuli fecondati di una donna nell’utero di un’altra (come succede con le cosiddette «madri in affitto»), tale che, in ultima istanza, potrebbe invocare la tutela della direttiva una lavoratrice che né è incinta, né lo sarà.

47.      Meno convincente appare l’argomento (dedotto in subordine dal governo italiano) delle ridotte probabilità di successo del trasferimento degli ovuli fecondati in vitro, poiché la stessa gestazione «naturale» può non giungere a termine a causa di un aborto spontaneo e a quel punto non sarebbe più tutelata.

4.      Corollario

48.      Alla luce di quanto esposto propongo alla Corte di giustizia di risolvere la questione pregiudiziale sollevata dall’Oberster Gerichtshof rispondendo che una lavoratrice dipendente sottoposta a fecondazione in vitro non è una «lavoratrice gestante» ai sensi dell’art. 2, lett. a), prima metà della frase, della direttiva 92/85/CEE se, al momento della notifica del licenziamento, i suoi ovuli sono stati fecondati in laboratorio, ma ancora non trasferiti nel suo corpo.

49.      Inoltre, nonostante la direttiva 92/85 introduca una regola de minimis e, pertanto, nulla impedisca agli Stati membri di prevedere una tutela più ampia, il legislatore austriaco non ha fatto alcun passo in tale direzione e la sua scelta non può essere sindacata.

B –    Sulla tutela offerta dalla direttiva 76/207

50.      Questa prima proposta, circoscritta materialmente dai termini del quesito posto dal giudice austriaco, non osta, tuttavia, ad un’analisi più approfondita della controversia, per verificare se il licenziamento di una lavoratrice in circostanze come quelle di specie integri una discriminazione contraria al principio di parità di trattamento tra uomini e donne.

51.      Questo approccio più ampio si giustifica perché la tutela della maternità è oggetto sia della direttiva invocata dall’organo giurisdizionale remittente, sia di altre disposizioni comunitarie, specialmente della direttiva 76/207, che stabilisce la parità dei sessi per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro.

52.      Se la direttiva 92/85, successiva, è orientata a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro della lavoratrice gestante, puerpera o che allatta, la direttiva 76/207 è nata con una vocazione più ampia, perseguendo l’uguaglianza tra uomini e donne in ambito lavorativo. Su questa premessa l’art. 10 della direttiva 92/85 prevede un divieto di licenziamento «nel periodo compreso tra l’inizio della gravidanza e il termine del congedo di maternità», mentre la direttiva 76/207 non contempla direttamente l’ipotesi del licenziamento per gravidanza, ma solo sancisce la parità di trattamento (art. 5, n. 1), la quale «implica l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia» (art. 2, n. 1) (25).

53.      Nell’interpretazione di questa norma della direttiva 76/207 si è consolidata una giurisprudenza comunitaria ai sensi della quale la gravidanza, sebbene non sia fonte di disparità basata sul sesso, riguarda solo la donna, per la qual cosa le decisioni che potenzialmente pregiudichino quest’ultima sul lavoro e siano fondate su tale suo particolare stato costituiscono una discriminazione vietata dalla direttiva 76/207.

54.      In applicazione del principio di parità di trattamento proclamato dalla direttiva 76/207, il mero fatto di essere donna non giustifica un regime speciale e più favorevole di quello che, a parità di condizioni, è riconosciuto agli uomini.

55.      Con ciò è esclusa, però, solo l’applicazione senza giustificato motivo di regole diverse in condizioni simili. La norma base ammette importanti deroghe, come si evince dallo stesso art. 2 della direttiva 76/207, che consente agli Stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione le attività per le quali, in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenti una condizione determinante (n. 2) e fa salve «le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità» (n. 3), nonché «le misure volte a promuovere la parità delle opportunità per gli uomini e le donne, in particolare ponendo rimedio alle disparità di fatto che pregiudicano le opportunità delle donne» (n. 4) sul lavoro (26).

56.      Così, nella sentenza 25 luglio 1991, causa Stoeckel (27), la Corte, accogliendo le conclusioni dell’avvocato generale (28), definì contrario alla direttiva 76/207 un divieto di lavoro notturno diretto esclusivamente alle donne per il quale non era stato dimostrato che lo speciale orario comportasse rischi ed inconvenienti diversi secondo il sesso del lavoratore. Seguiva l’illustrazione dei criteri che avrebbero dimostrato come nelle circostanze di specie il divieto favorisse la manodopera femminile, dal momento che gli inconvenienti del lavoro notturno, salvo i casi di gravidanza e di maternità, non espongono le donne a rischi maggiori di quelli cui vanno incontro gli uomini (29).

57.      La gravidanza, pertanto, è una circostanza che giustifica taluni vantaggi sul lavoro per le donne. Essa non scusa, però, qualunque violazione del principio di uguaglianza, bensì solo quelle oggettivamente necessarie (30), come il divieto di licenziamento di una lavoratrice incinta. La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia è costante.

58.      La sentenza 5 maggio 1994 nella causa Habermann-Beltermann (31) dichiarò inammissibile la risoluzione di un contratto dovuta all’impedimento temporaneo della dipendente incinta ad effettuare il lavoro per il quale era stata assunta. La sentenza 14 luglio 1994 nella causa Webb (32) definì discriminatorio il licenziamento di una lavoratrice incinta assunta a tempo indeterminato, ma con l’intento specifico di sostituire nell’immediato un’altra dipendente in congedo di maternità.

59.      Oscilla, invece, la giurisprudenza nel valutare i licenziamenti fondati su congedi per malattie causate dalla gravidanza o dal parto, ma usufruiti al termine del congedo di maternità. Nella sentenza 8 novembre 1990, causa Hertz (33), la Corte dichiarò che il licenziamento di una lavoratrice a motivo della sua gravidanza rappresenta una discriminazione diretta fondata sul sesso ai sensi della direttiva 76/207 (34), ma che sarebbe lecito il licenziamento di una lavoratrice a causa di assenze per malattia pur connesse alla gravidanza o al parto se tali assenze provocassero, nelle stesse condizioni, il licenziamento anche di un dipendente maschio.

60.      In un caso simile, quello della signora Larsson, ho proposto alla Corte di giustizia (35) di confermare la giurisprudenza che tira una linea al termine del periodo di congedo di maternità e fa rientrare a partire da tale momento qualsiasi malattia di cui soffra una donna, di origine ostetrica oppure no, nell’ambito del regime generale in vigore per tutti i lavoratori, escludendo, al contrario, che i periodi di incapacità al lavoro dovuti alla gravidanza, prima del parto, possano essere equiparati ai fini di un licenziamento alle assenze per malattia di un uomo. La sentenza 29 maggio 1997 pronunciata nella causa Larsson (36) non accolse sul punto le mie conclusioni: la Corte statuì che la direttiva 76/207 non osta al licenziamento per assenze dovute ad una malattia che si è manifestata durante la gravidanza o il parto, neanche se tale malattia si è protratta dopo il congedo di maternità. Al tempo stesso ammise che le assenze di una lavoratrice tra l’inizio della sua gravidanza e il congedo di maternità fossero considerate per il calcolo del periodo che giustifica il licenziamento in base al diritto nazionale.

61.      Questa interpretazione, tuttavia, sarebbe stata abbandonata appena un anno dopo, nella sentenza Brown (citata sopra), dove la Corte ha accolto le mie conclusioni nel senso già indicato per la causa Larsson, non prendendo in considerazione per il calcolo del periodo che giustifica il licenziamento nell’ordinamento britannico i giorni di malattia manifestatasi nel corso e a causa della gravidanza, o del parto, e protrattasi durante e dopo il congedo di maternità.

62.      La sentenza 19 novembre 1998, nella causa Høj Pedersen e a. (37), ribadì quest’orientamento dichiarando contraria al diritto comunitario una norma danese in base alla quale un datore di lavoro poteva rinviare a casa senza versarle la retribuzione piena una donna incinta di cui ritenesse di non potersi avvalere. La sentenza Tele Danmark introdusse una precisazione quanto alla risoluzione dei contratti a termine nel senso delle mie conclusioni 10 maggio 2001, avvertendo che la direttiva 76/207 osta al licenziamento di una lavoratrice dipendente assunta a tempo determinato che abbia omesso di informare il datore di lavoro in merito al proprio stato di gravidanza (pur essendone a conoscenza al momento della conclusione del contratto) e che, a motivo di tale stato, non sia più in grado di svolgere l’attività lavorativa per una parte rilevante della durata del contratto stesso.

63.      Da ultimo, occorre ricordare due recenti sentenze pur non pubblicate nella Raccolta: quella del 20 settembre 2007 nella causa Kiinski (38), che nega la possibilità di rifiutare il congedo per maternità a una lavoratrice momentaneamente assente dal servizio a titolo di un diverso congedo, e quella dell’11 ottobre 2007 nella causa Paquay (39), secondo la quale la direttiva 92/85 vieta non soltanto decisioni di licenziamento, ma anche misure preparatorie a tali decisioni, come la ricerca di un sostituto.

64.      Tutte queste sentenze ruotano intorno all’idea di fondo che la gravidanza è una realtà fisica che riguarda solo le donne, ciò che ha rappresentato, secondo Lucinda M. Finley, il maggiore ostacolo alla loro piena integrazione nel mondo del lavoro (40). Ne deriva che ogni misura lavorativa potenzialmente pregiudizievole per la donna ed imputabile alla gravidanza è contraria alla direttiva 76/207 (41).

65.      Finora la Corte di giustizia ha esaminato tale discriminazione unicamente rispetto ai licenziamenti di lavoratrici incinte dovuti direttamente alla gravidanza e notificati durante la gestazione, nel corso o alla fine del congedo di maternità. Adesso, però, l’Oberster Gerichtshof le chiede di pronunciarsi per la prima volta sulla conformità con il diritto comunitario della risoluzione di un contratto di lavoro fondata su una maternità eventuale e futura della lavoratrice e notificata prima del controverso inizio della gestazione.

66.      Constatata tale novità, un’interpretazione teleologica della direttiva 76/207, coerente con la giurisprudenza analizzata, induce a riconoscere che anche la situazione descritta sopra potrebbe essere tutelata dalle norme comunitarie.

67.      La direttiva antepone, infatti, al principio di uguaglianza la tutela dei diritti della donna perché non sia discriminata. In particolare, l’art. 2 parla di protezione delle donne per quanto riguarda la gravidanza e la maternità (n. 3), vietando espressamente le discriminazioni che incidono sullo stato matrimoniale o di famiglia (n. 1). A differenza della direttiva 92/85, nessuna disposizione della direttiva 76/207 ha applicazione limitata a un periodo determinato della vita di una donna, sicché nulla osta alla sua applicazione prima o dopo la gravidanza o il parto.

68.      Non solo. L’evoluzione della giurisprudenza sopra sommariamente illustrata rende manifesta la volontà della Corte di giustizia di migliorare la tutela della donna in caso di maternità. Invito, allora, la Corte a proseguire su questa linea di difesa della procreazione (nei limiti del principio di uguaglianza) rispondendo al giudice austriaco che, se alla verifica dei fatti concluderà che il datore di lavoro approfittò della particolare situazione in cui versava la signora Mayr, il licenziamento è discriminatorio e contrario alla direttiva 76/207 (42).

69.      La prudenza e l’imprescindibile difesa della certezza del diritto mi obbligano, nondimeno, a ricordare l’importanza in questa causa di un’attenta ponderazione degli elementi di fatto per delimitare l’ambito temporale della tutela.

70.      Il fattore decisivo per parlare di discriminazione è, a mio parere, che il licenziamento sia avvenuto a causa della maternità, in atto o anche solo in potenza. Non si tratta di «blindare» a tempo indeterminato contro il licenziamento ogni donna in età fertile o intenzionata a procreare, neppure quella che abbia cominciato un lungo e penoso processo di procreazione assistita, bensì di evitare comportamenti del datore di lavoro contrari al principio di uguaglianza tra uomini e donne o all’obiettivo primario in ogni società moderna di tutelare la procreazione.

VI – Conclusione

71.      Conformemente alle riflessioni sopra esposte, propongo alla Corte di giustizia di risolvere la questione pregiudiziale dell’Oberster Gerichtshof rispondendo quanto segue:

«1)      Una lavoratrice sottoposta a fecondazione in vitro non è una “lavoratrice gestante” ai sensi dell’art. 2, lett. a), prima metà della frase, della direttiva 92/85/CEE se, al momento della notifica di licenziamento, i suoi ovuli sono stati fecondati artificialmente, ma ancora non trasferiti nel suo corpo.

2)      Nondimeno, il licenziamento di tale lavoratrice integrerebbe una discriminazione contraria alla direttiva 76/207/CEE se risultasse che è dipeso dalla peculiare circostanza in cui ella versava o dalla sua futura maternità».


1 – Lingua originale: lo spagnolo.


2 – Ed. Firmin-Didot, Parigi 1883, pag. 286.


3 – A. Van Gennep, Les rites de passage, ed. A. e J. Picard, 1992.


4 – H. Balzac, Mémoires de deux jeunes mariées, XXVIII, Oeuvres complètes, Parigi 1867, pag. 124.


5– Opera esposta al Museo del Prado di Madrid.


6– Direttiva del Consiglio 19 ottobre 1992, 92/85/CEE, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’art. 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pagg. 1-8).


7– Direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pagg. 40-42).


8 – Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE, che modifica la direttiva 76/207/CEE del Consiglio relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 269, pag. 15).


9 – Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 5 luglio 2006, 2006/54/CE, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 23).


10– L’ordinanza di rinvio riferisce che la sig.ra Mayr aveva già tentato due volte una fecondazione artificiale, ma non indica in quale data.


11– «[T]ranne nei casi eccezionali non connessi al [suo] stato ammessi dalle legislazioni e/o prassi nazionali e, se del caso, a condizione che l’autorità competente abbia dato il suo accordo» (art. 10, punto 1).


12 – Fonte: Encyclopaedia Universalis, s.v. «embryologie».


13 – Dati tratti dall’Enciclopedia Britannica, s.v. «pregnancy», pag. 675.


14 – Per le ragioni sopra esposte e nonostante che tra i due fenomeni passino solo cinque o sei giorni.


15 – Dichiarazione pubblicata nelle «Recommendations on Ethical Issues in Obstetrics and Gynecology by the FIGO Committee for the Study of Ethical Aspects of Human Reproduction» (novembre 2006): http://www.figo.org/about_guidelines.asp


16– La fecondazione in vitro cui si è sottoposta la sig.ra Mayr è una delle tecniche di procreazione assistita attualmente più in uso; essa consta delle seguenti fasi: 1) stimolazione ormonale delle ovaie attraverso iniezioni intramuscolari o sottocutanee, per ottenere più ovuli nel medesimo ciclo (cosa imprescindibile, poiché non tutti gli ovociti ottenuti diventano embrioni impiantabili); 2) prelievo di ovociti per via transvaginale con sonda ecografica e inserimento di un ago; l’intervento dura circa 15 minuti, in analgesia; la paziente può essere dimessa già dopo 20-30 minuti; 3) coltivazione in vitro dell’embrione: ogni ovulo è messo in provetta con seme idoneo, l’esito dell’operazione può essere verificato l’indomani. Gli embrioni sono tenuti in condizioni ottimali per la fecondazione; 4) trasferimento degli ovuli fecondati nel grembo della donna (nell’utero o nelle tube). Il periodo più propizio all’operazione va dal secondo al sesto giorno dalla fecondazione degli ovociti, secondo le caratteristiche degli embrioni. Il numero di embrioni trasferiti varia in funzione di più fattori; in media è di due o tre; 5) dopo il trasferimento di un congruo numero di embrioni, congelamento a fini di conservazione degli embrioni in soprannumero (fonte: Instituto Valenciano de Infertilidad. http://www.ivi.es/tratamientos/fecundacion.htm).


17 – Così J.A. Pascual, La Historia como pretexto, nel suo discorso d’ingresso nella Real Academia Española del 10 marzo 2002, Madrid 2002, pag. 82. In quella sede l’A. afferma anche che il Dizionario dell’Academia è praticamente accessibile a chiunque dovunque, finanche a Vetusta [Oviedo], visto che L. Alas «Clarín», nel suo magnifico romanzo La Regenta [La Presidentessa], 5ª ed., edito da G. Sobejano per i tipi di Castalia, Madrid 1990, tomo I, pag. 254, ne fa trovare una copia nel casinò di quella città. Nel caso specifico, il Dizionario della Real Academia de la Lengua Española definisce la gravidanza come «estado en que se halla la hembra gestante» [«stato in cui versa la gestante»] e quello dell’Académie Française come «état d’une femme enceinte; durée de cet état» [«stato di una donna incinta; durata di tale stato»].


18 – Paragrafo 5 delle osservazioni scritte.


19 – Causa C‑394/96 (Racc. pag. I‑4185).


20 – Causa C‑109/00 (Racc. pag. I‑6993).


21 – Analogo il mio orientamento nelle conclusioni presentate per tali cause il 5 febbraio 1998 e il 10 maggio 2001.


22 – Art. 14 della legge 19 febbraio 2004, n. 40, come riferisce il governo italiano al paragrafo 19 delle osservazioni. Si tratta di un divieto generale, che tollera deroghe solo in casi di forza maggiore.


23 – BOE del 27 maggio 2006.


24 – Sulla stessa linea si muove il legislatore francese allorché all’art. L. 2141-4 del Code de la santé publique (istituito con legge 6 agosto 2004) richiede, perché siano conservati gli embrioni, che i membri della coppia interessata (o il superstite, in caso di premorienza) dichiarino anno per anno di avere ancora un «progetto di paternità»; per contro, se nulla è comunicato, gli ovociti vengono distrutti dopo cinque anni.


25 – J. Gorelli Hernández, in «Situación de embarazo y principio de igualdad de trato. La regulación comunitaria y su jurisprudencia», nella Revista Española de Derecho del Trabajo n. 97, 1999, pag. 729, ritiene che l’art. 10 della direttiva 92/85 non si limiti a denunciare i licenziamenti discriminatori, bensì proibisca qualunque licenziamento durante la gravidanza e la maternità. Tuttavia, pur essendo generale e incondizionato, il divieto contenuto nell’art. 10 si combina in qualche modo con il divieto di discriminazione fondata sul sesso, giacché tollera il licenziamento «nei casi eccezionali non connessi al loro [delle lavoratrici di cui all’art. 2] stato».


26 – M. Rodríguez Piñero, in «Discriminación, igualdad de trato y acción positiva», nella miscellanea La igualdad de trato en el Derecho comunitario laboral, ed. Aranzadi, Pamplona, 1997, pag. 105, è del parere che si voglia rendere flessibile la portata del principio di parità di trattamento.


27 – Causa C‑345/89 (Racc. 1991, pag. I‑4047). Anche sentenza della Corte 3 febbraio 1994, causa C‑13/93, Minne (Racc. 1994, pag. I‑371).


28 – Avvocato generale Tesauro; le conclusioni furono lette il 24 gennaio 1991.


29 – S’intendono evitare in tal modo misure che, apparentemente tuzioristiche, nascondono visioni sessiste pregiudizievoli per la donna, ostacolandone l’accesso al mercato del lavoro e il normale esercizio dell’attività. In questo senso la Corte costituzionale spagnola, con sentenza 229/1992, ha dichiarato illegittimo il divieto di lavoro in miniera per le donne, imputandolo piuttosto ad uno stereotipo (la loro presunta debilitas) che a concreti impedimenti naturali o biologici; un divieto, dunque, discriminatorio.


30 – L’art. 7 della direttiva 92/85, per esempio, subordina l’esonero della donna dal lavoro notturno alla presentazione di un certificato medico che attesti la necessità della misura per la sicurezza o la salute dell’interessata.


31 – Causa C‑421/92 (Racc. pag. I‑1657).


32 – Causa C‑32/93 (Racc. pag. I‑3567).


33 – Causa C‑179/88 (Racc. pag. I‑3979).


34– Così anche la sentenza Dekker, dello stesso giorno, circa il rifiuto di assumere una donna incinta (causa C‑177/88, Racc. pag. I‑3941).


35 – Conclusioni del 18 febbraio 1997.


36 – Causa C‑400/95 (Racc. pag. I‑2757).


37 – Causa C‑66/96 (Racc. pag. I‑7327).


38 – Causa C‑116/06.


39 – Causa C‑460/06.


40 – L.M. Finley, «Trascending equality theory: a way out of the maternity and the workplace debate», Columbia Law Review, vol. 86, pagg.  1118 e 1119.


41 – Sono perciò della massima importanza le motivazioni. N. Bramforth, in «The treatment of pregnancy under European Community sex discrimination law», European Public Law n. 1, 1995, pag. 61, mette in evidenza, nelle note alle sentenze Dekker e Hertz, come la Corte abbia richiesto che fossero accertate le ragioni del datore di lavoro (vale a dire, i suoi motivi) per licenziare la gestante prima di parlare di un’eventuale discriminazione diretta alla luce della direttiva. Osserviamo che chiarire i motivi di un licenziamento rileva non solo per una corretta definizione dell’ambito della tutela qui in esame, ma anche per evitare un’eccessiva dipendenza dal dibattito sull’uguaglianza dei sessi e dal linguaggio utilizzato che, secondo Lucinda M. Finley, è stato mutuato dal dibattito sulla discriminazione razziale nonostante la sua evidente inadeguatezza alla maggior parte dei problemi delle donne di oggi, le quali hanno fatto notevoli passi in avanti in settori e in privilegi riservati un tempo agli uomini (op. cit., pag. 1164).


42 – La convenuta nega di avere licenziato la sig.ra Mayr a causa della sua futura gravidanza, poiché non sarebbe stata informata di questo evento. Sebbene competa all’organo giurisdizionale nazionale valutare tale affermazione, si osservi che la sig.ra Mayr è stata senz’altro in congedo di malattia in occasione del prelievo follicolare (due giorni prima del licenziamento), per cui l’impresa poteva forse già sapere della sua situazione. Comunque sia, in linea con la direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/80/CE, riguardante l'onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso, spetta alla Bäckerei und Konditorei Gerhard Flöckner OHG dimostrare che la sua decisione non violava in alcun modo il principio di parità di trattamento.