Language of document : ECLI:EU:C:2003:615

Conclusions

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
P. LÉGER
presentate il 13 novembre 2003 (1)



Causa C-371/02



Björnekulla Fruktindustrier AB

contro

Procordia Food AB


[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dallo Svea hovrätt (Svezia)]


«Marchi di impresa – Art. 12, n. 2, lett. a), della prima direttiva 89/104/CEE – Decadenza dai diritti conferiti dal marchio – Marchio di impresa divenuto la generica denominazione commerciale del prodotto o del servizio per il quale esso è registrato – Criteri di valutazione – Determinazione degli ambienti pertinenti per la valutazione – Operatori professionali che commercializzano la categoria di prodotti o di servizi interessata – Consumatori o utilizzatori finali di tale categoria di prodotti o di servizi»






1.       Come si deve valutare se un marchio di impresa è divenuto la generica denominazione commerciale di un prodotto o di un servizio per il quale esso è stato registrato, di modo che il suo titolare può decadere dai suoi diritti? Un tale accertamento deve basarsi soltanto sull’opinione degli operatori professionali che commercializzano tale tipo di prodotto o di servizio o anche su quella dei consumatori interessati?

2.       Sono queste, essenzialmente, le questioni sollevate dallo Svea hovrätt (Svezia) nell’ambito di una controversia tra due operatori economici a proposito di un marchio denominativo riguardante un prodotto alimentare di largo consumo in Svezia. Con tali questioni, il giudice a quo invita la Corte ad interpretare, per la prima volta, le disposizioni di cui all’art. 12, n. 2, lett. a), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (2) .

I – Contesto normativo

A – Normativa comunitaria

3.       Grazie ad un primo ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di marchi d’impresa, la direttiva è volta a porre fine alle disparità esistenti in tale ambito, che possono, da una parte, ostacolare la libera circolazione dei prodotti nonché la libera prestazione dei servizi e, dall’altra, falsare le condizioni di concorrenza nel mercato comune e che hanno un’incidenza più diretta sul funzionamento del detto mercato  (3) .

4.       A tal fine, la direttiva stabilisce, in via di principio, che l’acquisizione e la conservazione dei diritti conferiti dalla registrazione di un marchio di impresa siano subordinate, in tutti gli Stati membri, alle stesse condizioni e che i marchi di impresa debitamente registrati abbiano la medesima tutela  (4) .

5.       Per quanto concerne la registrazione dei marchi di impresa, la direttiva stabilisce, all’art. 2, che possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese  (5) .

6.       In conformità di tale esigenza, l’art. 3, n. 1, della direttiva elenca un certo numero di casi nei quali un segno non può essere registrato come marchio di impresa o, se ciò è avvenuto, il marchio in questione può essere annullato.

7.       È il caso segnatamente dei marchi di impresa privi di carattere distintivo  (6) nonché dei marchi detti «descrittivi», vale a dire quelli «(...) composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio»  (7) .

8.       È il caso, inoltre, dei «marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi leali e costanti del commercio»  (8) .

9.       Tuttavia, in tali tre casi, un marchio di impresa non è escluso dalla registrazione o, se registrato, non può essere annullato se, prima della domanda di registrazione o a seguito dell’uso che ne è stato fatto esso ha acquisito un carattere distintivo  (9) .

10.     Per quanto concerne la tutela dei marchi di impresa, l’art. 5, n. 1, della direttiva stabilisce il principio secondo il quale il marchio di impresa registrato conferisce al titolare, per prodotti o servizi determinati, un diritto esclusivo che gli permette di monopolizzare il segno registrato come marchio di impresa senza limiti di tempo.

11.     Per quanto concerne la decadenza dei diritti del titolare di un marchio di impresa, secondo l’art. 12 della direttiva, essa tende a verificarsi in tre distinte ipotesi.

12.     Una di tali ipotesi, contemplata dall’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva, corrisponde al caso in cui un marchio di impresa «dopo la data di registrazione (...) è divenuto, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è registrato». Sono tali disposizioni della direttiva a costituire l’oggetto di una domanda di interpretazione da parte del giudice a quo.

13.     Nel solco della direttiva, il regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario  (10) istituisce il marchio comunitario, vale a dire un nuovo titolo di proprietà industriale distinto dal marchio nazionale e che produce gli stessi effetti in tutta la Comunità  (11) .

14.     Le norme del regolamento riguardanti l’acquisizione, la tutela e la decadenza dei diritti conferiti dal marchio sono identiche o almeno molto simili a quelle della direttiva in materia  (12) .

B – Normativa nazionale

15.     La legge svedese in materia di marchi (1960:644 del 2 dicembre 1960), come modificata ai fini della trasposizione della direttiva, stabilisce, al suo art. 25, che un marchio può essere oggetto di decadenza se non possiede più carattere distintivo.

16.     Emerge dall’ordinanza di rinvio che i lavori preparatori della detta legge contengono una dichiarazione secondo la quale «per valutare se un marchio ha perso il suo carattere distintivo, occorrerebbe, in larga misura, tener conto della percezione che ne hanno coloro che si occupano della commercializzazione del prodotto»  (13) .

17.     Tale dichiarazione farebbe eco al rapporto del varumärkes-och firmautredning (gruppo di lavoro sui marchi e sui nomi commerciali), ai sensi del quale «non è sufficiente che una parte significativa degli ambienti interessati consideri il marchio come una denominazione generica, fino a quando l’opinione secondo cui il marchio ha carattere distintivo prevarrà, in misura non troppo insignificante, fra coloro che maggiormente hanno a che fare con il prodotto in questione»  (14) . Viene precisato che, «al riguardo, sarà decisiva l’opinione prevalente nei settori a monte della catena di distribuzione, il settore dei grossisti, nonché dei responsabili per gli acquisti nei grandi magazzini o negli esercizi al dettaglio, ecc., più di quella del personale di vendita negli esercizi al dettaglio o dei consumatori»  (15) .

II – Fatti e procedimento nella causa a qua

18.     La Procordia Food AB (in prosieguo: la «Procordia»), società con sede in Svezia, è titolare del marchio registrato «Bostongurka», riguardante una conserva di cetrioli a pezzi marinati.

19.     La Björnekulla Fruktindustrier AB (in prosieguo: la «Björnekulla»), società anch’essa stabilita in Svezia, produce cetrioli marinati, barbabietole rosse marinate e altre semiconserve.

20.     La Björnekulla ha promosso un’azione nei confronti della Procordia al fine di far dichiarare la decadenza dei diritti conferiti dal marchio di impresa di cui quest’ultima è titolare. A sostegno della sua domanda, essa ha asserito che il marchio «Bostongurka» ha perso il suo carattere distintivo dato che, a suo parere, il termine «Bostongurka» è considerato un vocabolo generico che indica cetrioli a pezzi marinati. Su tale punto, essa ha menzionato due indagini di mercato basate su un sondaggio realizzato presso i consumatori, secondo le quali la maggior parte degli intervistati riteneva che il termine «Bostongurka» potesse essere utilizzato liberamente da qualsiasi fabbricante di cetrioli a pezzi marinati.

21.     La Procordia ha contestato tale affermazione. In proposito, essa ha fatto valere un’indagine di mercato realizzata presso importanti operatori nei settori dell’alimentazione generale, delle mense e delle friggitorie. Secondo tale indagine, la metà delle persone interrogate avrebbe dichiarato di conoscere il termine «Bostongurka» come marchio di cetrioli a pezzi marinati.

22.     Il giudice adito, il Tingsrätt (Svezia), ha respinto la domanda di decadenza proposta dalla Björnekulla in quanto quest’ultima non aveva dimostrato che il marchio controverso non avesse più carattere distintivo. Fondandosi in particolare sui lavori preparatori della legge svedese in materia di marchi, esso ha deciso che l’ambiente interessato pertinente per determinare se il marchio controverso avesse perduto o meno il suo carattere distintivo era il circuito di distribuzione dei prodotti in esame.

23.     La Björnekulla ha proposto appello avverso tale decisione dinanzi allo Svea hovrätt. Secondo tale società, emerge dalla giurisprudenza della Corte che la percezione del pubblico è determinante per sapere, ai sensi della direttiva, se un marchio può essere registrato e se esiste un rischio di confusione che possa costituire un atto di contraffazione del marchio. Si dovrebbe procedere analogamente in merito alla decadenza di un marchio di impresa.

24.     Per quanto concerne la Procordia, essa ha sostenuto che sia i lavori preparatori della direttiva sia il tenore letterale di questa, in particolare la comparazione delle sue versioni linguistiche, dimostrerebbero che gli ambienti interessati pertinenti sono quelli che si occupano della commercializzazione del prodotto.

III – Questione pregiudiziale

25.     Alla luce delle tesi formulate delle parti, lo Svea hovrätt ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Nel caso in cui un prodotto passi attraverso vari settori commerciali prima di raggiungere il consumatore, quale sia (o quali siano), ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva sul marchio, l’ambito commerciale rilevante (gli ambiti commerciali rilevanti) per valutare se un marchio sia diventato la generica denominazione commerciale di un prodotto per il quale è registrato».

IV – Analisi

26.     Con tale questione, il giudice a quo vuole sapere, essenzialmente, se le disposizioni dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva debbano essere interpretate nel senso che, per valutare se un marchio di impresa sia diventato la generica denominazione commerciale di un prodotto per il quale detto marchio è registrato, di modo che il suo titolare possa decadere dai suoi diritti, occorre prendere in considerazione soltanto il punto di vista degli ambienti professionali che commercializzano la categoria di prodotti interessata, o anche quello dei consumatori di detta categoria.

27.     Tale questione riguarda in modo specifico il caso in cui il prodotto di cui trattasi passa attraverso vari settori commerciali prima di raggiungere i consumatori o gli utilizzatori finali, vale a dire che la sua commercializzazione segue un circuito in cui si collegano più intermediari successivi, come distributori e dettaglianti.

28.     Per risolvere tale questione, occorre, in conformità dei metodi interpretativi seguiti dalla Corte, esaminare nell’ordine il tenore della direttiva, in particolare nelle sue diverse versioni linguistiche, nonché la sua struttura e le sue finalità  (16) .

A – Il tenore letterale dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva

29.     L’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva prevede, lo ricordo, che «[i]l marchio di impresa è suscettibile (...) di decadenza quando esso dopo la data di registrazione è divenuto, per il fatto dell’attività o inattività del suo titolare, la generica denominazione commerciale di un prodotto o servizio per il quale è registrato»  (17) .

30.     Il problema al centro della discussione in questa causa riguarda il significato del termine «commerciale», che compare al detto art. 12, n. 2, lett. a). Supponendo che tale vocabolo si riferisca allo (agli) ambiente(i) pertinente(i), di cui va considerata l’opinione per valutare se un marchio di impresa sia diventato una denominazione generica, è importante anzitutto esaminare, alla luce del tenore letterale delle disposizioni citate, se sia possibile identificare lo (gli) ambiente(i) pertinente(i) di cui trattasi.

31.     A mio parere, i lavori preparatori della direttiva non sono di grande aiuto per analizzare il tenore letterale delle disposizioni controverse.

32.     Infatti, nessun elemento consente di chiarire con esattezza il significato del termine «commerciale» aggiunto dalla Commissione in occasione della sua modificata proposta della direttiva del 17 dicembre 1985  (18) .

33.     Inoltre, contrariamente a quanto sostengono la Procordia e il governo svedese, non si può trarre alcuna conclusione decisiva dal fatto che l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva usi il termine «commerciale» anziché l’espressione «per il pubblico», che compare agli artt. 4, n. 1, lett. b), e 5, n. 1, lett. b), della direttiva. Al pari della Commissione, non sono convinto che occorra contrapporre tali due espressioni. In ogni caso, sarebbe errato credere che l’espressione «per il pubblico» faccia riferimento ai soli consumatori, con esclusione degli operatori professionali. Infatti, se, secondo una costante giurisprudenza, «la percezione dei marchi operata dal consumatore medio del tipo di prodotto o servizio di cui trattasi svolge un ruolo determinante nella valutazione globale del rischio di confusione»  (19) , ai sensi degli artt. 4, n. 1, lett. b), e 5, n. 1, lett. b), della direttiva, non si può concluderne che tale ruolo sia esclusivo, vale a dire che escluda del tutto la presa in considerazione del punto di vista degli operatori professionali interessati.

34.     Di conseguenza, occorre effettuare una comparazione fra le versioni linguistiche della direttiva.

35.     Infatti, come la Corte ha sottolineato nella sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit e a.  (20) , «va (...) considerato che le norme comunitarie sono redatte in diverse lingue e che le varie versioni linguistiche fanno fede nella stessa misura»  (21) , di modo che «l’interpretazione di una norma comunitaria comporta (...) il raffronto di tali versioni»  (22) . In altri termini, come la Corte ha deciso nella sentenza 5 dicembre 1967, Van der Vecht  (23) , «la necessità che le norme comunitarie siano interpretate in modo uniforme esclude però la possibilità di prendere in considerazione un solo testo ed impone di tener conto, in caso di dubbio, dei testi redatti nelle altre (...) lingue»  (24) .

36.     Come la Procordia, ritengo che l’uso, nella versione inglese, dell’espressione «in the trade» faccia riferimento ad un ambiente specifico, del quale soltanto va considerata l’opinione, vale a dire quello degli operatori professionali che esercitano una particolare attività commerciale o industriale, in un settore o in un ramo determinati (25) . Sembra quindi escluso che debba prendersi in considerazione il punto di vista dei consumatori per valutare se un marchio di impresa sia divenuto una denominazione generica ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva.

37.     La versione finlandese dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva sembra andare nella stessa direzione. Infatti, l’uso del vocabolo «elinkeinotoiminnassa» può essere interpretato come riferito soltanto agli operatori economici nell’ambito della loro attività professionale, con esclusione dei consumatori.

38.     Tuttavia, una tale esclusione non è riscontrabile nelle altre versioni linguistiche della direttiva.

39.     Infatti, l’espressione italiana «la generica denominazione commerciale», nonché l’equivalente versione greca, tendono a fondare la valutazione del carattere generico di una denominazione sull’opinione di tutte le persone (operatori professionali o consumatori) che usano tale denominazione nell’ambito di rapporti commerciali, vale a dire nell’ambito dell’acquisto, della vendita di prodotti o della prestazione di servizi.

40.     Ritroviamo tale concezione nella versione francese della direttiva. Infatti, l’espressione «dans le commerce» è sinonimo di «sur le marché»  (26) . Ebbene, chi dice mercato, dice incontro fra la domanda e l’offerta, ovvero scambio, transazione, in particolare fra gli operatori professionali e i consumatori. L’uso dell’espressione «dans le commerce» tende quindi ad indicare che, per valutare se un marchio è divenuto una denominazione generica, occorre tener conto sia del punto di vista degli operatori professionali che commercializzano la categoria dei prodotti o dei servizi interessata, sia di quello dei consumatori ai quali è destinata tale commercializzazione.

41.     Quanto ho appena indicato per la versione francese della direttiva vale altresì, pare, per le altre versioni linguistiche, vale a dire le versioni spagnola, portoghese, olandese, svedese, danese e tedesca  (27) .

42.     Emerge dal raffronto delle versioni linguistiche della direttiva che la maggior parte di esse suffraga la tesi secondo la quale l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva dev’essere interpretato nel senso che, per valutare se un marchio è diventato una denominazione generica, occorre tener conto sia dell’opinione degli operatori professionali che commercializzano la categoria dei prodotti o dei servizi interessata, sia di quella dei consumatori della categoria di cui trattasi.

43.     Tuttavia, data una divergenza fra le versioni linguistiche della direttiva e l’assenza di elementi chiarificatori nei lavori preparatori di quest’ultima, si deve, in conformità di una costante giurisprudenza, interpretare l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva alla luce del suo sistema generale e delle sue finalità  (28) .

B – Il sistema generale della direttiva

44.     Secondo una costante giurisprudenza, la funzione essenziale del marchio consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato, consentendogli di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli che provengono da un’altra impresa e di operare la propria scelta di conseguenza  (29) . Il marchio deve quindi costituire la garanzia di provenienza del prodotto contrassegnato, vale a dire garantire che tutti i prodotti o servizi che ne sono muniti siano stati fabbricati sotto il controllo di un’unica impresa alla quale possa attribuirsi la responsabilità della loro qualità  (30) .

45.     Questa è la ragione per cui l’art. 2 della direttiva stabilisce il principio ai sensi del quale, per costituire un marchio, un segno deve essere adatto a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese  (31) .

46.     Da tale principio derivano numerose conseguenze.

47.     In primo luogo, i segni o le indicazioni non adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese non possono essere registrati come marchi di impresa o, se ciò è avvenuto, il marchio in questione può essere annullato. Questo è il significato delle disposizioni di cui all’art. 3, n. 1, lett. b), c) e d), della direttiva per quanto concerne rispettivamente i marchi di impresa privi di carattere distintivo, i marchi di impresa descrittivi e i di marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che siano divenuti consueti nel linguaggio corrente o negli usi leali e costanti del commercio.

48.     In secondo luogo, quando un segno ha acquisito, per l’uso che ne è stato fatto, un carattere distintivo che non aveva inizialmente, esso può essere registrato come marchio di impresa e, se già registrato, il marchio di cui trattasi non può essere dichiarato nullo. È quanto stabilisce l’art. 3, n. 3, della direttiva, a titolo di temperamento della norma di cui al n. 1, lett. b), c) e d), del medesimo articolo, testé menzionato.

49.     In terzo luogo, e contrariamente alla situazione precedente, quando un segno ha perduto, per l’uso che ne è stato fatto, il carattere distintivo che aveva inizialmente, al momento della registrazione come marchio di impresa, il titolare del marchio di cui trattasi può decadere dai suoi diritti. È questo il senso del disposto dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva.

50.     Infatti, tali disposizioni riguardano il caso in cui l’uso di un marchio di impresa si è talmente generalizzato che il segno che costituisce il marchio di cui trattasi tende a designare la categoria, il genere o la natura dei prodotti o dei servizi oggetto della registrazione, e non più i prodotti o i servizi specifici che provengono da una data impresa. Ciò è avvenuto, ad esempio, con i termini «thermos» per indicare una bottiglia isotermica, «walkman» per un mangianastri da passeggio, «cellophane» per una pellicola trasparente, fabbricata a partire da idrato di cellulosa e usata per l’imballaggio, o «aspirina» per un medicinale analgesico e antipiretico costituito da acido acetilsalicilico.

51.     Nei casi appena citati, il marchio di impresa ha perduto la sua funzione di origine. Quindi, la tutela del segno registrato a titolo di marchio di impresa non è più destinata ad operare. Il titolare del detto marchio di impresa può quindi decadere dai suoi diritti.

52.     Una tale decadenza ha l’effetto di far cessare il diritto esclusivo del titolare del marchio sull’uso che ne è fatto dai terzi nel mondo professionale, dato che, ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva, tale diritto esclusivo è destinato ad operare senza limiti nel tempo e consente così al titolare di monopolizzare indefinitamente il segno registrato come marchio (32) .

53.     Così facendo, tale misura di decadenza permette ad altri operatori di usare liberamente il segno registrato. Essa persegue quindi una finalità di interesse generale, che impone che segni o indicazioni divenuti di uso corrente per indicare i prodotti o i servizi per i quali si chiede o è stata ottenuta la registrazione possano essere disponibili o liberamente utilizzati da tutti  (33) . Al pari dell’art. 3, n. 1, lett. c) e d), della direttiva, l’art. 12, n. 2, lett. a), di quest’ultima rispecchia la legittima finalità di non permettere ai singoli di usare la registrazione di un marchio di impresa per perpetuare diritti esclusivi vertenti su termini generici o comunemente associati ai prodotti o ai servizi a cui si riferisce la registrazione di cui trattasi. Ognuna di tali disposizioni impedisce che tali segni o indicazioni siano riservati indefinitamente ad una sola impresa a motivo della loro registrazione come marchi di impresa.

54.     Emerge da queste considerazioni che l’art. 3, n. 1, lett. c) e d), della direttiva nonché l’art. 12, n. 2, lett. a), della stessa tendono a raggiungere il medesimo risultato, vale a dire quello di garantire il carattere distintivo di un marchio di impresa, in conformità della sua funzione di origine, e ad evitare che termini generici siano indefinitamente riservati ad una sola impresa a seguito della loro registrazione come marchi di impresa.

55.     Dato che tali norme mirano a conseguire lo stesso risultato, esse devono essere interpretate in modo identico  (34) . Ciò vale a maggior ragione, in quanto queste ultime usano espressioni o nozioni identiche o molto simili.

56.     Occorre quindi interpretare l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva alla luce dell’art. 3, n. 1, lett. c) e d), della stessa direttiva.

57.     Al riguardo, il tenore letterale dell’art. 3, n. 1, lett. d), della direttiva merita una particolare attenzione. Infatti, esso prevede espressamente che, per valutare se un segno o una indicazione sia divenuta di uso corrente, per designare i prodotti o i servizi per i quali si richiede o è stata richiesta la registrazione, di modo che tale registrazione è esclusa ovvero il marchio di impresa registrato può essere dichiarato nullo, occorre esaminare se il detto segno o la detta indicazione sia divenuta di uso comune «nel linguaggio corrente o negli usi leali e costanti del commercio» (come ha precisato la Corte nella citata sentenza Merz & Krell  (35) ).

58.     A mio parere, tale formulazione rinvia chiaramente, in modo globale, sia all’opinione del consumatore medio della categoria dei prodotti o dei servizi interessata (vale a dire all’opinione del consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto)  (36) , sia a quella degli ambienti professionali in cui avviene la commercializzazione della detta categoria di prodotti o di servizi  (37) .

59.     Del resto, ciò è dimostrato dalla prassi seguita fino ad oggi dall’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI) per quanto concerne l’applicazione dell’art. 7, n. 1, lett. d), del regolamento, il cui tenore è identico a quello dell’art. 3, n. 1, lett. d), della direttiva.

60.     Sulla base di tali disposizioni del regolamento, l’UAMI opera una valutazione globale del punto di vista degli ambienti pertinenti che varia in funzione della categoria dei prodotti o dei servizi di cui trattasi. Così, quando un marchio di impresa è relativo ad un prodotto di largo consumo, come può avvenire nel caso di un prodotto alimentare, viene data particolare attenzione al significato del termine di cui trattasi nel linguaggio corrente, vale a dire non soltanto agli occhi del consumatore medio, ma anche a quelli degli ambienti professionali interessati  (38) . Quando un marchio di impresa riguarda un prodotto o un servizio il cui uso è limitato ad una cerchia ristretta di operatori professionali in un dato settore di attività, viene invece tenuta in considerazione la percezione del termine di cui trattasi nell’ambiente o negli ambienti professionali interessati, in altre parole il suo significato negli usi leali e costanti del commercio  (39) .

61.     Tale interpretazione dell’art. 3, n. 1, lett. d), della direttiva, parallelamente a quella dell’art. 7, n. 1, lett. d), del regolamento, dovrebbe essere estesa a quella dell’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva.

62.     Così, queste ultime disposizioni dovrebbero essere interpretate nel senso che rinviano, implicitamente, ma necessariamente, tanto al punto di vista del consumatore medio della categoria dei prodotti o dei servizi interessata quanto a quello degli ambienti professionali in cui avviene la commercializzazione della categoria dei prodotti o dei servizi di cui trattasi.

63.     Per quanto concerne un prodotto alimentare di consumo corrente – come, nel contesto della causa a qua, i cetrioli a pezzi marinati (almeno in Svezia) – la cui commercializzazione passa attraverso vari intermediari successivi, per valutare se il termine contrassegnato sia divenuto una generica denominazione commerciale si dovrebbe quindi prendere in considerazione sia il punto di vista del consumatore medio sia quello degli ambienti professionali che concorrono alla commercializzazione del tipo di prodotto di cui trattasi.

64.     A mio parere, tale analisi è corroborata dall’interpretazione data dalla Corte all’art. 3, n. 1, lett. c), e n. 3, della direttiva.

65.     È importante ricordare che l’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva stabilisce che «[s]ono esclusi dalla registrazione, o, se registrati, possono essere dichiarati nulli: (...) i marchi di impresa composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio»  (40) .

66.     Nella citata sentenza Windsurfing Chiemsee, la Corte ha deciso che tali disposizioni «[...] non si limita[no] a vietare la registrazione dei nomi geografici in quanto marchi nei soli casi in cui essi indichino luoghi geografici determinati che siano già rinomati o noti per la categoria di prodotti di cui trattasi e che, pertanto, presentino un nesso con quest’ultima agli occhi degli ambienti interessati, vale a dire nel commercio e presso il consumatore medio di tale categoria di prodotti nel territorio per il quale si chiede la registrazione»  (41) . Infatti, secondo la Corte, emerge dal tenore di tali disposizioni che «i nomi geografici utilizzabili dalle imprese devono anche essere lasciati disponibili per queste ultime in quanto indicazioni di provenienza geografica della categoria di prodotti di cui trattasi»  (42) .

67.     La Corte ha così evidenziato che il carattere descrittivo di un marchio di impresa (al momento della sua registrazione) dev’essere valutato globalmente, prendendo in considerazione il punto di vista di tutti gli ambienti interessati, vale a dire sia quello del consumatore medio della categoria di prodotti interessata sia quello degli ambienti professionali nel cui ambito avviene la commercializzazione della categoria di prodotti di cui trattasi.

68.     Tale valutazione globale del significato di un marchio è stata altresì presa in considerazione per determinare se un segno che inizialmente non aveva carattere distintivo abbia acquisito tale carattere dopo l’uso che ne è stato fatto, di modo che possa essere registrato come marchio di impresa, ai sensi dell’art. 3, n. 3, della direttiva.

69.     Infatti, nella citata sentenza Windsurfing Chiemsee, la Corte ha dichiarato che «l’autorità competente deve valutare globalmente i fattori che possono dimostrare che il marchio è divenuto atto a identificare il prodotto di cui trattasi come proveniente da un’impresa determinata e quindi a distinguere tale prodotto da quelli di altre imprese»  (43) .

70.     A tal proposito, la Corte ha precisato che, «[p]er valutare il carattere distintivo del marchio oggetto di una domanda di registrazione possono [...] essere prese in considerazione la quota di mercato detenuta dal marchio, l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso di tale marchio, l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo, la percentuale degli ambienti interessati che identifica il prodotto come proveniente da un’impresa determinata grazie al marchio nonché le dichiarazioni delle camere di commercio e industria o di altre associazioni professionali»  (44) .

71.     La Corte ha sottolineato che, affinché sia soddisfatta la condizione di cui all’art. 3, n. 3, della direttiva, è necessario che gli ambienti interessati, o quantomeno una frazione significativa di questi, identifichino grazie al marchio il prodotto come proveniente da un’impresa determinata. Essa ha aggiunto che una tale constatazione non può fondarsi soltanto su dati generali ed astratti, come percentuali determinate  (45) .

72.     Emerge da tale giurisprudenza che, nell’ambito di applicazione dell’art. 3, n. 1, lett. c), e n. 3, della direttiva, il carattere distintivo o meno di un marchio di impresa, al momento della sua registrazione, deve essere valutato globalmente, vale a dire esaminando tutti gli elementi che si riferiscono sia al punto di vista del consumatore medio della categoria dei prodotti o dei servizi interessata sia a quello degli ambienti professionali che concorrono alla commercializzazione della categoria dei prodotti o dei servizi di cui trattasi  (46) .

73.     Lo stesso dovrebbe valere per valutare il carattere generico di un marchio in seguito alla sua registrazione.

74.     Infatti, l’espressione «commerciale» di cui all’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva si ritrova all’art. 12, n. 2, lett. a), della medesima direttiva. In tutta logica e per motivi di certezza del diritto, si può supporre che l’espressione di cui trattasi presenti lo stesso significato nell’ambito delle due disposizioni  (47) .

75.     Inoltre, penso che ciò che conta per valutare il carattere distintivo di un marchio di impresa al momento della sua registrazione conti anche per valutare se tale carattere permanga successivamente. Si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia.

76.     Contrariamente a quanto sostengono la Procordia e il governo svedese, ritengo che tale affermazione non possa essere rimessa in discussione per il fatto che una misura di decadenza dai diritti di marchio è molto più grave di una decisione di rifiuto di registrazione di un segno come marchio.

77.     Non nego che una tale misura di decadenza abbia pesanti ripercussioni sul titolare del marchio di impresa, appunto nell’ipotesi in cui una tale decadenza sia fondata sul carattere generico del suo marchio. Infatti, in tal caso, si può supporre che quest’ultimo abbia effettuato importanti investimenti per sfruttare il detto marchio e promuoverlo sul mercato, segnatamente con la pubblicità, al punto da farlo diventare una generica denominazione della categoria dei prodotti o dei servizi interessata.

78.     Tuttavia, contrariamente alla Procordia e al governo svedese, non si può concludere che la valutazione del carattere generico di un marchio di impresa dovrebbe basarsi soltanto sul punto di vista degli ambienti professionali che commercializzano la categoria dei prodotti o dei servizi interessata, ad esclusione di quello del consumatore medio della categoria dei prodotti o dei servizi di cui trattasi. Infatti, a mio parere, una tale conclusione sarebbe contraria alla finalità della direttiva.

C – La finalità della direttiva

79.     È importante ricordare che, grazie ad un primo ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di marchi di impresa, la direttiva è volta a porre fine alle disparità esistenti in materia, che sono tali, da una parte, da ostacolare la libera circolazione dei prodotti nonché la libera prestazione dei servizi, e, dall’altra, da falsare le condizioni di concorrenza nel mercato comune e che hanno un’incidenza più diretta sul funzionamento del detto mercato  (48) .

80.     Infatti, come la Corte ha ripetutamente evidenziato, il diritto di marchio «costituisce un elemento essenziale del sistema di concorrenza non falsato che il Trattato mira a stabilire [e a mantenere]»  (49) . Garantendo al consumatore l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato, il marchio concorre a stabilire un sistema di concorrenza non falsato nel quale le imprese debbono essere in grado di attirare la clientela con la qualità delle loro merci o dei loro servizi  (50) .

81.     A mio parere, un tale obiettivo rischia di essere ignorato nell’ipotesi in cui sia sufficiente dimostrare che un marchio è diventato generico, unicamente negli ambienti professionali che commercializzano la categoria di prodotti o di servizi interessata, perché il suo titolare possa decadere dai suoi diritti. Accettare un tale meccanismo significherebbe rendere possibili talune prassi atte a falsare la concorrenza sul mercato.

82.     Infatti, si deve temere fortemente che taluni operatori economici, che commercializzano prodotti o servizi identici o comparabili a quelli contrassegnati da un marchio o che desiderano inserirsi in tale mercato, ricorrano ad una tale procedura di decadenza dei diritti del titolare del marchio, al solo scopo di consolidare la loro posizione sul detto mercato, pregiudicando seriamente gli interessi del loro concorrente (il titolare del marchio) e approfittando abusivamente dei suoi sforzi e dei suoi investimenti per promuovere la commercializzazione dei prodotti o dei servizi di cui trattasi, mentre quest’ultimo sperava a giusto titolo che i profitti sarebbero stati durevoli, dato che un marchio registrato attribuisce al suo titolare un monopolio esclusivo che gli consente di attribuirsi il segno registrato come marchio senza limiti nel tempo.

83.     Tale rischio, insito nella presa in considerazione del punto di vista dei soli ambienti professionali, è stato altresì sottolineato dall’avvocato generale Cosmas, nelle sue conclusioni nella citata causa Windsurfing Chiemsee, a proposito della valutazione del carattere distintivo di un marchio acquisito con l’uso. Infatti, soprattutto per motivi di concorrenza, taluni operatori economici possono avere un interesse specifico alla registrazione o all’impedimento della stessa, nel qual caso la posizione da essi adottata non è priva di secondi fini  (51) .

84.     Al di là di tali considerazioni basate sull’obiettivo di libera concorrenza perseguito dalla direttiva, è importante ricordare che, come sottolinea il decimo ‘considerando’ di essa, la tutela conferita dal marchio di impresa ha essenzialmente lo scopo di garantire a quest’ultimo la sua funzione di origine.

85.     Ebbene, come ho già detto, emerge da una costante giurisprudenza che tale funzione consiste nel garantire al consumatore o all’utilizzatorefinale l’identità di origine del prodotto o del servizio contrassegnato consentendogli di distinguere senza confusione possibile questo prodotto o questo servizio da quelli di provenienza diversa  (52) .

86.     È alla luce di tale funzione essenziale del marchio di impresa, sulla quale si basa la direttiva, che occorre valutare se un marchio è diventato generico, di modo che il suo titolare può decadere dai suoi diritti. Infatti, come ho già spiegato, se la direttiva ha stabilito un tale motivo di decadenza, è appunto perché il marchio di cui trattasi non svolge più la sua funzione essenziale.

87.     A mio parere, fondare la valutazione del carattere generico del marchio soltanto sul punto di vista degli ambienti professionali che commercializzano la categoria di prodotti o servizi interessata, ad esclusione di quello dei consumatori o degli utilizzatori finali di tale categoria di prodotti o servizi, significherebbe ignorare tale funzione essenziale del marchio di impresa.

88.     Pertanto, occorre risolvere la questione pregiudiziale nel senso che l’art. 12, n. 2, lett. a), della direttiva dev’essere interpretato nel senso che, per valutare se un marchio sia divenuto la generica denominazione commerciale di un prodotto per il quale il detto marchio è registrato, di modo che il suo titolare può decadere dai suoi diritti, occorre prendere in considerazione, globalmente, sia il punto di vista dei consumatori o degli utilizzatori finali della categoria di prodotti o di servizi interessata, sia quello degli ambienti professionali che commercializzano tale categoria di prodotti o di servizi.

V – Conclusione

89.     Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, propongo alla Corte di risolvere la questione sollevata dallo Svea hovrätt nei seguenti termini:

«L’art. 12, n. 2, lett. a), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, dev’essere interpretato nel senso che, per valutare se un marchio sia divenuto la generica denominazione commerciale di un prodotto per il quale il detto marchio è registrato, di modo che il suo titolare può decadere dai suoi diritti, occorre prendere in considerazione, globalmente, sia il punto di vista dei consumatori o degli utilizzatori finali della categoria di prodotti o di servizi interessata, sia quello degli ambienti professionali che commercializzano tale categoria di prodotti o di servizi».


1
Lingua originale: il francese.


2
GU L 40, pag. 1 (in prosieguo: la «direttiva»).


3
Primo e terzo ‘considerando’.


4
Settimo e nono ‘considerando’.


5
Tale requisito deriva dalla finalità della tutela accordata al marchio di impresa registrato che consiste segnatamente, come indica il decimo ‘considerando’ della direttiva, nel garantire la funzione di origine del marchio di impresa.


6
Art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva.


7
Ibidem, lett. c).


8
Ibidem, lett. d).


9
Art. 3, n. 3, prima frase, della direttiva.


10
GU 1994, L 11, pag. 1 (in prosieguo: il «regolamento»).


11
V. art. 1, n. 2, del regolamento.


12
Così l’art. 4 del regolamento riproduce le disposizioni dell’art. 2 della direttiva, per quanto riguarda i segni che possono costituire un marchio di impresa, l’art. 7, quelle dell’art. 3, relative ai motivi di esclusione dalla registrazione o di nullità, l’art. 9, quelle dell’art. 5, concernenti i diritti conferiti dal marchio, e infine l’art. 50, quelle dell’art. 12, relative ai motivi di decadenza di tali diritti.


13
Proposta 1960:167 (pag. 147), cit. nell’ordinanza di rinvio (pag. 6).


14
Estratti del rapporto «Statens offentliga utredningar» 1958:10 (pagg. 169 e 170), cit. nell’ordinanza di rinvio (pag. 5).


15
Idem.


16
V., segnatamente, sentenze 27 marzo 1990, causa C-372/88, Cricket St Thomas (Racc. pag. I‑1345, punti 14-23) e 28 ottobre 1999, causa C-6/98, ARD (Racc. pag. I‑7599, punti 22‑27). V., inoltre, le mie conclusioni nelle cause Cooke (sentenza 12 ottobre 2000, causa C‑372/98, Racc. pag. I‑8683, punti 24-45), nonché Schilling e Nehring (sentenza 16 maggio 2002, causa C‑63/00, Racc. pag. I‑4483, punti 17, 26 e 27).


17
Il corsivo è mio.


18
85/C 351/05 (GU C 351, pag. 4).


19
V. sentenza 22 giugno 1999, causa C-342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer (Racc. pag. I‑3819, punto 25). V., inoltre, sentenza 11 novembre 1997, causa C-251/95, SABEL (Racc. pag. I‑6191, punto 23).


20
Causa 283/81 (Racc. pag. 3415).


21
Punto 18.


22
Idem.


23
Causa 19/67 (Racc. pag. 407).


24
Pag. 417.


25
V. la definizione dei termini «the trade», in Schorter Oxford English Dictionnary, ed. Oxford at the Clarendon Press, 1970: «those concerned in the particular business or industry in question». Nello stesso senso, v. la definizione data al termine «trade», nel Webster’s Third New International Dictionnary, ed. Merriam-Webster INC, USA, 1993: «the group of persons engaged in a particular occupation, business or industry».


26
V. Le Petit Robert, Dictionnaire de la langue française, ed. Dictionnaires Le Robert , Parigi, 1999.


27
V. i termini spagnoli «en el commercio», portoghesi «no comércio», olandesi «in de handel», svedesi «i handeln», danesi «inden for handelen» e tedeschi «im geschäftlichen Verkehr».


28
Tale metodo interpretativo, in caso di divergenza fra le versioni linguistiche, è stato definito dalla Corte nella sentenza 27 ottobre 1977, causa 30/77, Bouchereau (Racc. pag. 1999), e precisato nella sentenza 7 febbraio 1979, causa 11/76, Paesi Bassi/Commissione (Racc. pag. 245, punto 6). V., altresì, in tal senso, la citata sentenza ARD (punto 27).


29
V., in tal senso, segnatamente, sentenze 17 ottobre 1990, causa C-10/89, Hag II (Racc. pag. I‑3711, punto 14); 29 settembre 1998, causa C-39/97, Canon (Racc. pag. I-5507, punto 28), e 4 ottobre 2001, causa C‑517/99, Merz & Krell (Racc. pag. I-6959, punto 22).


30
V., segnatamente, citate sentenze Hag II (punti 13 e 14) e Canon (punto 28), nonché sentenza 23 aprile 2002, causa C‑143/00, Boehringer Ingelheim e a. (Racc. pag. I-3759, punto 29).


31
Tale principio si rifà al decimo ‘considerando’ della direttiva, il quale sottolinea che la tutela accordata dal marchio di impresa registrato mira in particolare a garantire la sua funzione di origine.


32
V., in tal senso, sentenza 6 maggio 2003, causa C-104/01, Libertel (Racc. pag. I‑0000, punto 49).


33
V., in tal senso, sentenze 4 maggio 1999, cause riunite C-108/97 e C-109/97, Windsurfing Chiemsee (Racc. pag. I‑2779, punto 25); 8 aprile 2003, cause riunite C‑53/01 – C‑55/01, Linde e a. (Racc. pag. I‑0000, punto 73), e Libertel, sopra cit. (punto 52).


34
V., in tal senso, segnatamente in materia di marchi di impresa, sentenze 11 luglio 1996, cause riunite C‑427/93, C‑429/93 e C‑436/93, Bristol-Myers Squibb e a. (Racc. pag. I‑3457, punto 40), e 12 ottobre 1999, causa C‑379/97, Upjohn (Racc. pag. I‑6927, punto 30).


35
La Corte ha dichiarato che l’art. 3, n. 1, lett. d), della direttiva (nonostante il suo tenore non lo precisi) non osta alla registrazione di un marchio soltanto quando i segni o le indicazioni da cui tale marchio è esclusivamente composto siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o nelle consuetudini leali e costanti del commercio, per designare i prodotti o i servizi per cui detto marchio è presentato alla registrazione (punto 31). Non è quindi sufficiente che i detti segni o le dette indicazioni facciano parte del linguaggio corrente o degli usi leali e costanti del commercio, occorre altresì che essi siano divenuti di uso comune per designare i prodotti o i servizi a cui si riferiscono.


36
Sulla definizione di consumatore medio, si veda, in particolare, la citata sentenza 22 giugno 1999, Lloyd Schuhfabrik Meyer (punto 26). Nelle sue conclusioni nella citata causa Merz & Krell, l’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer ha sottolineato il legame fra, da una parte, il consumatore medio e, dall’altra, il linguaggio corrente, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. d), della direttiva (punti 51 e 52).


37
Si può considerare che gli ambienti professionali di cui trattasi sono interessati dall’art. 3, n. 1, lett. d), della direttiva a doppio titolo, sia in quanto ambito in cui si formano gli usi leali e costanti del commercio, sia in quanto parte della popolazione che usa il linguaggio corrente, al pari del consumatore medio.


38
V. decisione della divisione di annullamento dell’UAMI 13 febbraio 2002 (133C 000372920/1), a proposito del marchio «Bruschetta» riguardante taluni prodotti alimentari o servizi connessi. Fondandosi sul fatto che il termine «bruschetta» compare nei dizionari ed è regolarmente usato su Internet, la detta divisione di annullamento ha valutato che tale termine è chiaramente usato, almeno in Italia, per designare un piatto italiano composto da fette di pane tostato servite con aglio, olio e salsa di pomodoro o altri tipi di salsa, di modo che si tratta di un termine comune nel linguaggio quotidiano. Pertanto, si è ritenuta fondata la richiesta di annullamento del marchio in questione.


39
V. decisione della prima divisione di annullamento dell’UAMI 15 dicembre 1999 (C0000901341/1-BSS) a proposito del marchio di impresa «BSS» concernente preparati farmaceutici od oftalmologici e soluzioni sterili per interventi di chirurgia oftalmologica. La detta divisione di annullamento ha ritenuto che, nel mondo medico e farmaceutico, il termine in questione costituisse la sigla generica di «balanced salt solution». V., altresì, la decisione della prima commissione di ricorso dell’UAMI 19 dicembre 2000 (causa R 397/200-1) a proposito del marchio «Proteomics» riguardante diversi materiali o servizi legati alla ricerca medica o scientifica. Fondandosi segnatamente su articoli di opere o di riviste specializzate, la prima commissione di ricorso ha deciso che il termine in questione era usato correntemente, già al momento della registrazione del marchio controverso, per designare un certo tipo di ricerca, in pieno sviluppo, nel settore delle biotecnologie. V., infine, la decisione della prima divisione di annullamento 11 dicembre 2001 (85C 000703579/1) a proposito del marchio «DLC» riguardante rasoi, lame di rasoio, utensili e accessori diversi connessi a tali prodotti. Fondandosi su diversi articoli pubblicati su talune riviste nonché su un’enciclopedia scientifica, tale divisione dell’UAMI ha ritenuto che il termine in questione fosse un’abbreviazione comunemente usata, nel settore degli operatori professionali della metallurgia, e non in una cerchia puramente accademica, per designare un prodotto industriale chiamato «diamond like carbon», molto apprezzato per la fabbricazione di strumenti da taglio, come quelli interessati dalla registrazione del marchio controverso.


40
Il corsivo è mio.


41
Punto 29, il corsivo è mio.


42
Ibidem, punto 30.


43
Punto 49.


44
Ibidem, punto 51.


45
Ibidem, punto 52.


46
Nelle conclusioni nella citata causa Windsurfing Chiemsee, l’avvocato generale Cosmas aveva del resto avuto cura di precisare che l’ambiente pertinente, per valutare il carattere distintivo acquisito con l’uso di un marchio di impresa, è costituito essenzialmente dai consumatori del ramo interessato, ma in linea di massima, comprende anche i commercianti e le aziende che vendono prodotti simili, nonché i loro produttori (paragrafo 72).


47
Per una illustrazione di tale caso, si vedano, segnatamente, le conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella citata causa ARD (paragrafo 43).


48
Primo e terzo ‘considerando’.


49
V., segnatamente, sentenze Hag II, cit. (punto 13); 11 novembre 1997, causa C‑349/95, Loendersloot (Racc. pag. I‑6227, punto 22); 23 febbraio 1999, causa C-63/97, BMW (Racc. pag. I‑905, punto 62); Merz & Krell, cit. (punto 21) e Libertel, cit. (punto 48).


50
V. in questo senso, in particolare, la citata sentenza Merz & Krell (punto 21).


51
V. paragrafo 72 delle conclusioni ed esempi citati.


52
V., segnatamente, la citata sentenza Merz & Krell (punto 22).