Language of document : ECLI:EU:C:2005:787

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

JACOBS

presentate il 15 dicembre 2005 1(1)

Causa C-423/04

Sarah Margaret Richards

contro

Secretary of State for Work and Pensions






1.        Le persone transessuali, secondo la definizione della House of Lords, Corte suprema del Regno Unito, «nascono con le caratteristiche anatomiche delle persone di un sesso, ma con la ferma convinzione o sensazione di appartenere all’altro sesso» (2). La convinzione di appartenere all’altro sesso è così radicata che la persona transessuale è disposta a chiedere la corrispondente «correzione» fisica (3) mediante trattamento ormonale e un’operazione di mutamento di sesso. (4) Tale condizione è nota anche come disforia sessuale o disturbo dell’identità di genere.

2.        Jan (già James) Morris, la giornalista e scrittrice di viaggi anglo-gallese, dopo essersi sottoposta nel 1972 a un’operazione di mutamento di sesso, per conformare il suo aspetto a quello della donna che aveva sempre sentito di essere (5), racconta come «un gentile funzionario del Ministero (…), scusandosi, spiegava che la questione del mio pensionamento sarebbe stata risolta in breve tempo» (6). Oltre 30 anni dopo, il Regno Unito ha approvato il Gender Recognition Act (legge sul riconoscimento del genere) del 2004, che disciplina la posizione giuridica delle persone transessuali con riguardo, tra l’altro, al pensionamento (7). Detta legge è entrata in vigore il 4 aprile 2005 e non ha efficacia retroattiva.

3.        La presente domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Social Security Commissioner (Commissario per la legislazione sociale) di Londra prima che il Gender Recognition Act 2004 entrasse in vigore, solleva la questione se la direttiva 79/7 (8) osti a che uno Stato membro neghi una pensione di vecchiaia prima del compimento del 65° anno di età a una persona transessuale passata dal sesso maschile a quello femminile, nel caso in cui detta persona avrebbe avuto diritto alla pensione al compimento del 60° anno se fosse stata considerata come donna sotto il profilo del diritto nazionale.

 Normativa comunitaria pertinente

4.        L’art. 1 della direttiva 79/7 dispone quanto segue:

«Scopo della presente direttiva è la graduale attuazione, nel campo della sicurezza sociale e degli altri elementi di protezione sociale di cui all’articolo 3, del principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, denominato qui appresso “principio della parità di trattamento”».

5.        L’art. 2 precisa che la direttiva si applica alla popolazione attiva.

6.        L’art. 3, n. 1, lett. a), dispone che la direttiva si applica ai regimi legali che assicurano una protezione, tra l’altro, contro la vecchiaia.

7.        L’art. 4, n. 1, così recita:

«Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso (…), specificamente per quanto riguarda:

(…)

–        il calcolo delle prestazioni, comprese (…) le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni».

8.        L’art. 7, n. 1, prevede quanto segue:

«La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione:

a)      la fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia (…)

(…)».

 Normativa nazionale pertinente prima della sentenza Goodwin

9.        In Inghilterra e nel Galles, l’art. 1 del Births and Deaths Registration Act (legge sulla registrazione delle nascite e dei decessi) del 1953 prevede che ogni nascita dev’essere iscritta dall’ufficiale dello stato civile nel registro delle nascite e dei decessi della zona in cui è avvenuta. Il certificato di nascita deve specificare il sesso del neonato. La legge del 1953 prevede che l’ufficiale dello stato civile proceda a correzione in caso di errore materiale o di fatto; secondo la posizione ufficiale, la modifica è ammessa solo se l’errore è stato commesso al momento della registrazione della nascita. Il fatto che nella vita di una persona possa emergere in un secondo tempo che il suo sesso «psicologico» è diverso da quello registrato non fa sì che la registrazione iniziale effettuata alla nascita sia considerata viziata da errore di fatto. In particolare, non si ammette che si possa configurare come errore di registrazione alla nascita il caso di una persona che si sottopone a un’operazione chirurgica o a un trattamento medico che le consenta di assumere la fisionomia di una persona dell’altro sesso.

10.      Il Department for Work and Pensions (già Department of Social Security; in prosieguo: il «DWP») registra tutti i cittadini britannici ai fini dell’assicurazione nazionale in base ai dati contenuti nel certificato di nascita. Pertanto, il sesso di una persona ai fini dell’individuazione dell’età pensionabile viene determinato in base al sesso biologico registrato alla nascita.

11.      I contributi assicurativi nazionali vengono pagati mediante trattenuta effettuata dal datore di lavoro sulla retribuzione del lavoratore e successivo versamento alla Inland Revenue (per l’ulteriore trasferimento al DWP). Attualmente, i datori di lavoro effettuano i prelievi dalla retribuzione per le dipendenti donne fino al raggiungimento dell’età pensionabile di 60 anni e, per gli uomini, fino al raggiungimento dell’età pensionabile di 65. Secondo la prassi adottata dal DWP in relazione ai transessuali passati dal sesso maschile a quello femminile, questi ultimi possono impegnarsi a versare direttamente al DWP i contributi assicurativi nazionali da essi dovuti dopo aver raggiunto il 60° anno di età e non più trattenuti dal datore di lavoro nella convinzione che gli interessati appartengano al sesso femminile. Nel caso dei transessuali passati dal sesso femminile a quello maschile, per gli importi detratti dal datore di lavoro dopo il raggiungimento del 60° anno di età può essere richiesto il rimborso da parte dei dipendenti direttamente al DWP (9).

12.      Conformemente all’art. 1 dell’allegato 4 del Pensions Act (legge sulle pensioni) del 1995, gli uomini raggiungono l’età pensionabile a 65 anni; l’art. 2 di detto allegato dispone che le donne nate prima del 6 aprile 1950 raggiungono l’età pensionabile a 60 anni (10).

 La sentenza Goodwin e il Gender Recognition Act 2004

13.      L’11 luglio 2002, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha pronunciato la sentenza Goodwin (11). La ricorrente, una persona transessuale passata a seguito di operazione chirurgica dal sesso maschile a quello femminile, aveva denunciato la violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo con riferimento allo status dei transessuali nel Regno Unito e in particolare al loro trattamento nel settore dell’occupazione, della sicurezza sociale, delle pensioni e del matrimonio.

14.      La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che erano stati violati gli artt. 8 (rispetto della vita privata) e 12 (diritto al matrimonio). In relazione all’art. 8, la Corte ha fatto riferimento alla mancanza di riconoscimento giuridico del cambiamento di sesso della ricorrente e ha osservato in particolare come il fatto che essa restasse un uomo ai fini legali avesse conseguenze sulla sua vita «nei casi in cui la distinzione tra uomini e donne riveste rilevanza giuridica, come, tra l’altro, nel settore delle pensioni e dell’età pensionabile». Con riguardo all’art. 12, la Corte ha dichiarato che non era giustificato il diniego ai transessuali, in tutte le circostanze, del diritto a contrarre matrimonio conformemente al loro nuovo sesso (12).

15.      La soluzione legislativa adottata dal Regno Unito per dare esecuzione alla sentenza Goodwin è costituita dal Gender Recognition Act (legge sul riconoscimento del genere) del 2004, entrato in vigore il 4 aprile 2005. Detta legge consente alle persone transessuali (indipendentemente dal fatto che si siano sottoposte oppure no a un intervento chirurgico di mutamento del sesso) di chiedere un «certificato di riconoscimento del genere» che, secondo l’espressione utilizzata dal giudice del rinvio, «dà accesso al riconoscimento quasi completo del sesso da lui o da lei acquisito».

16.      In particolare, la suddetta legge prevede l’istituzione di un «Gender Recognition Panel» (Comitato per il riconoscimento del genere). L’art. 2 della legge prevede che detto Panel deve concedere il certificato di riconoscimento del genere se il richiedente soddisfa i seguenti requisiti:

«a)      è o è stato affetto da disforia sessuale,

b)      alla data della richiesta ha vissuto nel sesso acquisito per un periodo di due anni,

c)      intende continuare a vivere col sesso acquisito fino alla morte»

e soddisfa alcuni requisiti probatori di cui all’art. 3 della legge.

17.      L’art. 13 e l’allegato 5 della legge del 2004 sul riconoscimento del genere disciplinano l’accesso alle prestazioni e alle pensioni di sicurezza sociale. L’art. 7, n. 3, dell’allegato 5 dispone quanto segue:

«se (immediatamente prima che il certificato sia rilasciato) la persona

a)      è un uomo che ha raggiunto l’età alla quale una donna raggiunge l’età pensionabile, ma

b)      non ha raggiunto l’età di 65 anni

la persona in questione deve essere considerata (…) come se avesse raggiunto l’età pensionabile quando detto certificato è stato rilasciato» (13).

 Fatti e procedimento principale

18.      La ricorrente è nata nel 1942; alla nascita era stata registrata come persona di sesso maschile.

19.      Essendole stata diagnosticata una disforia sessuale, il 3 maggio 2001 la ricorrente si sottoponeva a un’operazione chirurgica per il cambiamento di sesso. Essa è stata quindi descritta dal giudice del rinvio come transessuale passato dal sesso maschile a quello femminile in seguito ad intervento chirurgico.

20.      Nel febbraio 2002, la ricorrente presentava domanda affinché le venisse corrisposta una pensione di vecchiaia a partire dal compimento del 60° anno di età.

21.      Tale domanda veniva respinta in quanto era stata proposta più di quattro mesi prima che la ricorrente raggiungesse l’età di 65 anni, vale a dire l’età pensionabile prevista per gli uomini nel Regno Unito.

22.      La ricorrente presentava ricorso dinanzi al Social Security Appeal Tribunal (Commissione di secondo grado per la legislazione sociale). Il ricorso, che era fondato esclusivamente sul diritto nazionale, veniva respinto.

23.      Con un ulteriore ricorso dinanzi al Social Security Commissioner, la ricorrente faceva valere che il diniego della pensione all’età cui ogni altra donna vi avrebbe avuto diritto costituiva un’illegittima discriminazione vietata dalla direttiva 79/7.

24.      È pacifico che la ricorrente rientri nell’ambito di applicazione ratione personae della direttiva 79/7 e che il regime pensionistico nazionale in questione rientri nel campo di applicazione ratione materiae della medesima direttiva.

25.      Il Social Security Commissioner ha quindi sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte le seguenti questioni:

«1.      Se la direttiva 79/7 osti al rifiuto di una pensione di vecchiaia ad un transessuale passato dal sesso maschile a quello femminile, finché questa persona raggiunge l’età di 65 anni, la quale avrebbe avuto diritto alla pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata come donna sotto il profilo del diritto nazionale.

2.      In caso affermativo, a partire da quale data debba avere effetto la pronuncia della Corte sulla prima questione».

26.      Hanno presentato osservazioni scritte la ricorrente, il governo del Regno Unito e la Commissione, che erano tutti rappresentati in udienza.

 La giurisprudenza della Corte sui transessuali e le discriminazioni

27.      La Corte si è pronunciata in due cause nelle quali un transessuale affermava di essere stato discriminato in base al sesso. Entrambe le cause riguardavano il Regno Unito.

28.      Nella causa P. contro S. (14), alla Corte si chiedeva in sostanza se il licenziamento di un transessuale per motivi connessi al suo mutamento di sesso costituisse una discriminazione basata sul sesso ai sensi della direttiva sulla parità di trattamento (15).

29.      La Corte ha accolto l’invito dell’avvocato generale Tesauro ad adottare una decisione «coraggiosa» e ha dichiarato quanto segue:

«(…) il principio della parità di trattamento “fra uomini e donne”, al quale la direttiva fa riferimento nel suo titolo, nei suoi ‘considerando’ e nelle sue disposizioni, implica (…) “l’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso”.

La direttiva non è quindi che l’espressione, nella materia considerata, del principio di uguaglianza, che è uno dei principi fondamentali del diritto comunitario.

Inoltre, come la Corte ha già più volte affermato, il diritto di non essere discriminato in ragione del proprio sesso costituisce uno dei diritti fondamentali della persona umana, di cui la Corte deve garantire l’osservanza (…).

Di conseguenza, la sfera d’applicazione della direttiva non può essere ridotta soltanto alle discriminazioni dovute all’appartenenza all’uno o all’altro sesso. Tenuto conto del suo scopo e della natura dei diritti che mira a proteggere, la direttiva può applicarsi anche alle discriminazioni che hanno origine, come nella fattispecie, nel mutamento di sesso dell’interessata.

Infatti, siffatte discriminazioni si basano essenzialmente, se non esclusivamente, sul sesso dell’interessato. Così, una persona, se licenziata in quanto ha l’intenzione di subire o ha subito un cambiamento di sesso, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenere prima di detta operazione.

Il tollerare una discriminazione del genere equivarrebbe a porre in non cale, nei confronti di siffatta persona, il rispetto della dignità e della libertà al quale essa ha diritto e che la Corte deve tutelare (16)».

30.      La Corte ha quindi concluso che la direttiva ostava al licenziamento di un transessuale per motivi connessi al mutamento di sesso.

31.      La ricorrente nella causa K.B. (17) era una donna che conviveva, senza potersi legittimamente unire in matrimonio, con R., un transessuale passato dal sesso femminile a quello maschile. K.B. era stata informata che, qualora fosse deceduta prima di R., quest’ultimo non avrebbe potuto percepire la pensione di reversibilità in forza del regime pensionistico cui KB era iscritta, in quanto tale beneficio era riservato al coniuge superstite e il diritto nazionale non riconosceva la qualità di «coniuge» in assenza di legittimo matrimonio. K.B. aveva adito le vie legali lamentando una discriminazione basata sul sesso; alla Corte era stata sottoposta la questione se l’esclusione dal regime pensionistico di una persona nella situazione di R. costituisse una discriminazione fondata sul sesso vietata dal diritto comunitario (18).

32.      La Corte, dopo avere premesso che la pensione di reversibilità versata in forza di un regime pensionistico quale quello controverso costituiva una «retribuzione» ai sensi dell’art. 141 CE e della direttiva sulla parità delle retribuzioni, ha dichiarato quanto segue:

«l’art. 141 CE osta, in linea di principio, ad una legislazione che, in violazione della CEDU, impedisca ad una coppia, quale K.B. e R, di soddisfare la condizione del matrimonio, necessaria affinché uno di essi possa godere di un elemento della retribuzione dell’altro. Spetta al giudice nazionale verificare se, in un’ipotesi quale quella di cui alla causa principale, una persona nella situazione di K.B. possa invocare l’art. 141 CE affinché le si riconosca il diritto di far beneficiare il proprio convivente di una pensione di reversibilità» (19).

 Sulla prima questione

33.      Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede se la direttiva 79/7 osti a che uno Stato membro neghi una pensione di vecchiaia prima del compimento del 65° anno di età a una persona transessuale passata dal sesso maschile a quello femminile, quando tale persona avrebbe avuto diritto alla pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata come donna sotto il profilo del diritto nazionale.

34.      La ricorrente e la Commissione sostengono che tale questione dev’essere risolta in senso affermativo, mentre il governo del Regno Unito deduce la tesi opposta.

35.      A sostegno delle loro conclusioni, la ricorrente e la Commissione si richiamano alle sentenze P. contro S. (20) e K.B. (21).

36.      Nella sentenza P. contro S., la Corte ha dichiarato in sostanza che il licenziamento «per motivi connessi al mutamento di sesso» costituiva una discriminazione basata sul sesso vietata dall’art. 5, n. 1, della direttiva sulla parità di trattamento (22).

37.      Ovviamente, il «principio della parità di trattamento» che trova espressione nell’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 in materia di sicurezza sociale ha portata ed effetti identici a quelli del «principio della parità di trattamento» sancito in relazione alle condizioni di lavoro dall’art. 5, n. 1, della direttiva sulla parità di trattamento. L’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 dispone che tale principio osta in particolare a qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso per quanto riguarda, fra l’altro, le condizioni relative alla durata delle prestazioni accordate in base ai regimi legali di pensione di vecchiaia.

38.      Alla ricorrente nel presente procedimento è stata negata la pensione cui avrebbe avuto diritto qualora fosse stata registrata come persona di sesso femminile fin dalla nascita. Pertanto, la presunta discriminazione trae origine dal fatto che il Regno Unito non accorda a una persona transessuale, in conformità del suo nuovo sesso, un trattamento identico a quello previsto per le persone registrate alla nascita con tale sesso.

39.      Nella sentenza P. contro S., la Corte ha dichiarato che una persona, se licenziata in quanto ha l’intenzione di subire o ha subito un cambiamento di sesso, riceve un trattamento sfavorevole rispetto alle persone del sesso al quale era considerata appartenere prima di detta operazione (23).

40.      Se si applicasse tale criterio alla fattispecie ora in esame, il termine di paragone corretto per la ricorrente sarebbe quindi costituito dalle «persone del sesso al quale era considerata appartenere prima [del cambiamento di sesso]». Tale categoria sarebbe composta da richiedenti uomini, che non maturano il diritto alla pensione prima del compimento del 65° anno di età, con la conseguenza che non sussisterebbe alcuna discriminazione.

41.      Tuttavia, concordo con la Commissione che il criterio da seguire ai fini dell’applicazione alle persone transessuali della normativa sulla discriminazione sessuale dev’essere diverso rispetto al modello classico, che si basa sempre sul confronto diretto tra uomini e donne.

42.      La causa P. contro S. costituiva un caso di discriminazione particolarmente evidente, essendo pacifico che il licenziamento era fondato su «motivi connessi al mutamento di sesso». Che il termine di paragone fosse un uomo che non intendeva subire un’operazione di cambiamento di sesso, oppure una donna che non aveva subito tale operazione, il risultato sarebbe stata comunque lo stesso: rispetto a tale persona, la ricorrente sarebbe stata svantaggiata.

43.      Lo stesso vale per la sentenza della House of Lords nella causa A. contro Chief Constable of West Yorkshire Police (24), in cui, per individuare il termine di paragone appropriato, è stato adottato il criterio seguito dalla Corte nella sentenza P. contro S. (25). Anche detta causa riguardava una discriminazione direttamente connessa al mutamento di sesso.

44.      Nella causa K.B. la situazione era diversa. Per giungere alla conclusione che l’esclusione del partner transessuale, passato dal sesso femminile a quello maschile, di un’iscritta al regime pensionistico del sistema sanitario nazionale costituiva una discriminazione basata sul sesso vietata dall’art. 141 CE, la Corte ha confrontato la coppia con «le coppie eterosessuali, in cui l’identità di nessuno dei due membri deriva da un’operazione di cambiamento di sesso, [che] possono contrarre matrimonio» (26). Il termine di paragone corretto nel caso di un transessuale passato dal sesso femminile a quello maschile era quindi costituito da una persona di sesso maschile la cui identità non derivasse da un’operazione di cambiamento di sesso.

45.      Ritengo che anche nella fattispecie ora in esame sia questo il termine di paragone corretto. Alla ricorrente è stata negata la pensione cui avrebbe avuto diritto se fosse stata registrata come donna fin dalla nascita. Di conseguenza, la presunta discriminazione deriva dal fatto che il Regno Unito non riconosce alla persona transessuale, nel suo sesso acquisito, gli stessi diritti delle persone registrate alla nascita con tale sesso, che è proprio la questione oggetto della causa K.B. Ritengo pertanto che il termine di paragone corretto nella presente causa, riguardante una persona transessuale passata dal sesso maschile a quello femminile, sia costituito da una persona di sesso femminile la cui identità non derivi da un’operazione di cambiamento di sesso.

46.      Su tale fondamento, ritengo che l’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 osti a che uno Stato membro rifiuti di riconoscere il diritto alla pensione prima del compimento del 65° anno di età a un transessuale passato dal sesso maschile a quello femminile, nel caso in cui tale persona avrebbe avuto diritto alla pensione al compimento del 60° anno se fosse stata considerata come donna sotto il profilo del diritto nazionale.

47.      Tuttavia, il governo britannico sostiene che l’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 non è applicabile, in quanto il Regno Unito ha scelto di esercitare la facoltà, prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), di escludere dall’ambito di applicazione della direttiva le disposizioni nazionali relative alla determinazione dell’età pensionabile.

48.      La ricorrente e la Commissione affermano invece che l’interessata non lamenta il fatto che sia prevista un’età pensionabile diversa per gli uomini e per le donne, bensì la circostanza che a lei, in quanto donna, venga impedito di percepire la pensione all’età prevista solo perché il Regno Unito non riconosce il suo cambiamento di sesso.

49.      Concordo sul fatto che, nella fattispecie, l’art. 7. n. 1, lett. a), non è pertinente.

50.      La Corte ha dichiarato che una discriminazione in linea di principio vietata dall’art. 4, n. 1, rientra nell’ambito di applicazione della deroga di cui all’art. 7, n. 1, lett. a), solo qualora sia necessaria per conseguire gli scopi perseguiti dalla direttiva nel consentire agli Stati membri di prevedere età pensionabili diverse per gli uomini e le donne (27).

51.      Non è questo il caso in esame nella presente causa, in cui la ricorrente contesta in sostanza il criterio in base al quale il Regno Unito qualifica una persona come appartenente a un determinato sesso al fine di stabilire se abbia raggiunto l’età pensionabile. La deroga di cui all’art. 7, n. 1, lett. a), si riferisce alle normative che fissano età pensionabili differenti per gli uomini e per le donne. Essa non riguarda le normative concernenti la diversa questione della determinazione del sesso dell’interessato.

52.      Il governo del Regno Unito sostiene che la ricorrente non può affermare, da un lato, che tra le discriminazioni fondate sul sesso ai sensi dell’art. 4, n. 1, rientrano le discriminazioni basate sul cambiamento di sesso e, dall’altro, che la deroga del Regno Unito al divieto concernente la «discriminazione (…) fondata sul sesso» di cui all’art. 7 non si applica alla forma di discriminazione da essa lamentata.

53.      Tuttavia, non ritengo che questa tesi, come afferma il governo del Regno Unito, sia «intrinsecamente viziata». Contrariamente a quanto sostiene il detto governo, una situazione può al contempo essere soggetta a un divieto generale di discriminazione ed esulare dall’ambito di applicazione di una specifica deroga a tale divieto.

54.      Dai termini in cui è formulato il divieto di discriminazione di cui all’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7, che osta a «qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia», emerge chiaramente che tale divieto ha carattere onnicomprensivo. La Corte ha dichiarato che la suddetta disposizione «esclude in generale e in termini non equivoci qualsiasi discriminazione basata sul sesso» (28). L’art. 4, n. 1, contiene alcuni esempi di contesti in cui la discriminazione è vietata, vale a dire il campo di applicazione dei regimi legali di sicurezza sociale e le condizioni di ammissione ad essi, l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi, il calcolo delle prestazioni e le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni.

55.      Per contro, la Corte ha dichiarato che, tenuto conto dell’importanza fondamentale del principio della parità di trattamento, l’eccezione al divieto di discriminazioni fondate sul sesso prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a), dev’essere interpretata restrittivamente (29). Come ho già rilevato, tale disposizione consente di mantenere una disparità di trattamento tra uomini e donne in un caso specifico, vale a dire quello della fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro e delle conseguenze che possono derivarne per altre prestazioni. Questo tipo di discriminazione basata sul sesso non è in discussione nella presente causa.

56.      Nella fattispecie, il comportamento lamentato è soggetto al divieto generale di cui all’art. 4, n. 1, della direttiva sulla parità di trattamento ed esula dall’ambito della deroga prevista dall’art. 7, n. 1, lett. a).

57.      Aggiungerei che in udienza è stata discussa la questione relativa al momento in cui una persona transessuale matura il diritto alla parità di trattamento, ai sensi della direttiva 79/7, rispetto alle persone di sesso uguale a quello da essa acquisito. Tuttavia, non occorre risolvere tale questione nella fattispecie ora in esame, che riguarda un transessuale che si è già sottoposto a un’operazione di cambiamento di sesso, il cui diritto è quindi fuori discussione.

58.      Pertanto, concludo che la prima questione va risolta nel senso che l’art. 4, n. 1, della direttiva 79/7 osta a che uno Stato membro rifiuti di concedere una pensione di vecchiaia, prima del raggiungimento dei 65 anni di età, a una persona transessuale passata dal sesso maschile a quello femminile, quando invece tale persona avrebbe avuto diritto alla pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata come donna sotto il profilo del diritto nazionale.

 Sulla seconda questione

59.      La seconda questione del giudice del rinvio si pone nel caso in cui la prima venga risolta come propongo al precedente paragrafo 58. In tal caso, il giudice a quo chiede infatti se la pronuncia della Corte sulla prima questione debba essere assoggettata a limiti temporali.

60.      Il giudice del rinvio è stato indotto a sollevare la seconda questione da un argomento svolto nel corso del procedimento a quo per conto del Secretary of State for Work and Pensions, che nell’ordinanza di rinvio viene riassunto come segue:

«Qualora (…) la Corte di giustizia debba concludere che il diritto comunitario vieta la discriminazione di cui l’appellante si lamenta, il Secretary of State inviterà detta Corte a limitare l’effetto temporale della sua sentenza, alla luce della sua pronuncia emessa nella causa C­262/88, Barber/Guardian Royal Exchange Assurance Group (Racc. 1990, pag. I-1889, punti 40-44), e a stabilire che la sentenza della Corte nel caso in esame non può essere fatta valere per ottenere un diritto alla pensione con effetto a partire da una data precedente a quella della sua stessa sentenza, eccetto nel caso di coloro che, con effetto da una data precedente alla sentenza della Corte, hanno prima di detta data iniziato un procedimento legale o formulato un reclamo equivalente in base al diritto nazionale vigente».

61.      Di fatto, tuttavia, il governo del Regno Unito afferma nelle sue osservazioni scritte, e ha ribadito in udienza, di non pretendere alcuna limitazione temporale degli effetti della sentenza della Corte.

62.      In ogni caso, dalla giurisprudenza della Corte emerge che una limitazione nel tempo si impone soltanto in presenza di circostanze ben precise, tra le quali rientra l’esistenza di un «rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente» (30).

63.      Nella fattispecie, sussistono vari fattori il cui effetto combinato è quello di minimizzare le ripercussioni economiche di una sentenza emessa nella presente causa che risolva in senso affermativo la prima questione del giudice del rinvio. In primo luogo, secondo le cifre fornite dal governo britannico, il numero di transessuali nel Regno Unito è modesto: nel 2000 esso era stimato tra le 2000 e le 5000 persone circa (31) (cifra che ovviamente include le persone transessuali di tutte le età) su una popolazione di quasi 60 milioni. In secondo luogo, attualmente il Regno Unito sta progressivamente eliminando la differenza di età pensionabile tra gli uomini e le donne per tutte le persone nate dopo il 5 aprile 1955 (32). In terzo luogo, un transessuale passato dal sesso maschile a quello femminile, cui sia stato rilasciato un certificato in forza del Gender Recognition Act 2004 e che abbia raggiunto l’età in cui una donna ha diritto alla pensione, viene ritenuto avere raggiunto l’età pensionabile alla data di rilascio del certificato. Risulta quindi chiaro che il numero di persone che si trovano nella stessa posizione della ricorrente non è atto a determinare un rischio di gravi ripercussioni economiche nel Regno Unito. Tali ripercussioni saranno ancora meno significative nell’intera Unione europea, dato che molti Stati membri prevedono già che gli uomini e le donne maturino il diritto alla pensione alla stessa età e che le persone transessuali ottengano pieno riconoscimento giuridico del loro nuovo sesso (33).

64.      Pertanto, ritengo che, qualora la Corte risolva in senso affermativo la prima questione, non sia necessario limitare nel tempo gli effetti della sentenza.

 Conclusione

65.      Alla luce di quanto precede, ritengo che le questioni sollevate dal Social Security Commissioner di Londra debbano essere risolte come segue:

1)      L’art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, osta a che uno Stato membro rifiuti di concedere una pensione di vecchiaia, prima del raggiungimento dei 65 anni di età, a una persona transessuale passata dal sesso maschile a quello femminile, quando invece tale persona avrebbe avuto diritto alla pensione all’età di 60 anni se fosse stata considerata come donna sotto il profilo del diritto nazionale.

2)      Non occorre limitare nel tempo gli effetti di una sentenza che statuisca in tal senso.


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – Bellinger v Bellinger [2003] 2 AC 467, per Lord Nicholls of Birkenhead.


3 – Raccomandazione del Consiglio d’Europa 29 settembre 1989, 1117 (1989), sulla condizione delle persone transessuali.


4 – La terminologia in uso tende a distinguere tra il sesso, determinato dagli aspetti fisici del corpo, e il genere, ossia l’altro sesso cui le persone transessuali sono convinte di appartenere. L’espressione «gender reassignment surgery» (operazione di cambiamento di genere) e la nozione di «gender» (genere) acquisito attraverso di essa sono pertanto probabilmente inappropriate, ma poiché si tratta dei termini generalmente impiegati, mi conformerò a tale uso. [Ndt.: nella versione italiana delle presenti conclusioni si parlerà di «operazione di mutamento di sesso» e di «sesso» acquisito attraverso di essa].


5 – Dopo otto anni di trattamento a base di ormoni, con l’assunzione minima stimata di 12 000 pillole di estrogeni (Jan Morris, Conundrum (1974, Coronet), pag. 102.


6 – Conundrum, pag. 149.


7 – V. infra, paragrafi 15-16.


8 – Direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU 1979, L 6, pag. 24).


9 – Questo paragrafo e quelli precedenti sono tratti in modo più o meno letterale dai punti 23, 25, 28, 37 e 40 della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nella causa Goodwin/Regno Unito (2002) 35 Racc. CEDU 447, ripresa dal giudice nazionale nell’ordinanza di rinvio per riassumere la normativa pertinente.


10 – Una donna nata il 5 aprile 1950 o prima di tale data raggiunge l’età pensionabile a 60 anni, mentre una nata il 6 aprile 1955 o in data successiva la raggiunge a 65 anni. È prevista una scala graduata per le donne nate tra queste due date.


11 – Cit. alla nota 9.


12 – Punti 71, 76 e 103.


13 –      L’art. 7, n. 2, contiene una disposizione speculare relativa alla posizione delle persone transessuali passate dal sesso femminile a quello maschile.


14 – Sentenza 30 aprile 1996, causa C‑13/94 (Racc. pag. I‑2143).


15 – Direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40).


16 –      Punti 17-22.


17 – Sentenza 7 gennaio 2004, causa C-117/01(Racc. pag. I‑541).


18 – Direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975, 75/117/CEE, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (GU L 45, pag. 19) («direttiva sulla parità di retribuzione»).


19 –      Punto 36 e dispositivo.


20 – Cit. alla nota 13.


21 – Cit. alla nota 16.


22 – Cit. alla nota 14.


23 – Punto 21.


24 – [2005] 1 AC 51.


25 – V. l’opinione della baronessa Hale, in particolare punti 56-58.


26 – Punto 31.


27 – V. sentenza 7 luglio 1992, causa C‑9/91, Equal Opportunities Commission (Racc. pag. I‑4297, punto 13).


28 – Sentenza 4 dicembre 1986, causa 71/85, Federatie Nederlands Vakbeweging (Racc. pag. I‑3855, punto 18).


29 – Sentenza 30 marzo 1993, causa C‑328/91, Thomas (Racc. pag. I‑1247, punto 8).


30 – V., da ultimo, sentenza 15 marzo 2005, causa C-209/03, Bidar (Racc. pag. I-0000, punto 69).


31 – V. la relazione dell’Interdepartmental Working Group on Transsexual People dell’Home Office del Regno Unito (aprile 2000) menzionata nella sentenza Goodwin, punto 87.


32 – V. nota 10.


33 – Secondo le tabelle relative alla Social Protection in the Member States of the European Union, of the European Economic Area and in Switzerland (2004) del MISSOC (Mutual information system on social protection), pubblicate dalla Commissione, a Cipro, in Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Paesi Bassi, Irlanda, Lussemburgo, Portogallo, Spagna e Svezia l’età pensionabile è identica per gli uomini e le donne. Nelle conclusioni relative alla causa K.B., l’avvocato generale Ruiz-Jarabo osserva che, prima dell’allargamento del 2004, tutti gli Stati membri, ad eccezione dell’Irlanda e del Regno Unito, ammettevano le rettifiche anagrafiche in seguito ad interventi di cambiamento di sesso (v. paragrafo 28). Nella sentenza Goodwin (cit. alla nota 9), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha osservato che, su 37 Stati membri del Consiglio d’Europa, solo quattro non consentivano tale rettifica (v. punto 55). Tali quattro Stati sono l’Albania, Andorra, l’Irlanda e il Regno Unito.