Language of document : ECLI:EU:C:2019:494

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

HOGAN

presentate il 13 giugno 2019(1)

Causa C363/18

Organisation juive européenne,

Vignoble Psagot Ltd

contro

Ministre de l’Économie et des Finances

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d’État (Consiglio di Stato, Francia)]

«Domanda di pronuncia pregiudiziale — Ravvicinamento delle legislazioni — Etichettatura e presentazione dei prodotti alimentari — Regolamento (UE) n. 1169/2011 — Indicazione obbligatoria dell’origine dei prodotti — Omissione che può indurre in errore i consumatori — Prodotti provenienti da territori occupati da Israele dal 1967»






I.      Introduzione

1.        La presente domanda di pronuncia pregiudiziale riguarda l’interpretazione del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori (2).

2.        La presente domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento tra un’associazione denominata Organisation juive européenne (in prosieguo: l’«Organisation juive européenne») e l’azienda vinicola Psagot Ltd (in prosieguo: la «Psagot»), da un lato, e il Ministre de l’économie et des Finances français (il Ministro francese dell’Economia e delle Finanze), dall’altro, riguardante un parere con cui quest’ultimo prescriveva l’indicazione ‑ sui prodotti alimentari originari dei territori occupati da Israele dal 1967 e, se del caso, degli insediamenti di tali territori ‑ del territorio in questione e, in aggiunta, della menzione “insediamento israeliano”.

3.        Con tale domanda è stata data alla Corte la possibilità di chiarire la portata dell’obbligo di indicare il paese d’origine o il luogo di provenienza per i prodotti alimentari qualora la mancanza di tali informazioni possa indurre in errore il consumatore.

II.    Breve contesto storico

4.        A seguito di una breve campagna militare svoltasi nel giugno 1967, Israele ha occupato alcuni territori che erano stati precedentemente parte di, o controllati da, tre altri Stati, segnatamente l’Egitto, la Siria e la Giordania. Nel caso dell’Egitto, il territorio in questione era quello della penisola del Sinai e la striscia di Gaza (l’Egitto ha amministrato la Striscia di Gaza dal 1948 al 1967, anche se quest’ultima non faceva di per sé parte dell’Egitto). Le alture del Golan facevano parte della Siria, mentre la Cisgiordania e Gerusalemme Est erano state amministrate dalla Giordania tra il 1948 e il 1967.

5.        Per quanto concerne il Sinai, questo territorio è stato restituito all’Egitto con il trattato di pace tra Egitto e Israele del 1979. Israele ha evacuato la Striscia di Gaza nel 2005, anche se controlla l’accesso al territorio per via terrestre, aerea e marittima. La Striscia di Gaza è attualmente sotto il controllo de facto dell’organizzazione nota come Hamas.

6.        Fatta eccezione per una piccola parte del territorio restituita alla Siria nel 1974 e un’esigua zona demilitarizzata, le alture del Golan rimangono sotto occupazione israeliana. Le alture del Golan sono state effettivamente annesse da Israele nel dicembre 1981.

7.        Anche Gerusalemme Est rimane occupata da Israele. La situazione della Cisgiordania è più complessa. Parte di essa è amministrata dall’Autorità nazionale palestinese, tuttavia ampie parti del territorio sono rivendicate da Israele. Israele ha inoltre realizzato estesi insediamenti per i suoi cittadini a Gerusalemme Est, in Cisgiordania e sulle alture del Golan. In precedenza aveva realizzato tali insediamenti sul Sinai, ma questi ultimi sono stati smantellati quando il territorio suddetto è stato restituito al controllo egiziano. Vi erano inoltre alcuni insediamenti nella Striscia di Gaza, ma sono stati anch’essi smantellati quando Israele ha evacuato tale territorio nel 2005.

8.        Questo, in generale, costituisce il contesto storico alla base della presente domanda di pronuncia pregiudiziale. Tale domanda riguarda la compatibilità con il diritto dell’Unione di alcuni requisiti in materia di etichettatura in relazione ai prodotti di questi territori occupati, i cui dettagli illustrerò in seguito. Ai fini della risoluzione della presente domanda, la Corte, almeno in una certa misura, dovrà determinare la legalità dell’attuale occupazione da parte di Israele di ciò che, per comodità, propongo di chiamare «territori occupati». È, tuttavia, importante affermare in via preliminare che la Corte considererà necessariamente la problematica sollevata come una questione puramente giuridica, prendendo spunto a tal fine dal diritto internazionale e basandosi all’uopo sulle pertinenti risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’ONU e dell’Assemblea Generale dell’ONU, su un importante parere della Corte internazionale di giustizia emesso nel 2004 e su altre fonti di diritto internazionale. Va sottolineato, tuttavia, che nulla di ciò che apparirà nelle conclusioni o nella successiva sentenza della Corte dovrà essere interpretato come espressione di un parere politico o morale in relazione a qualsiasi questione sollevata dal presente documento.

III. Contesto giuridico

A.      Il diritto dell’Unione europea

1.      Regolamento n. 1169/2011

9.        Ai sensi dei considerando 3, 29 e 33 del regolamento n. 1169/2011:

«(3) Per ottenere un elevato livello di tutela della salute dei consumatori e assicurare il loro diritto all’informazione, è opportuno garantire che i consumatori siano adeguatamente informati sugli alimenti che consumano. Le scelte dei consumatori possono essere influenzate, tra l’altro, da considerazioni di natura sanitaria, economica, ambientale, sociale ed etica.

(…)

(29) Le indicazioni relative al paese d’origine o al luogo di provenienza di un alimento dovrebbero essere fornite ogni volta che la loro assenza possa indurre in errore i consumatori per quanto riguarda il reale paese d’origine o luogo di provenienza del prodotto. In tutti i casi, l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dovrebbe essere fornita in modo tale da non trarre in inganno il consumatore e sulla base di criteri chiaramente definiti in grado di garantire condizioni eque di concorrenza per l’industria e di far sì che i consumatori comprendano meglio le informazioni relative al paese d’origine e al luogo di provenienza degli alimenti. Tali criteri non dovrebbero applicarsi a indicatori collegati al nome o all’indirizzo dell’operatore del settore alimentare.

(…)

(33) Le regole dell’Unione sull’origine non preferenziale sono stabilite nel regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario [GU 1992, L 302, pag. 1], e le sue disposizioni d’applicazione nel regolamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio 1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 che istituisce il codice doganale comunitario [GU 1993, L 253, pag. 1]. La determinazione del paese d’origine degli alimenti si baserà su tali regole, ben note agli operatori del settore alimentare e alle amministrazioni, che dovrebbero agevolare l’applicazione della normativa».

10.      L’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011, intitolato «Oggetto e ambito di applicazione», prevede quanto segue:

«Il presente regolamento stabilisce le basi che garantiscono un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti, tenendo conto delle differenze di percezione dei consumatori e delle loro esigenze in materia di informazione, garantendo al tempo stesso il buon funzionamento del mercato interno».

11.      L’articolo 2 del regolamento n. 1169/2011 è intitolato «Definizioni». Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera g), l’espressione «luogo di provenienza» indica «qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento, ma che non è il “paese d’origine” come individuato ai sensi degli articoli da 23 a 26 del [codice doganale comunitario]; il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento». L’articolo 2, paragrafo 3, precisa inoltre che «ai fini del presente regolamento, il paese di origine di un alimento si riferisce all’origine di tale prodotto, come definita conformemente agli articoli da 23 a 26 del [codice doganale comunitario]».

12.      L’articolo 3 del regolamento n. 1169/2011, intitolato «Obiettivi generali», al primo paragrafo, dispone quanto segue:

«La fornitura di informazioni sugli alimenti tende a un livello elevato di protezione della salute e degli interessi dei consumatori, fornendo ai consumatori finali le basi per effettuare delle scelte consapevoli e per utilizzare gli alimenti in modo sicuro, nel rispetto in particolare di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche».

13.      L’articolo 7 del regolamento n. 1169/2011 è rubricato «Pratiche leali d’informazione». Il primo paragrafo di tale disposizione è redatto come segue:

«Le informazioni sugli alimenti non inducono in errore, in particolare:

(a) per quanto riguarda le caratteristiche dell’alimento e, in particolare, la natura, l’identità, le proprietà, la composizione, la quantità, la durata di conservazione, il paese d’origine o il luogo di provenienza, il metodo di fabbricazione o di produzione;

(…)».

14.      L’articolo 9, paragrafo 1, lettera i), del regolamento n. 1169/2011 prevede che l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza sia obbligatoria qualora lo preveda l’articolo 26 del medesimo regolamento. Ai sensi del secondo paragrafo di quest’ultima disposizione, l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza è obbligatoria «nel caso in cui l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento, in particolare se le informazioni che accompagnano l’alimento o contenute nell’etichetta nel loro insieme potrebbero altrimenti far pensare che l’alimento abbia un differente paese d’origine o luogo di provenienza».

15.      L’articolo 38 del regolamento n. 1169/2011, intitolato «Disposizioni nazionali», così dispone:

«1. Quanto alle materie espressamente armonizzate dal presente regolamento, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza. Tali disposizioni nazionali non creano ostacoli alla libera circolazione delle merci, ivi compresa la discriminazione nei confronti degli alimenti provenienti da altri Stati membri.

2. Fatto salvo l’articolo 39, gli Stati membri possono adottare disposizioni nazionali concernenti materie non specificamente armonizzate dal presente regolamento purché non vietino, ostacolino o limitino la libera circolazione delle merci conformi al presente regolamento».

16.      L’articolo 39 del regolamento n. 1169/2011, intitolato «Disposizioni nazionali sulle indicazioni obbligatorie complementari», prevede quanto segue:

«1. Oltre alle indicazioni obbligatorie di cui all’articolo 9, paragrafo 1, e all’articolo 10, gli Stati membri possono adottare, secondo la procedura di cui all’articolo 45, disposizioni che richiedono ulteriori indicazioni obbligatorie per tipi o categorie specifici di alimenti per almeno uno dei seguenti motivi:

(a) protezione della salute pubblica;

(b) protezione dei consumatori;

(c) prevenzione delle frodi;

(d) protezione dei diritti di proprietà industriale e commerciale, delle indicazioni di provenienza, delle denominazioni d’origine controllata e repressione della concorrenza sleale.

2. In base al paragrafo 1, gli Stati membri possono introdurre disposizioni concernenti l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza. Al momento di notificare tali disposizioni alla Commissione, gli Stati membri forniscono elementi a prova del fatto che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni».

2.      Codice doganale

17.      Al momento dell’adozione del regolamento n. 1169/2011, l’articolo 23, paragrafo 1, del codice doganale comunitario prevedeva che «[erano] originarie di un paese le merci interamente ottenute in tale paese». L’articolo 24 del codice doganale comunitario precisava che «una merce alla cui produzione hanno contribuito due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata ed effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo od abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione».

18.      Il codice doganale comunitario è stato abrogato dal regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il codice doganale dell’Unione (3) (in prosieguo: il «codice doganale dell’Unione»).  Ai sensi dell’articolo 286, paragrafo 3, del codice doganale dell’Unione, i riferimenti al codice doganale comunitario contenuti in altri atti dell’Unione si intendono fatti alle corrispondenti disposizioni del codice doganale dell’Unione.

19.      L’articolo 60 del codice doganale dell’Unione, entrato in vigore il 1o maggio 2016 (4), corrisponde sostanzialmente alle disposizioni precedentemente contenute nell’articolo 23, paragrafo 1, e nell’articolo 24 del codice doganale comunitario. Ai sensi del primo paragrafo della nuova disposizione «le merci interamente ottenute in un unico paese o territorio sono considerate originarie di tale paese o territorio». Il secondo paragrafo dispone quanto segue: «Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione».

3.      Comunicazione interpretativa della Commissione europea relativa allindicazione di origine delle merci dei territori occupati da Israele dal giugno del 1967

20.      Il 12 novembre 2015, nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea, la Commissione europea ha pubblicato una comunicazione intitolata «Comunicazione interpretativa della Commissione europea, del 12 novembre 2015, relativa all’indicazione di origine delle merci dei territori occupati da Israele dal giugno del 1967» (5) (in prosieguo: «la comunicazione interpretativa»).

21.      La Commissione giustifica il suo approccio partendo dal presupposto che «[c]onsumatori, operatori economici e autorità nazionali chiedono (…) chiarezza in merito alla legislazione dell’Unione che disciplina le informazioni sull’origine dei prodotti dei territori occupati da Israele» (6). Il suo obiettivo è «altresì garantire il rispetto delle posizioni e degli impegni dell’Unione, in conformità al diritto internazionale, sul non riconoscimento da parte dell’Unione della sovranità di Israele sui territori occupati dal giugno del 1967» (7).

22.      È per questo motivo che, alla fine della comunicazione interpretativa, la Commissione ritiene quanto segue:

«(7) Dato che le alture del Golan e la Cisgiordania (compresa Gerusalemme Est) non costituiscono parte del territorio di Israele secondo il diritto internazionale, l’indicazione “prodotto di Israele” è considerata inesatta e ingannevole ai sensi della richiamata legislazione.

(8) Un’altra espressione che tenga conto del nome con cui questi territori sono generalmente noti dovrà essere impiegata se e in quanto l’indicazione di origine sia obbligatoria.

(9) Per i prodotti della Palestina non originari degli insediamenti, un’indicazione tale da non risultare ingannevole sotto il profilo dell’origine geografica e tale da essere nel contempo conforme alla prassi internazionale potrebbe essere “prodotto della Cisgiordania (prodotto palestinese)”, “prodotto della striscia di Gaza” o “prodotto della Palestina”.

(10) Per i prodotti della Cisgiordania o delle alture del Golan originari degli insediamenti, sarebbe inaccettabile un’indicazione che recitasse solo “prodotto delle alture del Golan” o “prodotto della Cisgiordania”. Anche se tali indicazioni designassero la zona o il territorio più ampi di origine del prodotto, l’omissione delle informazioni geografiche aggiuntive relative alla provenienza del prodotto dagli insediamenti israeliani sarebbe ingannevole per il consumatore sotto il profilo dell’origine reale del prodotto. In tali casi occorre aggiungere, ad esempio, l’espressione “insediamento israeliano” o altra espressione equivalente tra parentesi. Potrebbero di conseguenza essere impiegate espressioni come “prodotto delle alture del Golan (insediamento israeliano)” o “prodotto della Cisgiordania (insediamento israeliano)”».

B.      Diritto francese

23.      In data 24 novembre 2016, riferendosi al regolamento n. 1169/2011, il Ministro dell’Economia e delle Finanze ha pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica francese un parere rivolto agli operatori economici relativo all’indicazione di origine delle merci dei territori occupati da Israele dal 1967 («Avis aux opérateurs économiques relatifs à l’indication de l’origine des marchandises issues des territoires occupés par Israël depuis 1967») (8) (in prosieguo: «il parere impugnato»).

24.      Il parere impugnato è così formulato:

«Il regolamento [n. 1169/2011] prevede che l’etichettatura dei prodotti deve essere corretta. Essa non deve rischiare di indurre in errore il consumatore, in particolare per quanto riguarda l’origine dei prodotti. I prodotti alimentari dei territori occupati da Israele devono pertanto essere etichettati in modo da riflettere tale origine.

Di conseguenza, la Direction générale de la Concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes du ministère de l’Économie et des Finances (GCCRF) richiama l’attenzione degli operatori sulla comunicazione interpretativa.

In particolare, quest’ultima specifica che, nel quadro del diritto internazionale, le alture del Golan e la Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, non costituiscono parte del territorio di Israele. Di conseguenza, al fine di non indurre in errore il consumatore, l’etichettatura dei prodotti alimentari deve indicare con precisione l’origine esatta dei prodotti, a prescindere dal fatto che la loro indicazione sia obbligatoria ai sensi della normativa comunitaria o applicata volontariamente dall’operatore.

Per i prodotti della Cisgiordania o delle alture del Golan originari degli insediamenti, sarebbe inaccettabile un’indicazione che recitasse solo “prodotto delle alture del Golan” o “prodotto della Cisgiordania”. Anche se tali indicazioni designassero la zona o il territorio più ampi di origine del prodotto, l’omissione delle informazioni geografiche aggiuntive relative alla provenienza del prodotto dagli insediamenti israeliani sarebbe ingannevole per il consumatore sotto il profilo dell’origine reale del prodotto In tali casi occorre aggiungere, ad esempio, l’espressione “insediamento israeliano” o altra espressione equivalente tra parentesi. Potrebbero di conseguenza essere impiegate espressioni come “prodotto delle alture del Golan (insediamento israeliano)” o “prodotto della Cisgiordania” (insediamento israeliano)».

IV.    Fatti all’origine del procedimento principale

25.      Con il parere impugnato, il Ministro dell’Economia e delle Finanze francese, riferendosi al regolamento n. 1169/2011, ha precisato le espressioni che potrebbero o non potrebbero essere usate per i prodotti dei territori occupati da Israele dal giugno del 1967.

26.      Con due ricorsi, l’Organisation juive européenne e la Psagot (una società specializzata nello sfruttamento di vigneti situati, in particolare, nei territori occupati da Israele) chiedono l’annullamento per eccesso di potere del parere impugnato.

27.      Secondo il giudice del rinvio, la valutazione della compatibilità del parere impugnato con il regolamento n. 1169/2011 dipende dalla circostanza che il diritto dell’Unione europea imponga o meno, per un prodotto originario di un territorio occupato da Israele dal 1967, l’indicazione di tale territorio nonché un’indicazione che precisi che il prodotto proviene da un insediamento israeliano, qualora ricorra tale ipotesi o, in caso di risposta negativa, se le disposizioni del regolamento n. 1169/2011 consentano ad uno Stato membro di esigere tali indicazioni.

V.      Questione pregiudiziale e procedimento dinanzi alla Corte

28.      In tali circostanze, con decisione del 30 maggio 2018, pervenuta in cancelleria il 4 giugno 2018, il Conseil d’État (Consiglio di Stato, Francia) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«Se il diritto dell’Unione europea, ed in particolare il regolamento n. 1169/2011 (…), quando l’indicazione dell’origine di un prodotto che rientra nel campo di applicazione di tale regolamento è obbligatoria, imponga per un prodotto proveniente da un territorio occupato da Israele dal 1967 l’indicazione di tale territorio nonché un’indicazione che precisi che il prodotto proviene da un insediamento israeliano, qualora ricorra tale ipotesi. In caso di risposta negativa, se le disposizioni del [regolamento n. 1169/2011], in particolare quelle del capo VI, consentano ad uno Stato membro di esigere tale indicazione».

29.      Osservazioni scritte sono state presentate dall’Organisation juive européenne, dalla Psagot, dai governi francese, svedese, irlandese e dei Paesi Bassi e dalla Commissione europea. A eccezione del governo dei Paesi Bassi, tutte le parti hanno presentato osservazioni orali dinanzi alla Corte all’udienza del 9 aprile 2019.

VI.    Analisi

A.      Sulla prima questione

30.      Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il diritto dell’Unione e, in particolare, il regolamento n. 1169/2011, impongano, ai fini dell’etichettatura, l’indicazione dell’origine di un prodotto proveniente da un territorio occupato da Israele dal 1967 e, in caso affermativo, qual è la portata di tale obbligo di etichettatura.

1.      Significato di «paese dorigine» e «luogo di provenienza»

31.      Ai sensi degli articoli 9 e 26 del regolamento n. 1169/2011, l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza è obbligatoria nel caso in cui «l’omissione di tale indicazione possa indurre in errore il consumatore in merito al paese d’origine o al luogo di provenienza reali dell’alimento». È pertanto necessario determinare, innanzitutto, il significato delle espressioni «paese d’origine» e «luogo di provenienza».

32.      Il «luogo di provenienza» è definito dall’articolo 2, paragrafo 2, lettera g), del regolamento n. 1169/2011, in opposizione al «paese di origine», che a sua volta è definito con riferimento agli articoli da 23 a 26 del codice doganale comunitario.

33.      Come la Corte ha già avuto modo di chiarire in relazione all’articolo 24 del codice doganale comunitario, tali disposizioni forniscono una definizione comune della nozione di origine delle merci, ma non riguardano il contenuto dell’informazione destinata ai consumatori (9). Pertanto nel concetto di «paese d’origine», ai sensi del regolamento n. 1169/2011, rientrano solo le merci originarie di un paese, comprese le acque territoriali.

34.      Inoltre, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera g) del regolamento n. 1169/2011 dispone che: «il nome, la ragione sociale o l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta non costituisce un’indicazione del paese di origine o del luogo di provenienza del prodotto alimentare ai sensi del presente regolamento». Alla luce di tale formulazione, è chiaro che il riferimento a un «luogo di provenienza» richiama necessariamente un luogo che non è né un paese né l’indirizzo dell’operatore del settore alimentare apposto sull’etichetta.

35.      Il termine «luogo» è un termine comune che si riferisce, nel suo significato ordinario, a una situazione spaziale che consente di localizzare qualcuno o qualcosa (10). Ne consegue quindi che l’espressione «paese d’origine», ai sensi del regolamento n. 1169/2011, si riferisce a un paese, comprese le sue acque territoriali (11), mentre l’espressione «luogo di provenienza» si riferisce a un luogo geografico che è più piccolo di un paese ma più grande rispetto all’ubicazione esatta di un edificio (12).

36.      Inoltre, peraltro, conformemente alla giurisprudenza consolidata della Corte, nell’interpretare una disposizione del diritto dell’Unione è necessario prendere in considerazione non solo la sua formulazione, ma anche il suo contesto e gli obiettivi della legislazione di cui fa parte (13).

37.      In primo luogo, l’obiettivo del regolamento n. 1169/2011 è chiaramente enunciato all’articolo 1: il legislatore dell’Unione mira a garantire «un elevato livello di protezione dei consumatori in materia di informazioni sugli alimenti, tenendo conto delle differenze di percezione dei consumatori e delle loro esigenze in materia di informazione» (14). È evidente che qui l’accento è posto sulle esigenze di informazioni del consumatore.

38.      Non si può negare che la tutela della salute sia garantita anche dal regolamento n. 1169/2011. Invero, il suo considerando 3 dispone quando segue: «per ottenere un elevato livello di tutela della salute dei consumatori e assicurare il loro diritto all’informazione, è opportuno garantire che i consumatori siano adeguatamente informati sugli alimenti che consumano». Tuttavia, oltre al fatto che per questo considerando la tutela della salute dei consumatori e il loro diritto all’informazione sono su un piano di parità, lo stesso considerando conferma che l’ambito di applicazione del regolamento n. 1169/2011 è molto più ampio rispetto alle sole preoccupazioni per la salute. In effetti, il considerando 3 sottolinea che le scelte dei consumatori possono essere influenzate, tra l’altro, da considerazioni di ordine sanitario, ma anche di natura economica, ambientale, sociale ed etica.

39.      È del tutto evidente che in un ambiente moderno alcuni acquisti non sono più basati esclusivamente su considerazioni quali il prezzo o l’identità di una particolare marca. Per molti consumatori, tali acquisti possono anche essere influenzati da criteri quali considerazioni ambientali, sociali, politiche, culturali o etiche (15).

40.      Ritornando alla formulazione dell’articolo 26 del regolamento n. 1169/2011 e dell’obbligo specifico relativo al «paese d’origine» o al «luogo di provenienza», si deve ammettere che tale disposizione non fa alcun riferimento a una questione di salute. Al contrario, l’articolo 26 del regolamento n. 1169/2011 è neutro per quanto riguarda la causa del rischio di inganno circa il reale paese d’origine o luogo di provenienza dell’alimento.

41.      In secondo luogo, il contesto dell’articolo 9 del regolamento n. 1169/2011 è pertinente anche per determinare la portata dell’espressione «luogo di provenienza». Invero, questa disposizione ‑ che elenca le indicazioni obbligatorie ‑ è il primo articolo del capo IV del regolamento n. 1169/2011, intitolato «Informazioni obbligatorie sugli alimenti». Prima del capo IV, il capo II contiene alcuni «principi generali delle informazioni sugli alimenti», mentre il capo III riguarda i «requisiti generali relativi all’informazione sugli alimenti e responsabilità degli operatori del settore alimentare».

42.      A questo proposito, osservo che, come già detto, il primo articolo del capo II del regolamento n. 1169/2011 – in particolare l’articolo 3, paragrafo 1 – insiste sulla necessità che i consumatori finali compiano scelte informate e facciano un uso sicuro degli alimenti «nel rispetto in particolare di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche» (16). Inoltre, l’articolo 4, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011 aggiunge che «nel valutare se occorre imporre informazioni obbligatorie sugli alimenti e per consentire ai consumatori di effettuare scelte consapevoli, si prende in considerazione il fatto che la maggioranza dei consumatori ritiene particolarmente necessarie alcune informazioni cui attribuisce un valore significativo» (17). Infine, nel capo IV del regolamento n. 1169/2011, l’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011 stabilisce che «le informazioni sugli alimenti sono precise, chiare e facilmente comprensibili per il consumatore» (18). È pur vero che, considerata isolatamente, un’interpretazione letterale dell’espressione «luogo di provenienza» potrebbe suggerire un riferimento che si limiterebbe a una sola zona geografica. Queste parole non possono, tuttavia, essere lette semplicemente in modo isolato dal resto del testo legislativo e dalla sua finalità.

43.      In questo contesto è necessario richiamare l’attenzione sulla neutralità della formulazione dell’articolo 26 del regolamento n. 1169/2011, ove il legislatore ha sottolineato la necessità di fornire ai consumatori un elevato livello di informazione, l’ampia gamma di considerazioni che potrebbero essere pertinenti per questi consumatori e l’obbligo di fornire informazioni precise, chiare e facilmente comprensibili. Tutte queste considerazioni suggeriscono un’interpretazione dell’espressione «luogo di provenienza» che non si limita necessariamente a un riferimento puramente geografico.

44.      In altre parole, mentre l’espressione «paese d’origine» si riferisce chiaramente ai nomi dei paesi e delle loro acque territoriali, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera g), del regolamento n. 1169/2011 consente di determinare il «luogo di provenienza» di un prodotto alimentare per mezzo di parole che non sono necessariamente limitate al nome della zona geografica in questione, soprattutto se l’uso del solo indicatore geografico potrebbe essere idoneo a indurre in errore.

2.      Obbligo di indicare lorigine di un prodotto alimentare originario di un territorio occupato da Israele a partire dal 1967

45.      Alla luce di queste definizioni delle espressioni «paese d’origine» e «luogo di provenienza», la domanda si riduce piuttosto a se l’assenza dell’indicazione dell’origine o del luogo di provenienza ai sensi del regolamento n. 1169/2011 di un prodotto alimentare originario di un territorio occupato da Israele possa indurre in errore il consumatore.

46.      La risposta a questa domanda va ricercata nell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011. Effettivamente, è questa la disposizione che stabilisce i criteri che possono influenzare la scelta del consumatore: la fornitura di informazioni sugli alimenti tende a un livello elevato di protezione della salute e degli interessi dei consumatori, fornendo ai consumatori finali le basi per effettuare delle scelte consapevoli e per utilizzare gli alimenti in modo sicuro, nel rispetto in particolare di considerazioni sanitarie, economiche, ambientali, sociali ed etiche. Inoltre, dall’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011 si evince che è tenuto conto delle differenze di percezione dei consumatori e delle loro esigenze in materia di informazione.

47.      Inoltre, va osservato che se la capacità di essere fuorviati da una descrizione su un’etichetta deve essere valutata rispetto al «consumatore medio», ciò non significa necessariamente che si tratti semplicemente di un qualsiasi consumatore. Al contrario, è il consumatore medio «normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto circa l’origine, la provenienza e la qualità del prodotto alimentare» (19).

48.      Ognuno di questi termini è importante. In effetti, se il consumatore medio è quello che è semplicemente «normalmente informato», egli è anche «ragionevolmente attento ed avveduto». A differenza del primo elemento della definizione del consumatore medio, che sembra consentire una certa passività, il secondo elemento implica un approccio positivo da parte del consumatore in questione e il terzo un maggiore interesse per l’informazione e, di conseguenza, una conoscenza più dettagliata. In altre parole, se il consumatore medio è «normalmente informato», ciò è dovuto al suo comportamento (20).

49.      In tali circostanze, non si può escludere che la situazione di un territorio occupato da una potenza occupante ‑ a maggior ragione quando l’occupazione territoriale è accompagnata da insediamenti ‑ sia un fattore che potrebbe essere importante nella scelta di un consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, in un contesto in cui, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, e dell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011, si deve tener conto delle differenze nella percezione dei consumatori e delle loro esigenze in materia di informazione, anche sotto il profilo etico.

50.      A questo proposito, contrariamente a quanto sostenuto dall’Organisation juive européenne durante l’udienza del 9 aprile 2019, non ritengo che il riferimento a «considerazioni di natura etica» nel regolamento n. 1169/2011 si riferisca semplicemente a considerazioni di natura etica nel contesto del solo consumo alimentare. Certamente, i consumatori potrebbero essere contrari al consumo di determinati prodotti alimentari a causa delle loro convinzioni religiose o etiche (come, ad esempio, il vegetarianismo). Si potrebbe anche pensare a circostanze nelle quali i consumatori potrebbero opporsi al consumo di determinati prodotti alimentari a causa del modo in cui gli animali in questione sono stati trattati, in generale o prima della macellazione. Tuttavia, le informazioni sui paesi d’origine sarebbero solo raramente di aiuto, per esempio, per un consumatore che si oppone alla presenza di prodotti a base di carne nell’alimento che desidera consumare.

51.      A mio parere, il riferimento alle «considerazioni di natura etica» nell’ambito dell’etichettatura del paese di origine è chiaramente un riferimento a quelle più ampie considerazioni di natura etica che possono indirizzare il pensiero di alcuni consumatori prima dell’acquisto. Così come molti consumatori europei si sono opposti all’acquisto di beni sudafricani nel periodo dell’apartheid, prima del 1994, i consumatori attuali potrebbero sollevare obiezioni su motivi analoghi in relazione all’acquisto di beni da un determinato paese perché, ad esempio, esso non è una democrazia, o perché persegue particolari politiche o linee di condotta sociali che il consumatore può considerare discutibili o persino ripugnanti. Nell’ambito delle politiche israeliane nei confronti dei territori occupati e degli insediamenti, potrebbero esserci alcuni consumatori che si oppongono all’acquisto di prodotti provenienti da tali territori, proprio perché l’occupazione e gli insediamenti integrano chiaramente una violazione del diritto internazionale. Non è, ovviamente, compito di questa Corte approvare o disapprovare tale scelta da parte del consumatore: è piuttosto sufficiente affermare che una violazione del diritto internazionale costituisce il tipo di considerazione di natura etica considerata legittima dal legislatore dell’Unione nel contesto della richiesta di informazioni sui paesi d’origine.

52.      In effetti, il rispetto dei requisiti del diritto internazionale è considerato da molti, e non solo da un numero limitato di esperti specializzati nel campo del diritto internazionale e della diplomazia, fondamentale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali e un segno di giustizia in un mondo altrimenti ingiusto. Ciò è forse particolarmente vero con riferimento ai cittadini dell’Unione che, nel caso di alcuni, nel corso della loro stessa vita, hanno assistito all’effetto distruttivo di una forza bruta in un’epoca in cui alcuni paesi erano giunti a credere che il diritto internazionale fosse semplicemente una promessa vuota nei confronti degli oppressi e delle fasce vulnerabili del mondo e che potesse essere ignorato impunemente.

53.      Considerata, pertanto, dal punto di vista del diritto internazionale, l’occupazione israeliana di questi territori è illegale. La politica di insediamento relativa a tali territori costituisce inoltre una chiara violazione del diritto internazionale, in quanto l’articolo 49 della Convenzione di Ginevra per la protezione delle persone civili in tempo di guerra (21) (in prosieguo: la «quarta Convenzione di Ginevra») stabilisce che la potenza occupante (in questo caso Israele) non deve «allontanare o trasferire una parte della propria popolazione civile nel territorio che occupa».

54.      Nel suo Parere consultivo sulla costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, la Corte internazionale di giustizia ha concluso che tale disposizione «(…) vieta non solo le deportazioni o i trasferimenti forzati di popolazione come quelli effettuati durante la Seconda guerra mondiale, ma vieta anche qualsiasi misura adottata da una potenza occupante al fine di organizzare o incoraggiare trasferimenti di parti della propria popolazione nel territorio occupato. A tal riguardo, dalle informazioni fornite alla Corte emerge che, a partire dal 1977, Israele ha condotto una politica e sviluppato pratiche che prevedono la costituzione di insediamenti nei territori palestinesi occupati, contrariamente a quanto previsto dall’articolo 49, paragrafo 6, appena citato. Il Consiglio di sicurezza ha pertanto ritenuto che tali politiche e pratiche “non abbiano validità giuridica”. Ha inoltre esortato “Israele, in qualità di potenza occupante, ad attenersi scrupolosamente” alla Quarta Convenzione di Ginevra e: “ad annullare le sue precedenti misure e desistere dall’assumere qualsiasi iniziativa che porti al cambiamento dello status legale e della natura geografica e incida materialmente sulla composizione demografica dei territori arabi occupati dal 1967, inclusa Gerusalemme e, in particolare, di non trasferire parte della propria popolazione civile nei territori arabi occupati” [risoluzione 446 (1979) del 22 marzo 1979]. Il Consiglio ha ribadito la propria posizione nelle risoluzioni 452 (1979) del 20 luglio 1979 e 465 (1980) del 1o marzo 1980. In quest’ultimo caso, infatti, ha descritto “la politica e le prassi di Israele di insediare parte della propria popolazione e dei nuovi immigrati nei territori [occupati]” una “flagrante violazione” della quarta Convenzione di Ginevra. La Corte conclude che gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati (compresa Gerusalemme Est) sono stati istituiti in violazione del diritto internazionale (22).

55.      Tale passaggio non necessita assolutamente spiegazioni. Esso dimostra, al di là di qualsiasi dubbio, che la politica israeliana in materia di insediamenti è considerata una palese violazione del diritto internazionale, in particolare sulla base del diritto all’autodeterminazione dei popoli, (23) che è un diritto legalmente esercitabile erga omnes, secondo la Corte di giustizia internazionale (24) e la Corte (25). Un’opinione simile è stata adottata costantemente dalle Nazioni Unite (ONU) (26).

56.      In tali circostanze, non sorprende che alcuni consumatori normalmente informati e ragionevolmente attenti e avveduti possano considerare questo aspetto come una considerazione di natura etica che influenza le loro preferenze in quanto consumatori e per il quale possono richiedere ulteriori informazioni.

57.      Si potrebbe inoltre osservare che la Corte stessa ha già riconosciuto, nella sua sentenza Brita (27) ‑ indubbiamente su un particolare aspetto del diritto dell’Unione europea, ossia il relativo ambito di applicazione degli accordi di associazione tra l’Unione europea e Israele (28) e tra l’Unione europea e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (29) ‑ la necessità di operare una chiara distinzione tra i prodotti del territorio di Israele e quelli della Cisgiordania.

58.      Tale analisi è inoltre in linea con l’articolo 3, paragrafo 5, del TUE, in base al quale l’Unione contribuisce alla «rigorosa osservanza (…) del diritto internazionale, ivi compreso il rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite». È altresì in linea con la risoluzione n. 2334 (2016) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che «invita tutti gli Stati (…) a distinguere, nelle rispettive relazioni, tra il territorio dello Stato di Israele e i territori occupati dal 1967» (30).

59.      Di conseguenza si è costretti a concludere che l’assenza dell’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza di un prodotto originario di un territorio occupato da Israele e, in ogni caso, di un insediamento coloniale, può indurre in errore il consumatore sotto il profilo del paese d’origine o del luogo di provenienza reali dell’alimento.

60.      Per tutti questi motivi ritengo che l’indicazione di tali informazioni diventi obbligatoria ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera i), e dell’articolo 26, paragrafo 2, lettera a), del regolamento n. 1169/2011.

3.      La sentenza della Supreme Court del Regno Unito Richardson/Director of Public Prosecution

61.      I rappresentanti della Psagot hanno fatto largamente affidamento sulla sentenza della Supreme Court del Regno Unito del 5 febbraio 2014, Richardson/Director of Public Prosecution (31). Di conseguenza, è necessario considerare questo caso nei dettagli.

62.      Si è trattato di un caso in cui gli imputati erano stati perseguiti penalmente per il reato di violazione di domicilio a causa di quello che la Corte ha definito «una protesta non violenta ma determinata in un negozio di Londra». Il negozio era specializzato nella vendita di prodotti di bellezza derivati da materiali minerali del Mar Morto. L’obiezione degli imputati era fondata sul fatto che (i) tali prodotti erano stati prodotti da una società israeliana, in un insediamento israeliano adiacente al Mar Morto in Cisgiordania, ossia nei territori occupati, e che (ii) si asseriva che lo stabilimento era dotato di personale israeliano che era stato incoraggiato dal governo di Israele a stabilirsi lì.

63.      Una delle specifiche difese avanzate era costituita dal fatto che i prodotti venduti nel negozio erano stati etichettati «Made by Dead Sea Laboratories Ltd, Dead Sea, Israel». Si sosteneva che si trattasse di un’etichettatura falsa o fuorviante, poiché i territori occupati non sono riconosciuti a livello internazionale o nel Regno Unito come parte di Israele. Gli imputati sostenevano di conseguenza che la società che gestiva il negozio era colpevole di alcune infrazioni in materia di etichettatura.

64.      L’infrazione principale invocata a tal fine era per violazione di alcuni regolamenti del Regno Unito che avevano recepito la direttiva relativa alle pratiche commerciali sleali (32). L’infrazione in questione era costituita dalla realizzazione di «una pratica commerciale che consisteva in un’azione ingannevole» (33).

65.      L’argomentazione dinanzi al tribunale locale (giudice distrettuale) rinviava al fatto che i prodotti venduti nel negozio erano etichettati in maniera errata per quanto concerneva l’origine geografica poiché erano stati etichettati «Made by Dead Sea Laboratories Ltd, Dead Sea, Israel». Si asseriva che ciò equivalesse a rappresentare i prodotti come provenienti da Israele, quando in realtà non lo erano, poiché provenivano dai territori occupati.

66.      A prescindere dal fatto che, come infine stabilito dalla Supreme Court, per il regolamento la vendita di beni etichettati in modo fuorviante non costituiva reato, è importante sottolineare che il tribunale locale aveva ritenuto che non vi fosse alcun fondamento per affermare che il consumatore medio sarebbe stato indotto in errore nel prendere una decisione di natura commerciale (vale a dire, in un acquisto del prodotto) che altrimenti non avrebbe preso, semplicemente perché l’origine dei prodotti era indicata, sotto il profilo costituzionale o politico, come Israele, quando in realtà si trattava dei Territori occupati: l’origine era d’altronde correttamente indicata come il Mar Morto. Il giudice distrettuale ha ritenuto che: «A prescindere dal fatto che le informazioni fornite siano false (…) ritengo che il numero di persone la cui decisione di acquistare o meno un prodotto presumibilmente israeliano sia influenzata dalla conoscenza della sua effettiva provenienza sia di gran lunga inferiore al numero necessario per poter considerare quelle persone “consumatore medio”. Se un potenziale acquirente è una persona in assoluto disposta ad acquistare beni israeliani, egli si troverebbe in una categoria molto piccola se tale decisione fosse diversa per il fatto che le merci provengono da un territorio occupato illegalmente». La Supreme Court ha sostenuto che tale constatazione «era assolutamente evidente per il giudice distrettuale sulla base degli elementi di prova ed era fatale per la tesi di commissione del reato».

67.      Da parte mia, tuttavia, ho trovato questa decisione di scarso ausilio. Il caso riguarda effettivamente una violazione illegale di domicilio nei locali del negozio rispetto alla quale, per giustificare le azioni dei convenuti, sono stati addotti argomenti fantasiosi ma ingegnosi. Inoltre la Supreme Court ha trattato il caso in questione in ultima analisi in punto di diritto e, circostanza fondamentale, era vincolata dalle constatazioni di fatto formulate dal tribunale di grado inferiore.

68.      Né posso, con il dovuto rispetto, essere necessariamente d’accordo con il ragionamento del giudice distrettuale. Da parte mia, ritengo che ci possa ben essere un gran numero di potenziali consumatori disposti ad acquistare merci israeliane (vale a dire, merci prodotte entro i confini di Israele riconosciuti a livello internazionale prima del 1967), ma che esiterebbero o addirittura si opporrebbero al fatto di acquistare merci originarie dei territori occupati da Israele dal 1967 e, se del caso, degli insediamenti situati all’interno di tali territori.

4.      Portata dellobbligo di indicare lorigine di un prodotto alimentare di un territorio occupato da Israele dal 1967

69.      L’ultimo problema che deve essere risolto per rispondere alla prima questione sollevata dal giudice del rinvio è determinare la portata dell’obbligo di indicare il luogo di origine di un prodotto alimentare proveniente da un territorio occupato da Israele dal 1967, in altri termini, la formulazione dell’indicazione obbligatoria.

70.      A tal riguardo, è importante tener conto dell’articolo 7 del regolamento n. 1169/2011. In effetti, ai sensi del primo paragrafo di tale disposizione, le informazioni sugli alimenti non devono indurre in errore, in particolare per quanto riguarda le caratteristiche dell’alimento e, tra l’altro, per quanto concerne il suo paese d’origine o il suo luogo di provenienza.

71.      Sulla base dell’interpretazione di una disposizione analoga contenuta nella direttiva 2000/13 (34) (abrogata dal regolamento n. 1169/2011), si può affermare che l’articolo 7, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011 richiede che il consumatore abbia a disposizione informazioni corrette, neutre e obiettive che non siano fuorvianti (35). L’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2001 aggiunge che le informazioni sugli alimenti devono essere precise, chiare e facilmente comprensibili per il consumatore.

72.      In tale contesto, come ha spiegato l’avvocato generale Mischo in modo particolarmente pertinente nel suo parere nella causa Gut Springenheide and Tusky (C‑210/96, EU:C:1998:102), occorre distinguere tra dichiarazioni oggettivamente corrette, dichiarazioni oggettivamente scorrette e dichiarazioni oggettivamente corrette, che possono tuttavia ingannare il consumatore, in quanto non completamente fedeli alla realtà (36). Infatti, «se la parte di informazione omessa è tale da far apparire l’informazione data in modo nettamente diverso, bisogna concludere che il consumatore è indotto in errore» (37).

73.      Ciò è anche perfettamente coerente con la definizione di «azioni ingannevoli» ai sensi della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, che copre, ai sensi del considerando 5 del regolamento n. 1169/2011, taluni aspetti della fornitura di informazioni ai consumatori, al fine specifico di prevenire azioni ingannevoli e omissioni di informazioni, che devono essere integrati da norme specifiche relative alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori. In effetti, ai sensi dell’articolo 6 della direttiva sulle pratiche commerciali sleali, una pratica commerciale deve essere considerata ingannevole «anche se l’informazione è di fatto corretta [ma] idonea a indurre [il consumatore medio] ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».

74.      Inoltre, come dimostrato nella prima parte della mia analisi, ritengo che, mentre l’espressione «paese d’origine» si riferisce chiaramente ai nomi dei paesi e alle loro acque territoriali, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera g), del regolamento n. 1169/2011 consenta di determinare il «luogo di provenienza» di un prodotto alimentare con una dicitura che non si limita al nome della zona geografica interessata.

75.      In tali circostanze, ritengo che un riferimento limitato a indicare «prodotto delle alture del Golan» o «prodotto della Cisgiordania» per i prodotti della Cisgiordania o delle alture del Golan originari di insediamenti israeliani non sia sufficiente. Sebbene tali descrizioni possano essere tecnicamente corrette, credo che il consumatore possa essere comunque indotto in errore. Tali descrizioni non rispecchierebbero l’intera verità su una questione che potrebbe influenzare le abitudini di acquisto del consumatore.

76.      Di fatto, parafrasando la Corte nella causa Severi (38), tra i fattori da prendere in considerazione per valutare se l’etichettatura in questione nel procedimento principale possa essere fuorviante, l’occupazione e gli insediamenti israeliani potrebbero essere «un fattore oggettivo che potrebbe incidere sulle aspettative del consumatore ragionevole» (39).

77.      Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo pertanto che l’aggiunta delle espressioni «insediamenti israeliani» all’identificazione geografica dell’origine dei prodotti sia l’unico modo per fornire ‑ come richiesto dall’articolo 7, paragrafi 1 e 2 del regolamento n. 1169/2011 ‑ informazioni corrette e obiettive, ma anche precise, chiare e facilmente comprensibili per il consumatore.

78.      Infatti, il termine «insediamento» deriva da una situazione in cui esiste un territorio occupato da una potenza occupante. Nel caso di specie, questo approccio è, pertanto, logico, in quanto Israele è stato riconosciuto come «potenza occupante» ai sensi del diritto internazionale consuetudinario e della Quarta Convenzione di Ginevra (40). Tali espressioni sono regolarmente utilizzate per descrivere la situazione attuale nei territori occupati (41). Pur ammettendo che, in un certo senso, questa terminologia potrebbe essere intesa da alcuni come avente una leggera connotazione peggiorativa, si tratta tuttavia di espressioni largamente diffuse e che il consumatore medio dovrebbe ragionevolmente comprendere.

5.      Conclusioni sulla prima questione

79.      Pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono, concludo che il regolamento n. 1169/2011 impone, per un prodotto originario di un territorio occupato da Israele dal 1967, l’indicazione del nome geografico di questo territorio nonché l’indicazione che precisi che il prodotto proviene da un insediamento israeliano, qualora ricorra tale ipotesi.

B.      In subordine, la seconda questione

80.      Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, nella sostanza, se le disposizioni del regolamento n. 1169/2011 consentano agli Stati membri di richiedere l’indicazione del territorio di un prodotto originario di territori occupati da Israele a partire dal 1967 e, inoltre, l’indicazione che tale prodotto proviene da un insediamento israeliano, se del caso.

81.      Il resto delle presenti conclusioni, di conseguenza, si fonda sull’ipotesi – contraria alla mia opinione ‑ che in tali circostanze non si applichi l’articolo 9, paragrafo 1, lettera i), e l’articolo 26 del regolamento n. 1169/2011.

82.      L’articolo 38, paragrafo 1, del regolamento n. 1169/2011 è chiaro: «quanto alle materie espressamente armonizzate dal presente regolamento, gli Stati membri non possono adottare né mantenere disposizioni nazionali salvo se il diritto dell’Unione lo autorizza». Al contrario, dall’articolo 38, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011 risulta che gli Stati membri possono adottare disposizioni nazionali concernenti materie non specificamente armonizzate dal presente regolamento purché non vietino, ostacolino o limitino la libera circolazione delle merci conformi al presente regolamento.

83.      Poiché l’articolo 39, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011, relativo alle disposizioni nazionali sulle indicazioni obbligatorie complementari, è espressamente riservato alle misure nazionali relative all’origine o al luogo di provenienza, si deve ammettere che tali indicazioni non sono pienamente armonizzate con il regolamento n. 1169/2011.

84.      Tuttavia, ai sensi dell’articolo 39, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011, le disposizioni nazionali concernenti l’indicazione obbligatoria del paese d’origine o del luogo di provenienza dei prodotti alimentari sono autorizzate solo ove esista «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza».

85.      Alla luce di tale disposizione, non è pertanto sufficiente che il paese d’origine o il luogo di provenienza abbiano, in quanto tali, una certa importanza nella decisione dei consumatori. Al contrario, il paese d’origine o il luogo di provenienza deve avere un impatto tangibile sul prodotto stesso e, in particolare, sulla qualità dell’alimento in questione.

86.      Mi sembra che la circostanza che un territorio sia occupato da una potenza occupante o che un determinato prodotto alimentare sia fabbricato da una persona che risiede in un insediamento non sia idonea a fornire o modificare alcune qualità del prodotto alimentare per quanto riguarda l’origine o la provenienza, almeno per quanto riguarda i prodotti alimentari originari dei territori occupati.

87.      Alla luce delle considerazioni che precedono, mi trovo costretto a concludere che gli Stati membri non possono esigere, ai fini dell’articolo 39, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011, l’indicazione del territorio di un prodotto originario di un territorio occupato da Israele dal 1967, né l’indicazione che tale prodotto proviene da un insediamento israeliano.

VII. Conclusione

88.      Di conseguenza, propongo che la Corte risponda alla prima questione pregiudiziale posta dal Conseil d’État (Consiglio di Stato, Francia) come segue:

L’articolo 9, paragrafo 1, lettera i), e l’articolo 26, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 1169/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che modifica i regolamenti (CE) n. 1924/2006 e (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e abroga la direttiva 87/250/CEE della Commissione, la direttiva 90/496/CEE del Consiglio, la direttiva 1999/10/CE della Commissione, la direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive 2002/67/CE e 2008/5/CE della Commissione e il regolamento (CE) n. 608/2004 della Commissione impongono, per un prodotto originario di un territorio occupato da Israele dal 1967, l’indicazione del nome geografico di questo territorio nonché l’indicazione che precisi che il prodotto proviene da un insediamento israeliano, qualora ricorra tale ipotesi.

89.      In subordine, nel caso in cui la Corte non accetti la mia analisi su questa prima questione, propongo alla Corte di rispondere alla seconda questione nel modo seguente:

Gli Stati membri non possono esigere l’indicazione del territorio di un prodotto originario di un territorio occupato da Israele dal 1967, né che tale prodotto proviene da un insediamento israeliano ai sensi dell’articolo 39, paragrafo 2, del regolamento n. 1169/2011, in quanto non vi sono prove di un legame comprovato tra determinate qualità degli alimenti prodotti nei territori occupati e il loro luogo di provenienza.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      GU 2011, L 304, pag. 18 e rettifica GU 2016, L 266, pag. 7. Tale regolamento modifica i regolamenti (CE) n. 1924/2006 e (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e abroga la direttiva 87/250/CEE della Commissione, la direttiva 90/496/CEE del Consiglio, la direttiva 1999/10/CE della Commissione, la direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive 2002/67/CE e 2008/5/CE della Commissione e il regolamento (CE) n. 608/2004 della Commissione.


3      GU 2013, L 269, pag. 1, e rettifica GU 2013 L 287, p. 90.


4      V. articolo 288, paragrafo 2, del codice doganale dell’Unione.


5      GU 2015, C 375, pag. 4.


6      Paragrafo 2 della comunicazione interpretativa.


7      Paragrafo 2 della comunicazione interpretativa.


8      JORF 2016, n. 273, testo n. 81.


9      V., in tal senso, sentenza del 16 luglio 2015, UNIC and Uni.co.pel (C‑95/14, EU:C:2015:492, punti 59 e 60).


10      Il termine «spazio» è definito come «a particular position, point, or area in space» [Oxford Dictionary of English, 2o ed. (rivista), Oxford University Press, 2005] mentre, ad esempio, la parola «lieu» (utilizzata nella versione francese del regolamento n. 1169/2011) può essere definita come «la situation spatiale de quelque chose, de quelqu’un permettant de le localiser» (Larousse.fr) e il termine «lugar» (utilizzato nella versione spagnola dello stesso regolamento) come «porción de espacio» (Diccionario de la lengua española, Real Academia Española, attualizzata del Tricentaro-Actuización 2018).


11      V. articolo 23, paragrafo 2, del codice doganale comunitario.


12      È vero che l’articolo 60 del codice doganale dell’Unione è più ampio in quanto fa riferimento al «paese o territorio» (corsivo aggiunto) anziché al paese. Tuttavia, poiché il «luogo di provenienza» è definito nel regolamento n. 1169/2011, diversamente dal «paese di origine», il «luogo di provenienza» diventa puramente tautologico e perde il suo significato alla luce dell’articolo 60 del codice doganale dell’Unione. Infatti, cos’è un «territorio» se non una zona geografica più piccola di un «paese», in altri termini: un «luogo»? Ritengo pertanto che, nel contesto del regolamento n. 1169/2011, la regola stabilita dall’articolo 286, paragrafo 3, del codice doganale dell’Unione, in base alla quale i riferimenti al codice doganale comunitario in altri atti dell’Unione devono essere intesi come riferimenti alle corrispondenti disposizioni del codice doganale dell’Unione, non sia applicabile.


13      V., per applicazioni recenti, sentenze del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 44), e del 26 febbraio 2019, Rimšēvičs e BCE/Lettonia (C‑202/18 e C‑238/18, EU:C:2019:139, punto 45).


14      Il corsivo è mio.


15      V., in tal senso, Conway, É., «Étiquetage obligatoire de l’origine des produits au bénéfice des consommateurs: portée et limites», Revue Québécoise de droit international, vol. 24-2, 2011, pagg. 1-51, in particolare pag. 2.


16      Il corsivo è mio.


17      Il corsivo è mio.


18      Il corsivo è mio.


19      V., in tal senso, sentenza del 10 settembre 2009, Severi (C‑446/07, EU:C:2009:530, punto 61). Anche se, nella versione francese di tale sentenza, il termine utilizzato è «éclairé», la Corte utilizza spesso l’aggettivo «avisé» in sentenze relative alla tutela dei consumatori, che mi sembra più vicino a «avveduto». V., ad esempio, sentenze del 16 luglio 1998, Gut Springenheide and Tusky (C‑210/96, EU:C:1998:369, punto 31 e 37); del 4 aprile 2000, Darbo C‑465/98, EU:C:2000:184, punto 20), e del 21 gennaio 2016, Viiniverla (C‑75/15, EU:C:2016:35, punto 25). Rilevo inoltre che nella sentenza Teekanne (sentenza del 4 giugno 2015, C‑195/14, EU:C:2015:361), la Corte utilizza in alternativa «avisé» (punto 23) e «éclairé» (punto 36), entrambi tradotti con «circumspect» in inglese. Inoltre, come in inglese, la stessa formula sembra essere utilizzata in modo sistematico nelle altre versioni linguistiche (v., tra l’altro, in neerlandese ‑ een normaal geïnformeerde en redelijk omzichtige en oplettende gemiddelde consument ‑, in italiano ‑ un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto ‑, in spagnolo ‑ un consumidor medio, normalmente informado y razonablemente atento y perspicazor ‑, o in rumeno ‑ unui consumator mediu, normal informat, suficient de atent și de avizat).


20      V., in tal senso, González Vaqué, L., «La noción de consumidor medio según la jurisprudencia del Tribunal de Justicia de las Communidades europeas», Revista de derecho comunitario europeo, 2004/17, pagg. da 47 a 81, in particolare pagg. 63 e 64.


21      Organizzazione delle Nazioni Unite, Serie dei trattati, vol. 75, pag. 287.


22      Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, parere consultivo, ICJ Reports 2004, pag. 136 (punto 120).


23      V., in tal senso, Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, parere consultivo, ICJ Reports 2004, punto 155 e punti 118 e 120.


24      V., in tal senso, Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, parere consultivo, ICJ Reports 2004, pag. 136 (punti 88 e 155).


25      V., in tal senso, sentenza del 21 dicembre 2016, Consiglio/Front Polisario (C‑104/16 P, EU:C:2016:973, punto 88).


26      V., tra l’altro, per il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, risoluzione n. 242 (1967) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 22 novembre 1967 (Medio Oriente); risoluzione n. 446 (1979) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 22 Marzo 1979 (Territori occupati da Israele); risoluzione n. 465 (1980) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 1o Marzo 1980 (Territori occupati da Israele); risoluzione n. 476 (1980) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 30 giugno 1980 (Territori occupati da Israele); risoluzione n. 2334 (2016) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, del 23 dicembre 2016 (La situazione in Medio Oriente, inclusa la questione palestinese), e per l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, risoluzioni n. 72/14 (2017) del 30 novembre 2017 (Soluzione pacifica della questione palestinese); n. 72/15 (2017) del 30 novembre 2017 (Gerusalemme); n. 72/16 (2017) del 30 novembre 2017 (Il Golan siriano), e n. 72/86 (2017) del 7 dicembre 2017 (Gli insediamenti israeliani nei territori palestinesi occupati, inclusi Gerusalemme Est e il Golan siriano occupato).


27      Sentenza del 25 febbraio 2010, Brita (C‑386/08, EU:C:2010:91).


28      Accordo euromediterraneo che istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e lo Stato di Israele, dall’altra, firmato a Bruxelles il 20 novembre 1995 (GU 2000, L 147, pag. 3).


29      L’accordo euromediterraneo interinale di associazione relativo agli scambi e alla cooperazione tra la Comunità europea, da una parte, e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), a beneficio dell’Autorità palestinese della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, dall’altra, firmato a Bruxelles il 24 febbraio 1997 (GU 1997, L 187, pag. 3).


30      Punto 5.


31      [2014] UKSC 8.


32      Direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU 2005, L 149, pag. 22).


33      Ciò veniva definito nel senso che una pratica commerciale è considerata un’azione ingannevole se (tra l’altro): «(2)(a) (…) contenga informazioni false ed sia pertanto non veritiera in relazione a una qualsiasi delle questioni di cui al punto (4) o se la sua presentazione generale in qualsiasi modo inganni o possa ingannare il consumatore medio in relazione a uno qualsiasi degli elementi di detto paragrafo, anche se l’informazione è di fatto corretta; e b) induca o sia idonea ad indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso».


34      Direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l’etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità (GU 2000, L 109, pag. 29).


35      V., in tal senso, sentenza del 4 giugno 2015, Teekanne (C‑195/14, EU:C:2015:361, punto 32). V. anche sentenza del 22 settembre 2016, Breitsamer und Ulrich (C‑113/15, EU:C:2016:718, punto 69).


36      Conclusioni dell’avvocato generale Mischo nella causa Gut Springenheide and Tusky (C‑210/96, EU:C:1998:102, paragrafo 78).


37      Conclusioni dell’avvocato generale Mischo nella causa Gut Springenheide and Tusky (C‑210/96, EU:C:1998:102, punto 87). Sebbene la versione inglese utilizzi l’avverbio «completely», l’avverbio «clearly» mi sembra più vicino alla versione linguistica originale — che è in francese — e utilizza il termine «nettement».


38      Sentenza del 10 settembre 2009 (C‑446/07, EU:C:2009:530).


39      Sentenza del 10 settembre 2009, Severi (C‑446/07, EU:C:2009:530, punto 62).


40      V., in tal senso, articolo 49 della Quarta Convenzione di Ginevra. V. Conseguenze giuridiche della costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati, parere consultivo, ICJ Reports 2004, pag. 136 (punti 78 e ss.).


41      V., in tal senso, risoluzione n. 2334 (2016) del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 23 dicembre 2016 (La situazione in Medio Oriente, compresa la questione palestinese).