Language of document : ECLI:EU:C:2013:604

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

NILS WAHL

presentate il 26 settembre 2013 (1)

Causa C‑363/12

Z

contro

A Government department and the Board of management of a community school

[domanda di pronuncia pregiudiziale presentata dall’Equality Tribunal (Irlanda)]

«Politica sociale — Maternità surrogata — Diritto a congedo retribuito equivalente al congedo per maternità o per adozione — Direttiva 2006/54/CE — Parità di trattamento tra uomini e donne — Sfera di applicazione — Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità — Direttiva 2000/78/CE — Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro — Ambito di applicazione — Nozione di handicap — Partecipazione alla vita professionale — Articolo 5 — Obbligo di soluzione ragionevole»





1.        La maternità surrogata, che rappresenta una forma di riproduzione assistita sempre più comune, costituisce una delicata questione politica e sociale in taluni Stati membri. La presente domanda di pronuncia pregiudiziale dell’Equality Tribunal (Irlanda), unitamente alla causa CD (2), dimostra l’attualità della maternità surrogata, nonostante il suo ruolo ancora relativamente marginale, e la complessità dei problemi giuridici (ed etici) inerenti al relativo regime. Infatti, il panorama del diritto varia nei diversi Stati membri: la maternità surrogata oscilla tra la completa legalità e un regime specifico e l’illegalità o — come nel caso dell’Irlanda — l’assenza di qualsiasi disciplina; esiste, inoltre, una notevole disparità tra gli Stati membri riguardo al regime cui assoggettare i contratti di maternità surrogata e, segnatamente, le relative procedure.

2.        Nella causa proposta dinanzi al giudice del rinvio, una donna non in grado di sostenere una gravidanza ha avuto un figlio biologico ricorrendo ad un contratto di maternità surrogata. Ci si chiede se, ai sensi del diritto dell’Unione europea, la donna abbia diritto ad un congedo retribuito equivalente al congedo per maternità o per adozione. Questa è l’essenza delle questioni presentate alla Corte nella specie.

I –    Ambito normativo

A –    Diritto internazionale

3.        La lettera e) del preambolo della Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 sui diritti delle persone con disabilità (3) (in prosieguo: la «Convenzione ONU») riconosce che «la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».

4.        L’articolo 1 della convenzione ONU stabilisce che per persone «con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».

B –    Diritto dell’Unione europea

1.      Direttiva 92/85/CEE

5.        Il considerando 8 della direttiva 92/85 (4) sottolinea che le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento devono essere considerate sotto molti punti di vista come un gruppo esposto a rischi specifici e che devono essere adottati provvedimenti per quanto riguarda la protezione della loro sicurezza e salute.

6.        Ai sensi del successivo considerando 14, la vulnerabilità delle lavoratrici gestanti, puerpere e in periodo di allattamento rende necessario il diritto ad un congedo di maternità.

7.        Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva medesima, l’obiettivo della direttiva è quello di attuare «misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento».

8.        Ai sensi dell’articolo 8, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le lavoratrici di cui all’articolo 2 (5) fruiscano di un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte, ripartite prima e/o dopo il parto, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.

9.        L’articolo 11, paragrafo 2, prevede, con riguardo al congedo di maternità di cui all’articolo 8, che debba essere garantito in tale periodo il mantenimento di una retribuzione e/o il versamento di un’indennità adeguata alle lavoratrici di cui all’articolo 2.

2.      Direttiva 2006/54/CE

10.      Il considerando 23 della direttiva 2006/54 (6) fa riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia che conferma che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso e che, pertanto, occorre includere esplicitamente tale trattamento nella direttiva de qua. Il considerando 24, che si richiama del pari alla giurisprudenza della Corte, aggiunge che è legittimo proteggere la condizione biologica della donna durante la gravidanza e la maternità nonché introdurre misure di protezione della maternità come strumento per garantire una sostanziale parità.

11.      Ai sensi del considerando 27, spetta agli Stati membri «decidere se accordare o meno [un diritto] al congedo di paternità e/o per adozione», nonché «determinare qualsiasi condizione, diversa dal licenziamento e dal rientro al lavoro, che non rientra nel campo di applicazione della (…) direttiva».

12.      L’articolo 2 della direttiva 2006/54 enuncia le definizioni applicabili ai fini della direttiva stessa.

13.      Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/54, costituisce «discriminazione diretta: [la] situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga». Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), si configura una «discriminazione indiretta» allorché «una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari». Inoltre, l’articolo 2, paragrafo 2, lettera c), statuisce che la discriminazione ai sensi della direttiva comprende «qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità, ai sensi della direttiva 92/85 (…)».

14.      L’articolo 4 vieta qualsiasi discriminazione basata sul sesso «concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni».

15.      L’articolo 14 vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto attiene alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, all’accesso alla formazione, alle condizioni di assunzione e di impiego nonché di affiliazione e di attività in un’organizzazione di lavoratori.

16.      L’articolo 16 della direttiva 2006/54, riguardante il congedo di paternità e per adozione, così recita:

«La presente direttiva lascia impregiudicata la facoltà degli Stati membri di riconoscere diritti distinti di congedo di paternità e/o adozione. Gli Stati membri che riconoscono siffatti diritti adottano le misure necessarie per tutelare i lavoratori e le lavoratrici contro il licenziamento causato dall’esercizio di tali diritti e per garantire che alla fine di tale periodo di congedo essi abbiano diritto di riprendere il proprio lavoro o un posto equivalente secondo termini e condizioni che non siano per essi meno favorevoli, e di beneficiare di eventuali miglioramenti delle condizioni di lavoro che sarebbero loro spettati durante la loro assenza».

3.      Direttiva 2000/78/CE

17.      Ai sensi del considerando 20 della direttiva 2000/78 (7), è opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio «sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento».

18.      Il considerando 21 specifica che, «per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni».

19.      L’articolo 3 stabilisce l’ambito di applicazione della direttiva 2000/78. Esso dispone quanto segue:

«1.      Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:  

(a)       alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo (…)

(...)

c)      all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione; (…)».

20.      La nozione di «soluzione ragionevole» per i disabili è definita all’articolo 5 della direttiva. Detta norma dispone che «il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione (…), a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato».

C –    Diritto irlandese

21.      Il diritto irlandese non disciplina la maternità surrogata. Non esiste dunque alcuna disposizione concernente un congedo retribuito equivalente al congedo di maternità o per adozione per i genitori i cui figli nascano per effetto di un contratto di maternità surrogata.

22.      Riguardo al congedo di maternità, la Section 8 del Maternity Protection Act 1994 (8) (legge sulla protezione della maternità, come modificata) prevede che le «lavoratrici gestanti» (il corsivo è mio) abbiano diritto al congedo retribuito, definito «congedo di maternità». Il periodo minimo prescritto per il congedo di maternità è di 26 settimane. Per avere diritto al congedo per maternità occorre che il datore di lavoro riceva comunicazione dell’intenzione della lavoratrice di fruire del congedo e che gli sia presentato un certificato medico o un altro documento equivalente, che confermi la gravidanza e specifichi la data presunta del parto.

23.      Il congedo per adozione è disciplinato dall’Adoptive Leave Act 1995 (9) (legge sul congedo per adozione, come modificata). Ai sensi della Section 6, una madre adottante o un padre adottante non coniugato che siano lavoratori dipendenti hanno diritto al congedo per adozione dalla data di affidamento del bambino. Il periodo minimo del congedo per adozione prescritto è di 24 settimane dalla data di affidamento. Per ottenere il diritto al congedo per adozione, occorre notificare anticipatamente al datore di lavoro la prevista adozione e trasmettere i documenti rilevanti a comprova della medesima (10).

II – Fatti, procedimento e questioni deferite

24.      La sig.ra Z è insegnante in una scuola gestita da un ente pubblico in Irlanda. La ricorrente soffre di una rara patologia per effetto della quale, pur avendo ovaie funzionanti ed essendo quindi fertile, è priva dell’utero e non è in grado di sostenere una gravidanza.

25.      Per poter avere figli, la sig.ra Z e il marito decidevano di ricorrere ad una madre surrogata, che desse alla luce un bambino in California, Stati Uniti d’America. A seguito del contratto di maternità surrogata nell’aprile 2010 nasceva un bambino. Il bambino è figlio biologico della coppia e nel suo certificato di nascita americano non è fatta menzione della madre surrogata.

26.      Le condizioni e i termini del contratto di lavoro della sig.ra Z prevedono il diritto a un congedo retribuito per adozione e per maternità. Né il diritto irlandese né il contratto di lavoro della ricorrente contengono alcuna disposizione specifica riguardante il congedo per la nascita di un figlio per effetto di un contratto di maternità surrogata.

27.      Tuttavia, nel corso della gravidanza surrogata, la sig.ra Z faceva domanda di congedo per adozione. Essendole stato negato il congedo retribuito ed essendole stato offerto soltanto un congedo parentale non retribuito (11), la sig.ra Z ricorreva dinanzi all’Equality Tribunal, sostenendo di essere stata oggetto di una discriminazione basata sul sesso, sullo status familiare e sull’handicap.

28.      A fronte di dubbi quanto alla portata e all’interpretazione delle pertinenti disposizioni di diritto dell’Unione europea, l’Equality Tribunal ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni:

«1) Se, considerate le seguenti disposizioni del diritto primario dell’Unione europea:

i)      articolo 3 del Trattato sull’Unione europea;       

(ii)      articoli 8 e 157 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e/o

(iii) articoli 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,

la [direttiva 2006/54] — e in particolare gli articoli 4 e 14 della medesima — debba essere interpretata nel senso che sussista discriminazione basata sul sesso qualora a una donna — il cui figlio genetico sia nato mediante un contratto di maternità surrogata e che si occupi del figlio stesso sin dalla nascita — venga negata la concessione di un congedo retribuito equivalente al congedo di maternità e/o di adozione.

2)       In caso di risposta negativa alla prima questione, se la [direttiva 2006/54] sia compatibile con le citate disposizioni del diritto primario dell’Unione europea.  

3)      Se, considerate le seguenti disposizioni del diritto primario dell’Unione europea:

i)      articolo 10 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e/o

ii)      articoli 21, 26 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,

la [direttiva 2000/78] — in particolare l’articolo 3, paragrafo 1, e l’articolo 5 — debba essere interpretata nel senso che sussiste discriminazione basata sull’handicap qualora a una donna affetta da una patologia che le impedisce di avere figli — il cui figlio genetico sia nato mediante un contratto di maternità surrogata e che si occupi del figlio medesimo sin dalla nascita — venga rifiutato un congedo retribuito equivalente al congedo di maternità e/o di adozione.

4.       In caso di risposta negativa alla terza questione, se la [direttiva 2000/78] sia compatibile con citate le disposizioni del diritto primario dell’Unione europea.  

5.       Se, ai fini dell’interpretazione e/o della contestazione della validità della [direttiva 2000/78], sia possibile basarsi sulla [Convenzione ONU].

6.       In caso di risposta positiva alla quinta questione, se la [direttiva 2000/78] — in particolare gli articoli 3 e 5 — sia conforme agli articoli 5, 6, 27, paragrafo 1, lettera b), e 28, paragrafo 2, lettera b), della [Convenzione ONU].

29.      Osservazioni scritte sono state sottoposte dalla sig.ra Z, da un Ministero e dal Consiglio di amministrazione di una Community School in Irlanda, nonché dai governi irlandese e portoghese, dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione. All’udienza del 28 maggio 2013 la sig.ra Z, il governo irlandese, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno svolto argomenti orali.

III – Analisi

A –    Questioni preliminari

30.      Per una miglior comprensione del contesto sociale della presente fattispecie, mi sembra necessario illustrare brevemente gli aspetti chiave (giuridici e di fatto) della maternità surrogata (12).

31.      La maternità surrogata assume forme diverse. Nella forma «tradizionale», le madri surrogate (donne che aiutano i committenti o affidatari (13) a diventare genitori sostenendo per loro la gravidanza) vengono fecondate con lo sperma del padre affidatario e un ovulo proprio. Per contro, la maternità surrogata gestazionale avviene mediante un trattamento di fertilizzazione in vitro (IVF) con il quale o la madre affidataria o una donatrice forniscono l’ovulo utilizzato nel processo di fecondazione. Nell’ipotesi di maternità surrogata gestazionale, la madre surrogata non è biologicamente legata al figlio che porta in grembo.

32.      I motivi per ricorrere alla maternità surrogata possono variare in modo significativo. Da un lato vi sono persone che decidono di avvalersi della maternità surrogata per ragioni di convenienza personale. D’altro lato, ci sono le coppie che non sono in grado di avere figli per via convenzionale per diversi motivi legati a sterilità, malattia o disabilità. La maternità surrogata fornisce anche un mezzo alle coppie omosessuali di soddisfare il loro desiderio di avere un figlio, legato ad uno dei genitori affidatari.

33.      La maternità surrogata non solo crea complicate questioni giuridiche concernenti gli aspetti convenzionali degli accordi (ad esempio, se sia legale o meno stipulare siffatti contratti e, inoltre, in qual misura le madri surrogate possano ricevere un compenso per il servizio che forniscono). Altre questioni problematiche sorgono successivamente alla nascita del figlio.

34.      A seconda dello Stato membro interessato, la nascita di un figlio mediante maternità surrogata solleva una serie di questioni giuridiche complesse, come quella dell’individuazione di coloro che debbano essere considerati genitori legali del figlio (14). Più specificamente: come vengono determinati i diritti parentali dei genitori affidatari? Una questione distinta, sebbene intrinsecamente connessa, è quella della misura in cui debbano essere concesse prestazioni, come un congedo retribuito per maternità o per adozione, ai genitori che si avvalgono di questa forma di maternità. Fatte salve talune eccezioni, sembra che tali questioni, come molte altre, legate a questa forma particolare di riproduzione assistita, non siano sinora state risolte in maniera soddisfacente in molti Stati membri.

35.      Un ulteriore livello di complessità si aggiunge nell’ipotesi di maternità surrogata transfrontaliera: l’elemento transfrontaliero solleva numerose questioni di difficili soluzione, vertenti, segnatamente, sullo stato di famiglia e di immigrazione dei bambini nati mediante contratti di tal genere. Evidentemente, la natura commerciale dei contratti non è priva di problemi nella maggior parte degli Stati membri (15).

36.      In ordinamenti con normative permissive in materia di maternità surrogata, come l’Ucraina o lo Stato della California negli Stati Uniti, i genitori affidatari sono trattati come i genitori legali del figlio. Per contro, non di rado il diritto nazionale degli Stati membri dell’Unione europea protegge in primo luogo la donna che dà alla luce il figlio (e il suo coniuge o partner). È evidente, in tale ipotesi, che l’applicazione rigida di norme sui conflitti di leggi e, segnatamente, considerazioni politiche relative alla determinazione dello status dei genitori affidatari e dei figli nati a seguito di contratti di maternità surrogata possono determinare una sorta di indesiderabile «terra di nessuno giuridica», in cui ai figli possono essere negati genitori e status giuridico (16).

37.      Senza dubbio, dunque, la fattispecie in esame — come ogni caso concernente la maternità surrogata nel contesto giuridico vigente — implica questioni fondamentali concernenti la demarcazione di forme di riproduzione assistita socialmente e culturalmente accettate. In questo senso, può risultare difficoltoso scindere le questioni legali sopra delineate dalle considerazioni politiche, etiche e culturali poste alla base della maternità surrogata.

38.      Ciò detto, desidero sottolineare che, nella specie, la Corte è chiamata soltanto a decidere se il diritto di una donna, che abbia avuto un figlio biologico per effetto di un contratto di maternità surrogata, a godere di un congedo retribuito equivalente a quello per la maternità o l’adozione sia protetto in forza del diritto dell’Unione europea. Sebbene il giudice a quo sia incerto sulla validità della normativa derivata di cui trattasi, considero che la domanda di pronuncia pregiudiziale sia in primo luogo e soprattutto una domanda di interpretazione, vertente sulla corretta interpretazione da dare alla pertinente normativa derivata dell’Unione europea.

39.      Il giudice nazionale solleva, in sostanza, due questioni. In primo luogo: se la direttiva 2006/54 vieti, in quanto costituente discriminazione fondata sul sesso, un diniego di concessione di un un congedo retribuito, analogo a quello per maternità o adozione, ad una madre che ha avuto un figlio per effetto di un contratto di maternità surrogata. In secondo luogo: se tale diniego configuri una discriminazione fondata sull’handicap, ai sensi della direttiva 2000/78, atteso che la madre affidataria soffre di una patologia che le impedisce di portare a termine una gravidanza.

40.      Una risposta affermativa a tali questioni presuppone necessariamente che entrambe le direttive siano applicabili in circostanze come quelle all’esame del giudice a quo. In tal caso, l’essenza della questione sta nella determinazione della portata di tali atti giuridici.

41.      Per motivi che illustrerò in prosieguo, non ritengo che un diritto ad un congedo retribuito per una donna come la sig.ra Z possa essere desunto dalla direttiva 2006/54 o dalla direttiva 2000/78. Tratterò, in primo luogo, la direttiva 2006/54 (e la direttiva 92/85, che disciplina specificamente la questione del congedo di maternità ai sensi del diritto dell’Unione europea). Procederò poi all’esame della direttiva 2000/78.

B –    Discriminazioni in base al sesso

1.      La ratio sottesa alla direttiva 92/85 riguardo al congedo per maternità

42.      Con la sua prima questione, il giudice a quo chiede se il diniego di concedere un congedo retribuito, equivalente a quello di maternità o per adozione, nelle circostanze in esame configuri una discriminazione vietata dalla direttiva 2006/54. Sebbene l’ordinanza di rinvio non contenga alcun rinvio specifico alla direttiva 92/85, ritengo necessario cominciare spiegando l’obiettivo della tutela conferita dal diritto dell’Unione relativamente al congedo di maternità. Questo in quanto la fattispecie in esame solleva la questione se una donna, che abbia avuto il figlio biologico per effetto di un contratto di maternità surrogata, debba fruire di una tutela analoga a quella conferita dalla direttiva 92/85 ad una puerpera.

43.      La direttiva 92/85 disciplina unicamente ed in via esclusiva il diritto al congedo di maternità ai sensi del diritto dell’Unione europea.

44.      Come dalla stessa ammesso, la sig.ra Z non ha attraversato le fasi della gestazione e del parto, ai sensi della direttiva 92/85. Con riguardo alla tutela conferita da detta direttiva, adottata sulla base dell’articolo 118a del Trattato CEE (divenuto ora articolo 153 TFUE), è chiaro che l’obiettivo della tutela da essa offerta consiste nel promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti (17). In parole povere, essa mira a proteggere la loro condizione psicofisica. Illustrando questo punto, il considerando 8 della direttiva identifica le lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento come un gruppo esposto a rischi specifici e statuisce che devono essere adottati provvedimenti per quanto riguarda la protezione della loro sicurezza e salute (18).

45.      Inoltre, dal considerando 14 della direttiva 92/85, che sottolinea la vulnerabilità delle puerpere, in combinato disposto con l’articolo 8 della medesima direttiva, concernente il congedo di maternità, emerge che la tutela della sicurezza e della salute sul lavoro ai sensi della direttiva è intesa per le donne che danno alla luce un figlio. Infatti, il diritto al congedo di maternità è definito come un periodo di «almeno quattordici settimane ininterrotte, ripartite prima e/o dopo il parto (il corsivo è mio). Lo scopo dell’articolo 8 è, dunque, quello di proteggere la donna in un periodo in cui essa è particolarmente vulnerabile, sia prima che dopo il parto. Sulla stessa linea, la Corte ha evidenziato questo aspetto del congedo di maternità, spiegando che detto congedo, a differenza del congedo parentale, è volto alla protezione della condizione biologica della donna e delle particolari relazioni tra la donna e il bambino durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto (19).

46.      Ad un livello più generale, la direttiva 92/85 intende aiutare le lavoratrici, inter alia, mediante il congedo di maternità, a riprendersi dalle limitazioni psico-fisiche collegate alla gravidanza e al periodo successivo al parto, nonché a facilitare la loro reintegrazione sul mercato del lavoro alla fine del congedo. La direttiva opera, dunque, come uno strumento per contribuire all’uguaglianza sostanziale tra i sessi.

47.      È ben vero che, come sopra illustrato, nell’interpretare la logica che sottende il congedo di maternità, ai sensi della direttiva 92/85, la Corte attribuisce importanza anche al rapporto speciale che si sviluppa dopo la nascita tra la donna e suo figlio. Tuttavia, credo che detto obiettivo possa essere compreso soltanto all’interno di un determinato contesto, ossia come un logico corollario del parto (e dell’allattamento). Diversamente ragionando, se a detto obiettivo spettasse un significato autonomo, la portata della protezione conferita dall’articolo 8 della direttiva 92/85, a mio avviso, non potrebbe essere efficacemente limitata solo alle puerpere, ma dovrebbe necessariamente includere anche le madri adottive o, effettivamente, qualsiasi altro genitore che si occupi a tempo pieno del neonato.

48.      Proprio a causa dell’obiettivo chiaramente enunciato di proteggere la salute e la sicurezza delle lavoratrici che si trovano in una condizione vulnerabile, non riesco ad intendere la direttiva 92/85 nel senso che essa tuteli un diritto al congedo retribuito equivalente al congedo di maternità nell’ipotesi di una madre che abbia avuto il proprio figlio biologico per effetto di un contratto di maternità surrogata. Infatti, sebbene la sig.ra Z sia la madre biologica del figlio nato mediante la maternità surrogata, non sono convinto che tale circostanza possa essere interpretata nel senso che consenta di per sé di estendere la portata della direttiva 92/85 sino a tutelare la maternità, o lo status di genitore, in senso generale, nonostante il suo tenore letterale e gli obiettivi ivi chiaramente enunciati.

49.      Aggiungerei, tuttavia, che, dato che lo standard di protezione garantito dalla direttiva 92/85 costituisce solo un minimo accettato, gli Stati membri possono ovviamente prevedere una tutela più ampia, sia per le madri biologiche che per le madri surrogate ed adottive (e per i padri). Mi sembra che gli Stati membri godano di un considerevole margine di manovra per offrire, oltre al tipo di congedo disciplinato dall’articolo 2, lettera b), della direttiva 92/85, un diritto ad un congedo retribuito che si estende — se desiderato — anche ai lavoratori che non abbiano dato alla luce un figlio.

50.      Tuttavia, la normativa nazionale controversa nel procedimento a quo, che non estende il diritto al congedo di maternità alle madri affidatarie, non può essere ritenuta contraria alla direttiva 92/85, semplicemente perché la sig.ra Z non rientra nell’ambito di applicazione ratione personae della direttiva 92/85.

51.      Su questo punto, devo sottolineare che estendere l’ambito di applicazione della direttiva 92/85 — e, di conseguenza, estendere un diritto a congedo retribuito ad una lavoratrice il cui figlio biologico sia stato dato alla luce da una madre surrogata — creerebbe una situazione contraddittoria, in cui la direttiva 92/85 estenderebbe un diritto al congedo retribuito ad una lavoratrice che si avvale della maternità surrogata, ma non lo farebbe invece per una madre lavoratrice adottiva, o nemmeno per un padre, che abbia fatto ricorso alla maternità surrogata o ad altri mezzi. Allo stato attuale, il diritto dell’Unione europea non impone agli Stati membri alcun obbligo di prevedere un congedo retribuito per adozione e/o per congedo parentale.

52.      Come emerge dall’articolo 1 della direttiva 92/85, in combinato disposto con il considerando 8, detta direttiva copre soltanto una categoria specifica di lavoratori che il legislatore europeo ritiene meritevoli di protezione speciale. A tale riguardo non credo che una donna che ricorre alla maternità surrogata possa essere raffrontata ad una donna che dà alla luce un figlio, dopo avere sopportato la gestazione con tutte le limitazioni fisiche e mentali che essa comporta.

53.      Tuttavia, come osservato dal giudice a quo, questo non esclude di per sé la tutela ai sensi della direttiva 2006/54, come è confermato dalla sentenza della Corte nella causa Mayr (20), vertente sull’aspetto temporale della nozione di gravidanza nel contesto della fecondazione artificiale.

2.      Se la situazione della sig.ra Z ricada nella sfera della direttiva 2006/54

54.      Affinché si applichi la direttiva 2006/54, occorre accertare che la disparità di trattamento lamentata è fondata sul sesso. Per spiegare perché non credo che ciò avvenga nella fattispecie, illustrerò, anzitutto, i motivi per i quali la causa in esame debba essere distinta dalla causa Mayr. Affronterò poi la questione dell’individuazione del corretto termine di paragone.

55.      In via preliminare, osservo che la copiosa giurisprudenza della Corte mantiene una distinzione tra la discriminazione per motivi di gravidanza e maternità, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 2006/54, da un lato, e altre forme di discriminazione vietata fondata sul sesso, ai sensi dell’articolo, 2, paragrafo 1, lettere a) o b), di tale direttiva, dall’altro (21). Infatti, secondo la massima «i casi simili vanno trattati in modo analogo» o, inversamente, «i casi diversi non vanno trattati in modo analogo», è comunemente ammesso che, mentre una constatazione di discriminazione per motivi di gravidanza o maternità non presuppone l’esistenza di un termine di confronto a causa della condizione specifica (sessuale) di gravidanza o di maternità (22), questo non vale per altri tipi di discriminazione fondata sul sesso.

56.      Più in particolare, riguardo alla sentenza Mayr, ricordo che la Corte ha dichiarato che una lavoratrice sottoposta ad un trattamento di fecondazione in vitro non può fare affidamento sulla tutela offerta dalla direttiva 92/85 riguardo al licenziamento, se gli ovuli fecondati non sono ancora trasferiti nel suo utero (23). Tuttavia, la Corte ha successivamente considerato se detta lavoratrice, che non è gestante ai sensi della direttiva 92/85, possa ciononostante invocare la protezione contro la discriminazione basata sul sesso conferita dalla direttiva 76/207/CEE (24), attualmente abrogata dalla direttiva 2006/54 (25).

57.      A giudizio della Corte, il licenziamento di una lavoratrice per essersi sottoposta ad un trattamento particolare (26), che forma una fase cruciale della fecondazione artificiale e che riguarda direttamente soltanto le donne, costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso (27). Questo ragionamento può essere ricondotto alla sentenza Dekker (28), nella quale la Corte ha dichiarato che soltanto le donne possono essere soggette ad un trattamento meno favorevole a causa della gravidanza. Estendendo tale linea giurisprudenziale, sembra che, nella sentenza Mayr, la Corte abbia operato una distinzione tra trattamenti medici specifici per un sesso (relativi alla gravidanza) e malattie specifiche di un sesso (relative alla gravidanza, ma che si manifestano alla fine del congedo di maternità) (29).

58.      L’approccio adottato nella sentenza Mayr sembra strettamente legato all’obiettivo perseguito dalla fecondazione artificiale, che è quello di indurre una gravidanza nella donna interessata mediante intervento medico. Il riferimento al fatto che l’obiettivo dell’articolo 2, paragrafo 3 (30), della direttiva 76/207 è quello di proteggere le donne e, segnatamente, le lavoratrici gestanti, sembra confermare che la discriminazione vietata in quel caso derivava dallo stretto nesso esistente tra le caratteristiche specifiche (relative al sesso) del trattamento di cui trattasi, che può riguardare solo le donne, da un lato, e la gravidanza, che gode di una tutela speciale in forza del diritto dell’Unione europea, dall’altro (31).

59.      Dato che il trattamento meno favorevole lamentato dalla sig.ra Z non è legato al fatto di essere — o divenire — gestante a seguito del trattamento di fecondazione artificiale cui si è sottoposta, ma alla circostanza di essere un genitore donna del figlio, ritengo che si debba individuare un elemento di paragone maschile.

60.      Desidero inoltre sottolineare che, diversamente dalla sentenza Mayr, la fattispecie in esame non concerne un licenziamento, ma verte sul diritto ad una forma specifica di retribuzione e riguarda, dunque, in maniera più specifica l’articolo 4 della direttiva 2006/54 (sebbene il giudice a quo si riferisca anche al suo articolo 14), che vieta qualsiasi discriminazione basata sul sesso «concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni».

61.       A tale riguardo mi sembra difficile accettare la tesi secondo la quale la sig.ra Z sarebbe stata oggetto di discriminazione vietata fondata sul sesso.

62.      Nella fattispecie in esame, la disparità di trattamento lamentata dalla sig.ra Z non è basata sul sesso, ma sul diniego delle autorità nazionali di assimilare la situazione di una madre affidataria a quella o di una puerpera o di una madre adottiva. Da ciò consegue, dunque, che la direttiva 2006/54 non si applica al trattamento meno favorevole lamentato dalla sig.ra Z.

63.      Infatti, sembra che un genitore uomo di un figlio nato mediante maternità surrogata (o in altro modo) in una situazione analoga sarebbe trattato esattamente come la sig.ra Z: si deve presumere che, al pari di un genitore affidatario donna, egli non avrebbe diritto ad un congedo retribuito analogo al congedo di maternità o per adozione. A mio avviso, interpretare la direttiva 2006/54 nel senso che essa vieti il diniego di concedere un congedo retribuito ad una donna che ricorra alla maternità surrogata sarebbe di per sé contrario al principio della parità di trattamento. Un’interpretazione di tal genere avrebbe l’effetto contraddittorio di discriminare gli uomini che diventino padri e che si occupino del figlio a tempo pieno. A mio avviso, una distinzione tra i sessi non riferita a specifiche limitazioni fisiche e mentali connesse alla gravidanza e al parto comporterebbe, inoltre, un giudizio di valore sulla differenza qualitativa tra la maternità in contrapposizione alla qualità di genitore in generale.

64.      Su questo punto, sono incline ad affermare che un termine di paragone adeguato per una donna che diventa madre per effetto di un contratto di maternità surrogata può essere identificato — come ammette la stessa sig.ra Z — in una madre adottiva (o, eventualmente, in un genitore, uomo o donna) che non ha dato alla luce un figlio. Analogamente ad una madre adottiva, ella è divenuta madre senza sostenere gli effetti fisici e mentali della gravidanza e del parto — sebbene io non intenda assolutamente sottovalutare le difficoltà derivanti dall’affrontare la maternità surrogata (o l’adozione).

65.      Riguardo all’adozione, il diritto dell’Unione europea non prevede norme che impongano agli Stati membri un obbligo di concedere un congedo retribuito ai genitori adottivi. L’articolo 16 della direttiva 2006/54 prevede unicamente una protezione contro la discriminazione per i lavoratori di ambo i sessi che si avvalgono del congedo per adozione o di paternità, negli Stati membri che riconoscono il diritto a siffatto congedo. Infatti, come emerge chiaramente dall’articolo 16 della direttiva 2006/54, in combinato disposto con il considerando 27 di quest’ultima, la discriminazione ai sensi di detta direttiva può essere configurata soltanto in relazione all’esercizio di un diritto riconosciuto dal diritto nazionale. Del pari, la direttiva lascia liberi gli Stati membri di adottare le disposizioni che ritengono opportune in relazione a siffatti tipi di congedo (32). Nella fattispecie in esame, la sig.ra Z non ha subito un trattamento meno favorevole perché ha goduto del congedo per adozione.

66.      Mi sembra, tuttavia, che non si possa escludere un trattamento sfavorevole rispetto alle madri adottive.

67.      A questo riguardo, laddove il diritto nazionale preveda un congedo retribuito per l’adozione — o una diversa forma di congedo, non subordinato alla condizione specifica che la persona interessata abbia sostenuto la gravidanza —, spetta al giudice a quo valutare, alla luce del menzionato diritto nazionale, se l’applicazione di norme diverse ai genitori adottivi e ai genitori che hanno avuto un figlio ricorrendo ad un contratto di maternità surrogata (e che sono riconosciuti come genitori legali del figlio) configuri una discriminazione (33).

68.      In definitiva, credo che, posto che la disparità di trattamento lamentata dalla sig.ra Z non costituisce una discriminazione basata sul sesso, la direttiva 2006/54 non possa essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale che non prevede un congedo retribuito, analogo al congedo di maternità o per adozione, per una donna che è la madre biologica di un figlio nato per effetto di un contratto di maternità surrogata (34).

3.      L’impatto del diritto primario

69.      Nell’eventualità di una risposta negativa alla prima questione, il giudice del rinvio chiede ancora se la direttiva 2006/54 sia compatibile con l’articolo 3, paragrafo 3, del Trattato, con gli articoli 8 TFUE e 157 TFUE nonché con gli articoli 21, 23, 33 e 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).

70.      Anzitutto, è chiaro che, di pari passo con il principio generale della parità di trattamento, le disposizioni citate dal giudice del rinvio possono fungere da fondamento per l’esame del diritto derivato dell’Unione europea (35). Tuttavia, riguardo sia all’articolo 3 del Trattato (che fissa gli obiettivi generali dell’Unione Europea), in particolare al paragrafo 3 del medesimo, sia agli articoli 8 TFUE e 157 TFUE, osservo che dette disposizioni, nella parte rilevante nella specie, vertono sulla parità di trattamento tra uomini e donne. Tenuto conto delle conclusioni sopra enunciate, secondo le quali un diritto a congedo retribuito per le madri affidatarie equivalente al congedo di maternità o per adozione esula dalla portata delle direttive 92/85 e 2006/54, non si pone affatto, a mio avviso, la questione della compatibilità di quest’ultima direttiva con le menzionate disposizioni del Trattato.

71.      In secondo luogo, considerando le disposizioni della Carta (articoli 21, 23, 33 e 34) menzionate dal giudice a quo, occorre tenere in mente che queste ultime, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta medesima, sono indirizzate agli Stati membri solo nell’attuazione del diritto dell’Unione. In altri termini, affinché la Carta sia applicabile occorre stabilire un nesso sufficientemente stretto con il diritto dell’Unione europea. In tal senso, invocare una disposizione della Carta non basta per trasformare una situazione che altrimenti rientrerebbe nell’ambito del diritto nazionale in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione (36). Questo perché la Carta deve essere applicata soltanto nella misura in cui una fattispecie concerne non soltanto una disposizione della Carta medesima, ma anche un’altra norma di diritto dell’Unione direttamente rilevante per la fattispecie (37). Come ho cercato di spiegare sopra, siffatto nesso non sembra configurarsi nella fattispecie in esame.

72.      Aggiungerei anche che, ai sensi del principio sancito all’articolo 51, paragrafo 2, della Carta, quest’ultima non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione oltre i poteri conferiti all’;nione medesima. Essa non «crea neppure alcuna competenza o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze o i compiti definiti dai trattati».

73.      Sebbene la Carta (e il diritto primario nel suo complesso) debba indubbiamente essere rispettata nell’interpretazione del diritto derivato dell’Unione (38), non vedo come le disposizioni della Carta citate dal giudice a quo potrebbero essere utilizzate in modo da estendere la portata ratione materiae della direttiva 2006/54. Come sopra illustrato, la censura di discriminazione di cui trattasi concerne il fatto che la sig.ra Z non è stata trattata allo stesso modo di una donna puerpera (o di una madre adottiva), una situazione che non rientra nell’ambito di applicazione di detta direttiva. Evidentemente, uno strumento legislativo specifico che riflette una scelta normativa fondamentale di migliorare la parità sostanziale tra i sessi — in conformità con gli articoli 21 e 23 della Carta — non può essere interpretato, semplicemente evocando diritti fondamentali, nel senso che copra altre (eventuali) forme di discriminazione (39). Siffatta scelta non può neppure incidere sulla validità della direttiva 2006/54.

74.      È vero che, allorché una situazione specifica (o una categoria di persone) rientra nell’ambito di applicazione di un atto legislativo dell’Unione, la Corte può cercare di porre rimedio alle incoerenze tra il diritto derivato e il diritto primario mediante un approccio «molto teleologico» (40). Ciò avveniva nella sentenza Sturgeon (41), dove le disposizioni rilevanti del regolamento (CE) n. 261/2004 (42) sono state interpretate alla luce del principio generale della parità di trattamento, al fine di estendere la portata della protezione conferita da detto regolamento ai passeggeri i cui voli erano ritardati (43). Tuttavia, siffatta interpretazione richiede, in primis, che la disparità di trattamento lamentata rientri nell’ambito di applicazione dell’atto legislativo di cui trattasi (44). Ciò non si verifica nel caso di specie.

75.      Come ho spiegato supra, non posso intendere le disposizioni legislative esistenti nel senso che esse impongano un obbligo di accordare un congedo retribuito ad una donna, come la sig.ra Z, che ha fatto ricorso alla maternità surrogata per avere un figlio. Il diritto dell’Unione europea prevede espressamente il congedo retribuito di maternità per le puerpere. Per quanto concerne altri tipi di congedo (in particolare per adozione o parentale), gli Stati membri mantengono una discrezionalità sostanziale di adottare i provvedimenti che ritengono opportuni.

76.      Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo che la prima e la seconda questione debbano essere risolte nel senso che la direttiva 2006/54 non si applica in circostanze come quelle della fattispecie sottoposta al giudice a quo, nella quale a una donna il cui figlio biologico sia nato per effetto di un contratto di maternità surrogata venga negato un congedo retribuito analogo al congedo di maternità e/o per adozione. Questa conclusione non mette in discussione la validità di detta direttiva.

C –    Discriminazione basata sull’handicap

1.      Protezione conferita dalla direttiva 2000/78

77.      I quesiti 3, 4, 5 e 6 vertono sulla questione dell’handicap. Specificamente, il giudice a quo si interroga sulla questione se il diniego di accordare un congedo retribuito equivalente al congedo di maternità o per adozione configuri una discriminazione fondata sull’handicap, ai sensi della direttiva 2000/78 (in particolare, il quesito n. 3). Questo in quanto la madre di cui trattasi soffre di una patologia che le impedisce di sostenere una gravidanza.

78.      In questo contesto, l’Equality Tribunal vuole sapere anche quale sia la rilevanza della Convenzione ONU nell’interpretazione della direttiva 2000/78 e, inoltre, se detta Convenzione possa incidere sulla validità della medesima (quinta e sesta questione). La quarta questione solleva il problema della validità in relazione a talune disposizioni del diritto primario dell’Unione.

79.      Anzitutto, osservo che la Corte ha già dato una risposta parziale alla quinta questione nella recente sentenza Ring (45), in cui confermava che la direttiva 2000/78 deve essere oggetto, per quanto possibile, di un’interpretazione conforme a tale Convenzione (46). Ai sensi dell’articolo 216, paragrafo 2, TFUE, gli accordi conclusi dall’Unione vincolano le istituzioni dell’Unione. Essi devono dunque prevalere sugli atti dell’Unione europea (47).

80.      Infatti, nella misura in cui la direttiva 2000/78 costituisce uno degli atti legislativi dell’Unione europea concernente materie disciplinate da quell’atto (48) — un punto sul quale concordano tutte le parti che hanno presentato osservazioni —, è chiaro che la Convenzione ONU costituisce un parametro vincolante ai fini dell’interpretazione della direttiva 2000/78.

81.      Riguardo alla seconda questione sollevata nel quinto e nel sesto quesito, vale a dire la possibilità di contestare la compatibilità della direttiva 2000/78 con la convenzione ONU, secondo una giurisprudenza consolidata la Corte di giustizia può esaminare la validità del diritto derivato dell’Unione alla luce di un accordo internazionale soltanto «qualora a ciò non ostino né la natura né l’economia generale» di siffatto accordo e, inoltre, qualora le disposizioni di quest’ultimo appaiano, dal punto di vista del loro contenuto, incondizionate e sufficientemente precise (49). Come spiegherò in prosieguo, non ritengo che la convenzione ONU e, segnatamente, le disposizioni menzionate dal giudice a quo, possano fungere da fondamento per mettere in discussione la validità della direttiva 2000/78.

82.      Al fine di stabilire se la direttiva 2000/78 trovi applicazione nella situazione della sig.ra Z, comincerò descrivendo brevemente l’evoluzione della nozione di handicap nel contesto della direttiva 2000/78, per poi esaminare l’ambito di applicazione di quest’ultima.

a)      Se la situazione della sig.ra Z rientri nella nozione di handicap, ai sensi della direttiva 2000/78

83.      È comunemente ammesso che si possano identificare (quanto meno) due nozioni contrastanti di disabilità: la disabilità medica (o individuale) e la disabilità sociale (50).

84.      La nozione medica pone l’accento sul singolo, e sulla menomazione che rende difficile per la persona interessata adattarsi o integrarsi all’ambiente sociale circostante. A differenza del modello medico, la nozione sociale di disabilità, fondata su un approccio adeguato al contesto, mette in risalto l’interazione tra la menomazione e la reazione della società, ovvero l’organizzazione della società per accogliere le persone che presentano menomazioni. È importante precisare che questo modello offre una comprensione della disabilità più inclusiva. Particolarmente significativo è che la disabilità è dipendente dal contesto e situazionale: ad esempio, una malattia a lungo decorso, come il diabete o addirittura un’allergia, può costituire una disabilità, a seconda del contesto in cui si pone.

85.      La Convenzione ONU riflette il modello sociale di disabilità. Essa riconosce che la disabilità «è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» (51). Ai sensi di questa nozione, la disabilità nasce dall’incapacità del contesto sociale di conformarsi e di rispondere alle esigenze di persone che presentano menomazioni (52). Nella misura in cui il modello sociale della disabilità va oltre i limiti di ciò che può essere inteso come disabilità in un linguaggio più tradizionale (compresa, inter alia, la disabilità mentale), la Convenzione ONU offre presumibilmente una protezione più solida ed estesa contro la discriminazione rispetto a una definizione ristretta, incentrata sul singolo. Essa riconosce infatti che la disabilità è «un prodotto sociale non meno che una condizione medica» (53).

86.      Ciò premesso, sottolineo che la nozione di handicap ha subìto una forte evoluzione nella giurisprudenza della Corte nel contesto specifico della direttiva 2000/78.

87.      Ai sensi della sentenza della Corte nella causa Chacón Navas (54), la nozione di «handicap» deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme, non solo per assicurare un’applicazione uniforme, ma anche per garantire l’osservanza del principio della parità di trattamento nel senso più ampio (55). In tale causa, la Corte ha optato per una nozione di handicap particolarmente ristretta, definendola il risultato di minorazioni fisiche, mentali o psichiche che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale (56).

88.      Tuttavia, la sentenza Ring segna presumibilmente un cambiamento di paradigma nella giurisprudenza della Corte. In quella causa, la nozione di handicap dell’Unione è stata esplicitamente allineata a quella della Convenzione ONU.

89.      Avvalendosi della Convenzione ONU, la Corte ha riconosciuto che l’handicap deve essere inteso come «un concetto in evoluzione». Nel contesto specifico della direttiva 2000/78, detta nozione si riferisce ad «una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (57). Mentre la causa dell’handicap è irrilevante (congenita, incidente o malattia), la menomazione deve essere «duratura» (58).

90.      Ciononostante, sembra esistere una differenza degna di nota tra la definizione della Convenzione ONU e quella adottata nella sentenza Ring. Mentre la Convenzione ONU si riferisce alla partecipazione nella società in senso ampio, la definizione della Corte comprende solo la partecipazione alla vita professionale.

91.      A mio avviso, tale differenza è dettata dalla portata della direttiva 2000/78, determinata dalle scelte politiche operate dal legislatore in tale settore particolare. In definitiva, essa è dunque inscindibilmente connessa alla questione di cosa rientri nella competenza dell’Unione europea e cosa non vi rientri. L’essenza della questione è pertanto la seguente: se la patologia di cui soffre la sig.ra Z pregiudichi le sue prospettive di partecipare alla vita professionale.

92.      Su questo punto, sottolineo che l’obiettivo perseguito dalla direttiva 2000/78, enunciato all’articolo 1, è quello di stabilire un quadro generale per la lotta alla discriminazione, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, fondata su uno dei motivi indicati in detta disposizione. Tra tali motivi figura l’handicap. Come sopra menzionato, detta nozione è stata successivamente definita nella giurisprudenza della Corte (59).

93.      Non ho dubbi sulla circostanza che una patologia come quella di cui soffre la sig.ra Z possa costituire una limitazione duratura, risultante, in particolare, «da menomazioni fisiche, mentali o psichiche». Per il desiderio di avere un figlio suo, la patologia di cui soffre la sig.ra Z è certamente per lei una fonte di grande tensione. Effettivamente, in considerazione della nozione più estensiva, di carattere sociale, della disabilità, derivante dalla Convenzione ONU, si può ipotizzare che in talune circostanze tale menomazione possa ostacolare la partecipazione piena ed effettiva di una persona nella società.

94.      Tuttavia, non sono persuaso che la direttiva 2000/78 si applichi alle circostanze specifiche della fattispecie.

95.      Non penso che la patologia di cui soffre la sig.ra Z ostacoli, ai sensi della giurisprudenza della Corte, «in interazione con barriere di diversa natura (…), la piena ed effettiva partecipazione della persona considerata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (il corsivo è mio). Infatti, come osservato dalla Corte, la nozione di «handicap», ai sensi della direttiva 2000/78, deve essere intesa in relazione alle possibilità per detta persona di lavorare, e di svolgere un’attività professionale (60). Ciò sembra coerente con gli obiettivi perseguiti dalla direttiva, vale a dire la lotta alla discriminazione nel contesto specifico dell’impiego, consentendo, di conseguenza, ad una persona disabile di avere accesso e partecipare al mercato del lavoro.

96.      In altri termini, a causa del carattere intrinsecamente contestuale della disabilità, la questione di cosa costituisca un handicap ai sensi della direttiva 2000/78 deve essere esaminata caso per caso, alla luce della logica che sottende tale atto giuridico. Di conseguenza, la questione è se la menomazione di cui trattasi — in interazione con barriere specifiche, che siano fisiche, attitudinali o organizzative — costituisca un ostacolo all’esercizio di un’attività professionale.

97.      Per quanto profondamente ingiusta possa essere percepita l’incapacità di avere un figlio per vie naturali da una persona che desidera un figlio suo, non posso interpretare l’attuale contesto normativo europeo nel senso che esso si estenda a situazioni non correlate alla capacità lavorativa della persona interessata (61). A tale riguardo occorre porre in rilievo la natura intrinsecamente funzionale della nozione di handicap ai sensi della direttiva 2000/78. A mio avviso, affinché una limitazione rientri nella portata di tale direttiva, occorre stabilire una relazione tra siffatta limitazione e la capacità della persona interessata di svolgere un lavoro. Nelle circostanze come quelle della fattispecie in esame, detto nesso sembra mancare (62). Dal fascicolo processuale non emerge che la limitazione di cui soffre la sig.ra Z le avrebbe impedito di partecipare alla vita professionale.

98.      Ritengo, pertanto, che il trattamento meno favorevole lamentato dalla sig.ra Z non possa essere interpretato nel senso che esso rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 5 della direttiva 2000/78.

99.      Tuttavia, nel caso in cui la Corte dovesse dichiarare che la direttiva 2000/78 deve essere applicata alla situazione su cui verte la causa principale, desidero aggiungere le seguenti osservazioni in merito al requisito di «soluzione ragionevole», ai sensi dell’articolo 5 della direttiva.

b)      Soluzione ragionevole: definire un equilibrio tra gli interessi della persona disabile e quelli del datore di lavoro

100. Anche supponendo, in via puramente ipotetica, che la discriminazione lamentata dalla sig.ra Z rientri nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva, non vedo come l’articolo 5 della direttiva 2000/78 possa essere interpretato nel senso che esso impone ad un datore di lavoro di concedere un congedo retribuito ad una lavoratrice nelle condizioni della ricorrente. Infatti, ai sensi di detta disposizione, un datore di lavoro è tenuto, a determinate condizioni, ad adottare le misure adeguate per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione.

101. È vero che nulla, nella formulazione dell’articolo 5 o del considerando 20 della direttiva 2000/78, esclude a priori la possibilità di interpretare l’articolo 5 nel senso che esso imponga la concessione di un congedo retribuito al fine di assicurare una soluzione ragionevole.

102. Laddove l’articolo 5 prevede semplicemente che il datore di lavoro prende «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete», il considerando 20 enuncia un elenco non tassativo di misure che possono rivelarsi appropriate ad adattare il luogo di lavoro all’handicap: tali misure comprendono sia misure organizzative che misure intese ad adattare i locali alle esigenze dei disabili. È parimenti ovvio che la necessità e l’idoneità delle misure devono essere valutate in ogni singolo caso (63). Inoltre, alla luce dell’obiettivo dell’articolo 5 della direttiva 2000/78 — consentire ai disabili di essere assunti e di svolgere un lavoro —, tale disposizione deve essere interpretata estensivamente (64).

103. Di conseguenza, una soluzione ragionevole ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 2000/78 — e interpretata alla luce dell’articolo 2 della Convenzione ONU — può determinare spese per il datore di lavoro (dovute all’adattamento dei locali o alle misure organizzative). Sottolineo tuttavia che l’articolo 5 dichiara anche che siffatta soluzione non deve costituire un onere finanziario sproporzionato per il datore di lavoro. In forza del considerando 21 della direttiva 2000/78, occorre tenere conto, in particolare, dei «costi finanziari o di altro tipo che [siffatte misure] comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’impresa».

104. Su questo punto, mi sembra plausibile che, in talune circostanze, la concessione di un congedo (non retribuito) possa essere considerata adeguata per garantire che il lavoratore disabile possa continuare a lavorare e a partecipare all’attività professionale, ai sensi degli obiettivi della direttiva 2000/78. Tuttavia, trovo difficile accettare che dall’articolo 5 della direttiva 2000/78 si possa desumere un obbligo per il datore di lavoro di accordare un congedo retribuito.

105. Infatti, la logica che sottende l’obbligo di una soluzione ragionevole è quella di raggiungere un giusto equilibrio tra le esigenze dei disabili e quelle del datore di lavoro (65).

106. Nella sentenza Ring, la Corte ha dichiarato che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire una misura di accomodamento ragionevole, ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 2000/78. Si accetta dunque che l’obbligo di una soluzione ragionevole possa interferire con la libertà del datore di lavoro di gestire i suoi affari, e possa implicare un onere finanziario.

107. Sebbene sia presumibile che la riduzione dell’orario di lavoro costituisca un considerevole onere finanziario per il datore di lavoro, essa stabilisce un equilibrio tra gli interessi del lavoratore e quelli del datore di lavoro: infatti, come quid pro quo per la soluzione prevista, il lavoratore continua a contribuire alle prestazioni dell’impresa. Sebbene la questione non sia stata esplicitamente sollevata nella sentenza Ring, mi sembra che, al fine di definire un equilibrio adeguato tra gli interessi coinvolti, la riduzione dell’orario di lavoro come soluzione ragionevole implichi necessariamente una corrispondente riduzione nella retribuzione della persona interessata.

108. Contrariamente alla riduzione dell’orario di lavoro, la concessione di un congedo retribuito risponde unicamente agli interessi del lavoratore. A differenza della situazione sopra descritta, la concessione di un congedo retribuito non solo impone un rilevante onere finanziario al datore di lavoro, ma omette anche di garantire che, come contropartita dell’accomodamento, il lavoratore disabile continui a partecipare nell’attività professionale. Infatti, se la concessione di un congedo retribuito dovesse essere assimilata alla riduzione dell’orario di lavoro, occorrerebbe presumere che il lavoratore (disabile) ritorni senz’altro al lavoro dopo il periodo di congedo. Non si potrebbe nemmeno escludere che si rendessero necessari ulteriori periodi di assenza qualora il lavoratore decidesse di avere altri figli con un contratto analogo. Alla luce delle varie incertezze derivanti per il datore di lavoro dalla concessione di un congedo retribuito, a mio avviso dette misure non possono essere efficacemente raffrontate tra loro (66).

109. Inoltre, la limitazione di cui soffre una donna come la sig.ra Z e la sua esigenza di godere di un congedo retribuito non sembrano direttamente collegate. Infatti, una soluzione ragionevole esige che il datore di lavoro adotti misure che facilitino l’accesso e la partecipazione all’attività professionale (67). Ciò è confermato dall’articolo 5 della direttiva 2000/78, in combinato disposto con il considerando 20.

110. È certamente vero che la soluzione fornita deve essere adattata alle esigenze di ogni singolo caso. Tuttavia, posto che le misure in questione non hanno un nesso manifesto con la garanzia che il disabile di cui trattasi abbia accesso o sia in grado di partecipare alla vita professionale, a mio avviso l’articolo 5 non può essere interpretato nel senso che esso include un obbligo per il datore di lavoro di adottare siffatte misure. Orbene, proprio questo avviene nella causa principale. Dal fascicolo emerge che la necessità di assentarsi dal lavoro non è un corollario necessario per consentire alla sig.ra Z di continuare a partecipare all’attività professionale, ma piuttosto una conseguenza della sua decisione di fare ricorso alla maternità surrogata.

2.      L’impatto del diritto primario ed internazionale

111. Le questioni 4, 5 e 6 concernono la validità della direttiva 2000/78. Segnatamente, il giudice a quo vuole sapere se la direttiva sia compatibile, da un lato, con l’articolo 10 TFUE e con gli articoli 21, 26 e 34 della Carta e, dall’altro, con la Convenzione ONU.

112. L’articolo 10 TFUE contiene una norma generale che esprime un particolare obiettivo politico perseguito dall’Unione europea. Esso espone la finalità di combattere la discriminazione fondata, tra l’altro, sulla disabilità, un obiettivo perseguito dalla direttiva 2000/78 nel settore del lavoro e dell’occupazione. Sono del parere che detta disposizione di diritto primario non preveda diritti od obblighi specifici idonei a mettere in discussione la validità della direttiva 2000/78.

113. Posto che, a mio giudizio, la direttiva 2000/78 non è applicabile alle circostanze di specie, rinvio — per analogia — alle mie osservazioni sulla Carta ai paragrafi da 71 a 75 supra.

114. Per quanto concerne la questione della compatibilità tra la direttiva 2000/78 e la Convenzione ONU, osservo che gli obblighi imposti da quest’ultimo strumento internazionale sembrano rivolti agli Stati contraenti. Essi devono adottare misure appropriate — se necessario mediante legislazione — per dare attuazione ai diritti dei disabili enunciati nella Convenzione ONU (68). Data la sua forma programmatica, non posso interpretare tale Convenzione nel senso che essa contenga disposizioni che soddisfino i requisiti di condizionalità e di sufficiente precisione, sopra menzionati. Di conseguenza, non ritengo che si possa invocare la convenzione ONU per mettere in discussione la validità della direttiva 2000/78 (69).

115. Tratterò tuttavia brevemente le disposizioni menzionate dal giudice a quo.

116. Anzitutto, gli articoli 5, 6 e 28 della Convenzione ONU (70) non si riferiscono specificamente al lavoro e all’occupazione. Essi stabiliscono obblighi generali rivolti agli Stati contraenti di adottare misure per garantire il raggiungimento degli obiettivi della Convenzione ONU. Di conseguenza, non vedo come queste disposizioni possano servire da base per contestare la validità della direttiva 2000/78.

117. In secondo luogo, l’articolo 27, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione ONU prevede che «gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro, anche a coloro i quali hanno subìto una disabilità durante l’impiego, prendendo appropriate iniziative — anche attraverso misure legislative — in particolare al fine di proteggere il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di condizioni lavorative eque e favorevoli, compresa la parità di opportunità e l’uguaglianza di remunerazione per un lavoro di pari valore, (…)».

118. Questa disposizione lascia dunque alla discrezionalità degli Stati contraenti la determinazione delle misure da adottare. Pertanto, la libertà dell’Unione europea di adottare atti legislativi per promuovere la realizzazione dei diritti sanciti nella Convenzione ONU non è limitata dall’articolo 27, paragrafo 1, lettera b), della medesima.

119. Alla luce delle considerazioni che precedono, concludo che le questioni 3, 4, 5 e 6 debbano essere risolte nel senso che la direttiva 2000/78 non si applica in circostanze, come quelle della causa all’esame del giudice a quo, nelle quali a una donna, che soffre di una patologia che la rende incapace di sopportare una gravidanza e il cui figlio biologico sia nato per effetto di un contratto di maternità surrogata, venga rifiutato un congedo retribuito equivalente al congedo di maternità e/o per adozione. Siffatta conclusione non mette in dubbio la validità della direttiva.

D –    Osservazioni conclusive

120. Nonostante la conclusione che ho raggiunto supra, comprendo bene le difficoltà che i genitori affidatari si trovano indubbiamente ad affrontare a causa dell’incertezza giuridica inerente ai contratti di maternità surrogata in taluni Stati membri. Tuttavia, non credo che spetti alla Corte sostituirsi al legislatore, impegnandosi in un’interpretazione costruttiva che porterebbe a leggere nelle direttive 2006/54 e 2000/78 (ovvero nella direttiva 92/85) qualcosa che esse non contemplano e costituirebbe, a mio avviso, un’usurpazione della prerogativa legislativa.

121. Infatti, stabilire in sede giurisdizionale un diritto ad un congedo retribuito equivarrebbe a prendere posizione su questioni di natura etica, che devono essere ancora risolte con un procedimento legislativo. Se si ritiene che sia socialmente opportuno estendere la portata della protezione del congedo di maternità o per adozione (o creare una forma separata di congedo per i contratti di maternità surrogata), spetta agli Stati membri e/o al legislatore europeo adottare le misure legislative necessarie per raggiungere detto obiettivo.

IV – Conclusione

122. Di conseguenza, suggerisco alla Corte di rispondere alle questioni deferite dall’Equality Tribunal nel seguente modo:

–        La direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione), non si applica in circostanze nelle quali a una donna il cui figlio biologico sia nato per effetto di un contratto di maternità surrogata venga negato un congedo retribuito equivalente al congedo di maternità e/o per adozione.

L’esame delle questioni sollevate non ha messo in luce nessun elemento idoneo ad inficiare la validità della direttiva 2006/54.

–        La direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, non si applica in circostanze come quelle della causa presentata al giudice a quo, nelle quali a una donna affetta da una patologia che le impedisce di sostenere una gravidanza e il cui figlio biologico sia nato per effetto di un contratto di maternità surrogata venga negato un congedo retribuito equivalente al congedo per maternità e/o per adozione.

L’esame delle questioni sollevate non ha messo in luce nessun elemento idoneo ad inficiare la validità della direttiva 2000/78.


1 —      Lingua originale: l’inglese.


2 — Causa C‑167/12, pendente dinanzi alla Corte.


3 — Ratificata dall’Unione europea il 21 dicembre 2010. V. la decisione 2010/48/CE del Consiglio, del 26 novembre 2009, relativa alla conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (GU 2010, L 23, pag. 35; in prosieguo: la «decisione 2010/48»)


4 —      Direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1).


5 − L’articolo 2 definisce a) «lavoratrice gestante, ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali», e b) «lavoratrice puerpera, ogni lavoratrice puerpera ai sensi delle legislazioni e/o prassi nazionali che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente a dette legislazioni e/o prassi».


6 —      Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 23).


7 —      Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).


8 — Irish Statute Book, n. 34, 1994.


9 — Irish Statute Book, n. 2, 1995.


10 —      Per quanto concerne questi due tipi di congedo, il diritto alla retribuzione dipende dai termini del contratto di lavoro. Tuttavia, la persona interessata può avere diritto a prestazioni di maternità o adozione. Il Social Welfare (Consolidation) Act 2005 disciplina la concessione di prestazioni di maternità (capitolo 9) e di adozione (capitolo 11), sempre che siano soddisfatte talune condizioni.


11 —      Il Dipartimento di Stato responsabile per l’educazione nello Stato ha riconosciuto alla sig.ra Z la concessione del diritto ad un congedo non retribuito per il periodo in cui ella era in California, prima della nascita del bambino. Dopo la nascita, la sig.ra Z poteva fruire del congedo parentale di legge per il periodo dalla nascita del bambino sino alla fine dell’anno scolastico 2010 e, nuovamente, dall’inizio dell’anno scolastico successivo. Il periodo massimo di congedo parentale cui la ricorrente aveva diritto era di 14 settimane. La sig.ra Z aveva parimenti diritto alla sua retribuzione regolare durante i mesi estivi.


12 —      Per una panoramica dei contratti di maternità surrogata e delle relative questioni giuridiche v., ad esempio, Trimmings, K. e Beaumont, P., «General Report on Surrogacy», in Trimmings, K. and Beaumont, P. (eds), International Surrogacy Arrangements. Legal Regulation at the International Level, Hart Publishing, Oxford: 2013, pagg. da 439 a 549.


13 —      «Genitori affidatari» sono le coppie che si avvalgono della maternità surrogata per avere un figlio. In alcuni casi si parla anche di «genitori committenti».


14 —      Si tratta di una questione particolarmente problematica concernente i diritti della madre affidataria, come illustrato da una recente sentenza della High Court in Irlanda. V.M.R & Anor v An tArd Chlaraitheoir & Ors [2013] IEHC 91, in cui la Supreme Court è stata investita di un’impugnazione. Di fatto, sembra che in taluni Stati membri la donna che dà alla luce il figlio, ai sensi del principio mater semper certa est, sia considerata come la madre legale, nonostante il fatto che il bambino non sia necessariamente il suo figlio biologico. Tuttavia, lo status del padre biologico può essere meno complicato, poiché nella maggior parte delle giurisdizioni la presunzione di paternità è confutabile. Per le soluzioni giuridiche adottate nelle diverse giurisdizioni, v. Monéger, F. (ed.), Surrogate motherhood: XVIIIth Congress, Washington, D.C. 25—30 July 2010, Société de legislation comparée, Paris, 2011.


15 —      In relazione alla maternità surrogata internazionale, v. Brugger, K., «International law in the gestational surrogacy debate», Fordham International Law Journal, 3(35) 2012, pagg. da 665 a 697. Usando un linguaggio forte, ella si riferisce a questo fenomeno, inter alia, come al «commercio mondiale dei grembi materni» e all’«industria» della maternità surrogata.


16 —      V., ad esempio, Trimmings, K. and Beaumont, P., op. cit., pagg. da 503 a 528. V. anche Gamble, N., ‘International surrogacy law conference in Las Vegas 2011’, Family Law, February 2012, pagg. da 198 a 201, segnatamente per gli esempi citati.


17 —      V., segnatamente, sentenza del 26 febbraio 2008, Mayr (C‑506/06, Racc. pag. I‑1017, punto 31).


18 —      V. anche le conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Cólomer per la sentenza Mayr, cit., paragrafi 41 e 42.


19 —      Sentenza del 20 settembre 2007, Kiiski (C‑116/06, Racc. pag. I‑7643, punto 46 e la giurisprudenza ivi citata).


20 —      V. sentenza Mayr, cit., punto 44.


21 —      V., inter alia, le sentenze del 13 febbraio 1996, Gillespie e a. (C‑342/93, Racc. pag. I‑475, punto 17); del 27 ottobre 1998, Boyle e a. (C‑411/96, Racc. pag. I‑6401, punto 40); del 30 marzo 2004, Alabaster (C‑147/02, Racc. pag. I‑3101, punto 46); dell’8 settembre 2005, McKenna, C‑191/03 (Racc. pag. I‑7631, punto 50), e del 1° luglio 2010, Parviainen (C‑471/08, Racc. pag. I‑6533, punto 40). La Corte ha infatti ripetutamente sottolineato che le donne che si avvalgono del congedo di maternità, ai sensi della direttiva 92/85, si trovano in una situazione specifica, la quale richiede che venga loro concessa una tutela speciale, ma che non può essere assimilata a quella di un lavoratore, né a quella della lavoratrice effettivamente presente sul posto di lavoro o che gode di un congedo per malattia. V. anche le conclusioni dell’avvocato generale Kokott per la causa Terveys- ja sosiaalialan neuvottelujärjestö TSN (C‑512/11 e C‑513/11, pendente dinanzi alla Corte, paragrafi 47 e 48).


22 —      V. anche considerando 23 e 24 della direttiva 2006/54.


23 —      V. sentenza Mayr, cit., punto 53.


24 —      Direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40)


25 —      V. sentenza Mayr, cit., punto 54.


26 —      Segnatamente, un prelievo follicolare e il trasferimento nell’utero della donna degli ovuli prelevati immediatamente dopo la loro fecondazione.


27 —      V. sentenza Mayr, cit., punto 50.


28 —      Sentenza dell’8 novembre 1990 (C‑177/88, Racc. pag. I‑3941, punto 12). A giudizio della Corte, una decisione di non assumere una donna perché incinta costituisce discriminazione illegittima perché un diniego d’ assunzione per motivo di gravidanza può opporsi solo alle donne.


29 —      V., segnatamente, sentenza McKenna, cit., punti da 45 a 54 e la giurisprudenza ivi citata. Infatti, a causa della condizione particolare della gravidanza, le lavoratrici incinte sono protette dal licenziamento durante l’intera gravidanza, sino alla fine del congedo di maternità. Tuttavia, alla fine del congedo, sorge la questione se una lavoratrice sia trattata allo stesso modo di un lavoratore con riguardo all’assenza a causa di malattia. In caso affermativo, non si configura alcuna discriminazione per motivi di sesso.


30 —      Il testo originale dell’articolo 2, paragrafo 3, della stessa direttiva precisava che essa non pregiudicava «le disposizioni relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità».


31 —      V. sentenza Mayr, cit., punto 51.


32 —      A questo riguardo, il potere discrezionale degli Stati membri è limitato dalla direttiva 2010/18/UE del Consiglio, dell’8 marzo 2010, che attua l’accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale concluso da BUSINESSEUROPE, UEAPME, CEEP e CES e abroga la direttiva 96/34/CE (GU L 68, pag. 13). Ai sensi della clausola 2, punto 1, dell’accordo quadro, l’«accordo attribuisce ai lavoratori di ambo i sessi il diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un figlio, affinché possano averne cura fino a una determinata età, non superiore a otto anni, che deve essere definita dagli Stati membri e/o dalle parti sociali».


33 —      Recentemente la Corte ha anche affermato che l’applicazione del principio di parità di trattamento sancito dal diritto dell’Unione non si estende al diverso trattamento dei padri biologici a fronte dei padri adottivi in un contesto normativo nazionale che esuli dalla sfera di applicazione del diritto dell’Unione (v. sentenza del 19 settembre 2013, C‑5/12, Betriu Montull, punti da 71 a 73).


34 —      Ciò detto, la direttiva 2006/54 potrebbe ciononostante trovare applicazione in talune circostanze specifiche. Ciò avverrebbe nel caso in cui una donna, divenuta madre per effetto di un contratto di maternità surrogata e che gode di un congedo retribuito in forza del diritto nazionale, sia soggetta a discriminazione per aver invocato il diritto al congedo, o se una donna fosse licenziata, in sostanza, soltanto perché è divenuta madre o si è avvalsa di detto congedo. Questo tipo di trattamento, tuttavia, non costituisce l’oggetto del procedimento all’esame del giudice a quo.


35 —      Infatti, secondo un principio ermeneutico generale, un atto comunitario dev’essere interpretato, nei limiti del possibile, in modo da non rimettere in discussione la sua validità e in conformità con l’insieme del diritto primario. V., inter alia, la sentenza del 16 settembre 2010, Chatzi (C‑149/10, Racc. pag. I‑8489, punto 43 e la giurisprudenza ivi citata).


36 —      Per casi recenti in cui, con ordinanza motivata, la Corte ha declinato la propria competenza non avendo potuto stabilire siffatto nesso, v., inter alia, le sentenze del 12 luglio 2012, Currà e a. (C‑466/11), e del 7 marzo 2013, Sindicato dos Bancários do Norte e a. (C‑128/13). V. anche sentenza dell’8 novembre 2012, Iida (C‑40/11, punti da 78 a 81).


37 —      Recentemente, è stata accertata l’esistenza di un legame sufficientemente stretto con il diritto dell’Unione, inter alia, nelle sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10; v., segnatamente, il punto 27), e del 21 dicembre 2011, N.S. (C‑411/10 e C‑493/10, Racc. pag. I‑13905, punto 68). Per quanto attiene ad un opposto orientamento, v. la sentenza Betriu Montull, cit., punto 72.


38 —      Sentenze del 5 ottobre 2010, McB (C‑400/10 PPU, Racc. pag. I‑8965, punti 51 e 52), e del 15 novembre 2011, Dereci e a. (C‑256/11, Racc. pag. I‑11315, punto 71). Per chiarire, se una disposizione di diritto dell’Unione non può essere interpretata in conformità con i diritti fondamentali dell’Unione, detta norma deve essere dichiarata invalida. V. sentenza del 1° marzo 2011, Association belge des Consommateurs Test‑Achats e a. (C‑236/09, Racc. pag. I‑773, punti da 30 a 34).


39 —      V., allo stesso modo, le conclusioni presentate dall’avvocato generale Jääskinen, nella causa Google Spain and Google (C‑131/12, pendente dinanzi alla Corte, paragrafo 54).


40 —      V. le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston per la sentenza del 19 novembre 2009, Sturgeon e a. (C‑402/07 e C‑432/07, Racc, pag. I‑10923, paragrafo 91).


41 —      Ibid.


42 —      Regolamento (CE) n. 261/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 febbraio 2004, che istituisce regole comuni in materia di compensazione e assistenza ai passeggeri in caso di negato imbarco, di cancellazione del volo o di ritardo prolungato e che abroga il regolamento (CEE) n. 295/91 (GU L 46, pag. 1).


43 —      V. sentenza Sturgeon e a., cit., segnatamente il punto 60.


44 —      V., mutatis mutandis, la sentenza del 15 giugno 1978, Defrenne (149/77, Racc. pag. 1365, punto 24).


45 —      Sentenza dell’11 aprile 2013 (C‑335/11 e C‑337/11).


46 —      Ibidem, punto 32.


47 —      Sentenza del 21 dicembre 2011, Air Transport Association of America e a. (C. 366/10, Racc. pag. I‑13755, punto 50 e giurisprudenza ivi citata). V. anche la sentenza del 22 novembre 2012, Digitalnet (C‑320/11, C‑330/11, C‑382/11 e C‑383/11, punto 39 e la giurisprudenza ivi citata).


48 —      V. anche l’appendice alla decisione 2010/48 del Consiglio.


49 —      Sentenza del 12 luglio 2012, Association Kokopelli (C‑59/11, punto 85 e la giurisprudenza ivi citata).


50 —      V. ad esempio, Oliver, M., Understanding Disability: From Theory to Practice, Palgrave Macmillan, Basingstoke: 2009 (2a ed.); v., segnatamente, pagg. da 44 a 46.


51 —      Considerando e) e articolo 1 della Convenzione ONU.


52 —      V., ad esempio, Waddington, L., «The European Union and the United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities: A Story of Exclusive and Shared Competences», Maastricht Journal of European and Comparative Law, 4(18) 2011, pagg. da 431 a 453, a pag. 436.


53 —      Kelemen, R.D., Eurolegalism: The Transformation of Law and Regulation in the European Union, Harvard University Press, Cambridge Massachusetts, 2011, pag. 202.


54 —      Sentenza dell’11 luglio 2006 (C‑13/05, Racc. pag. I‑6467).


55 —      Ibid., punti 40 e 41.


56 —      Ibidem, punto 43.


57 —      V. sentenza Ring, cit., punto 38.


58 —      Ibidem, punto 39.


59 —      V. sentenza Chacon Navas, punto 41, e Ring, punti 38 e 39.


60 —      Sentenza Ring, punto 44.


61 —      Tuttavia, non si può escludere la possibilità che tale conclusione sarebbe diversa se, ad esempio, la sig.ra Z fosse stata licenziata per motivi relativi alla patologia di cui soffre o se non fosse stata assunta unicamente a causa della sua limitazione.


62 —      Per siffatto nesso nel contesto delle patenti di guida, v. paragrafo 31 delle conclusioni dell’avvocato generale nella causa Glatzel (C‑356/12, attualmente pendente dinanzi alla Corte).


63 —      V. anche l’articolo 2 della Convenzione ONU, ai sensi del quale per «accomodamento ragionevole» si intendono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali».


64 —      V., più di recente, la sentenza del 4 luglio 2013, Commissione/Italia (C‑312/11, punto 58). V. anche sentenza Ring, punto 56, e le conclusioni dell’avvocato generale Kokott per la sentenza Ring, paragrafi da 54 a 57.


65 —      V. anche le conclusioni dell’avvocato generale Kokott per la sentenza Ring, paragrafo 57, in fine: la direttiva 2000/78 richiede «un congruo bilanciamento tra l’interesse del lavoratore disabile ad ottenere misure a suo sostegno, e quello del datore di lavoro a non subire ad ogni costo interferenze nella sua organizzazione lavorativa o perdite economiche».


66 —      A mio avviso, un termine di paragone più appropriato può ravvisarsi nella concessione di congedo non retribuito, con il quale la differenza concerne il livello e non il tipo. Analogamente a quanto avviene nella riduzione dell’orario di lavoro, il lavoratore non riceve una retribuzione per il periodo durante il quale cessa di svolgere le sue mansioni. Dall’ordinanza di rinvio emerge che la sig.ra Z ha avuto la possibilità di assentarsi dal lavoro sia prima che dopo la nascita del figlio.


67 —      La soluzione di cui trattasi assume certamente forme diverse. Oltre alle misure sopra menzionate (l’adattamento dei locali e misure organizzative), è del tutto plausibile che la soluzione possa anche includere una modifica dei modelli di lavoro e una ridistribuzione specifica dei compiti. Per le persone che soffrono di depressione, ad esempio, può essere necessario che i datori di lavoro garantiscano che non siano esposte a situazioni che generano stress.


68 —      V., segnatamente, l’articolo 4 della Convenzione ONU che dispone, con il titolo «Obblighi generali», che «[g]li Stati Parti si impegnano a garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità senza discriminazioni di alcun tipo sulla base della disabilità». Tale disposizione elenca inoltre talune misure che devono essere adottate per raggiungere gli obiettivi perseguiti dalla Convenzione.


69 —      Ciò premesso, non è necessario determinare se «la natura e l’economia generale» della Convenzione consentano alla Corte di esaminare la validità della direttiva 2000/78.


70 —      L’articolo 5 prevede, inter alia, che gli Stati contraenti «vietino ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantiscano alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento» e «adott[i]no tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli». L’articolo 6 riconosce esplicitamente che le donne e le minori con disabilità sono soggette a discriminazioni multiple e impone agli Stati contraenti di adottare «misure per garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle donne e delle minori con disabilità». L’articolo 28, paragrafo 2, lettera b), riconosce il diritto delle persone con disabilità alla protezione sociale e il dovere dello Stato di tutelare e promuovere l’esercizio di questo diritto, tra l’altro «garantendo l’accesso delle persone con disabilità, in particolare delle donne e delle minori con disabilità nonché delle persone anziane con disabilità, ai programmi di protezione sociale ed a quelli di riduzione della povertà».