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CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

PAOLO MENGOZZI

presentate il 1° giugno 2010 (1)

Cause riunite C‑57/09 e C‑101/09

Bundesrepublik Deutschland

contro

B (C‑57/09) e D (C‑101/09)

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Bundesverwaltungsgericht (Germania)]

«Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato – Cause di esclusione dallo status di rifugiato – Art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE – Passata partecipazione del richiedente alle attività di un’organizzazione iscritta nell’elenco di persone, gruppi ed entità a cui si applica la posizione comune 2001/931/PESC»






1.        Con due ordinanze successive, il Bundesverwaltungsgericht (Germania) ha sottoposto alla Corte, in virtù degli artt. 68, n. 1, e 234 CE, una serie di questioni pregiudiziali vertenti, da un lato, sull’interpretazione dell’art. 12, n. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (in prosieguo: la «direttiva») (2), e, dall’altro, sull’interpretazione dell’art. 3 di questa stessa direttiva. Tali questioni sono state sollevate nel quadro delle controversie che oppongono la Repubblica federale tedesca, rappresentata dal Bundesministerium des Inneren (Ministero federale degli Interni), a sua volta rappresentato dal Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Ufficio federale per la migrazione e i profughi, in prosieguo: il «Bundesamt») a B (causa C‑57/09) e D (causa C‑101/09), relativamente al rigetto da parte del Bundesamt della domanda di asilo presentata da B e alla revoca da parte di questa stessa autorità dello status di rifugiato inizialmente accordato a D.

I –    Contesto normativo

A –    Diritto internazionale

1.      La Convenzione di Ginevra del 1951 sullo statuto dei rifugiati

2.        La Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati (in prosieguo: la «Convenzione del 1951» o la «Convenzione») (3) è stata approvata il 28 luglio 1951 da una conferenza speciale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite ed è entrata in vigore il 22 aprile 1954. Completata da un protocollo adottato nel 1967 che ne ha esteso l’ambito di applicazione inizialmente limitato ai rifugiati provocati dalla seconda guerra mondiale, essa definisce la nozione di «rifugiato» e fissa i diritti e gli obblighi connessi allo status di rifugiato. Conta attualmente 146 Stati firmatari.

3.        L’art. 1, dopo aver definito, alla sezione A, la nozione di «rifugiato» ai fini della Convenzione, precisa quanto segue alla sezione F, lett. a), b) e c):

«Le disposizioni della presente Convenzione non sono applicabili alle persone di cui vi sia serio motivo di sospettare che:

a)      hanno commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, nel senso degli strumenti internazionali contenenti disposizioni relative a siffatti crimini;

b)      hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori del paese ospitante prima di essere ammesse come rifugiati;

c)       si sono rese colpevoli di atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite» (4).

4.        L’art. 33 della Convenzione, intitolato «Divieto di espulsione e di rinvio al confine» stabilisce:

«1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche.

La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese».

2.      Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite

5.        Il 28 settembre 2001, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (in prosieguo: il «Consiglio di sicurezza»), agendo in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, ha adottato la risoluzione 1373 (2001). In forza del paragrafo 2, lett. c), di tale risoluzione gli Stati «rifiutano di dare asilo a coloro che finanziano, organizzano, sostengono o commettono atti di terrorismo ovvero ne nascondono gli autori» (5). Ai sensi del successivo paragrafo 3, lett. f) e g), è richiesto agli Stati «di prendere le misure appropriate, conformemente alle disposizioni pertinenti della legislazione nazionale e del diritto internazionale, comprese le norme internazionali relative ai diritti dell’uomo, al fine di assicurarsi, prima di concedere lo statuto di rifugiato, che i richiedenti l’asilo non abbiano organizzato o facilitato la perpetrazione di atti terroristici e non vi abbiano preso parte» e di «vegliare, conformemente al diritto internazionale, affinché gli autori o gli organizzatori di atti terroristici o coloro che agevolano tali atti non utilizzino a loro profitto lo statuto di rifugiato, e affinché la rivendicazione di motivazioni politiche non sia considerata tale da giustificare il rigetto di domande di estradizione di presunti terroristi». Infine, al paragrafo 5 di tale risoluzione, il Consiglio di sicurezza dichiara «che gli atti, metodi e pratiche terroristici sono contrari alle finalità e ai principi dell’[ONU] e che il finanziamento e l’organizzazione di atti terroristici o l’istigazione a commettere tali atti, compiuti scientemente, sono altresì contrari alle finalità e ai principi dell’[ONU]» (6).

6.        Dichiarazioni sostanzialmente dello stesso tenore si ritrovano anche in risoluzioni successive, relative alle minacce alla pace internazionale e alla sicurezza causate dal terrorismo, a partire dalla risoluzione 1377 (2001), alla quale è allegata una dichiarazione del Consiglio di sicurezza a livello ministeriale, in cui si riafferma inoltre «l’inequivocabile condanna di tutti gli atti, metodi e pratiche terroristici come criminali e non giustificabili, indipendentemente dalle loro motivazioni, in tutte le loro forme e manifestazioni, ovunque e da chiunque commessi» (7).

B –    Diritto dell’Unione

1.      Diritto primario

7.        In base all’art. 2 TUE «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze (…)». Il successivo art. 3, n. 5, TUE dispone che l’Unione contribuisce «alla tutela dei diritti umani (…) e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite».

8.        Ai termini dell’art. 6, n. 1, primo comma, TUE l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (nel prosieguo: la «Carta») che ha lo stesso valore giuridico dei trattati. L’art. 18 della Carta dichiara che «il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione [del 1951] (…), e a norma del Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea».

9.        In base all’art. 63, primo comma, punto 1), lett. c), CE, il Consiglio, entro un periodo di cinque anni dall’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam adotta misure in materia di asilo, a norma della Convenzione del 1951, e degli altri trattati pertinenti, in particolare nel settore delle «norme minime relative all’attribuzione della qualifica di rifugiato a cittadini di paesi terzi».

2.      La posizione comune 2001/931/PESC

10.      In base ai suoi «considerando», la posizione comune 2001/931/PESC del 27 dicembre 2001 relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo, adottata in forza degli artt. 15 UE e 34 UE, mira a dare attuazione alle misure contro il finanziamento del terrorismo contenute nella sopramenzionata risoluzione del Consiglio di sicurezza 1373 (2001) (8). Ai sensi del suo art. 1, n. 1, essa si applica «alle persone, gruppi ed entità, elencati nell’allegato, coinvolti in atti terroristici». Il successivo n. 2 dispone che, ai fini della posizione comune, per «persone, gruppi ed entità coinvolti in atti terroristici» si intendono «persone che compiono, o tentano di compiere, atti terroristici o vi prendono parte o li agevolano» e «gruppi ed entità posseduti o controllati direttamente o indirettamente da tali persone; e persone, gruppi ed entità che agiscono a nome o sotto la guida di tali persone, gruppi ed entità, inclusi i capitali provenienti o generati da beni posseduti o controllati direttamente o indirettamente da tali persone o da persone, gruppi ed entità ad esse associate». Il n. 3 dell’art. 1 contiene le definizioni di «atto terroristico» e di «gruppo terroristico» ai sensi della posizione comune. In forza degli artt. 2 e 3 della stessa «la Comunità europea, nei limiti dei poteri che le sono conferiti dal trattato che istituisce la Comunità europea, ordina il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie o economiche delle persone, gruppi ed entità elencati nell’allegato» e «garantisce che i capitali, le risorse finanziarie o economiche o i servizi finanziari o altri servizi connessi non siano messi a disposizione, direttamente o indirettamente» di tali persone, gruppi ed entità.

11.      A norma dell’art. 1 della posizione comune 2002/340/PESC del 2 maggio 2002 (9), l’elenco di persone, gruppi ed entità cui si applica la posizione comune 2001/931 è stato aggiornato per la prima volta. In tale occasione, sono stati inclusi nell’elenco il «Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK)» e «l’Esercito/Fronte/Partito rivoluzionario popolare di liberazione (DHKP/C) [anche noto come Devrimci Sol (Sinistra rivoluzionaria), Dev Sol]», con efficacia dalla data di adozione della posizione comune (art. 2) (10).

3.      La decisione quadro 2002/475/GAI

12.      La decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 sulla lotta contro il terrorismo (11) fornisce una definizione comune dei reati terroristici, dei reati riconducibili a un’organizzazione terroristica e dei reati connessi ad attività terroristiche e stabilisce che ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie per garantire che tali reati siano punibili con sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive, che possono comportare l’estradizione. In base al suo art. 2, intitolato «Reati riconducibili a un’organizzazione terroristica», ai fini della decisione quadro, si intende per «organizzazione terroristica» «l’associazione strutturata di più di due persone, stabilita nel tempo, che agisce in modo concertato allo scopo di commettere dei reati terroristici». Il n. 2 di tale articolo dispone che ciascuno Stato membro «adotta le misure necessarie affinché siano punibili i seguenti atti intenzionali: a) direzione di un’organizzazione terroristica; b) partecipazione alle attività di un’organizzazione terroristica, anche fornendo le informazioni o mezzi materiali, ovvero tramite qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività nella consapevolezza che tale partecipazione contribuirà alle attività criminose dell’organizzazione terroristica».

4.       La direttiva

13.      Nel corso della riunione straordinaria tenutasi a Tampere il 15 e 16 ottobre 1999, il Consiglio europeo conveniva «di lavorare all’istituzione di un regime europeo comune in materia di asilo, basato sull’applicazione della Convenzione di Ginevra in ogni sua componente», che comportasse, secondo il calendario stabilito nel Trattato di Amsterdam e nel piano d’azione di Vienna, in un primo tempo, l’adozione, segnatamente, di «norme comuni per una procedura di asilo equa ed efficace» e «il ravvicinamento delle normative relative al riconoscimento e agli elementi sostanziali dello status di rifugiato» (12).

14.      Conformemente a tale obiettivo programmatico la direttiva mira, come precisato nel suo sesto ‘considerando’, da un lato, «[a]d assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale» e, dall’altro, «[a]d assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri». Come si evince, in particolare, dai suoi ‘considerando’ sedicesimo e diciassettesimo, la direttiva intende fissare «norme minime per la definizione e il contenuto dello status di rifugiato, al fine di orientare le competenti autorità nazionali degli Stati membri nell’applicazione della convenzione di Ginevra» e «criteri comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo, della qualifica di rifugiati ai sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra». Il terzo ‘considerando’ della direttiva enuncia che la Convenzione di Ginevra e il protocollo del 1967 costituiscono «la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati», e il quindicesimo ‘considerando’ riconosce che le «consultazioni con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati possono offrire preziose indicazioni agli Stati membri all’atto di decidere se riconoscere lo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione [del 1951]». L’ottavo ‘considerando’ precisa che «discende dalla natura stessa delle norme minime che gli Stati membri dovrebbero avere facoltà di stabilire o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli per i cittadini di paesi terzi o per gli apolidi che chiedono ad uno Stato membro protezione internazionale, qualora tale richiesta sia intesa come basata sul fatto che la persona interessata è o un rifugiato ai sensi dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra o una persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale». Infine, ai sensi del ventiduesimo ‘considerando’ della direttiva, «gli atti contrari ai fini e ai principi delle Nazioni unite sono enunciati nel preambolo e agli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni unite e si rispecchiano, tra l’altro, nelle risoluzioni delle Nazioni unite relative alle misure di lotta al terrorismo, nelle quali è dichiarato che “atti, metodi e pratiche di terrorismo sono contrari ai fini e ai principi delle Nazioni unite” e che “chiunque inciti, pianifichi, finanzi deliberatamente atti di terrorismo compie attività contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni unite”».

15.      In base al suo art. 1, intitolato «Oggetto e campo di applicazione» la direttiva «stabilisce norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta». L’art. 2 contiene alcune definizioni ai sensi della direttiva. In particolare, conformemente alla lett. c) di tale articolo, si intende per «rifugiato», il «cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12».

16.      In base all’art. 3 della direttiva, intitolato «Disposizioni più favorevoli», gli Stati membri «hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati o persone ammissibili alla protezione sussidiaria nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale, purché siano compatibili con le disposizioni della presente direttiva».

17.      L’art. 12 della direttiva, intitolato «Esclusione», fa parte del Capo III «Requisiti per essere considerato rifugiato». I nn. 2 e 3 di tale articolo dispongono:

«Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato ove sussistano fondati motivi per ritenere:

a)      che abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

b)       che abbia commesso al di fuori del paese di accoglienza un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, ossia prima del momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato, abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possono essere classificati quali reati gravi di diritto comune;

c)       che si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni unite.

3. Il paragrafo 2 si applica alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati».

18.      Ai sensi dell’art. 14, n. 3, lett. a), della direttiva, inserito nel Capo IV «Status di rifugiato», gli Stati membri revocano, cessano o rifiutano di rinnovare lo status di rifugiato di un cittadino di un paese terzo o di un apolide qualora, successivamente al riconoscimento dello status di rifugiato, lo Stato membro interessato abbia stabilito che «la persona in questione avrebbe dovuto essere esclusa o è esclusa dallo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 12».

19.      Il Capo VII «Contenuto della protezione internazionale» detta norme che definiscono gli obblighi degli Stati membri nei confronti dei beneficiari dello status di rifugiato, per quanto concerne, in particolare, il rilascio del permesso di soggiorno e dei documenti di viaggio, l’accesso all’occupazione, all’istruzione, all’alloggio, l’assistenza sociale e sanitaria. Rientra in tale capo anche l’art. 21, intitolato «Protezione dal respingimento», il cui n. 1 stabilisce che gli Stati membri rispettano il principio di «non refoulement» in conformità dei propri obblighi internazionali.

C –    Il diritto nazionale

20.      In forza dell’art. 16a del Grundgesetz (legge fondamentale) «i perseguitati politici beneficiano del diritto di asilo». In base alle indicazioni fornite dal giudice di rinvio la normativa tedesca relativa allo status di rifugiato, per quanto riguarda gli aspetti che rilevano nel presente giudizio, può essere ricostruita come segue.

21.      Il riconoscimento dello status di rifugiato era inizialmente disciplinato dall’art. 51, del Gesetz über die Einreise und den Aufenthalt von Ausländern im Bundesgebiet (legge sull’entrata e il soggiorno degli stranieri sul territorio federale, «Ausländerngesetz»). Il n. 3 di tale articolo è stato modificato, con effetto dal 1° gennaio 2002, dal Terrorismusbekämpfungsgesetz (legge sulla lotta al terrorismo), il quale ha introdotto le cause di esclusione dello status di rifugiato previste dall’art. 1, sezione F, della Convenzione di Ginevra.

22.      Dopo l’entrata in vigore, il 27 agosto 2007, del Gesetz zur Umsetzung aufenthalts- und asylrechtlicher Richtlinien der Europäischen Union (legge di trasposizione delle direttive dell’Unione europea in materia di diritto di soggiorno e di asilo «Richtlinienumsetzungsgesetz») del 19 agosto 2007, con cui è stata trasposta anche la direttiva 2004/83, le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato risultano dal combinato disposto degli artt. 60, n. 1, del Gesetz über den Aufenthalt, die Erwerbstätigkeit und die Integration von Ausländern im Bundesgebiet (legge sul soggiorno, il lavoro e l’integrazione degli stranieri sul territorio federale «Aufenthaltsgesetz») e dell’art. 3, n. 1, dell’Asylverfahrensgesetz (legge sulla procedura d’asilo). Ai sensi di tale ultima disposizione «uno straniero è considerato rifugiato ai sensi della [Convenzione del 1951] quando, nel paese di cui ha la cittadinanza, è esposto alle minacce elencate all’art. 60, n. 1, dell’[Aufenthaltgesetz]».

23.      L’art. 3, n. 2, punti 2 e 3, dell’Asylenverfahrengesetz, che ha sostituito, a partire dal 27 agosto 2007, l’art. 60, n. 8, seconda frase, dell’Aufenthaltgesetz, il quale, a sua volta, ha sostituito l’art. 51, n. 3, seconda frase, dell’Ausländerngesetz, traspone in diritto tedesco l’art. 12, nn. 2 e 3, della direttiva. Esso dispone, tra l’altro, che un cittadino straniero è escluso dallo status di rifugiato, ai sensi del n. 1, quando esistono seri motivi per ritenere:

«2. che abbia commesso un reato grave di diritto comune fuori dal territorio nazionale prima di esservi ammesso come rifugiato, in particolare un’azione crudele, anche se tale reato è stato commesso con un obiettivo asseritamene politico o

3. che abbia commesso atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite».

24.      In base all’art. 3, n. 2, seconda frase, quanto previsto alla prima frase vale altresì per i cittadini stranieri che hanno istigato tali reati o atti o che vi hanno altrimenti concorso.

25.      L’art. 73, n. 1, dell’Asylenverfahrengesetz (legge sulla procedura d’asilo), come modificato, dispone che il diritto di asilo e lo status di rifugiato sono revocati immediatamente se le condizioni richieste per il loro riconoscimento non sono più soddisfatte.

II – Le cause nazionali, le questioni pregiudiziali e il procedimento dinanzi alla Corte

A –    La causa Bundesrepublik Deutschland/B (C‑57/09)

26.      B, nato nel 1975, è un cittadino turco di origine curda. Verso la fine del 2002 si è recato in Germania, dove ha fatto richiesta di asilo. In tale occasione, ha dichiarato di aver simpatizzato, in Turchia, con il Dev Sol (diventato DHKP/C), quando ancora era studente e di aver sostenuto la lotta armata della guerriglia sulle montagne tra la fine del 1993 e l’inizio del 1995. Dopo il suo arresto, nel febbraio del 1995, avrebbe subito gravi sevizie fisiche e sarebbe stato costretto a rilasciare una dichiarazione sotto tortura. Nel dicembre 1995, sarebbe stato condannato all’ergastolo e nel 2001 sarebbe stato nuovamente condannato all’ergastolo dopo essersi assunto la responsabilità dell’omicidio di un codetenuto. Nell’autunno del 2000 avrebbe partecipato a uno sciopero della fame e, a causa dei danni che ne sarebbero derivati per la sua salute, avrebbe beneficiato, nel dicembre 2002, di un periodo di libertà condizionata, del quale avrebbe approfittato per lasciare la Turchia. In ragione di tali avvenimenti soffrirebbe di una grave sindrome da stress post-traumatico nonché, a causa dello sciopero della fame, di lesioni cerebrali e di fenomeni di amnesia associati. Attualmente B sarebbe considerato come un traditore dal DHKP/C.

27.      Il 14 settembre 2004, il Bundesamt (13) ha respinto la richiesta di asilo dopo aver constatato che le condizioni richieste dall’art. 51, n. 1, dell’Ausländergesetz non erano soddisfatte. Il Bundesamt ha ritenuto applicabile la causa di esclusione prevista dall’art. 51, n. 3, seconda frase, seconda branca dell’alternativa, dell’Ausländergesetz (divenuto art. 3, n. 2, punto 2, dell’Asylenverfahrengesetz). Il Bundesamt ha inoltre constatato che non esistevano ostacoli all’espulsione di B verso la Turchia e lo ha dichiarato passibile di tale espulsione.

28.      Il 13 ottobre 2004 il Verwaltungsgericht di Gelsenkirchen ha annullato la decisione del Bundesamt e ha ingiunto a quest’ultimo di riconoscere il diritto d’asilo e di constatare l’esistenza delle condizioni per il divieto di espulsione di B verso la Turchia.

29.      Il 27 marzo 2007 l’Oberverwaltungsgericht für das Land Nordrhein-Westfalen ha respinto l’appello introdotto dal Bundesamt, ritenendo che dovesse riconoscersi a B il diritto d’asilo ai sensi dell’art. 16a del Grundgesetz e lo status di rifugiato. Secondo tale giudice, la causa di esclusione prevista dall’art. 51, n. 3, seconda frase, seconda branca dell’alternativa, dell’Ausländergesetz, non opererebbe quando risulti che il cittadino straniero non rappresenta più un pericolo – ad esempio perché ha abbandonato ogni attività terroristica ovvero a causa del suo stato di salute – e la sua applicazione richiederebbe una valutazione globale della singola fattispecie alla luce del principio di proporzionalità.

30.      Contro detta sentenza, il Bundesamt ha introdotto un ricorso dinanzi al Bundesverwaltungsgericht, invocando l’applicazione di entrambe le cause di esclusione previste dall’art. 51, n. 3, seconda frase, dell’Ausländergesetz (art. 3, n. 2, punti 2 e 3, dell’Asylenverfahrengesetz) e facendo valere che l’art. 12, n. 2, della direttiva, in cui figurano tali cause di esclusione, fa parte dei principi ai quali, in forza dell’art. 3 dello stesso atto, gli Stati non possono derogare. Il Vertreter des Bundesinteresses (commissario federale del governo) è intervenuto nel giudizio contestando la tesi sostenuta dal giudice d’appello.

B –    La causa Bundesrepublik Deutschland/D (C‑101/09)

31.      D, nato nel 1968, è un cittadino turco di origine curda. Nel maggio del 2001 si è recato in Germania, dove ha fatto richiesta di asilo. In tale occasione ha dichiarato di essere stato arrestato e torturato tre volte verso la fine degli anni ‘80 a causa del suo impegno per il diritto all’autodeterminazione dei Curdi. Nel 1990 sarebbe entrato a far parte del PKK, combattendo nella guerriglia e giungendo a rivestire il ruolo di alto rappresentante del partito. Verso la fine del 1998, il PKK l’avrebbe inviato nel nord dell’Iraq dove sarebbe rimasto fino al 2001. A causa di una divergenza politica con la dirigenza, avrebbe lasciato il PKK nel maggio del 2000 e da allora sarebbe considerato traditore e minacciato come tale. D teme persecuzioni sia da parte delle autorità turche sia da parte del PKK.

32.      Nel maggio del 2001, il Bundesamt (14) ha riconosciuto il diritto all’asilo di D in base alla legislazione in vigore all’epoca. A seguito dell’entrata in vigore, nel 2002, del Terrorismusbekämpfungsgesetz, il Bundeskriminalamt (polizia criminale federale) ha suggerito al Bundesamt di iniziare una procedura di revoca del diritto d’asilo. Secondo le informazioni in possesso della polizia federale, a partire dal febbraio del 1999, D sarebbe stato uno dei 41 dirigenti del PKK. Nell’agosto del 2000, l’Interpol di Ankara avrebbe lanciato un avviso di ricerca nei suoi confronti ritenendolo responsabile, tra il 1993 e il 1998, della partecipazione ad attentati che avrebbero causato complessivamente la morte di 126 persone e all’omicidio di due guerriglieri del PKK. Con decisione del 6 maggio 2004 il Bundesamt ha revocato a D il riconoscimento del diritto d’asilo e dello statuto di rifugiato in forza dell’art. 73, n. 1, dell’Asylenverfahrengesetz. Il Bundesamt ha ritenuto che pesassero su D fondati sospetti di aver commesso un reato grave di diritto comune al di fuori del territorio della Repubblica federale tedesca e di essersi reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite e che fossero pertanto applicabili nella specie le cause di esclusione previste inizialmente dall’art. 51, n. 3, seconda frase, dell’Ausländergesetz, poi dall’art. 60, n. 8, seconda frase, del Aufenthaltgesetz e, infine, dall’art. 3, n. 2, dell’ Asylenverfahrengesetz.

33.      Il 29 novembre 2005, il Verwaltungsgericht di Gelsenkirschen ha annullato la decisione di revoca. L’appello interposto dal Bundesamt è stato respinto dall’Oberverwaltungsgericht für das Land Nordrhein‑Westfalen con sentenza del 27 marzo 2007. Con un ragionamento analogo a quello seguito nella sentenza, resa lo stesso giorno, con la quale ha respinto l’appello del Bundesamt nel giudizio avente ad oggetto il rigetto della domanda d’asilo di B, detto giudice ha ritenuto inapplicabili anche nel caso di D le cause d’esclusione previste dalla normativa tedesca.

34.      Contro detta sentenza, il Bundesamt ha introdotto un ricorso dinanzi al Bundesverwaltungsgericht. Il Vertreter des Bundesinteresses è intervenuto nel giudizio contestando la tesi sostenuta dal giudice d’appello.

C –    Le questioni pregiudiziali

35.      Ritenendo che la soluzione delle controversie dipendesse dall’interpretazione della direttiva, con ordinanze del 14 ottobre 2008 (C-57/09) e del 25 novembre 2008 (C‑101/09), il Bundesverwaltungsgericht ha sospeso i relativi procedimenti e ha sottoposto alla Corte per ciascun giudizio le seguenti cinque questioni pregiudiziali:

«1)      Se si configuri un reato grave di diritto comune ovvero un atto contrario alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, nel caso in cui

(causa C-57/09) il richiedente asilo abbia fatto parte di un’organizzazione che è iscritta nell’elenco delle persone, dei gruppi e delle entità di cui all’allegato della Posizione comune del Consiglio 17 giugno 2002 (15), relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo, e che opera con metodi terroristici, e il detto richiedente abbia attivamente sostenuto la lotta armata di tale organizzazione;

(causa C-101/09) lo straniero sia stato coinvolto per anni, in quanto guerrigliero e funzionario, e per un periodo anche come membro del comitato direttivo, in un’organizzazione (nella fattispecie: il PKK) che nella sua lotta armata contro lo Stato (nella fattispecie: la Turchia) ha continuato ad applicare anche metodi terroristici e che risulta iscritta nell’elenco delle persone, dei gruppi e delle entità di cui all’allegato della Posizione comune del Consiglio 17 giugno 2002, relativa all’applicazione di misure specifiche per la lotta al terrorismo e detto straniero abbia attivamente sostenuto in una posizione preminente la lotta armata di tale organizzazione.

2)      In caso di soluzione affermativa della prima questione: se l’esclusione dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE presupponga che il richiedente continui a costituire una fonte di pericolo.

3)      In caso di soluzione negativa della seconda questione: se l’esclusione dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE presupponga un vaglio di proporzionalità riferito al singolo caso.

4)      In caso di soluzione affermativa della terza questione:

a)      se nell’ambito del vaglio di proporzionalità vada considerato il fatto che il richiedente beneficia della tutela contro l’allontanamento coattivo dallo Stato in forza dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 4 novembre 1950 ovvero in forza di norme nazionali;

b)      se l’esclusione sia sproporzionata soltanto in casi eccezionali presentanti caratteristiche particolari.

5)      Se possa considerarsi compatibile con la direttiva 2004/83/CE, nel senso di cui all’art. 3 di quest’ultima, il fatto che

(causa C-57/09) il richiedente, malgrado l’esistenza di una causa di esclusione ai sensi dell’art. 12, n. 2, della medesima direttiva, sia titolare di un diritto di asilo in forza di norme costituzionali nazionali;

(causa C-101/09) lo straniero, malgrado la sussistenza di una causa di esclusione ai sensi dell’art. 12, n. 2, della citata direttiva e la revoca dello status di rifugiato in conformità dell’art. 14, n. 3, della medesima, continui ad essere riconosciuto come titolare di un diritto di asilo in forza di norme costituzionali nazionali».

D –    Il procedimento dinanzi alla Corte

36.      Con ordinanza del presidente della Corte del 4 maggio 2009 le cause C‑57/09 e C‑101/09 sono state riunite ai fini della procedura scritta e orale e della sentenza. Hanno presentato memorie e osservazioni scritte, a norma dell’art. 23, n. 2, dello Statuto della Corte, B, D, il Regno di Svezia, il Regno dei Paesi Bassi, la Repubblica francese, il Regno Unito e la Commissione. B, D, i governi sopra menzionati, la Commissione e la Repubblica federale tedesca sono stati sentiti all’udienza tenutasi il 9 marzo 2010.

III – Analisi

A –    Osservazioni preliminari

37.      Prima di passare all’esame delle questioni pregiudiziali, occorre premettere alcune brevi considerazioni.

38.      Anzitutto, rilevo che i provvedimenti di diniego e di revoca del riconoscimento del diritto d’asilo e dello status di rifugiato, emessi rispettivamente nei confronti di B e di D, sono stati adottati sulla base della normativa in vigore anteriormente alla trasposizione della direttiva in diritto tedesco (avvenuta con il Richtilinienumsetzungsgesetz, entrato in vigore il 27 agosto 2007), e recano una data antecedente alla scadenza del termine imposto agli Stati membri per il recepimento della stessa (10 ottobre 2006) (16). Nonostante ciò, il Bundesverwaltungsgericht ritiene pertinenti le questioni pregiudiziali poste alla Corte. In sostanza, esso ritiene che qualora una o entrambe le cause di esclusione previste dall’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva fossero applicabili a B e D, ciò osterebbe all’annullamento dei provvedimenti adottati nei loro confronti. In particolare, trattandosi di D, il giudice di rinvio parte dall’assunto che l’art. 14, n. 3, della direttiva impone di revocare lo status di rifugiato riconosciuto a chi avrebbe dovuto essere escluso ai sensi dell’art. 12, anche qualora tale riconoscimento sia avvenuto prima dell’entrata in vigore della direttiva. Ne consegue, secondo tale giudice, che, quand’anche risultasse illegittimo in forza delle norme vigenti alla data di adozione, il provvedimento di revoca emesso nei confronti di D non potrebbe comunque essere annullato, in virtù del primato del diritto dell’Unione, dovendo essere immediatamente sostituito con un provvedimento di identico contenuto. D’altro canto, il giudice di rinvio lascia in sospeso la questione se, in base al diritto tedesco, una modifica della situazione giuridica possa giustificare una revoca del riconoscimento dello status di rifugiato. Non ritengo che gli elementi esposti possano mettere in discussione la ricevibilità del rinvio pregiudiziale. In linea di principio, spetta infatti al giudice nazionale valutare la pertinenza delle questioni sottoposte alla Corte ai fini della soluzione della controversia di cui è chiamato a conoscere. Quanto alla competenza della Corte, trattandosi di situazioni non coperte ratione temporis dalla direttiva, mi limito a rinviare a quanto recentemente affermato dalla Corte al punto 48 della sentenza Aydin Salahadin Abdulla e a. (17).

39.      Osservo inoltre che, basandosi sulle constatazioni in fatto del giudice d’appello, cui è vincolato nel quadro del ricorso di cui è investito, il Bundesverwaltungsgericht ha accertato la sussistenza, in capo a B e D, dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi tanto delle disposizioni di diritto nazionale applicabili prima della trasposizione della direttiva che di quest’ultima e si interroga unicamente circa l’applicazione nei loro confronti di una causa di esclusione da tale status. La Corte non è dunque in alcun modo chiamata a pronunciarsi in merito a tali presupposti. Risultano altresì accertate nei giudizi nazionali sia l’adesione di B e D rispettivamente al PKK e al Dev sol, sia la durata, l’intensità e le modalità della loro partecipazione alle attività di tali formazioni. Anche su tali aspetti la Corte deve dunque attenersi alle risultanze degli accertamenti compiuti dai giudici di merito nell’ambito dei procedimenti nazionali.

B –    Sulle questioni pregiudiziali

1.      Considerazioni introduttive

40.      La tensione tra obblighi degli Stati in materia di lotta al terrorismo e responsabilità degli stessi nell’applicazione degli strumenti a tutela di coloro che invocano la protezione internazionale per sottrarsi a persecuzioni nel loro paese è alla base delle questioni pregiudiziali poste dal Bundesverwaltungsgericht. La ferma condanna della comunità internazionale degli atti di terrorismo internazionale e l’adozione di misure restrittive ai sensi del titolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dirette nei confronti di singoli o organizzazioni ritenuti responsabili di tali atti, hanno un’incidenza diretta su aspetti sostanziali del riconoscimento dello status di rifugiato (18). Le questioni pregiudiziali vertono proprio sulla delicata tematica dell’esclusione da tale status di soggetti che hanno in passato aderito a organizzazioni iscritte su liste allegate a strumenti comunitari di lotta al terrorismo.

41.      Nell’affrontare tali questioni occorre tener conto della stretta relazione esistente tra la direttiva e la Convenzione del 1951, della natura del diritto dei rifugiati e, più in particolare, della natura e della finalità delle cause di esclusione dallo status di rifugiato.

a)      Direttiva e Convenzione del 1951

42.      La coerenza tra la disciplina dell’Unione e gli obblighi internazionali assunti dagli Stati membri, in particolare con la Convenzione del 1951, costituisce un’esigenza primordiale in materia di asilo, desumibile dalla stessa base giuridica della direttiva (19) e dalla sua genesi (20), oltre che chiaramente espressa nel preambolo della stessa (21) e evidente dal tenore di buon numero delle sue disposizioni, che riproducono, pressoché testualmente, il contenuto delle corrispondenti norme convenzionali. Detta esigenza è stata peraltro recentemente confermata dalla Corte (22).

43.      In tale ottica, oltre alle consultazioni con l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (in prosieguo: l’«UNHCR»), alle quali rinvia il quindicesimo ‘considerando’ della direttiva (23), costituiscono riferimenti interpretativi delle disposizioni della direttiva che trovano la loro origine nel testo della Convenzione, le Conclusioni sulla protezione internazionale dei rifugiati adottate dal Comitato esecutivo dell’UNHCR, che precisano il contenuto degli standard di tutela stabiliti dalla Convenzione (24), il Manuale sulle procedure e i criteri per determinare lo status di rifugiato (Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugees Status; in prosieguo: l’«Handbook») (25) e le Linee guida sulla protezione internazionale (Guidelines on International Protection; in prosieguo: le «Guidelines»), emanate dal Dipartimento della protezione internazionale dell’UNHCR dopo approvazione sommaria del Comitato esecutivo, le quali approfondiscono singole tematiche allo scopo di integrare l’Handbook. Non si è mancato di rilevare in dottrina (26) che questa molteplicità di testi, in certi casi tra loro contrastanti, cui si aggiungono le prese di posizione adottate a vario titolo dall’UNHCR (il parere allegato alle osservazioni scritte di B ne è un esempio), non facilita lo svilupparsi di una prassi interpretativa e applicativa uniforme della Convenzione da parte degli Stati contraenti. Nel prosieguo dell’analisi si cercherà comunque di tener conto delle indicazioni che emergono dalle varie fonti sopramenzionate.

b)      Natura del diritto dei rifugiati

44.      Sebbene sia tradizionalmente considerato come un sistema normativo autonomo, il diritto dei rifugiati è strettamente collegato al diritto internazionale umanitario e al diritto internazionale dei diritti umani, in modo tale che i progressi realizzati dalla comunità internazionale in tali ambiti si riflettono sul contenuto e sulla portata della protezione internazionale dei rifugiati in un rapporto di stretta interrelazione (27). La natura essenzialmente umanitaria del diritto dei rifugiati e la sua intima connessione con la dinamica evolutiva dei diritti umani restano dunque necessariamente sullo sfondo ogni qualvolta si tratti di interpretare e applicare gli strumenti di tale protezione. In questo senso si è peraltro recentemente espressa la Corte, laddove, al punto 54 della sentenza Aydin Salahadin Abdulla e a. (28), ha affermato che la direttiva deve essere interpretata nel rispetto dei diritti fondamentali e dei principi riconosciuti segnatamente nella Carta.

45.      In tale contesto va ricordato che il diritto di cercare asilo dalle persecuzioni è riconosciuto quale diritto fondamentale dell’Unione ed è annoverato dalla Carta tra i diritti di libertà.

c)      Natura e finalità delle cause di esclusione dallo status di rifugiato

46.      Le cause di esclusione privano delle garanzie previste dalla Convenzione del 1951 e dalla direttiva soggetti di cui si è constatato il bisogno di protezione internazionale (29) e, in tal senso, si configurano come eccezioni o limiti all’applicazione di una norma umanitaria. Date le potenziali conseguenze della loro applicazione, un approccio di particolare cautela si impone (30). La necessità di un’interpretazione restrittiva delle cause di esclusione previste dalla Convenzione del 1951, anche nel contesto della lotta contro il terrorismo (31), è stata costantemente affermata dall’UNHCR.

47.      Quanto alle finalità delle cause di esclusione, già nei lavori preparatori della Convenzione del 1951 si è fatto riferimento a due distinti obiettivi, da un lato, quello di negare lo status di rifugiato a coloro che, a causa della loro condotta, si sono resi «indegni» della protezione internazionale accordata dalla Convenzione e, dall’altro, di evitare che tali soggetti possano invocare l’applicazione nei loro confronti del diritto dei rifugiati per sottrarsi alla giustizia. In tal senso, le cause di esclusione perseguono lo scopo di preservare l’integrità e la credibilità del sistema della Convenzione e devono, di conseguenza, essere applicate «scrupolosamente» (32).

2.      Sulla prima questione pregiudiziale

48.      Con la prima questione pregiudiziale, il giudice di rinvio chiede in sostanza se la partecipazione di B e di D, secondo le modalità accertate nei relativi giudizi di merito, a organizzazioni iscritte nell’elenco di cui all’allegato della posizione comune del Consiglio 2001/931, come aggiornato, che operano, anche solo in parte, con metodi terroristici, configuri un reato grave di diritto comune o un atto contrario alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva.

49.      La risposta a tale questione richiede anzitutto di definire le nozioni di «reato grave di diritto comune» e «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite» ai sensi della direttiva. In un secondo momento occorrerà valutare in che termini tali nozioni sono riferibili alle attività di un’organizzazione iscritta negli elenchi di soggetti cui si applica la normativa dell’Unione in materia di lotta al terrorismo. Infine, si dovrà determinare se e a quali condizioni la partecipazione a una tale organizzazione integri un «reato grave di diritto comune» e/o un «atto contrario alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite».

a)      Sulla nozione di «reato grave di diritto comune» di cui all’art. 12, n. 2, lett. b), della direttiva

50.      Affinché un determinato comportamento integri la fattispecie di cui all’art. 12, n. 2, lett. b), della direttiva, esso deve anzitutto qualificarsi come «reato». La diversa connotazione che può assumere tale termine in base all’ordinamento giuridico che si assume come riferimento contribuisce a renderne difficoltosa la definizione, tanto nel contesto della Convenzione del 1951 che in quello della direttiva. Ai fini della nostra analisi, è sufficiente rilevare al riguardo che, data l’origine della disposizione in parola – che riproduce testualmente l’enunciato dell’art. 1F, lett. b), della Convenzione – e l’obiettivo della direttiva cui si è accennato sopra, tale qualifica richiede principalmente l’applicazione di standard internazionali, sebbene vengano in rilievo anche criteri applicati nell’ordinamento in cui è esaminata la domanda di asilo e, eventualmente, principi comuni alle legislazioni degli Stati membri o desunti dal diritto dell’Unione.

51.      Dai lavori preparatori della Convenzione e da un’interpretazione sistematica dell’art. 1F, lett. b) (33), oltre che, più in generale, dalla natura e dalle finalità di tale disposizione, emerge che l’attivazione della causa di esclusione che essa prevede richiede uno standard elevato di gravità del reato di cui trattasi. Tale lettura è confermata dall’interpretazione delle varie istanze dell’UNHCR e dalla prassi applicativa degli Stati contraenti (34), oltre che condivisa dalla dottrina (35).

52.      In concreto, la valutazione della gravità del reato deve essere condotta caso per caso, alla luce di tutte le circostanze attenuanti e aggravanti, oltre che di ogni altra circostanza rilevante soggettiva (36) o oggettiva (37), sia anteriore che posteriore alla condotta incriminata (38), e che implica l’adozione di standard internazionali piuttosto che locali. Tale valutazione lascia inevitabilmente un ampio margine di discrezionalità all’autorità incaricata di svolgerla.

53.      Tra i fattori da prendere in considerazione, l’UNHCR, nelle sue Guidelines del 4 settembre 2003 (in prosieguo: le «Guidelines del 2003») (39), cita, in modo non esaustivo: la natura dell’atto, le conseguenze che ne sono effettivamente derivate, la procedura utilizzata per perseguire il reato, la natura della pena, e se esso costituisca un reato grave in un numero rilevante di ordinamenti giuridici (40). In particolare, rileva l’entità della pena prevista nello Stato in cui è esaminata la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato o realmente inflitta (41), sebbene non si tratti di un elemento di per sé determinante, dato il suo carattere variabile da un ordinamento all’altro. Sono generalmente considerati gravi i reati che attentano alla vita, all’integrità fisica o alla libertà di una persona (42).

54.      La qualifica del reato come di «diritto comune» è richiesta al fine di impedire che lo status di rifugiato possa essere invocato per sottrarsi a un processo o all’esecuzione di una pena nello Stato di origine, e ha lo scopo di distinguere tra «fugitives from justice» (43) e coloro che hanno commesso azioni penalmente rilevanti motivate da obiettivi politici, spesso direttamente collegati al timore di persecuzioni. In tal senso, detta condizione presenta collegamenti con l’istituto dell’estradizione, sebbene la circostanza che un reato sia considerato di diritto comune in un trattato sull’estradizione, pur essendo rilevante, non è di per sé conclusiva ai fini della valutazione da compiersi in base all’art. 1F, lett. b), della Convenzione del 1951 (44), e non dovrebbe di conseguenza esserlo neanche in base alla direttiva.

55.      Nel valutare il carattere politico o meno di un reato, l’UNHCR raccomanda anzitutto l’applicazione di un criterio di prevalenza, in base al quale deve considerarsi di diritto comune il reato in cui le motivazioni non politiche (ad esempio personali o di profitto) sono predominanti. Fattori quali la natura dell’atto (45), il contesto in cui è stato perpetrato (46), i metodi (47), la sua motivazione (48) e la proporzionalità rispetto agli obiettivi invocati sono elementi rilevanti ai fini della valutazione della natura politica di un reato (49).

56.      In particolare, quando non esista un nesso chiaro o diretto tra il reato e il presunto fine politico, ovvero quando l’atto in questione sia sproporzionato rispetto a tale fine, si ritiene prevalgano motivazioni non politiche (50). In senso analogo si è espresso il legislatore comunitario, il quale nel riprodurre all’art. 12, n. 2, lett b), il testo dell’art. 1F, lett. b), della Convenzione del 1951, ha precisato, codificando le indicazioni interpretative dell’UNHCR, che «atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico», «possono essere classificati quali reati gravi di diritto comune». Meritano la qualifica di «atti particolarmente crudeli», oltre i reati la cui soppressione è prevista dagli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani e del diritto umanitario, quelli che comportano l’uso di violenza abnorme e indiscriminata (come ad esempio nel caso dell’impiego di ordigni esplosivi), in particolare ove diretti contro obiettivi civili.

57.      È innegabile il carattere complesso e delicato di tale esame da un punto di vista, prima ancora che giuridico, etico – essendo implicita l’idea di un uso legittimo, entro certi limiti, della violenza – e politico. Tale valutazione difficilmente prescinderà da un giudizio di valore sulle motivazioni alla base dell’atto, giudizio che realisticamente entrerà in considerazione quale fattore di ponderazione delle diverse circostanze che caratterizzano la fattispecie (51). Ne consegue inevitabilmente un certo margine di discrezionalità in capo alle autorità incaricate di esaminare la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato. Inoltre, non è escluso che, in concreto, nell’ambito di tale valutazione siano tenuti in conto interessi dello Stato in cui è avanzata tale richiesta, ad esempio interessi economici, politici o militari.

b)      Sulla nozione di «atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite»

58.      L’espressione «atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite» che figura all’art. 1F, lett. c), della Convenzione del 1951 e all’art. 12, n. 2, lett. c), della direttiva è vaga e rende difficile la definizione sia del tipo di atti che possono ricadere in tale categoria sia dei soggetti che possono commettere siffatti atti. Rispetto alla norma convenzionale, l’art. 12, n. 2, lett. c), della direttiva precisa che gli scopi e i principi delle Nazioni Unite sono «stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni unite».

59.      I termini generici impiegati in quest’ultima, oltre all’assenza di una prassi applicativa consolidata degli Stati, hanno suggerito una lettura restrittiva dell’art. 1F, lett. c), che trova peraltro conferma nei lavori preparatori della Convenzione, da cui emerge che tale disposizione «copre prevalentemente violazioni dei diritti umani che, pur non assurgendo a crimini contro l’umanità, hanno nondimeno natura eccezionale». Nei diversi documenti elaborati dall’UNHCR si sottolinea il carattere eccezionale di tale disposizione e si mette in guardia contro il pericolo di un ricorso abusivo alla stessa (52). Così, nelle Guidelines del 2003, l’UNHCR afferma che essa ha vocazione ad applicarsi solo in «circostanze estreme», nei confronti di attività che «minano le basi stesse della coesistenza della comunità internazionale». Secondo l’UNHCR, tali attività devono comunque assumere una dimensione internazionale, come nel caso di «crimini idonei a incidere sulla pace internazionale, la sicurezza e la pacifica relazione tra gli Stati», nonché di «serie e comprovate violazioni dei diritti umani». Nella Background Note on the Application of the Exclusion Clauses del 4 settembre 2003 (in prosieguo: la «Background Note») (53), l’UNHCR precisa che rinvii agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite sono contenuti in diversi strumenti, quali, ad esempio, convenzioni multilaterali concluse sotto l’egida dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite o risoluzioni del Consiglio di sicurezza: tuttavia considerare ogni azione contraria a tali strumenti come ricompresa nella sfera di applicazione dell’art. 1F, lett. c), non sarebbe in linea con lo spirito e gli obiettivi di tale disposizione (54). L’art. 12, n. 2, lett. c), va, a mio avviso, interpretato nello stesso senso.

60.      Ci si è inoltre interrogati circa i soggetti che possono rendersi colpevoli di tali azioni. Dato che la Carta delle Nazioni Unite si applica esclusivamente agli Stati, si è ritenuto inizialmente che solo individui ai vertici della gerarchia di uno Stato o di entità parastatali fossero in grado di perpetrare gli atti suscettibili di ricadere nella definizione dell’art. 1F, lett. c), della Convenzione (55). Tale interpretazione, che trovava conforto sia nei lavori preparatori della Convenzione (56) che nell’Handbook (57), sembra tuttavia essere stata superata nella pratica e la disposizione in questione è stata in concreto applicata anche a soggetti non investiti dell’esercizio di poteri pubblici (58).

c)      Sull’applicazione dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c) agli «atti di terrorismo»

61.      Una delle questioni più complesse e dibattute in tema di applicazione delle cause di esclusione di cui all’art. 1F, lett. b) e c), della Convenzione del 1951 riguarda gli atti di terrorismo. La difficoltà è in parte dovuta al fatto che non esiste allo stato attuale una definizione internazionalmente riconosciuta di terrorismo. Recentemente, alcune risoluzioni dell’assemblea generale delle Nazioni Unite (59) e del Consiglio di sicurezza (60) e la Convenzione internazionale per la soppressione del finanziamento del terrorismo (61), hanno tentato di definire il carattere terroristico di un atto con riferimento alla sua natura (atti diretti contro civili con l’intenzione di causare la morte o infliggere ferite gravi) e alla sua finalità (seminare il terrore o intimidire una popolazione, un gruppo di persone o singoli, costringere un governo o un’organizzazione a compiere un atto o ad astenersi dal compierlo). Nella stessa linea si muove anche la sopramenzionata decisione quadro 2002/475/GAI, il cui art. 1 fornisce una definizione particolarmente articolata della nozione di «reati terroristici».

62.      Il gran numero di strumenti internazionali che disciplinano singoli aspetti del terrorismo, come il finanziamento, o specifiche condotte comunemente considerate come rientranti nella categoria degli atti terroristici ­ quali dirottamenti, presa di ostaggi, attentati dinamitardi, reati contro diplomatici, o il cd. “terrorismo nucleare” – e le numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza in materia, hanno inevitabilmente un impatto sul diritto dei rifugiati e in particolare sulle questioni relative alla determinazione dello status di rifugiato. Al riguardo, si è gia accennato alle risoluzioni 1373 e 1269 del Consiglio di sicurezza in cui si raccomanda agli Stati di accertare che i richiedenti asilo non abbiano pianificato, partecipato o agevolato la commissione di atti terroristici e di rifiutare lo status di rifugiato a chi si sia reso responsabile di tali atti. Il Consiglio di sicurezza qualifica inoltre atti, pratiche e metodi terroristici come contrari ai principi e alle finalità delle Nazioni Unite e richiede una loro depoliticizzazione, tanto ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato che dell’estradizione. Lo stesso legislatore comunitario vi fa riferimento nel preambolo della direttiva, laddove, al ventiduesimo considerando, precisa che gli atti contrari ai fini e ai principi delle Nazioni Unite «si rispecchiano, tra l’altro, nelle risoluzioni delle Nazioni unite relative alle misure di lotta al terrorismo, nelle quali è dichiarato che “atti, metodi e pratiche di terrorismo sono contrari ai fini e ai principi delle Nazioni unite” e che “chiunque inciti, pianifichi, finanzi deliberatamente atti di terrorismo compie attività contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni unite”».

63.      A fronte di tali prese di posizione tuttavia, per un verso, si deve rilevare che le risoluzioni del Consiglio di sicurezza non sempre hanno carattere vincolante in ogni loro parte e che tale organo è comunque tenuto ad agire conformemente alla carta delle Nazioni Unite e ai principi e alle finalità della stessa, con la conseguenza, tra l’altro, che esistono limiti alla possibilità dello stesso di interferire con gli obblighi internazionali assunti dagli Stati (62). Per altro verso, non deve trascurarsi che l’Assemblea generale e lo stesso Consiglio hanno costantemente richiamato gli Stati al rispetto, nel contesto della lotta al terrorismo, degli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani, inclusi la Convenzione del 1951 e del principio di non-refoulement.

64.      Ora, come la dottrina non manca di rilevare, il diritto dei rifugiati si basa sul sistema della Convenzione del 1951, nell’ambito del quale sono stati elaborati specifici standard internazionali, in particolare per quanto riguarda la determinazione dello status di rifugiato e le condizioni alle quali il riconoscimento di tale status può essere negato (63). È soprattutto a tale sistema, la cui coerenza e organicità deve, nella misura del possibile, essere assicurata e mantenuta, che si deve attingere nel valutare se un determinato atto criminale, indipendentemente dalla sua riconducibilità a una categoria di reati definita in funzione di caratteristiche comuni, rileva ai fini dell’applicazione delle cause di esclusione di cui all’art. 1F, lett. b) e c), della Convenzione.

65.      Allo stesso modo, è anzitutto alle regole di tale sistema che ci si deve rapportare nell’interpretare le disposizioni della direttiva, anche laddove si tratti di applicare nozioni che trovano una loro autonoma definizione in atti del diritto dell’Unione adottati in settori diversi da quello del diritto dei rifugiati.

66.      Va perciò considerato con estrema prudenza l’argomento della Commissione in base al quale, per valutare se l’appartenenza a un’organizzazione terrorista costituisce «reato grave di diritto» comune ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b), occorre riferirsi alle disposizioni della decisione quadro 2002/475/GAI. Quest’ultima infatti è stata adottata in un contesto, quello della lotta ad attività terroristiche, che risponde a esigenze diverse da quelle, di natura essenzialmente umanitaria, che presiedono alla protezione internazionale dei rifugiati. L’argomento della Commissione, sebbene dettato dalla volontà di favorire l’elaborazione al livello dell’Unione di criteri uniformi nell’applicazione delle disposizioni della Convenzione del 1951, tralascia tuttavia di considerare che, in base alla stessa direttiva, il ravvicinamento delle legislazioni e delle prassi degli Stati membri in materia deve essere perseguito nel rispetto della Convenzione e tenendo conto del carattere internazionale delle disposizioni della stessa.

67.      Ciò premesso, si è rilevato sopra che una delle caratteristiche peculiari del sistema della Convenzione consiste nell’approccio casuistico nell’applicare le cause di esclusione di cui all’art. 1F, lett. b) e c), approccio che di per sé mal si concilia con il ricorso a generalizzazioni e categorizzazioni. D’altro canto, non si è mancato di evidenziare, nello stesso contesto delle Nazioni Unite, i rischi di un ricorso indiscriminato alla qualifica di terrorismo (64).

68.      In base a quanto precede, ritengo dunque, come suggerito dall’UNHCR nel documento elaborato ai fini del presente giudizio, che, al di là delle definizioni, debba farsi riferimento alla natura e alla gravità dell’atto in sé.

69.      L’interpretazione raccomandata dall’UNHCR, e generalmente accettata sia in dottrina che nella prassi, è nel senso di considerare gli atti criminali che ricevono comunemente l’appellativo di terroristici come sproporzionati rispetto agli obiettivi politici invocati (65), nella misura in cui mettono in atto una violenza indiscriminata e sono diretti nei confronti di civili o di persone che non hanno alcun collegamento con i fini perseguiti. Tali atti, previa valutazione di tutte le circostanze rilevanti del caso concreto, riceveranno tendenzialmente la qualifica di reati di diritto comune.

70.      Allo stesso modo, l’orientamento più recente maturato in seno alle varie istanze dell’UNCHR sembra essere nel senso di considerare tali atti, data la loro natura, i metodi utilizzati e la loro gravità, come contrari ai principi e alle finalità delle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 1F, lett. c), della Convenzione. Come si è visto, le Guidelines del 2003 e la Background Note suggeriscono tuttavia di valutare se essi assumano una dimensione internazionale, in particolare in termini di gravità, impatto, e implicazioni per la pace e la sicurezza internazionali (66). Entro questi limiti, sembra dunque ammissibile distinguere tra terrorismo internazionale e terrorismo interno. Anche in questo caso, la valutazione dovrà essere condotta alla luce dell’insieme delle circostanze pertinenti.

71.      Il medesimo approccio deve a mio avviso essere seguito nell’applicare le cause di esclusione di cui all’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva.

d)      La partecipazione a un’entità iscritta in un elenco elaborato dall’Unione nel quadro di strumenti di lotta al terrorismo come causa di esclusione ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c)

72.      Quanto fin qui esposto mi induce a escludere che la sola circostanza che il richiedente asilo figuri negli elenchi di persone implicate in atti di terrorismo elaborati nel contesto di misure di lotta al terrorismo adottate dall’Unione possa di per sé rivestire carattere decisivo, o anche solo presuntivo, in favore dell’applicazione di una o di entrambe le cause di esclusione di cui all’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva. Come si è accennato sopra, infatti, e come rilevato in particolare dal governo dei Paesi Bassi, non esiste alcuna relazione tra tali strumenti e la direttiva, in particolare quanto agli obiettivi perseguiti. Concludere in senso contrario si porrebbe inoltre in contrasto con i principi della Convenzione del 1951, che richiedono un’attenta valutazione delle situazioni che possono condurre a negare il riconoscimento dello status di rifugiato, da effettuarsi alla luce delle caratteristiche specifiche di ogni singola fattispecie.

73.      A fortiori, non ritengo ammissibile inferire in modo automatico la sussistenza delle condizioni di applicazione delle suddette cause di esclusione dalla passata appartenenza del richiedente a un gruppo o a un’organizzazione iscritta in detti elenchi. Senza entrare nel merito della capacità di tali elenchi – le cui stesse modalità di compilazione non sono andate esenti da critiche (67) – di riflettere la realtà, spesso complessa, delle organizzazioni o dei gruppi che vi sono iscritti, basti rilevare che l’applicazione delle cause di esclusione in parola è subordinata all’accertamento della responsabilità individuale del soggetto interessato, rispetto al quale devono sussistere serie ragioni di ritenere che abbia commesso un reato grave di diritto comune o che si sia reso colpevole di un atto contrario agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva ovvero, in forza del successivo n. 3, che abbia istigato o altrimenti concorso alla commissione di un tale reato o atto.

74.      Orbene, salvo procedere attraverso presunzioni (68), la sola volontaria affiliazione del soggetto interessato a un’organizzazione non consente di per sé di concludere nel senso di un suo effettivo coinvolgimento nelle attività che hanno determinato l’iscrizione della stessa negli elenchi di cui trattasi (69).

75.      A parte quanto appena esposto in via generale, rileva nei giudizi principali altresì la circostanza che B e D si fossero da tempo dissociati dai gruppi in questione al momento dell’iscrizione di questi ultimi negli elenchi di cui trattasi. Come si è visto, infatti, il PKK e il Dev sol figurano nell’elenco in allegato alla posizione comune 2001/931 a partire dal 2 maggio 2002. Secondo quanto dichiarato contestualmente alle richieste di riconoscimento dello status di rifugiato, B avrebbe fatto parte del Dev sol dal 1993 al 1995, mentre D avrebbe aderito al PKK nel periodo tra il 1990 e il 1998. Ne consegue che, quand’anche si dovesse considerare, con un automatismo respinto da tutti i governi intervenienti e dalla Commissione, che la sola appartenenza volontaria a un gruppo iscritto nei suddetti elenchi costituisce comportamento rilevante ai fini dell’applicazione delle cause di esclusione di cui all’art. 12, n. 2, lett. b) e c), tale condizione non sarebbe comunque soddisfatta per quanto riguarda il periodo di militanza di B e D nel Dev Sol e nel PKK.

76.      Ciò premesso, la valutazione circa la sussistenza dei requisiti di applicazione delle cause di esclusione di cui all’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva nel caso di passata affiliazione del soggetto interessato a un gruppo implicato in attività criminali qualificabili come terroristiche mi sembra comporti in sostanza tre fasi.

77.      Nella prima occorrerà considerare la natura, la struttura, l’organizzazione, le attività e i metodi del gruppo di cui trattasi, nonché il contesto politico, economico e sociale nel quale esso operava nel periodo in cui il soggetto interessato ne è stato membro. Se l’iscrizione in un elenco elaborato a livello nazionale, dell’Unione o internazionale, può costituire un indice rilevante, esso non esime tuttavia le autorità competenti dello Stato interessato dal compiere tale esame (70).

78.      In un secondo momento, si dovrà verificare se sussistano elementi sufficienti ad affermare, tenuto conto dello standard della prova richiesto dall’art. 12, n. 2, della direttiva, la responsabilità individuale del soggetto interessato per gli atti riconducibili al gruppo nel periodo in cui ne è stato membro, avendo riguardo a criteri sia oggettivi (condotta materiale) che soggettivi (coscienza e intenzionalità) d’imputazione. A tal fine è necessario accertare il ruolo che detto soggetto ha effettivamente svolto nella commissione di tali atti (istigazione, partecipazione alla commissione dell’atto, attività di ricognizione o di supporto, ecc.), la sua posizione all’interno del gruppo (coinvolgimento nei processi decisionali, incarichi dirigenziali o rappresentativi, svolgimento di attività di proselitismo o di raccolta fondi, ecc.), il grado di conoscenza che egli aveva o avrebbe dovuto avere circa le attività dello stesso, eventuali costrizioni fisiche o psicologiche cui è stato sottoposto o altri fattori in grado di incidere sull’elemento soggettivo della condotta (ad es. handicap mentale, minore età, ecc.) (71), l’esistenza di un’effettiva possibilità da parte sua di impedire la commissione degli atti in questione o di dissociarsene (senza correre rischi per la propria incolumità). Quelli appena esposti sono solo alcuni degli elementi che entrano in linea di conto in tale esame, l’accertamento della responsabilità individuale dell’affiliato dovendo essere condotto alla luce dell’insieme delle circostanze che caratterizzano la singola fattispecie (72).

79.      Nella terza fase, occorrerà determinare se gli atti per i quali tale responsabilità può considerarsi accertata rientrino fra quelli contemplati dall’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva, tenuto conto di quanto espressamente disposto dal n. 3 dell’art. 12, in base al quale «il [n.] 2 si applica alle persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei crimini, reati o atti in esso menzionati». Tale apprezzamento dovrà essere condotto alla luce dell’insieme delle circostanze aggravanti e attenuanti e di ogni altra circostanza rilevante.

80.      I criteri suesposti, e l’insieme delle considerazioni fin qui svolte, dovrebbero consentire di guidare il giudice di rinvio sul punto oggetto della prima questione pregiudiziale. Si evince tuttavia dai termini impiegati da detto giudice che egli sollecita in realtà, in ciascuna delle cause principali, una pronuncia sulle fattispecie concrete sottoposte al suo giudizio. Essenzialmente per due ragioni, ritengo che la Corte non debba raccogliere tale sollecitazione.

81.      In primo luogo, il giudice di rinvio è il solo a conoscere l’insieme delle circostanze che caratterizzano i casi di specie, quali emerse nella fase amministrativa di esame delle domande avanzate da B e D e nei diversi gradi di giudizio; stabilire se le cause di esclusione in questione sono in concreto opponibili a B e D implica un’attenta valutazione e ponderazione di tali circostanze.

82.      In secondo luogo, la direttiva stabilisce norme comuni minime per la definizione ed il contenuto dello status di rifugiato, al fine di orientare le competenti autorità nazionali degli Stati membri nell’applicazione della Convenzione del 1951. La direttiva non istituisce un regime uniforme in materia (73), né una procedura centralizzata di esame delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato. Spetta pertanto alle autorità competenti e alle giurisdizioni degli Stati membri, investite dell’esame di tali domande, valutare in concreto, alla luce dei criteri comuni stabiliti dalla direttiva come interpretati dalla Corte, la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento di detto status, incluse le condizioni di una sua eventuale esclusione.

3.      Sulla seconda questione pregiudiziale

83.      Con la seconda questione pregiudiziale, identica in entrambe le decisioni di rinvio, il giudice a quo chiede, in caso di soluzione affermativa della prima questione, se l’esclusione dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva presupponga che il richiedente continui a costituire una fonte di pericolo. B e D suggeriscono alla Corte di rispondere affermativamente, mentre il giudice di rinvio, tutti i governi intervenienti e la Commissione propendono per una risposta negativa (74).

84.      Concordo con quest’ultima soluzione, che discende da un’interpretazione testuale e teleologica dell’art. 12, n. 2, della direttiva. Dal testo di tale articolo si evince infatti chiaramente che presupposto per l’applicazione delle cause di esclusione da esso previste è un comportamento passato del richiedente che integri le fattispecie descritte e sia stato posto in essere anteriormente al suo riconoscimento come rifugiato. Ciò risulta in particolare dalle forme verbali impiegate – «abbia commesso», nella lett. b) e «si sia reso colpevole», nella lett. c) – e dalla precisazione, contenuta nella lett. b), che la condotta in questione deve essere antecedente all’ammissione del richiedente come rifugiato, vale a dire, come ulteriormente chiarito nella stessa disposizione, precedente al «momento in cui gli è rilasciato un permesso di soggiorno basato sul riconoscimento dello status di rifugiato».

85.      Per contro, né la disposizione in parola né la norma convenzionale corrispondente, contengono un riferimento esplicito o implicito a un giudizio di pericolosità sociale attuale del richiedente quale condizione aggiuntiva cui sarebbe subordinata l’applicazione delle cause di esclusione in questione. Tale omissione è coerente con le finalità perseguite dalle cause di esclusione che consistono come si è visto nell’evitare, da un lato, che chi abbia commesso gravi crimini o reati non politici possa, invocando il diritto dei rifugiati, sottrarsi alla giustizia e, dall’altro, che lo status di rifugiato sia riconosciuto a chi, a causa della propria condotta, si sia reso «indegno» di protezione internazionale e ciò indipendentemente dal fatto che sia venuta meno la sua pericolosità sociale.

86.      È vero che, trattandosi dell’applicazione dell’art. 1F, lett. b), della Convenzione del 1951, l’UNHCR ha affermato che nel caso in cui il richiedente, condannato per un reato grave di diritto comune, abbia scontato la pena, sia stato amnistiato o sia stato destinatario di un provvedimento di grazia, la causa di esclusione prevista da tale disposizione si presume non più applicabile, «salvo che sia dimostrato che, nonostante l’amnistia o la grazia, il carattere criminale del richiedente è ancora predominante» (75). Tuttavia, tale affermazione sembra suggerire unicamente che lo Stato interessato può, in tali circostanze, continuare a escludere il richiedente dallo status di rifugiato a causa della sua pericolosità sociale, in un modo che evoca il meccanismo dell’eccezione al principio di non-refoulement di cui all’art. 33, n. 2, della Convenzione (76). Non se ne può invece inferire, neanche ragionando a contrario, una presa di posizione di carattere generale in favore di un’interpretazione della norma che precluda, in ogni circostanza, l’applicazione della causa di esclusione in questione nel caso in cui sia venuta meno la pericolosità sociale del richiedente.

87.      Infine, per rispondere alla questione posta dal giudice di rinvio, non mi sembra né necessario né opportuno ricorrere a un’analisi comparativa tra l’art. 12, n. 2, e l’art. 21, n. 2, della direttiva, che prevede, sulla scorta dell’art. 33, n. 2, della Convenzione del 1951, l’eccezione al principio di non-refoulement. In effetti, non si chiede alla Corte di pronunciarsi sulla possibilità di escludere dallo status di rifugiato un richiedente in base a considerazioni circa la sua pericolosità, analoghe a quelle che possono autorizzare gli Stati membri a derogare al principio di non-refoulement, ma unicamente se la constatazione dell’assenza di una tale pericolosità osti all’applicazione di una delle cause di esclusione previste dall’art. 12, lett. b) e c), della direttiva.

88.      In base a quanto precede, suggerisco alla Corte di rispondere alla seconda questione pregiudiziale nel senso che l’esclusione dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva non presuppone che il richiedente continui a costituire una fonte di pericolo.

4.      Sulla terza e sulla quarta questione pregiudiziale

89.      Con la terza questione, il giudice di rinvio chiede se l’esclusione dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva presupponga un esame di proporzionalità. Con la quarta questione, posta in caso di risposta affermativa alla terza questione, egli chiede, da un lato, se giochi un ruolo in tale esame il fatto che il richiedente goda del principio di non-refoulement in virtù dell’art. 3 CEDU o del diritto nazionale e, dall’altro, se l’esclusione debba considerarsi sproporzionata soltanto in casi eccezionali, presentanti caratteristiche particolari.

90.      Tali quesiti, che vanno esaminati congiuntamente, sollevano anch’essi una questione delicata e da tempo dibattuta nel contesto della Convenzione del 1951: l’applicazione dell’art. 1F di tale Convenzione implica un bilanciamento tra la gravità del reato o dell’atto e le conseguenze dell’esclusione, in modo da assicurare un’applicazione di tale norma proporzionata al suo obiettivo? Nonostante i termini della questione sembrano essere in parte mutati con l’estensione e il consolidamento della tutela dei diritti umani, in particolare per quanto concerne l’obbligo di tutela contro la tortura, l’evoluzione del diritto penale internazionale e dell’istituto dell’estradizione (77) nonché la tendenza a un progressivo riconoscimento di una giurisdizione universale nei confronti dei reati internazionali gravi (78), il tema resta di attualità.

91.      L’UNHCR sembra ammettere un tale bilanciamento per quanto concerne l’art. 1F, lett. b), della Convenzione del 1951, ed escluderlo, in linea di principio, per l’art. 1F, lett. c), dato il carattere particolarmente grave degli atti contemplati da tale disposizione (79). Numerose giurisdizioni di Stati contraenti si sono pronunciate in senso contrario anche nel contesto della prima disposizione (80). Tra gli intervenienti, i governi francese, tedesco, del Regno Unito, e dei Paesi Bassi si oppongono a un esame di proporzionalità, mentre quello svedese, come anche la Commissione, si sono pronunciati in favore.

92.      Alcuni governi intervenienti hanno sottolineato che nessun elemento, nel testo dell’art. 1F della Convenzione del 1951 e dell’art. 12, n. 2, della direttiva, sembra autorizzare un esame di proporzionalità. Mi sembra tuttavia altrettanto possibile sostenere che niente, in tali articoli, vi si oppone. La necessità di un tale esame è stata peraltro espressamente evocata nei lavori preparatori della Convenzione dalla Danimarca (81).

93.      È stato anche avanzato, rinviando alla genesi della direttiva, che un argomento contro un tale esame di proporzionalità si evincerebbe dal fatto che la proposta iniziale della Commissione conteneva uno specifico richiamo alla proporzionalità, che non è stato tuttavia ripreso nel testo finale della direttiva. Non ritengo tuttavia tale argomento particolarmente probante, dato che l’omissione in parola può essere più semplicemente da addebitare alla volontà del legislatore comunitario di restare aderente sul punto al testo della Convenzione del 1951 e di lasciare che la soluzione di tale questione avvenga in sede interpretativa, consentendo in tal modo una maggiore adattabilità ai possibili mutamenti della prassi applicativa della Convenzione.

94.      Si è ancora osservato che, a norma dell’art. 1F, lett. b) e c), della Convenzione e dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva l’esclusione dipende unicamente da un comportamento passato del richiedente e prescinde dalla serietà e dalla gravità delle minacce di persecuzione che gravano su di lui. Anche tale argomento non mi sembra decisivo. In realtà si è visto sopra che anche elementi successivi alla condotta incriminata sono generalmente presi in considerazione – quanto meno nel contesto della lett. b) – nel valutare se tale condotta rientra nelle cause di esclusione in questione. Diversi governi intervenienti, anche ove contrari a un esame di proporzionalità, annoverano, ad esempio, tra tali elementi, la circostanza che il richiedente, militante attivo di un gruppo ritenuto responsabile di atti terroristici, si sia dissociato e abbia apertamente preso le distanze dallo stesso, mentre l’UNHCR considera la circostanza di aver scontato la pena o, più semplicemente, il fatto che sia trascorso un significativo lasso di tempo dalla commissione dell’atto, come fattori rilevanti e potenzialmente idonei a impedire l’esclusione.

95.      Il principio di proporzionalità riveste un ruolo centrale nella tutela dei diritti fondamentali e in generale nell’applicazione degli strumenti del diritto internazionale umanitario. Tali strumenti richiedono inoltre di essere applicati in modo flessibile e dinamico. L’inserimento di un elemento di rigidità nell’applicazione delle cause di esclusione, quand’anche motivato dall’intento di preservare la credibilità del sistema di protezione internazionale dei rifugiati, non mi sembra auspicabile: al contrario, ritengo sia fondamentale preservare in tale ambito la flessibilità necessaria, da un lato, a tener conto dei progressi della comunità internazionale nella tutela dei diritti umani e, dall’altro, a consentire un approccio fondato sull’esame dell’insieme delle circostanze che caratterizzano il caso di specie, anche qualora questo implichi l’applicazione di un sistema di doppio bilanciamento (al momento di valutare il carattere sufficientemente grave della condotta ai fini di un’esclusione e al momento di bilanciare tale gravità con le conseguenze dell’esclusione).

96.      Ai fini della risposta da dare al giudice di rinvio, mi sembra peraltro si possa distinguere il bilanciamento tra gravità del comportamento e conseguenze di un’eventuale esclusione, da un lato, e l’applicazione del principio di proporzionalità, dall’altro.

97.      Sotto il primo profilo, entra in linea di conto la circostanza che il richiedente benefici di una tutela effettiva contro il refoulement, che sia in applicazione di strumenti internazionali (82) o in virtù del diritto nazionale. Ove tale protezione sia disponibile e concretamente accessibile il richiedente potrà essere escluso dallo status di rifugiato, il quale comporta una serie di diritti che vanno al di là della protezione contro il refoulement e che devono, in linea di principio, essere negati a chi si mostra indegno di protezione internazionale; nel caso in cui invece il riconoscimento di tale status costituisca l’unica possibilità per evitare il respingimento verso un paese in cui il richiedente ha serie ragioni di temere che sarà sottoposto per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, a persecuzioni tali da mettere in pericolo la sua vita o la sua integrità fisica o di subire trattamenti disumani o degradanti, l’esclusone non potrà essere dichiarata. Tuttavia, sebbene possa sembrare inaccettabile la possibilità di far mancare anche la protezione minima consistente nel non-refoulement, ritengo che, in presenza di determinati crimini di eccezionale gravità, tale bilanciamento non sia comunque ammissibile (83).

98.      Sotto il secondo profilo, ritengo che le autorità competenti e le giurisdizioni degli Stati membri debbano assicurare un’applicazione dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva che sia proporzionata al suo obiettivo e, più in generale, alla natura umanitaria del diritto dei rifugiati. Ciò implica essenzialmente che l’accertamento della sussistenza delle condizioni di applicazione di tale disposizione deve comportare una valutazione globale dell’insieme delle circostanze che caratterizzano il singolo caso di specie.

99.      Per i motivi suesposti suggerisco alla Corte di rispondere alla terza e alla quarta questione pregiudiziale nel senso indicato sopra ai paragrafi 97 e 98.

5.      Sulla quinta questione pregiudiziale

100. Con la quinta questione pregiudiziale, la cui formulazione, salvo gli adattamenti necessari in funzione delle caratteristiche di ciascun giudizio, è sostanzialmente identica in entrambe le decisioni di rinvio, il Bundesverwaltungsgericht chiede se sia compatibile con la direttiva il riconoscimento di un diritto di asilo in forza di norme costituzionali nazionali a un soggetto escluso dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2.

101. In proposito occorre, per un verso, rilevare che, conformemente alla sua base giuridica, la direttiva si limita a fissare norme minime comuni e che, in forza del suo art. 3, gli Stati membri hanno facoltà di introdurre o mantenere in vigore disposizioni più favorevoli in ordine alla determinazione dei soggetti che possono essere considerati rifugiati nonché in ordine alla definizione degli elementi sostanziali della protezione internazionale, purché siano compatibili con le disposizioni della direttiva. Per altro verso, come si è già avuto modo di sottolineare, la direttiva definisce lo status di rifugiato conformemente alla Convenzione di Ginevra.

102. Come si è visto, le cause di esclusione svolgono un ruolo fondamentale nel preservare la credibilità del sistema creato dalla Convenzione del 1951 e nell’evitare possibili abusi. Ove ricorrano gli estremi per la loro applicazione, gli Stati membri sono dunque tenuti, in forza della Convenzione e della direttiva, a escludere il richiedente dallo status di rifugiato. In caso contrario essi contravverrebbero tanto ai loro obblighi internazionali che all’art. 3 della direttiva, che autorizza disposizioni più favorevoli in tema di determinazioni dello status di rifugiato solo in quanto con essa compatibili.

103. La questione posta dal Bundesverwaltungsgericht verte tuttavia sulla possibilità per gli Stati membri di concedere a un tale soggetto una protezione in virtù di norme nazionali. Il giudice di rinvio si interroga in particolare sulla compatibilità di una tale protezione con la direttiva, qualora, come sembra essere il caso del diritto di asilo garantito in virtù dell’art. 16a della costituzione tedesca stando alle informazioni fornite da tale giudice, il suo contenuto è definito mediante rinvio alla Convenzione del 1951. Orbene, quest’ultima, così come non impone agli Stati contraenti di adottare misure particolari nei confronti dei richiedenti esclusi, non vieta neanche di accordare a tali soggetti la protezione eventualmente prevista dalle norme nazionali sul diritto d’asilo. Né un tale divieto è desumibile dalla direttiva.

104. È chiaro tuttavia che, in tal caso, la situazione giuridica di tali soggetti è esclusivamente regolata dal diritto nazionale e che – come peraltro espressamente affermato dal nono considerando della direttiva per quanto concerne «i cittadini di paesi terzi o agli apolidi cui è concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perché bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale» – ad essi non si applica la direttiva, né la Convenzione di Ginevra.

105. Ciò premesso, come a mio avviso correttamente sottolineato dalla Commissione, la finalità delle cause di esclusione di preservare la credibilità del sistema di protezione internazionale dei rifugiati sarebbe compromessa se la protezione nazionale così accordata fosse tale da ingenerare dubbi circa la sua origine e da consentire di ritenere che il suo titolare gode dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione e della direttiva. Spetta pertanto allo Stato membro, che intende accordare asilo in base alle disposizioni del proprio ordinamento a soggetti esclusi dallo status di rifugiato a norma della direttiva, adottare le misure necessarie a consentire di distinguere nettamente tale protezione da quella accordata in base alla direttiva, e ciò non tanto in termini di contenuto della stessa, la cui determinazione resta, a mio avviso, di pertinenza dello Stato membro in questione, quanto di confondibilità circa la fonte da cui emana tale protezione.

106. In base a quanto precede, suggerisco alla Corte di rispondere alla quinta questione pregiudiziale che la direttiva, e in particolare il suo art. 3, non osta a che uno Stato membro accordi al cittadino di un paese terzo o a un apolide escluso dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, della direttiva la protezione prevista dalle norme nazionali sul diritto d’asilo, a condizione che tale protezione non possa essere confusa con quella accordata ai rifugiati in base alla direttiva.

IV – Conclusioni

107. In base all’insieme delle considerazioni che precedono, suggerisco alla Corte di rispondere alle questioni poste dal Bundesverwaltungsgericht come segue:

1)      Ai fini dell’applicazione delle cause di esclusione dallo status di rifugiato di cui all’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva del Consiglio 29 aprile 2004, 2004/83/CE, nel caso in cui il richiedente sia stato in passato affiliato a un gruppo iscritto in elenchi elaborati nel quadro di misure dell’Unione di lotta al terrorismo, le autorità competenti degli Stati membri sono tenute a considerare la natura, la struttura, l’organizzazione, le attività e i metodi del gruppo di cui trattasi, nonché il contesto politico, economico e sociale nel quale esso operava nel periodo in cui il soggetto interessato ne è stato membro. Esse dovranno, inoltre, verificare se sussistano elementi sufficienti ad accertare, tenuto conto dello standard della prova richiesto dall’art. 12, n. 2, della direttiva 2004/83/CE, la responsabilità individuale del soggetto interessato per gli atti riconducibili al gruppo nel periodo in cui ne è stato membro, avendo riguardo a criteri sia oggettivi che soggettivi di imputazione e alla luce dell’insieme delle circostanze che caratterizzano la singola fattispecie. Infine, dette autorità dovranno determinare se gli atti per i quali tale responsabilità può considerarsi accertata rientrino fra quelli contemplati dall’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE, tenuto conto di quanto espressamente disposto dal n. 3, di tale articolo. Tale apprezzamento dovrà essere condotto alla luce dell’insieme delle circostanze aggravanti e attenuanti e di ogni altra circostanza rilevante.

Spetta alle autorità competenti degli Stati membri investite dell’esame di una domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e alle giurisdizioni adite nel quadro di un ricorso contro un provvedimento adottato al termine di tale esame, valutare in concreto, alla luce dei criteri comuni stabiliti dalla direttiva come interpretati dalla Corte, la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento di detto status, incluse le condizioni di una sua eventuale esclusione ai sensi dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE.

2)      L’esclusione dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE non presuppone che il richiedente continui a costituire una fonte di pericolo.

3)      Ai fini dell’applicazione dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva 2004/83/CE le autorità competenti o le giurisdizioni degli Stati membri investite di una richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato devono procedere a un bilanciamento tra la gravità del comportamento che giustifica l’esclusione da tale status e le conseguenze di una tale esclusione. Tale esame deve essere condotto tenendo conto della circostanza che il richiedente benefici ad altro titolo di una tutela effettiva contro il refoulement. Ove tale protezione sia disponibile e concretamente accessibile il richiedente dovrà essere escluso; nel caso in cui invece il riconoscimento dello status di rifugiato costituisca l’unica possibilità per evitare il respingimento verso un paese in cui il richiedente ha serie ragioni di temere che sarà sottoposto per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, a persecuzioni tali da mettere in pericolo la sua vita o la sua integrità fisica o di subire trattamenti disumani o degradanti, l’esclusone non potrà essere dichiarata. In presenza di crimini di eccezionale gravità, tale bilanciamento non è ammesso.

Le autorità competenti e le giurisdizioni degli Stati membri devono assicurare un’applicazione dell’art. 12, n. 2, lett. b) e c), della direttiva che sia proporzionata al suo obiettivo e, più in generale, alla natura umanitaria del diritto dei rifugiati.

4)      La direttiva 2004/83/CE, e in particolare il suo art. 3, non osta a che uno Stato membro accordi al cittadino di un paese terzo o a un apolide escluso dallo status di rifugiato a norma dell’art. 12, n. 2, della direttiva la protezione prevista dalle norme nazionali sul diritto d’asilo, a condizione che tale protezione non possa essere confusa con quella accordata ai rifugiati in base alla direttiva.


1 – Lingua originale: l’italiano.


2 – GU L 304, pag. 2.


3 – Recueil des traités des Nations unies, I-2545, Vol. 189.


4 –      La traduzione italiana delle disposizioni della Convenzione di Ginevra che figura nelle presenti conclusioni è quella disponibile sul sito internet dell’Agenzia dell’ONU per i rifugiati: http://www.unhcr.it.


5 – La traduzione italiana delle disposizioni delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che figura nelle presenti conclusioni è fatta sulla base del testo francese.


6 – Nello stesso senso, v. già la risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite 1269 (1999) del 19 ottobre 1999.


7 – Ad esempio, nella risoluzione 1566 (2004), adottata l’8 ottobre 2004, sempre in base al Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, il Consiglio di sicurezza ricorda che «gli atti criminali, in particolare quelli diretti contro civili con l’intenzione di causare la morte o infliggere ferite gravi ovvero la presa d’ostaggi allo scopo di seminare il terrore presso la popolazione, un gruppo di persone o dei singoli, d’intimidire una popolazione o di costringere un governo o un’organizzazione internazionale a compiere un atto o ad astenersi dal compierlo, previsti e qualificati come infrazioni nelle convenzioni e protocolli internazionali relativi al terrorismo, non potranno in alcuna circostanza essere giustificati da motivi di natura politica, filosofica, ideologica, razziale, etnica, religiosa o simili».


8 – GU L 344, pag. 93.


9 – GU L 166, pag. 75.


10 – Nell’aprile del 2004, per quanto riguarda il PKK, l’iscrizione è stata modificata come segue: «Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) (anche noto come KADEK; anche noto come KONGRA-GEL)», v. posizione comune 2003/309/PESC del 2 aprile 2004 (GU L 99, pag. 61).


11 – GU L 164, pag. 3.


12 – V. le conclusioni della presidenza, disponibili su http://www.europarl.europa.eu/summits/.


13 – La decisione è stata adottata dal Bundesamt für die Anerkennung ausländischer Flüchtlinge (ufficio federale per il riconoscimento dei diritti dei rifugiati stranieri), successivamente sostituito dal Bundesamt.


14 – Anche nel caso di D, come per B, la decisione è stata adottata dal Bundesamt für die Anerkennung ausländischer Flüchtlinge, successivamente divenuto Bundesamt.


15 –      Si tratta della posizione comune 2001/931, v. in proposito supra, paragrafo 11.


16 – La decisione di revoca nel caso di D, datata 6 maggio 2004, e la decisione di diniego nel caso di B, datata 14 settembre 2004, sono peraltro anteriori alla stessa entrata in vigore della direttiva (20 ottobre 2004).


17 – Sentenza 2 marzo 2010, cause riunite C-175/08, C-176/08 e C-179/08 (non ancora pubblicata nella Raccolta).


18 – Così, ad esempio, la risoluzione 1373 (2001) dichiara contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite «atti, pratiche e metodi terroristici» e vieta agli Stati di dare asilo a coloro che «finanziano, organizzano, sostengono o commettono atti di terrorismo». V. supra, paragrafi 5 e 6.


19 – In particolare l’art. 63, n. 1, lett. c), CE, che figura tra le disposizioni sul cui fondamento è stata adottata la direttiva.


20 – V. supra, paragrafo 13


21 – V. supra, paragrafo 14.


22 – Sentenza Aydin Salahadin Abdulla e a., cit. supra alla nota 17, punto 53.


23 – V. supra, paragrafo 14. L’istituzione di consultazioni con l’UNHCR era già prevista nella dichiarazione n. 17 allegata al Trattato di Amsterdam. L’importanza del ruolo dell’UNHCR è stata recentemente riconfermata nel Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo del 2008 e nella proposta di regolamento che istituisce l’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo, adottata dalla Commissione il 18 febbraio 2009 [COM(2009) 66 final].


24 – Attualmente composto da 78 membri, rappresentanti di Stati membri delle Nazioni Unite o membri di una delle agenzie specializzate, il Comitato esecutivo è stato creato nel 1959 dal Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite su richiesta dell’Assemblea generale. Le conclusioni del Comitato esecutivo sono adottate per consenso. Una raccolta tematica delle conclusioni del Comitato esecutivo, aggiornata all’agosto 2009, è disponibile sul sito internet dell’UNCHR. Sebbene non abbiano carattere vincolante, il rispetto di tali conclusioni rientra nel quadro della cooperazione con l’UNHCR, cui gli Stati contraenti si sono impegnati in forza dell’art. 35, n. 1, della Convenzione.


25 – UNHCR, Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugees Status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, 1 gennaio 1992, disponibile su http://www.unhcr.org/refworld/docid/3ae6b3314.html. La redazione del Manuale fu voluta dal Comitato esecutivo nel 1977. Anche in questo caso si tratta di un testo non vincolante per gli Stati contraenti, al quale viene tuttavia riconosciuta una certa efficacia persuasiva; v. Hathaway, The Rights of Refugees under International Law, Cambridge University Press, 2005, pag. 114.


26 – Hathaway, op. cit., pagg. 115-116.


27 – La Conclusione sulla protezione internazionale n. 81, del 1997, del Comitato esecutivo dell’UNHCR, alla lett. e) esorta gli Stati «to take all necessary measures to ensure that refugees are effectively protected, including through national legislation, and in compliance with their obligations under international human rights and humanitarian law instruments bearing directly on refugee protection, as well as through full cooperation with UNHCR in the exercise of its international protection function and its role in supervising the application of international conventions for the protection of refugees»; nella Conclusione n. 50, del 1988, il Comitato esecutivo afferma, alla lett. c), «States must continue to be guided, in their treatment of refugees, by existing international law and humanitarian principles and practice bearing in mind the moral dimension of providing refugee protection».


28 – Cit. supra alla nota 17.


29 – L’analisi circa i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato interviene, salvo casi eccezionali, prima di quella relativa all’esistenza di cause di esclusione («inclusion before exclusion»).


30 – Global consultations on International Protection, 3-4 maggio 2001, punto 4 delle conclusioni, disponibile sul sito internet dell’UNHCR.


31 – Special Rapporteur on the promotion and the protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism, rapporto del 15 agosto 2007, paragrafo 71, disponibile su http://www.uchr.org/refworld/docid/472850e92.html.


32 – In questo senso v., inter alia, la Conclusione del Comitato esecutivo dell’UNHCR n. 82, del 1997, sulla salvaguardia dell’asilo.


33 – In particolare, ove si legga tale disposizione alla luce delle altre due cause di esclusione previste alle lett. a) e c) del medesimo articolo della Convenzione.


34 – V. in proposito il documento elaborato dall’UNHCR ai fini del presente giudizio, prodotto in allegato alle osservazioni scritte di B, paragrafo 4.1.1.1.


35 – V., ad esempio, Grahl-Madsen, Status of Refugees, vol. 1, pag. 294; Goodwin-Gill e MacAdam, The Refugee in International Law, Oxford University Press, 3a ed., pag. 117.


36 – Ad esempio, l’età al momento della commissione del reato, ovvero le condizioni economiche, sociali e culturali del richiedente lo status di rifugiato, in particolare quando si tratti di soggetti appartenenti a determinati categorie (ad esempio minoranze etniche, o religiose).


37 – A tale titolo, sono, a mio avviso, da considerare, ad esempio, la situazione politica, sociale ed economica nello Stato in cui l’infrazione è stata commessa nonché il livello di tutela dei diritti umani.


38 – Secondo l’Handbook, paragrafi 151‑161, rileva, anche ai fini di una non applicazione della causa di esclusione, il fatto che il richiedente lo status di rifugiato abbia, in tutto o in parte, scontato la pena, ovvero sia stato oggetto di un provvedimento di amnistia o di grazia.


39 – UNHCR, Guidelines on International Protection: Application of the Exclusion Clauses: Article 1F of the 1951 Convention relating to the Status of Refugees, 4 settembre 2003, punto 14.


40 – Ibidem.


41 – Secondo l’Handbook il reato deve almeno essere a «capital crime or a very grave punishable act», mentre nelle conclusioni delle Global Consultations on International Protection del 3-4 maggio 2001, si qualifica come serio un reato cui corrisponde un lungo periodo di detenzione (paragrafo 11). V. in questo senso anche Gilbert, Current Issues in the Application of the Exclusion Clauses, 2001, disponibile su http://www.unhcr.org/3b389354b.html, pag. 17


42 – Goodwin-Gill e McAdam, op. cit., pag. 177 e dottrina citata alla nota 216.


43 – L’espressione è utilizzata nei lavori preparatori della Convenzione del 1951 con riferimento all’art. 1F, lett. b).


44 – Guidelines del 2003, paragrafo 15.


45 – Alcuni reati, come ad esempio la rapina o il traffico di stupefacenti, anche se commessi allo scopo di finanziare il perseguimento di obiettivi politici, potrebbero, data la loro natura, essere qualificati come non politici.


46 – L’omicidio o il tentato omicidio può, entro certi limiti, essere diversamente valutato se avvenuto nel contesto di una guerra civile o di un’insurrezione.


47 – Rileva ad esempio se l’atto è commesso contro obiettivi civili o militari o ancora politici, se implica il ricorso a una violenza cieca o è commesso con crudeltà.


48 – Al di là della motivazione individuale, occorre valutare l’esistenza di un nesso causale evidente e diretto con l’obiettivo politico, v. in tal senso l’Handbook, paragrafo 152, e le Guidelines del 2003, paragrafo 15.


49 – V. Handbook, paragrafo 152; Guidelines del 2003, paragrafo 15.


50 – V. Handbook, paragrafo 152, Guidelines del 2003, paragrafo 15.


51 – Un determinato atto può essere, ad esempio, diversamente valutato quando si inserisce in un contesto di opposizione a regimi totalitari, colonialisti, razzisti o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Va ricordato in ogni caso che, secondo l’UNHCR, affinché un reato possa essere considerato come politico, gli obiettivi perseguiti devono comunque essere conformi ai principi di tutela dei diritti umani.


52 – L’Alto commissariato rileva che, nella maggior parte dei casi, saranno piuttosto le cause di esclusione previste dalle lett. a) e b) a trovare applicazione.


53 – Il testo è disponibile su: http://www.unhcr.org/refworld/docid/3f5857d24.html.


54 – Paragrafo 47.


55 – V. Goodwin-Gill e McAdam, op. cit., pag. 22, nota 143.


56 – In cui si evidenziò come la disposizione in parola non fosse indirizzata all’«uomo della strada», v. Background Note, paragrafo 47.


57 – Paragrafo 163.


58 – Nelle Guidelines del 1996, l’UNHCR riferisce dell’applicazione di tale articolo, negli anni ‘50, a soggetti che si erano resi colpevoli di denunce alle autorità di occupazione con estreme conseguenze per le persone denunciate, inclusa la morte (paragrafo 61). V. Gilbert, op. cit., pag. 22, nota 144; tale autore sembra tuttavia condividere una lettura meno ampia della disposizione in questione, suggerendo una sua applicazione unicamente a soggetti che rivestono posizioni elevate nel governo di uno Stato o all’interno di un movimento di ribellione che controlla una parte del territorio all’interno di uno Stato.


59 – V. risoluzione 53/108 del 26 gennaio 1999.


60 – V. paragrafo 5 supra.


61 – Allegata alla risoluzione dell’assemblea generale delle Nazioni Unite 54/109, del 25 febbraio 2000.


62 – V. in proposito, inter alia, Halberstam e Stein, The United Nations, The European Union and the King of Sweden: Economic sanctions and individual rights in a plural world order, in Common Market Law Review, 2009, pagg. 13 e seqq.


63 – Goodwin-Gill e McAdam, op. cit., pag. 195.


64 – V. UN doc. E/CN.4/2004/4, 5 agosto 2003


65– V. le Guidelines del 2003, paragrafo 15.


66 – La Background Note e le Guidelines del 2003 si riferiscono a «egregious acts of international terrorism affecting global security». La Background Note precisa inoltre che «only the leaders of groups responsible for such atrocities would in principle be liable to exclusion under this provision» (paragrafo 49). Nello stesso senso sembra orientarsi anche il documento dell’UNHCR elaborato ai fini del presente giudizio.


67 – Come noto, tra la fine del 2006 e i primi mesi del 2008, pronunciandosi sui ricorsi introdotti da talune organizzazioni incluse in detto elenco, il Tribunale di primo grado delle Comunità europee, annullava, essenzialmente per difetto di motivazione e violazione dei diritti della difesa, le decisioni con le quali il Consiglio aveva proceduto all’iscrizione delle organizzazioni ricorrenti, nella misura in cui concernevano queste ultime; v., in particolare, per quanto riguarda il PKK, sentenza del Tribunale 3 aprile 2008, causa T‑229/02, PKK/Consiglio (Racc. pag. II‑45).


68 – Nelle Guidelines del 2003, l’UNHCR afferma che una presunzione di responsabilità può nondimeno discendere dalla volontaria adesione a gruppi «i cui obiettivi, attività e metodi siano di natura particolarmente violenta». Una tale presunzione sarebbe comunque sempre superabile (paragrafo 19).


69 – Non si può escludere, ad esempio, che responsabili di tali attività fossero solo alcune frange estremiste con cui tale soggetto non è mai entrato in contatto ovvero che quest’ultimo abbia fatto parte dell’organizzazione in un periodo anteriore o posteriore alla messa in atto di strategie terroristiche, o ancora che vi abbia aderito solo per il tempo necessario a rendersi conto dei metodi praticati e a dissociarsene. Al riguardo, vale la pena ricordare che, nella sentenza Van Duyn, la Corte ha precisato, sebbene nel diverso contesto delle restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori giustificate da motivi di ordine pubblico, che l’appartenenza a un gruppo o a un’organizzazione viene in rilievo come atto volonario e comportamento personale dell’interessato ove rifletta una partecipazione alle attività del gruppo o dell’organizzazione e un’identificazione con i suoi scopi e i suoi programmi (sentenza 4 dicembre 1974, causa 41/74, van Duyn, Racc. pag. 1337, punto 17).


70 – Il gruppo in questione potrebbe, per fare solo alcuni esempi, presentare una composizione frammentata e comportare al proprio interno diverse cellule o correnti, anche in conflitto tra loro, di cui, alcune moderate altre estremistiche, ovvero potrebbe aver modificato nel tempo obiettivi e strategie, passando ad esempio dall’opposizione politica alla guerriglia e viceversa, dal privilegiare obiettivi militari all’attuare una vera e propria strategia terroristica e così via. Allo stesso modo, il contesto in cui tale gruppo opera potrebbe essere mutato, a causa, ad esempio, di un cambiamento della situazione politica, ovvero di un’estensione dell’attività del gruppo da un ambito locale o regionale a un contesto internazionale.


71 – V. Guidelines del 2003.


72 – Secondo Guidelines del 2003, ad esempio, le cause di esclusione potrebbero non trovare applicazione nel caso di avvenuta espiazione del reato (ad es. ove sia stata scontata la pena ovvero sia trascorso un significativo lasso di tempo dalla commissione dell’atto). L’UNHCR è più cauto in caso di avvenuta grazia o amnistia, in particolare a fronte di crimini o atti particolarmente brutali (punto 23).


73 – Nel programma dell’Aia, che stabilisce gli obiettivi e strumenti in materia di giustizia e affari interni per il periodo 2005 – 2010, il Consiglio europeo ha espresso il suo impegno a sviluppare ulteriormente il sistema europeo comune di asilo attraverso la modifica del quadro normativo e il rafforzamento della cooperazione pratica, in particolare attraverso l’istituzione dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo. Tuttavia, come recentemente ricordato dal Consiglio europeo nel Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo del 2008, la concessione della protezione e in particolare dello status di rifugiato rientra nella competenza di ciascuno Stato membro.


74 – Nello stesso senso si è espresso anche l’UNHCR nel documento elaborato ai fini del presente giudizio.


75 – V. l’Handbook, paragrafo 157.


76 – V. Goodwin-Gill e McAdam, op. cit., pag. 174.


77 – Gilbert, op. cit., pag. 5, sottolinea che gran parte dei trattati sull’estradizione prevedono un obbligo di estradare o di processare (aut dedere aut judicare) e che diverse convenzioni multilaterali sulla repressione del terrorismo includono clausole che escludono l’estradizione nel caso di rischio di persecuzioni per motivi di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche e origini etniche.


78 – Ibidem, pag. 4.


79 – V. Guidelines del 2003. V. anche Handbook del 1979, paragrafo 156. Tale distinzione non mi sembra tuttavia emergere così chiaramente nel documento elaborato dall’UNHCR ai fini del presente giudizio.


80 – V. Gilbert, op. cit., pag. 18.


81 – V. anche la nota n. 52 del documento elaborato dall’UNHCR ai fini del presente giudizio.


82 – Ad esempio in virtù dell’art. 3 CEDU o dell’art. 3 della Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, conclusa a New York il 10 dicembre 1984.


83 – Per i soggetti che si sono resi colpevoli di tali crimini potrà essere eventualmente disponibile una protezione informale dello Stato della richiesta, che potrà altresì procedere penalmente nei loro confronti in virtù della giurisdizione universale riconosciuta per determinati crimini in trattati multilaterali; v. in questo senso Gilbert, op. cit. pag. 19.