Language of document : ECLI:EU:C:2008:63

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

PAOLO Mengozzi

presentate il 31 gennaio 2008 (1)

Causa C‑533/06

O2 Holdings Limited & O2 (UK) Limited

contro

Hutchison 3G UK Limited

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal (England & Wales) (Inghilterra e Galles)]

«Direttiva 84/450/CEE – Pubblicità comparativa – Utilizzo del marchio, o di un segno simile al marchio, di un concorrente in una pubblicità comparativa – Applicabilità dell’art. 5, n. 1, della direttiva 89/104/CEE – Condizioni di liceità del confronto pubblicitario – Indispensabilità del riferimento al marchio del concorrente»





1.        Con la presente domanda di pronuncia pregiudiziale, la Court of Appeal (England & Wales) pone alla Corte quesiti vertenti sull’interpretazione di disposizioni contenute nella prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (2), e nella direttiva del Consiglio 10 settembre 1984, 84/450/CEE, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa (3), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 ottobre 1997, 97/55/CE (4).

2.        Tali quesiti sono sollevati nell’ambito di una causa che vede opporsi imprese attive nel settore della telefonia mobile, la O2 Holdings Limited e la O2 (UK) Limited (in prosieguo, collettivamente: la «O2»), da un lato, e la Hutchison 3G Limited (in prosieguo: la «H3G»), dall’altro, a proposito di una campagna pubblicitaria televisiva svolta da quest’ultima nel Regno Unito per promuovere i suoi servizi di telefonia mobile.

 Contesto normativo

3.        L’art. 5 della direttiva 89/104, intitolato «Diritti conferiti dal marchio di impresa», così recita:

«1. Il marchio di impresa registrato conferisce al titolare un diritto esclusivo. II titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio:

a)      un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi identici a quelli per cui esso è stato registrato;

b)      un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio di impresa.

2. Uno Stato membro può inoltre prevedere che il titolare abbia il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso, di usare nel commercio un segno identico o simile al marchio di impresa per i prodotti o servizi che non sono simili a quelli per cui esso è stato registrato, se il marchio di impresa gode di notorietà nello Stato membro e se l’uso immotivato del segno consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi.

3. Si può in particolare vietare, se le condizioni menzionate a[i] paragraf[i] 1 e 2 sono soddisfatte:

a)      di apporre il segno sui prodotti o sul loro condizionamento;

b)      di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire servizi contraddistinti dal segno;

c)      di importare o esportare prodotti contraddistinti dal segno;

d)      di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità.

(…)

5. I paragrafi da 1 a 4 non pregiudicano le disposizioni applicabili in uno Stato membro per la tutela contro l’uso di un segno fatto a fini diversi da quello di contraddistinguere i prodotti o servizi, quando l’uso di tale segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio di impresa o reca pregiudizio agli stessi».

4.        L’art. 6 della direttiva 89/104, intitolato «Limitazione degli effetti del marchio di impresa», stabilisce, al n. 1, quanto segue:

«Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l’uso nel commercio:

a)      del loro nome e indirizzo;

b)      di indicazioni relative alla specie, alla qualità, alla quantità, alla destinazione, al valore, alla provenienza geografica, all’epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio o ad altre caratteristiche del prodotto o del servizio;

c)      del marchio di impresa se esso è necessario per contraddistinguere la destinazione di un prodotto o servizio, in particolare come accessori o pezzi di ricambio,

purché l’uso sia conforme agli usi consueti di lealtà in campo industriale e commerciale».

5.        La direttiva 97/55 ha introdotto nella direttiva 84/450, in origine riguardante solamente la pubblicità ingannevole, una serie di disposizioni in materia di pubblicità comparativa.

6.                 L’art. 2, punto 2 bis), della direttiva 84/450, come modificata dalla direttiva 97/55 (in prosieguo: la «direttiva 84/450») (5), definisce la «pubblicità comparativa», ai fini della direttiva stessa, come «qualsiasi pubblicità che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente».

7.                 L’art. 3 bis, n. 1, della direttiva 84/450 dispone quanto segue:

«Per quanto riguarda il confronto, la pubblicità comparativa è ritenuta lecita qualora siano soddisfatte le seguenti condizioni: che essa

a)       non sia ingannevole ai sensi dell’articolo 2, punto 2, dell’articolo 3 e dell’articolo 7, paragrafo 1;

b)      confronti beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;

c)      confronti obiettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali beni e servizi;

d)      non ingeneri confusione sul mercato fra l’operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente;

e)      non causi discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente;

f)      per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisca in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione;

g)      non tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o a altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;

h)      non rappresenti un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati».

 Causa nazionale e questioni pregiudiziali

8.        Ai fini della promozione, in particolare, dei suoi servizi di telefonia mobile, la O2 utilizza immagini di bolle di vario tipo. Essa è tra l’altro titolare, oltre che di marchi costituiti dalla combinazione della lettera O e del numero 2 (in prosieguo: i «marchi O2»), di due marchi figurativi che rappresentano entrambi un’immagine statica di bolle, registrati nel Regno Unito per apparecchi e servizi di telecomunicazione (in prosieguo: i «marchi con bolle»). Dalla decisione di rinvio emerge che è stato provato che i consumatori associano esclusivamente alla O2 le immagini di bolle nell’acqua (in particolare su uno sfondo blu graduato) utilizzate in un contesto di telefonia mobile.

9.        La H3G offre servizi di telefonia mobile nel Regno Unito, contraddistinti dal segno «3», solo dal marzo 2003, quando quattro altri operatori, tra i quali la O2, avevano una posizione ben consolidata nel mercato. Nel marzo 2004 la H3G lanciava un servizio prepagato denominato «Threepay» e, nel corso dello stesso anno, una campagna di pubblicità comparativa, nell’ambito della quale venivano diffusi sugli schermi televisivi messaggi pubblicitari operanti un confronto di prezzo con servizi di operatori concorrenti.

10.      La O2 intentava davanti alla High Court of Justice (England & Wales), Chancery Division, un’azione per contraffazione dei marchi O2 e dei marchi con bolle contro la H3G, in riferimento ad un messaggio pubblicitario televisivo fatto diffondere da quest’ultima in cui si utilizzavano il termine «O2» ed immagini di bolle in movimento, oltre all’immagine stilizzata e animata di un 3, e da cui risultava, in sostanza, che il servizio «Threepay» era meno costoso dell’analogo servizio offerto dalla O2 (in prosieguo: la «pubblicità controversa»).

11.      Nell’ambito di tale azione la O2 ha poi cessato di far valere la contraffazione dei marchi O2 (6) ed ha ammesso che la comparazione riguardante i prezzi era veritiera e che, nel suo complesso, la pubblicità controversa non era ingannevole da nessun punto di vista e, in particolare, non suggeriva alcun tipo di rapporto, dal punto di vista commerciale, tra la O2 e 3. Il pubblico medio avrebbe considerato l’uso del segno O2 e delle bolle come un riferimento alla O2 e alla sua immagine e avrebbe capito che si trattava di una pubblicità di un concorrente, 3, che affermava che il prezzo del suo servizio era inferiore (7).

12.      L’azione per contraffazione, ormai diretta solo contro l’uso delle immagini di bolle nella pubblicità controversa, veniva respinta con sentenza del 23 marzo 2006. In sostanza, il giudice adito considerava che detto uso rientrava sì nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva 89/104, ma che la pubblicità era conforme all’art. 3 bis, n. 1, della direttiva 84/450, per cui sussistevano le condizioni per l’applicazione dell’eccezione di cui all’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva 89/104.

13.      La O2 proponeva appello nei confronti della suddetta sentenza dinanzi alla Court of Appeal, contestando l’applicazione della richiamata eccezione. La H3G contestava a sua volta la sentenza nella parte in cui aveva dichiarato che la pubblicità controversa rientrava nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva 89/104, e chiedeva comunque il rigetto dell’appello della O2.

14.      Al fine di risolvere la controversia, la Court of Appeal, con decisione del 14 dicembre 2006, ha ritenuto necessario porre alla Corte le questioni pregiudiziali seguenti:

«1)       Qualora un operatore commerciale, in una pubblicità relativa ai propri prodotti o servizi, usi un marchio registrato di cui è titolare un concorrente allo scopo di comparare le caratteristiche (e, in particolare, il prezzo) di prodotti o servizi da lui commercializzati con le caratteristiche (e, in particolare, con il prezzo) dei prodotti o servizi commercializzati dal concorrente sotto tale marchio, in modo tale da non creare confusione o compromettere in altro modo la funzione essenziale del marchio come indicazione di origine, tale uso rientri nell’art. 5, n. 1, lett. a) o b), della direttiva 89/104.

2)      Qualora un operatore commerciale usi, in una pubblicità comparativa, il marchio registrato di un concorrente, tale uso, per essere conforme all’art. 3 bis della direttiva 84/450, come modificata, debba essere “indispensabile” e, in tal caso, quali siano i criteri in base ai quali valutare l’indispensabilità.

3)       In particolare, se, qualora esista una condizione di indispensabilità, tale condizione precluda qualsiasi uso di un segno che non è identico al marchio registrato, ma molto simile ad esso».

 Procedimento dinanzi alla Corte

15.      In forza dell’art. 23 dello Statuto della Corte, hanno depositato osservazioni scritte dinanzi alla Corte la O2, la H3G e la Commissione, i cui rappresentanti hanno altresì svolto osservazioni orali all’udienza tenutasi il 29 novembre 2007.

 Analisi giuridica

  Sulla prima questione pregiudiziale

16.      Con la prima questione pregiudiziale il giudice di rinvio vuole in sostanza sapere se l’utilizzo del marchio registrato (in prosieguo, più semplicemente: del «marchio») di un concorrente nell’ambito di una pubblicità comparativa al fine di mettere a confronto le caratteristiche dei prodotti o servizi dell’operatore pubblicitario e quelle dei prodotti o servizi del concorrente ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a) o b), della direttiva 89/104, nell’ipotesi in cui tale utilizzo non crei confusione né comprometta in altro modo la funzione essenziale del marchio, che è quella di garantire la provenienza del prodotto o servizio.

17.      La questione è posta in quanto il giudice nazionale di primo grado ha ritenuto che la pubblicità controversa rientrasse nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della predetta direttiva e che fosse lecita solo in quanto, essendo conforme all’art. 3 bis della direttiva 84/450, era coperta dall’eccezione di cui all’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva 89/104, mentre la H3G sostiene che essa non ricadesse affatto nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), di quest’ultima direttiva.

18.      È appena il caso di ricordare, in premessa, che, secondo una giurisprudenza costante, una direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti, ma che, nell’applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale chiamato ad interpretarlo deve farlo quanto più possibile alla luce della lettera e dello scopo della direttiva per conseguire il risultato da questa perseguito e conformarsi pertanto all’art. 249, terzo comma, CE (8). È in quest’ottica che vanno intesi, nel presente procedimento pregiudiziale, i riferimenti alle disposizioni delle direttive 89/104 e 84/450.

19.      È probabile che, sollevando la suddetta questione pregiudiziale, il giudice di rinvio si attenda che la Corte chiarisca i presupposti di applicazione delle disposizioni di cui all’art. 5, n. 1, lett. a) e b), della direttiva 89/104, ed in particolare se i divieti contemplati da queste disposizioni valgano anche quando l’uso in una pubblicità di un segno identico o simile al marchio altrui è fatto per contraddistinguere non i prodotti o servizi dell’operatore pubblicitario, ma quelli del titolare di questo marchio (9).

20.      Una risposta in termini alla questione in tal modo posta dal giudice di rinvio richiederebbe un esame della giurisprudenza relativa all’art. 5, n. 1, lett. a) e b), della direttiva 89/104, la quale non appare, almeno a prima vista, del tutto omogenea quanto ai presupposti di applicazione di tali disposizioni. Richiamo al riguardo in particolare la difficoltà di conciliare l’approccio seguito dalla Corte nella sentenza BMW (10), dalla quale sembra risultare che l’uso che faccia un terzo di un marchio altrui per contraddistinguere non il proprio prodotto o servizio, ma quello del titolare del marchio, non sfugge di per sé all’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104, con l’approccio seguito in più recenti pronunce, che lasciano adito a propendere piuttosto per la soluzione opposta.

21.      Nella sentenza BMW la Corte ha considerato rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104, salva l’applicazione degli artt. 6 o 7 della medesima direttiva, l’uso in una pubblicità di un marchio altrui volto a contraddistinguere i prodotti del titolare del marchio in quanto oggetto dei servizi prestati dall’autore della pubblicità (11).

22.      Nella sentenza Hölterhoff (12) la Corte ha escluso che il titolare di un marchio possa invocare il suo diritto esclusivo ex art. 5, n. 1, della direttiva 89/104 qualora un terzo, nell’ambito di trattative commerciali, renda noto che la merce è di sua produzione e usi il marchio di cui trattasi esclusivamente per descrivere le particolari caratteristiche della merce da lui offerta (13), così che è escluso che il marchio usato venga inteso come contrassegno dell’azienda di provenienza di detta merce.

23.      Nella sentenza Arsenal Football Club (14) la Corte ha precisato che il diritto esclusivo previsto all’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104 è stato concesso «al fine di consentire al titolare del marchio d’impresa di tutelare i propri interessi specifici quale titolare di quest’ultimo, ossia garantire che il marchio possa adempiere le sue proprie funzioni», e che «[l]’esercizio di tale diritto deve essere pertanto riservato ai casi in cui l’uso del segno da parte di un terzo pregiudichi o possa pregiudicare le funzioni del marchio e, in particolare, la sua funzione essenziale di garantire ai consumatori la provenienza del prodotto» (15).

24.      Nella stessa sentenza la Corte rilevava che nel caso di specie l’uso del segno in questione non era manifestamente destinato a fini puramente descrittivi, ché altrimenti sarebbe stato escluso dall’ambito di applicazione della suddetta disposizione, ma era tale da rendere credibile l’esistenza di un collegamento materiale nel commercio tra i prodotti del terzo e il titolare del marchio e perciò da mettere a repentaglio la garanzia di provenienza che costituisce la funzione essenziale del marchio. La Corte concludeva trattarsi quindi di un uso al quale il titolare del marchio poteva opporsi in conformità all’art. 5, n. 1, della direttiva 89/104 (16).

25.      Nella sentenza Adam Opel (17) la Corte ha considerato che, «[a]l di fuori [della] specifica ipotesi di uso di un marchio da parte di un terzo prestatore di servizi aventi ad oggetto i prodotti contrassegnati da tale marchio», quale quella esaminata nella citata sentenza BMW, «l’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva [89/104] deve essere interpretato nel senso che contempla l’uso di un segno identico al marchio per prodotti venduti o servizi forniti dal terzo che siano identici a quelli per i quali il marchio è registrato». Nella stessa sentenza Adam Opel è indicato che, se nella sentenza BMW la Corte ha statuito che, nelle specifiche circostanze di cui alla causa oggetto di quest’ultima sentenza, «l’uso da parte del terzo del segno identico al marchio per prodotti commercializzati non dal terzo stesso, bensì dal titolare del marchio, ricadeva nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva», ciò era «[p]roprio in considerazione [del] collegamento specifico e indissolubile tra i prodotti contrassegnati dal marchio ed i servizi forniti dal terzo».

26.      Così, l’uso di un marchio altrui fatto da un terzo per contraddistinguere i prodotti o servizi forniti dal titolare del marchio e che non ingeneri confusione sulla provenienza di quei prodotti o servizi e di quelli del terzo sembrerebbe poter rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, della direttiva 89/104 in base alla sentenza BMW, sfuggirne in base alle sentenze Hölterhoff e Adam Opel, mentre, in base alla giurisprudenza citata al paragrafo 23 supra, occorrerebbe ancora verificare, per accertare se siffatto uso rientri o meno in quell’ambito applicativo, se esso sia tale da pregiudicare una funzione del marchio diversa da quella essenziale di garanzia di provenienza.

27.      Su quest’ultimo punto la O2 insiste nelle sue osservazioni scritte presentate nell’ambito del presente procedimento, evocando in particolare la «funzione pubblicitaria» del marchio ed il pregiudizio che la pubblicità controversa arrecherebbe a tale funzione dei propri marchi con bolle.

28.      Ritengo tuttavia che, alla luce delle disposizioni della direttiva 84/450 in materia di pubblicità comparativa, la questione formulata dal giudice di rinvio possa ricevere un’agevole risposta negativa senza che sia necessario proseguire nello spinoso esame dei presupposti di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a) e b), della direttiva 89/104.

29.      Occorre anzitutto ricordare che la direttiva 97/55 ha inteso uniformare «le disposizioni essenziali che disciplinano la forma e il contenuto della pubblicità comparativa» e armonizzare «le condizioni per l’utilizzazione della pubblicità comparativa in tutti gli Stati membri» (secondo ‘considerando’), in particolare fissando «le condizioni alle quali è consentita la pubblicità comparativa» (diciottesimo ‘considerando’).

30.      Sotto tale ultimo profilo, detta direttiva specifica, introducendo l’art. 3 bis nella direttiva 84/450, le condizioni di liceità della pubblicità comparativa (18), alla luce delle quali, come risulta dal settimo ‘considerando’ della direttiva 97/55, è possibile «determinare quali prassi in materia di pubblicità comparativa possono comportare una distorsione della concorrenza, svantaggiare i concorrenti e avere un’incidenza negativa sulla scelta dei consumatori». Come la Corte ha già sottolineato, l’obiettivo era «quello di stabilire le condizioni in cui la pubblicità comparativa deve essere ritenuta lecita nell’ambito del mercato interno» (19). Ne consegue, secondo la Corte, che «la direttiva 84/450 ha compiuto un’armonizzazione esaustiva delle condizioni di liceità della pubblicità comparativa negli Stati membri», la quale «armonizzazione implica, per definizione, che la liceità della pubblicità comparativa in tutta la Comunità dev’essere valutata unicamente alla luce dei criteri stabiliti dal legislatore comunitario» (20).

31.      A tal fine, l’art. 3 bis della direttiva 84/450 enumera le condizioni di liceità che devono essere cumulativamente soddisfatte per quanto riguarda il confronto pubblicitario (21).

32.      Orbene, occorre sottolineare che ben quattro delle otto disposizioni che compongono il n. 1 di tale articolo sono volte ad assicurare una protezione del marchio, della denominazione commerciale o di altri segni distintivi di un concorrente nel contesto del confronto pubblicitario. Come evidenziato dalla Corte, «la direttiva 84/450 consente all’operatore pubblicitario, a talune condizioni, di indicare in una pubblicità comparativa il marchio dei prodotti di un concorrente» (22). In particolare, si prevede che la pubblicità comparativa non debba: ingenerare confusione sul mercato tra i marchi, le denominazioni commerciali o altri segni distintivi dell’operatore pubblicitario e quelli di un concorrente [lett. d)]; causare discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali o altri segni distintivi di un concorrente [lett. e)]; trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o ad altro segno distintivo di un concorrente [lett. g)]; rappresentare un bene o servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati [lett. h)]. Ne discende, secondo la Corte, che, «quando il confronto non ha ad oggetto o per effetto di provocare tali situazioni di concorrenza sleale, l’utilizzo del marchio di un concorrente è ammesso dal diritto comunitario» (23).

33.      Nel quattordicesimo ‘considerando’ della direttiva 97/55 si osserva d’altronde che, «per poter svolgere una pubblicità comparativa efficace, può essere indispensabile identificare i prodotti o i servizi di un concorrente, facendo riferimento ad un marchio di cui quest’ultimo è titolare, oppure alla sua denominazione commerciale». Il successivo ‘considerando’ aggiunge che «una simile utilizzazione del marchio, della denominazione commerciale o di altri segni distintivi appartenenti ad altri, se avviene nel rispetto delle condizioni stabilite dalla presente direttiva, non viola il diritto esclusivo del titolare del marchio, essendo lo scopo unicamente quello di effettuare distinzioni tra di loro e quindi di metterne obiettivamente in rilievo le differenze».

34.      L’uso del marchio di un concorrente nell’ambito di una pubblicità che confronti le caratteristiche dei prodotti o servizi commercializzati da quest’ultimo sotto tale marchio con quelli dell’operatore pubblicitario è quindi disciplinato in via specifica ed esaustiva dall’art. 3 bis della direttiva 84/450. Esso è vietato solo se contrario alle condizioni previste da tale articolo. In tal caso, esso è vietato da quest’ultimo e non dall’art. 5, n. 1, lett. a) o b), della direttiva 89/104. Se invece è conforme a dette condizioni, esso non può essere considerato come vietato dalle disposizioni di cui all’art. 5, n. 1, lett. a) o b), della direttiva 89/104.

35.      Queste ultime, così come le disposizioni di cui all’art. 6, n. 1, della direttiva 89/104, non entrano dunque in considerazione al fine di valutare la liceità di detto uso. Poco importa chiedersi se a questa conclusione si perverrebbe anche in mancanza della direttiva 97/55 –perché, come sostengono la H3G e la Commissione, detto uso non ricadrebbe comunque nella sfera di applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a) e b), della direttiva 89/104 (24) – o se invece essa consegua all’introduzione, con l’art. 3 bis inserito nella direttiva 84/450 dalla direttiva 97/55, di una disciplina che, ponendosi come lex specialis per l’ipotesi di uso del marchio altrui in un confronto pubblicitario, è derogatoria rispetto a quella contenuta nell’art. 5, n. 1, lett. a) e b), della direttiva 89/104.

36.      Siffatta questione riveste, ai fini della controversia devoluta al giudice di rinvio, carattere ipotetico, per cui non occorre risolverla nel presente procedimento pregiudiziale.

37.      Rilevo peraltro che, come sottolineato dalla O2 (25), la prima questione pregiudiziale, quale formulata nella decisione di rinvio, verte sull’uso da parte di un operatore pubblicitario di un marchio altrui (o, più propriamente, di un segno identico al marchio altrui), quando però la controversia pendente davanti al giudice di rinvio concerne ormai, a seguito della riduzione da parte della O2 dell’oggetto della sua azione per contraffazione quale inizialmente proposta (26), l’uso da parte di un operatore pubblicitario (la H3G) non di marchi altrui (O2 o i marchi con bolle), ma di segni (immagini di bolle) molto simili a marchi altrui (i marchi con bolle).

38.      Ritengo comunque che tale precisazione non muti sostanzialmente i termini del problema sopra esaminato.

39.      L’uso in un messaggio pubblicitario di un segno simile al marchio di un concorrente può essere uno dei modi per identificare, in via almeno implicita, tale concorrente o i suoi prodotti o servizi, ai sensi dell’art. 2, punto 2 bis), della direttiva 84/450. Il messaggio pubblicitario che comporti siffatto uso e che sia diretto a stabilire un confronto tra l’operatore pubblicitario e il suo concorrente, o tra i relativi prodotti o servizi, sarà soggetto alla disciplina di cui all’art. 3 bis della direttiva 84/450. Detto articolo, come si è visto, predispone, all’interno di un insieme più ampio di norme che stabiliscono, in via esaustiva, le condizioni di liceità del confronto pubblicitario, norme specifiche volte ad assicurare tutela al marchio d’impresa rispetto a tale forma di pubblicità. Pertanto, qualora il titolare di un marchio voglia opporsi all’uso, nel contesto di un confronto pubblicitario, di un segno simile a detto marchio, egli deve fondare la propria pretesa sulla violazione di una delle condizioni di cui all’art. 3 bis della direttiva 84/450 (27), siffatto uso sfuggendo invece all’ambito di applicazione dell’art. 5, n. 1, della direttiva 89/104 al pari dell’uso di un marchio altrui nel medesimo contesto.

40.      Considero perciò che possa darsi alla prima questione pregiudiziale la risposta seguente:

«L’uso di un segno identico o simile al marchio registrato di un concorrente nell’ambito di una pubblicità che confronti le caratteristiche dei prodotti o servizi commercializzati da detto concorrente sotto tale marchio con quelle dei prodotti o servizi forniti dall’operatore pubblicitario è disciplinato in via esaustiva dall’art. 3 bis della direttiva 84/450 e non è soggetto all’applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a) o b), della direttiva 89/104».

 Sulla seconda e sulla terza questione pregiudiziale

41.      Con la seconda e la terza questione pregiudiziale il giudice di rinvio chiede anzitutto se, per essere lecito ai sensi dell’art. 3 bis della direttiva 84/450, l’uso del marchio di un concorrente in una pubblicità comparativa debba essere «indispensabile». In caso affermativo, il giudice di rinvio vorrebbe conoscere i criteri in base ai quali debba valutarsi tale indispensabilità e se questa condizione precluda qualsiasi uso di un segno non identico al marchio del concorrente, ma molto simile ad esso.

42.      La O2, fondandosi sul quattordicesimo e sul quindicesimo ‘considerando’ della direttiva 97/55, sui lavori preparatori di quest’ultima e sulla giurisprudenza della Corte, in particolare sulle sentenze Toshiba (28) e Siemens (29), sostiene che, se l’uso in una pubblicità comparativa del marchio di un concorrente dell’operatore pubblicitario non è indispensabile per identificare detto concorrente o i relativi prodotti o servizi, esso trae indebito vantaggio dalla notorietà del marchio stesso in violazione dell’art. 3 bis, n. 1, lett. g), della direttiva 84/450. La O2 fa valere che, poiché la H3G si è avvalsa, ai fini del confronto pubblicitario in questione, del marchio O2, perfettamente idoneo a identificare il concorrente dell’operatore pubblicitario, non vi era alcun bisogno per quest’ultimo di utilizzare le immagini di bolle, tanto più che esse costituivano una rappresentazione deformata dei marchi con bolle della O2.

43.      Sono tuttavia d’accordo con la H3G e con la Commissione nel ritenere che l’art. 3 bis della direttiva 84/450 non imponga il rispetto di una condizione di indispensabilità dell’uso del marchio altrui al fine di identificare il concorrente o i relativi prodotti o servizi nella pubblicità comparativa.

44.      A siffatta conclusione non può però pervenirsi semplicemente sulla base di quanto la Corte ha statuito, relativamente al problema della riproduzione, in un messaggio pubblicitario, oltre che del nome del concorrente, del logotipo e dell’immagine della facciata del negozio del medesimo, ai punti 83 e 84 della sentenza Pippig Augenoptik, richiamati dalla H3G. La Corte ha ivi concluso, muovendo dall’esame del quindicesimo ‘considerando’ della direttiva 97/55, che «l’art. 3 bis, n. 1, lett. e), della direttiva 84/450 non osta a che una pubblicità comparativa riproduca, oltre al nome del concorrente, il suo logotipo e un’immagine della facciata del suo negozio, se tale pubblicità rispetta le condizioni di liceità stabilite dal diritto comunitario».

45.      Orbene, poiché la predetta disposizione è intesa unicamente a vietare la pubblicità comparativa che «causi discredito o denigrazione» di marchi o di altri elementi relativi al concorrente, la suddetta conclusione cui è pervenuta la Corte non può che significare, oggettivamente, che la riproduzione, in un messaggio pubblicitario, oltre che del nome del concorrente, del logotipo e dell’immagine della facciata del negozio del medesimo – cioè di elementi che non sono verosimilmente indispensabili al fine di identificare il concorrente già designato per nome – non causa di per sé discredito o denigrazione per quest’ultimo. Ciò non toglie, tuttavia, che, come osservato dalla O2, una condizione di indispensabilità dell’uso del marchio o di altri segni distintivi altrui in un confronto pubblicitario possa essere eventualmente desunta da altre disposizioni del medesimo art. 3 bis. Peraltro, non ometto di rilevare l’ambiguità e l’imprecisione della statuizione della Corte che ho riportato al paragrafo 44 supra nella parte in cui sembra condizionare il rispetto dell’art. 3 bis, n. 1, lett. e), della direttiva 84/450 al rispetto di tutte le altre condizioni di liceità della pubblicità comparativa stabilite dal diritto comunitario, che non riguardano tuttavia l’aspetto screditante o denigratorio di siffatta pubblicità preso in considerazione da detta disposizione.

46.      Al fine di accertare se l’art. 3 bis della direttiva 84/450 prescriva una condizione di indispensabilità per l’uso del marchio altrui in un confronto pubblicitario, ricordo anzitutto che detto articolo realizza un’armonizzazione esaustiva delle condizioni di liceità di tale confronto (v. paragrafo 30 supra) ed osservo che nessuna delle sue disposizioni pone espressamente una condizione di indispensabilità per l’uso del marchio o di altro segno distintivo altrui.

47.      Non mi sembra nemmeno che, come sostenuto dalla O2, si possa desumere implicitamente una siffatta condizione dall’art. 3 bis, n. 1, lett. g), della predetta direttiva, disposizione che vieta di trarre indebito vantaggio dalla notorietà connessa al marchio o altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti.

48.      Il riferimento che la O2 fa al quattordicesimo ‘considerando’ della direttiva 97/55 non vale ad accreditare la sua interpretazione della predetta disposizione. Come giustamente rileva la Commissione, in tale ‘considerando’ il legislatore comunitario sembra aver voluto semplicemente evidenziare che, in linea di massima, per svolgere una pubblicità comparativa efficace è inevitabile il riferimento ad un marchio o alla denominazione commerciale del concorrente, senza con ciò individuare già una condizione di liceità di siffatto riferimento. D’altronde, le condizioni di liceità di tale riferimento sono evocate a parte nel successivo, quindicesimo ‘considerando’ («se avviene nel rispetto delle condizioni stabilite dalla presente direttiva»), il quale, quando menziona «una simile utilizzazione del marchio», intende riferirsi all’utilizzazione del marchio volta a identificare i prodotti o servizi di un concorrente e non ad un’utilizzazione del marchio che risulti indispensabile allo stesso fine.

49.      La Corte ha già avuto modo di interpretare l’art. 3 bis, n. 1, lett. g), della direttiva 84/450.

50.      Nella causa Toshiba essa era chiamata dal giudice nazionale, tra l’altro, a chiarire i criteri in base ai quali deve ritenersi che una pubblicità comparativa tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà connessa al segno distintivo di un concorrente, ai sensi della predetta disposizione.

51.      L’avvocato generale Léger ha suggerito alla Corte uno schema di ragionamento volto a identificare, nell’ambito dell’art. 3 bis, n. 1, lett. g), della direttiva 84/450, «il limite oltre il quale l’operatore pubblicitario debba essere considerato agire in maniera sleale». Egli ha indicato in premessa che supera detto limite una pratica che sia ispirata dal solo intento di trarre vantaggio dalla notorietà del concorrente al fine di favorire la propria attività, mentre non si potrebbe ritenere che esista un abuso di notorietà se il contenuto della pubblicità comparativa può essere giustificato da determinate esigenze (30).

52.      A tale ultimo riguardo l’avvocato generale Léger ha evinto dal quattordicesimo e dal quindicesimo ‘considerando’ della direttiva 97/55 che «il diritto esclusivo di un operatore economico sul suo marchio o su altri segni distintivi può essere utilizzato da un concorrente se il riferimento così operato sia giustificato dalle esigenze della pubblicità comparativa» e che «[l]’operatore pubblicitario ha il diritto di utilizzare tali riferimenti se il raffronto delle qualità e dei difetti rispettivi dei prodotti in concorrenza sia reso impossibile o, più semplicemente, debba essere penalizzato dall’assenza d’identificazione del concorrente». Quanto alle «modalità secondo cui è possibile utilizzare i segni distintivi del concorrente», egli ha osservato che, «[p]oiché le eccezioni vanno interpretate restrittivamente, le deroghe ai diritti tutelati dei titolari devono essere ammesse solo nei limiti strettamente necessari al perseguimento dell’obiettivo della direttiva, che è di rendere possibile il raffronto delle caratteristiche obiettive dei prodotti». «Di conseguenza», prosegue l’avvocato generale, «viene indebitamente tratto vantaggio dalla notorietà connessa ad un concorrente quando il riferimento fatto a quest’ultimo o il modo di farvi riferimento non è necessario all’informazione della clientela circa le qualità rispettive dei beni comparati. Per contro, tale addebito non può essere accolto qualora gli elementi su cui verte il raffronto non possano essere descritti senza che l’operatore pubblicitario ricorra a riferimenti al concorrente, anche ove possa trarne un determinato vantaggio». «È quindi sul criterio della necessità che [egli ha ritenuto] dover fondare una valutazione della regolarità di una pubblicità comparativa sotto il profilo dell’art. 3 bis, n. 1, lett. g), della direttiva» (31).

53.      Tali ultime considerazioni, che vengono a supportare la tesi interpretativa difesa dalla O2, sono però state a mio avviso disattese dalla Corte nella sentenza Toshiba. Il punto 54 di tale sentenza, invocato dalla O2, non viene in realtà in aiuto di quella tesi, dal momento che, se la Corte vi ha enunciato che «non si può ritenere che chi fa pubblicità tragga indebitamente vantaggio dalla notorietà collegata a segni distintivi del suo concorrente qualora un riferimento a tali segni sia il presupposto per un’effettiva concorrenza sul mercato di cui trattasi», nulla indica che essa abbia voluto anche intendere che, qualora invece non sia il presupposto per un’effettiva concorrenza su detto mercato, un riferimento a tali segni determinerebbe necessariamente per l’operatore pubblicitario un indebito vantaggio tratto dalla loro notorietà. Nella sentenza Toshiba la Corte ha piuttosto considerato che l’utilizzazione dei segni distintivi di un concorrente consente all’operatore pubblicitario «di trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà ad essi connessa solo quando la loro menzione ha l’effetto di creare nella mente del pubblico cui la pubblicità è indirizzata un’associazione tra il fabbricante con il quale vengono identificati i prodotti ed il fornitore concorrente, in quanto il pubblico trasferisce la reputazione dei prodotti del fabbricante ai prodotti del fornitore concorrente» (32).

54.      Ricollegandosi a tali statuizioni contenute nella sentenza Toshiba, l’avvocato generale Tizzano, nelle sue conclusioni rese nella causa Pippig Augenoptik (33), ha ritenuto che «l’indicazione della marca dei prodotti di un concorrente non si ponga in contrasto con l’art. 3 bis, n. 1, lett. g), qualora tale indicazione sia giustificata dall’obiettiva esigenza di identificare i prodotti del concorrente e mettere in rilievo le qualità di quelli reclamizzati (eventualmente tramite un raffronto diretto tra gli stessi) e non sia quindi esclusivamente volta a trarre vantaggio dalla notorietà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o ad altro segno distintivo del concorrente», «a meno che, in considerazione delle particolarità del caso di specie, non si debba constatare che detta indicazione è effettuata in maniera tale da creare un’associazione nel pubblico tra l’autore della pubblicità ed il concorrente, trasferendo la reputazione dei prodotti del secondo a quelli del primo».

55.      La Corte non ha preso posizione, nella citata sentenza Pippig Augenoptik, sull’interpretazione dell’art. 3 bis, n. 1, lett. g), ma vi è ritornata successivamente nella citata sentenza Siemens, dalla quale si evince che, al fine di verificare se l’uso di un marchio o altro segno distintivo di un concorrente da parte di un operatore pubblicitario in una pubblicità comparativa comporti un indebito vantaggio tratto dalla notorietà di tale marchio o segno, occorre, da un lato, accertare se tale uso possa avere l’effetto di creare, nella mente del pubblico a cui la pubblicità si indirizza, un’associazione tra il concorrente e il suddetto operatore, nel senso che detto pubblico potrebbe estendere la reputazione dei prodotti del primo a quelli venduti dal secondo (34), e, dall’altro, prendere in considerazione i benefici che la pubblicità comparativa in questione presenta per i consumatori (35).

56.      Se, come si osserva comunemente in dottrina, la pubblicità comparativa ha più spesso per oggetto il confronto con un concorrente più affermato e reca pertanto in sé un certo grado di ‘agganciamento’ alla reputazione del medesimo o dei relativi segni distintivi, il vantaggio ottenuto tramite siffatto agganciamento diventerebbe indebito, in base alle sentenze Toshiba e Siemens, solo quando si produce, nella mente del pubblico destinatario, un’associazione tra l’operatore pubblicitario e il suo concorrente tale per cui detto pubblico potrebbe estendere la reputazione dei prodotti di quest’ultimo a quelli del primo. Si tratta, secondo quelle sentenze, di un effetto che deve essere accertato nel caso concreto, accertamento che evidentemente prescinde da considerazioni relative all’indispensabilità del riferimento al segno distintivo del concorrente.

57.      Il criterio applicativo prescelto dalla Corte nelle suddette sentenze, fondato sull’analisi delle impressioni suscitate nel pubblico quanto ai rapporti tra le imprese identificate nella pubblicità, è alquanto favorevole all’operatore pubblicitario, permettendo il riferimento al segno distintivo altrui anche quando appaia che tale riferimento non serve alcuna legittima esigenza attinente all’operazione pubblicitaria, se non si realizza in concreto nella mente del pubblico quell’associazione con trasferimento di reputazione evocata nelle suddette sentenze. Personalmente, ritengo che un’impostazione che richieda l’esistenza di una siffatta esigenza, quale anche l’avvocato generale Léger sembrava prefigurare nella premessa del suo ragionamento riportata al paragrafo 51 supra, possa realizzare un più equilibrato contemperamento degli opposti interessi dell’operatore pubblicitario e del suo concorrente, in quanto permetterebbe di considerare vietato il riferimento al segno distintivo altrui qualora il confronto pubblicitario si rivelasse in realtà solo un pretesto per sfruttare in modo parassitario la notorietà di quel segno, indipendentemente dal realizzarsi della richiamata associazione.

58.      Ad ogni modo, senza che occorra, ai fini del presente procedimento pregiudiziale, enucleare in via generale i criteri da seguire nell’applicazione dell’art. 3 bis, n. 1, lett. g), della direttiva 84/450, basti rilevare che le sentenze Toshiba e Siemens non recepiscono, ma anzi implicitamente escludono il criterio dell’indispensabilità (o necessità) per quanto riguarda l’uso di un marchio o altro segno distintivo del concorrente in un confronto pubblicitario. Non si può cioè sostenere, come fa la O2, che, qualora detto uso non sia indispensabile al fine di identificare il concorrente o i relativi prodotti o servizi, la pubblicità comparativa è ipso facto tale da arrecare all’operatore pubblicitario un indebito vantaggio tratto dalla notorietà di quel marchio o segno. Come osserva la Commissione, siffatto indebito vantaggio va invece accertato in concreto senza che possa presumersi dal carattere non indispensabile del riferimento a quel marchio o segno nel confronto pubblicitario.

59.      D’altronde, come giustamente osservano sia la H3G che la Court of Appeal nella decisione di rinvio, depone contro l’affermazione dell’esistenza di una condizione di indispensabilità di tal genere l’esigenza, costantemente sottolineata nella giurisprudenza della Corte in materia, di interpretare nel senso più favorevole alla pubblicità comparativa le condizioni di liceità che questa deve soddisfare (36).

60.      Le considerazioni appena esposte, riferite all’uso in una pubblicità comparativa del marchio di un concorrente, valgono naturalmente anche a proposito dell’uso nel medesimo contesto di un segno non identico, ma simile a detto marchio. La questione giuridica posta alla Corte circa l’esistenza, in base all’art. 3 bis della direttiva 84/450, di una condizione di liceità relativa all’indispensabilità dell’uso di un segno volto a identificare il concorrente si pone a mio avviso negli stessi termini, che si tratti dell’uso di un segno identico o di un segno soltanto simile al marchio del concorrente.

61.      Aggiungo peraltro, su un piano concreto che va però ben oltre quanto necessario per rispondere alla prima parte della seconda questione pregiudiziale (37), che appare difficile immaginare che la H3G possa aver tratto un indebito vantaggio dall’uso nella pubblicità controversa delle immagini di bolle simili ai marchi con bolle della O2, se si tiene presente che detta pubblicità identifica il concorrente anche esplicitamente mediante riferimenti al marchio O2, la legittimità del cui uso non è più contestata dalla O2, e che, come emerge dalla decisione di rinvio, i consumatori, in un contesto di telefonia mobile, associano le immagini di bolle alla O2. Se quindi un effetto di agganciamento al concorrente si realizza già mediante il riferimento al marchio O2, senza che vi siano contestazioni al riguardo da parte della O2, non vedo quale vantaggio indebito per la H3G possa ricollegarsi all’utilizzo nella pubblicità controversa anche di segni simili ai marchi con bolle di cui la stessa O2 è titolare.

62.      Poiché ritengo che l’uso del marchio, o di un segno simile al marchio, di un concorrente in una pubblicità comparativa non sia vietato dall’art. 3 bis della direttiva 84/450 solo perché non indispensabile al fine di identificare il concorrente o i relativi prodotti o servizi, non occorre che esamini la seconda parte della seconda questione pregiudiziale, né la terza questione, che presuppongono una soluzione opposta a quella che ho appena indicato.

63.      Osservo peraltro, dato che la O2 ha particolarmente insistito, specie all’udienza, sul fatto che la pubblicità controversa presentava un’immagine alterata dei suoi marchi con bolle, recando con ciò pregiudizio al carattere distintivo e alla reputazione di tali marchi, che l’allegata alterazione non può rilevare nel senso di rendere illecita detta pubblicità se non nel caso in cui si ponga in contrasto con una delle condizioni contemplate dall’art. 3 bis della direttiva 84/450.

64.      Tra queste figurano condizioni volte a proteggere la reputazione del marchio, quali quella di cui al n. 1, lett. e), che vieta di causare discredito o denigrazione del marchio, e quella, appena esaminata, di cui al n. 1, lett. g), che vieta di trarre indebitamente vantaggio dalla notorietà del marchio. In particolare, ove l’alterazione dei marchi con bolle nella pubblicità controversa fosse tale da presentare in maniera negativa tali marchi o l’immagine del loro titolare, la O2 potrebbe dolersene invocando la norma nazionale di trasposizione dell’art. 3 bis, n. 1, lett. e), della direttiva 84/450. 

65.      Non figura invece tra le condizioni di cui allo stesso art. 3 bis la diversa esigenza di tutelare il carattere distintivo del marchio. Quest’ultima, contemplata nel suo doppio aspetto del divieto di pregiudizio a tale carattere e del divieto di indebito vantaggio tratto dal medesimo sia all’art. 5, n. 2, della direttiva 89/104 che all’art. 8, n. 5, del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40, sul marchio comunitario (38), come modificato, in riferimento ai marchi notori, non è invece stata ripresa – contrariamente all’esigenza di tutelare la reputazione del marchio, altresì presidiata dalle predette disposizioni sempre in riferimento ai marchi notori – dall’art. 3 bis della direttiva 84/450, il quale, come si è visto (v. paragrafo 59 supra), è di stretta interpretazione. Orbene, non può trattarsi in questo caso che di una scelta deliberata del legislatore comunitario, che ha evidentemente ritenuto dover privilegiare l’interesse ad una pubblicità comparativa efficace che funga da strumento di informazione dei consumatori e da stimolo alla concorrenza tra i fornitori di beni e di servizi (v., in particolare, secondo ‘considerando’ della direttiva 97/55) rispetto a quello alla tutela del carattere distintivo dei marchi.

66.      Alla luce delle suesposte considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere alla seconda questione pregiudiziale nel modo seguente:

«L’art. 3 bis della direttiva 84/450 non va interpretato nel senso che esso ammette l’uso in una pubblicità comparativa di un segno identico o simile al marchio registrato di un concorrente solo qualora detto uso risulti indispensabile al fine di identificare il concorrente o i relativi prodotti o servizi».

 Conclusioni

67.      In conclusione, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali poste dalla Court of Appeal (England & Wales) come segue:

«1)      L’uso di un segno identico o simile al marchio registrato di un concorrente nell’ambito di una pubblicità che confronti le caratteristiche dei prodotti o servizi commercializzati da detto concorrente sotto tale marchio con quelle dei prodotti o servizi forniti dall’operatore pubblicitario è disciplinato in via esaustiva dall’art. 3 bis della direttiva del Consiglio 10 settembre 1984, 84/450/CEE, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 6 ottobre 1997, 97/55/CE, e non è soggetto all’applicazione dell’art. 5, n. 1, lett. a) o b), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa.

2)      L’art. 3 bis della direttiva 84/450 non va interpretato nel senso che esso ammette l’uso in una pubblicità comparativa di un segno identico o simile al marchio registrato di un concorrente solo qualora detto uso risulti indispensabile al fine di identificare il concorrente o i relativi prodotti o servizi».


1 – Lingua originale: l’italiano.


2 – GU 1989, L 40, pag. 1.


3 – GU L 250, pag. 17.


4 – GU L 290, pag. 18.


5 – La direttiva 84/450 è stata ulteriormente modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno («direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU L 149, pag. 22). Alcune delle modifiche operate dalla direttiva 2005/29 riguardano disposizioni della direttiva 84/450 relative alla pubblicità comparativa, tra cui l'art. 3 bis. La direttiva 2005/29 è però successiva ai fatti per cui è causa; terrò dunque presente, nelle presenti conclusioni, il testo della direttiva 84/450 quale modificato dalla direttiva 97/55 e non quello risultante anche dalle modifiche introdotte dalla direttiva 2005/29. Peraltro, la direttiva 84/450 è stata recentemente abrogata e sostituita, a decorrere dal 12 dicembre 2007, dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 12 dicembre 2006, 2006/114/CE, concernente la pubblicità ingannevole e comparativa (GU L 376, pag. 21), la quale costituisce tuttavia soltanto una versione codificata, a fini di chiarezza e razionalizzazione, delle disposizioni previgenti della direttiva 84/450.


6 – V. decisione di rinvio, punto 3; osservazioni scritte della O2, pag. 14, nota 4, e osservazioni scritte della H3G, punti 5‑6.


7 – V. decisione di rinvio, punto 11.


8 – V., con particolare riferimento alla direttiva 89/104, sentenze 16 luglio 1998, causa C‑355/96, Silhouette International Schmied (Racc. pag. I‑4799, punto 36), e 23 ottobre 2003, causa C‑408/01, Adidas-Salomon e Adidas Benelux (Racc. pag. I‑12537, punto 21).


9 – Prescindo, nell’esaminare la prima questione pregiudiziale, dal fatto che il riferimento all’art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva 89/104 appare comunque non pertinente nel caso di specie, dato che vi si discute ormai soltanto dell’uso nella pubblicità controversa di segni (le immagini di bolle) non identici, ma simili a marchi della O2.


10 – Sentenza 23 febbraio 1999, causa C‑63/97 (Racc. pag. I‑905).


11 – Sentenza BMW, cit., punto 38. Si trattava del servizio di vendita di automobili BMW usate e del servizio di riparazione e manutenzione di automobili BMW.


12 – Sentenza 14 maggio 2002, causa C‑2/00 (Racc. pag. I‑4187, punto 17).


13 – Nella specie risultava pacifico che il terzo avesse utilizzato le denominazioni protette dal marchio altrui al solo fine di descrivere le qualità e, più precisamente, il tipo di taglio delle pietre preziose da lui offerte in vendita (v. sentenza Hölterhoff, cit., punto 10).


14 – Sentenza 12 novembre 2002, causa C‑206/01 (Racc. pag. I‑10273).


15 – Ibidem, punto 51. Nello stesso senso anche sentenze 16 novembre 2004, causa C‑245/02, Anheuser-Busch (Racc. pag. I‑10989, punto 59); 25 gennaio 2007, causa C‑48/05, Adam Opel (Racc. pag. I‑1017, punto 21), e 11 settembre 2007, causa C‑17/06, Céline (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 16 e 26).


16 – Sentenza Arsenal Football Club, cit., punti 54‑56 e 60.


17 – Cit., punti 27‑28 (il corsivo è mio).


18 – V. l'art. 1 della direttiva 84/450, ai termini del quale la medesima «ha lo scopo di tutelare il consumatore e le persone che esercitano un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché gli interessi del pubblico in generale, dalla pubblicità ingannevole e dalle sue conseguenze sleali e di stabilire le condizioni di liceità della pubblicità comparativa» (il corsivo è mio).


19 – Sentenza 8 aprile 2003, causa C‑44/01, Pippig Augenoptik (Racc. pag. I‑3095, punto 38; v. anche punto 43).


20 – Ibidem, punto 44.


21 – Il carattere cumulativo di tali condizioni è sottolineato nell’undicesimo ‘considerando’ della direttiva 97/55 («le condizioni della pubblicità comparativa devono essere cumulative e soddisfatte nella loro interezza») e richiamato dalla Corte nella sentenza Pippig Augenoptik, cit., punto 54.


22 – Ibidem, punto 47.


23 – Ibidem, punto 49. V. anche conclusioni dell’avvocato generale Tizzano del 12 settembre 2002 nella causa definita con la sentenza Pippig Augenoptik, cit. (punto 27).


24 – In tal senso si è in sostanza espresso l’avvocato generale Jacobs nelle sue conclusioni del 20 settembre 2001 rese nella causa definita con la sentenza Hölterhoff, cit. (punti 74‑77).


25 – V. punto 52 delle sue osservazioni scritte.


26 – V. paragrafo 11 supra.


27 – Invocando naturalmente le disposizioni nazionali che traspongono detto art. 3 bis nel diritto interno.


28 – Sentenza 25 ottobre 2001, causa C‑112/99 (Racc. pag. I‑7945).


29 – Sentenza 23 febbraio 2006, causa C‑59/05 (Racc. pag. I‑2147).


30 – Conclusioni dell’8 febbraio 2001 rese nella causa definita con la sentenza Toshiba, cit. (paragrafi 79-80).


31 – Ibidem, paragrafi 82, 84, 85 e 87. Al punto 86 l’avvocato generale Léger evidenziava inoltre, come ha fatto la O2 nel presente procedimento, che il criterio di necessità è accolto anche nella disposizione di cui all’art. 6, n. 1, lett. c), della direttiva 89/104. 


32 – Sentenza Toshiba, cit., punto 60 (v. anche punto 57). Il corsivo è mio.


33 – Cit., paragrafo 32.


34 – Sentenza Siemens, cit., punti 18‑20.


35 – Ibidem, punti 22-24.


36 – Sentenze Toshiba, cit., punto 37; Pippig Augenoptik, cit., punto 42; 19 settembre 2006, causa C‑356/04, Lidl Belgium (Racc. pag. I‑8501, punto 22), e 19 aprile 2007, causa C‑381/05, De Landtsheer (Racc. pag. I‑3115, punti 35 e 63).


37 – Spetta evidentemente al giudice di rinvio, se del caso, stabilire se l’uso nella pubblicità controversa delle immagini di bolle consenta alla H3G di trarre indebitamente profitto dalla notorietà dei marchi con bolle della O2 (v., per analogia, sentenza Adam Opel, cit., punto 36).


38 – GU L 11, pag. 1.