Language of document : ECLI:EU:C:2006:240

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

GEELHOED

presentate il 6 aprile 2006 1(1)

Causa C-446/04

Test Claimants in the FII Group Litigation

contro

Commissioners of Inland Revenue

[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla High Court of Justice, Chancery Division (Regno Unito)]

«Interpretazione degli artt. 43 CE e 56 CE e degli artt. 4, n. 1 e 6 della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati membri diversi – Esenzione fiscale concessa in uno Stato membro ad una società residente che abbia percepito dividendi versati da società residenti – Esenzione non concessa per i dividendi corrisposti alla detta società da società stabilite nel territorio di un altro Stato membro»





I –    Introduzione

1.        La causa in oggetto riguarda la medesima normativa che è alla base del procedimento pendente C‑374/04, Test Claimants in the ACT Group Litigation (2), vale a dire, il regime del Regno Unito relativo all’imposta sulle società («advance corporation tax», in prosieguo: l’«ACT»), vigente tra il 1973 ed il 1999. Mentre quella causa riguardava il trattamento fiscale di dividendi distribuiti da società con sede nel Regno Unito a società azioniste con sede in altri Stati membri, la fattispecie in esame riguarda il trattamento fiscale di dividendi percepiti da società con sede nel Regno Unito provenienti da partecipazioni in società con sede in altri Stati membri e, con riguardo ad un aspetto del regime del Regno Unito sollevato dal giudice nazionale, paesi terzi.

II – Contesto giuridico ed economico della controversia

A –    Sintesi del contesto della tassazione dei dividendi

2.        Prima di illustrare le pertinenti disposizioni del regime fiscale del Regno Unito rilevante nella specie, occorre descrivere il più ampio contesto della tassazione degli utili distribuiti dalle società (dividendi) nell’ambito dell’UE, che costituisce lo sfondo giuridico ed economico della controversia. In linea di principio, si possono presentare due livelli di tassazione con riguardo alla distribuzione degli utili societari. Il primo si colloca al livello della società, con l’assoggettamento degli utili all’imposta sulle società. L’applicazione dell’imposta sulle società è comune a tutti gli Stati membri. Il secondo livello di tassazione è quello dell’azionista, e può assumere la forma dell’imposta sul reddito che colpisce la riscossione dei dividendi da parte del medesimo (metodo cui fa ricorso la maggior parte degli Stati membri) e/o dell’imposta trattenuta alla fonte, da parte della società, sulle somme distribuite (3).

3.        L’esistenza di questi due possibili livelli di imposizione può condurre, da un canto, alla doppia imposizione economica (duplice tassazione del medesimo reddito presso contribuenti diversi) e, dall’altro, alla doppia imposizione giuridica (duplice tassazione del medesimo reddito presso il medesimo contribuente). La doppia imposizione economica si verifica quando, ad esempio, gli stessi utili vengono tassati, inizialmente, presso la società per effetto dell’imposta sulla società e, successivamente, presso l’azionista per effetto dell’imposta sui redditi. La doppia imposizione giuridica si verifica quando, ad esempio, l’azionista è assoggettato, inizialmente, ad un’imposta trattenuta alla fonte e, quindi, all’imposta sui redditi, percepita da Stati diversi sui medesimi utili.

4.        La fattispecie in esame riguarda la legittimità, nel diritto comunitario, del sistema istituito dal Regno Unito, avente quale obiettivo e principale effetto la riduzione, per gli azionisti, degli effetti della doppia imposizione economica.

5.        Nel decidere se conseguire tale obiettivo e con quali modalità, gli Stati membri dispongono, essenzialmente, di quattro sistemi, che possono essere classificati come sistema «classico», «cedolare», «di esenzione» e «di imputazione». Gli Stati aventi un sistema classico di imposizione dei dividendi hanno scelto di non attenuare la doppia imposizione economica: gli utili delle società sono assoggettati all’imposta sulle società e gli utili distribuiti sono nuovamente tassati a livello dell’azionista per effetto dell’imposta sui redditi. Per contro, i sistemi cedolare, di esenzione e di imputazione sono volti ad impedire, del tutto o in parte, la doppia imposizione economica (4). Gli Stati con un sistema cedolare (di cui esistono svariate forme) scelgono di assoggettare gli utili delle società all’imposta sulle società e di tassare invece i dividendi come categoria separata di reddito. Gli Stati con sistemi di esenzione scelgono di esentare gli utili dei dividendi dell’imposta sui redditi. Infine, nel contesto dei sistemi di imputazione, l’imposta sulle società riscossa a livello delle società è del tutto o in parte imputata all’imposta sui redditi dovuta sui dividendi a livello degli azionisti, sicché l’imposta sulle società funge da versamento anticipato di (parte dell’)imposta sul reddito. In tal modo, gli azionisti beneficiano di un credito d’imposta per la totalità ovvero una parte dell’imposta sulle società imputabile agli utili dai quali sono derivati i dividendi, credito d’imposta che può essere dedotto dell’imposta sui redditi dovuta sui detti dividendi.

6.        All’epoca dei fatti di cui alla presente causa, il Regno Unito applicava un sistema d’imputazione parziale della tassazione dei dividendi.

B –    La normativa pertinente del Regno Unito

7.        Dal 1965 (anno in cui nel Regno Unito è stata introdotta l’imposta sulle società) fino al 1973, il Regno Unito ha messo in atto un sistema classico di imposta sui dividendi che, come ho precedentemente illustrato, non ha impedito la doppia imposizione economica. Nel 1973 tale Stato membro è passato al sistema dell’imputazione parziale dell’imposta sui dividendi, al fine di rimuovere la discriminazione che colpiva gli utili distribuiti (5). Tale sistema funziona, essenzialmente, secondo il seguente schema:

1.      ACT: assoggettamento e deducibilità

8.        Le società residenti nel Regno Unito che avevano compiuto specifiche operazioni di distribuzione, quali il versamento di dividendi ai loro rispettivi azionisti, erano tenute, in linea di principio, a procedere al pagamento dell’ACT calcolato su un importo pari all’importo o al valore della distribuzione compiuta, ancorché le dette società non fossero assoggettate all’imposta sulle società nel Regno Unito (6). La somma dell’importo distribuito e dell’ACT veniva qualificata come «versamento di dividendi con imposta assolta» (7).

9.        L’ACT versata poteva essere dedotta dall’importo su cui era dovuta quale imposta generale ovvero «imposta di base sulle società» («mainstream corporation tax», in prosieguo: la «MCT») sui proventi per il periodo impositivo in esame, non oltre un determinato massimale. Dal momento che il Regno Unito praticava un sistema di imputazione parziale, cosicché l’importo della tassa societaria nel Regno Unito eccedeva l’importo dell’ACT dedotto, la società era sempre assoggettata ad una tassa societaria marginale sui propri utili. Inoltre, se una società otteneva un credito per imposte versate all’estero, ciò riduceva l’importo assoggettato alla tassa societaria dichiarabile per la deducibilità dell’ACT (8). L’ACT non imputata, chiamata ACT «eccedentaria», poteva essere sottoposta a un riporto in esercizi precedenti o a un riporto a nuovo per essere dedotta dall’imposta di base sulle società da altri periodi d’imposta. (9) Altrimenti, la società poteva trasferire («surrender») la detta ACT alle proprie filiali nel Regno Unito, che potevano, a loro volta, dedurla dall’imposta sulle società dalle medesime dovuta nel Regno Unito (10).

10.      Una società che disponesse di un surplus relativo a redditi da capitale con imposta già assolta (vale a dire, redditi da capitale con imposta assolta eccedenti distribuzioni di dividendi con imposta già assolta), in caso di perdite, poteva compensare queste ultime con il surplus di redditi da capitale con imposta assolta ai sensi dell’art. 242 dell’ICTA e ottenere il versamento in contanti dell’importo relativo al credito d’imposta incluso nel surplus di cui trattasi. Tale disposizione veniva abrogata con effetto a far data dal 2 luglio 1997.

11.      I gruppi con sede nel Regno Unito potevano anche avvalersi di accordi speciali ove l’obbligo di versare l’ACT poteva venire meno con riguardo a talune distribuzioni tra società all’interno del gruppo previa dichiarazione di concerto delle due società («imposizione degli utili a livello di gruppo») (11). Tali accordi costituiscono l’oggetto della sentenza della Corte pronunciata nella causa Metallgesellschaft (12).

2.      Assoggettamento alla MCT

12.      Nell’ipotesi di una società azionista con sede nel Regno Unito che percepisca un dividendo dalla società controllata, nonostante tale società fosse soggetta, in linea di principio, all’imposta sulle società, quest’ultima non era assoggettata all’imposta con riguardo a distribuzioni di dividendi da parte di un’altra società con sede nel Regno Unito (13).

13.      Una società residente nel Regno Unito era, tuttavia, soggetta all’imposta sulle società con riguardo ai dividendi distribuiti da società non residenti, con il beneficio, peraltro, di eventuali imposte già pagate all’estero. Tale beneficio veniva concesso o unilateralmente sulla base di disposizioni nazionali (14) ovvero per effetto di accordi contro le doppie imposizioni conclusi con altri Paesi (15). Le normative nazionali unilaterali prevedevano che la società soggetta ad imposta nel Regno Unito potesse portare in detrazione le imposte già versate su dividendi esteri. Qualora la società con sede nel Regno Unito costituisse, direttamente o indirettamente, una controllata, ovvero una società controllata da altra società che, a sua volta, detenesse, direttamente o indirettamente, una partecipazione non inferiore al 10% dei diritti di voto della società distributrice dei dividendi, il beneficio si estendeva all’imposta sulle società corrisposta all’estero sugli utili in base ai quali i dividendi erano stati distribuiti. Tale possibilità di compensazione dell’imposta versata all’estero era limitata a concorrenza dell’imposta applicabile a quel determinato reddito. Accordi analoghi si applicavano generalmente per effetto delle convenzioni sulla doppia imposizione concluse dal Regno Unito con altri Stati (in prosieguo: le «CDI») (16).

14.      Per gli esercizi di imposta iniziati in data 3 giugno 1986 o successivamente, il beneficio dell’esenzione dalla doppia imposizione aveva luogo prima della deduzione dell’ACT. Precedentemente avveniva il contrario. La situazione anteriore al 1986 costituiva un problema per le società nel Regno Unito, in quanto tale esenzione poteva essere invocata solamente nell’anno di competenza, andando perduto qualora non utilizzato.

3.      Crediti d’imposta

15.      Il versamento dell’ACT faceva sorgere, in talune circostanze, un credito d’imposta a favore delle società e degli azionisti persone fisiche beneficiari dei dividendi distribuiti.

a)      Crediti d’imposta: società azioniste

16.      Nel caso di una società azionista con sede nel Regno Unito che ricevesse dividendi da una propria controllata, ancorché questa fosse soggetta, in linea di principio, all’imposta sulle società, tale imposta non era applicabile sui dividendi distribuiti da altra società con sede nel Regno Unito (17). Inoltre, la società medesima poteva godere di un credito d’imposta in misura pari all’ACT versata dalla controllata (18). I dividendi ed il credito d’imposta costituivano, complessivamente, ciò che veniva definito «redditi da capitale con imposta assolta» (19). Una società con sede nel Regno Unito era soggetta al versamento dell’ACT solamente con riguardo alla distribuzione di dividendi con imposta assolta eccedente i propri redditi di capitale con imposta assolta. Ciò significava che l’ACT veniva versata una sola volta, sui dividendi corrisposti tramite società con sede nel Regno Unito appartenenti a gruppi di imprese.

17.      Una società con sede nel Regno Unito che ricevesse dividendi da una società non residente non era tuttavia autorizzata a portare in compensazione l’imposta e il reddito non poteva essere qualificato come reddito da capitale con imposta assolta. Una società che conseguisse redditi da capitale con imposta assolta nell’ambito di un determinato esercizio fiscale era tenuta al versamento dell’ACT solamente con riguardo alla parte dei dividendi distribuiti con imposta assolta eccedente i redditi da capitale con imposta assolta (20).

b)      Il regime di tassazione dei dividendi derivanti da utili realizzati all’estero (Foreign Income Dividend, in prosieguo: il «FID»)

18.      L’esperienza del sistema sopra illustrato ha mostrato che le società che percepivano rilevanti dividendi da utili realizzati all’estero potevano generare un surplus di ACT, per due principali motivi. In primo luogo, i dividendi esteri non erano collegati ad una compensazione d’imposta che potesse essere utilizzata al fine di ridurre l’assoggettabilità delle società all’ACT sulle distribuzioni di dividendi da esse effettuate. In secondo luogo, ogni compensazione concessa per imposte versate all’estero riduceva l’assoggettabilità all’imposta sulle società dalla quale l’ACT poteva essere detratta.

19.      Con effetto a far data dal 1° luglio 1994 venivano introdotte modifiche in base alle quali una società con sede nel Regno Unito poteva optare per far considerare dividendi da essa distribuiti in contanti ai propri azionisti quali dividendi da redditi esteri («FID») (21). Tale opzione doveva essere effettuata entro la data di distribuzione dei dividendi e non poteva essere revocata successivamente. I FID erano soggetti all’ACT ma, se la società poteva compensare i FID con utili esteri, poteva essere presentata richiesta di rimborso con riguardo all’ACT eccedente sorta sui FID. Tale eccedenza di ACT diveniva rimborsabile contemporaneamente con l’esigibilità della MCT, vale a dire nove mesi dopo la chiusura dell’esercizio d’imposta. Tale eccedenza veniva anzitutto compensata con ogni eventuale imposta a debito risultante dall’assoggettamento della società all’imposta ordinaria per quel periodo. Tutte le eccedenze venivano quindi rimborsate. Tenuto conto del fatto che l’ACT veniva versata quattordici giorni dopo il trimestre in cui venivano versati i dividendi, ciò significava che l’ACT rimaneva esposta, nell’ambito del sistema FID, per un periodo compreso tra 8½ e 17½ mesi, a seconda del momento di distribuzione dei dividendi stessi.

20.      I FID non costituivano redditi da capitale con imposta assolta (22) e l’azionista beneficiario dei  FID non era autorizzato a far valere il credito d’imposta ai sensi della Section 231, n. 1, ICTA, nonostante il fatto che un singolo che ricevesse FID venisse considerato quale percettore di un reddito soggetto ad imposta all’aliquota inferiore per l’anno di accertamento. Tuttavia, nessun rimborso d’imposta veniva effettuato nei confronti di azionisti persone fisiche per imposte sui redditi considerate assolte, né un’azionista esente da imposta, quale un fondo pensionistico con sede nel Regno Unito, poteva far valere un credito d’imposta analogo a quello che sarebbe stato concesso sulla distribuzione di dividendi non FID.

c)      Credito d’imposta: azionisti persone fisiche

21.      Per quanto attiene ad azionisti persone fisiche, quelli residenti nel territorio del Regno Unito e taluni enti, quali i fondi pensionistici, erano autorizzati, qualora avessero ricevuto dividendi da una società con sede nel Regno Unito, a far valere un credito d’imposta in misura pari alla proporzione dell’importo o valore dei dividendi distribuiti rispetto all’aliquota dell’ACT (23). L’imposta sui redditi era applicabile sull’intero importo dei dividendi distribuiti e del credito d’imposta (24). Il credito d’imposta poteva essere compensato con l’imposta sui redditi cui erano soggetti i dividendi, ovvero poteva essere versato in contanti qualora fosse risultato superiore all’imposta applicabile (25).

4.      Modifiche introdotte nel 1999

22.      Per i dividendi distribuiti in data 6 aprile 1999 o a decorrere da tale data, il regime dell’ACT veniva abolito. Le società non erano più tenute a versare o a contabilizzare l’ACT sui dividendi distribuiti agli azionisti e su altre distribuzioni soggette ad imposta. La normativa sui FID veniva così abrogata (26).

C –    Normativa comunitaria pertinente

23.      Il principale testo legislativo di diritto comunitario derivato rilevante nella specie è costituito dalla direttiva «Società madri e figlie», la quale ha istituito un complesso di norme tributarie a disciplina delle relazioni tra società madri e le loro controllate nei vari Stati membri, allo scopo di facilitare il raggruppamento delle società (27). L’art. 4 della detta direttiva ammette entrambi i metodi, quello di esenzione e quello di compensazione, al fine di evitare le doppie tassazioni transfontaliere, disponendo quanto segue:

«1. Quando una società madre, in veste di socio, riceve dalla società figlia utili distribuiti in occasione diversa dalla liquidazione di quest’ultima, lo Stato della società madre:

–        si astiene dal sottoporre tali utili a imposizione;

–        o li sottopone a imposizione, autorizzando però detta società madre a dedurre dalla sua imposta la frazione dell’imposta pagata dalla società figlia a fronte dei suddetti utili e, eventualmente, l’importo della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato membro in cui è residente la società figlia in applicazione delle disposizioni derogatorie dell’articolo 5, nel limite dell’importo dell’imposta nazionale corrispondente.

2. Ogni Stato membro ha tuttavia la facoltà di stipulare che oneri relativi alla partecipazione e minusvalenze risultanti dalla distribuzione degli utili della società figlia non siano deducibili dall’utile imponibile della società madre. In tal caso, qualora le spese di gestione relative alla partecipazione siano fissate forfettariamente, l’importo forfettario non può essere superiore al 5 % degli utili distribuiti dalla società figlia.

3. Il paragrafo 1 si applica fino alla data dell’effettiva applicazione d’un sistema comune d’imposta sulle società.

Il Consiglio adotterà a tempo debito le disposizioni applicabili a decorrere dalla data di cui al primo comma».

24.      L’art. 6 della direttiva dispone che lo Stato membro da cui dipende la società madre non può riscuotere ritenute alla fonte sugli utili che questa società riceve dalla sua società figlia.

III – Il contesto di fatto e le questioni pregiudiziali

25.      Le società ricorrenti sono ricorrenti pilota nelle cause riunite attinenti ai redditi da capitale con imposta assolta («Franked Investment», in prosieguo: il «FII»). Tale causa viene definita con una pronuncia che si applica a tutte le controverse riunite, applicandosi quindi a tutte le azioni che ricadano in quel determinato ambito e mette in risalto le questioni comuni alle singole azioni che necessitano di essere risolte. Al momento del rinvio pregiudiziale, dodici società prendevano parte alle controversie riunite FII.

26.      Le ricorrenti pilota sono tutte società, con sede nel Regno Unito, appartenenti al gruppo B.A.T (28). Esse comprendono la società capofila del gruppo, quotate in borsa, e società madri intermedie che controllano società con sede al di fuori del Regno Unito (29). Per tutto il periodo di cui è causa, la società capogruppo e ognuna delle società madri intermedie controllavano al 100% varie società con sede nella maggior parte degli Stati membri dell’Unione Europea e dei paesi appartenenti al SEE, nonché in vari paesi terzi.

27.      La causa pilota riguarda, (1), dividendi versati da società controllate non residenti nel Regno Unito alle ricorrenti pilota a decorrere dall’esercizio fiscale conclusosi il 30 settembre 1973 sino ad oggi; (2) dividendi versati da una società con sede nel Regno Unito ai propri azionisti pubblici a decorrere dall’esercizio fiscale conclusosi in data 30 settembre 1973 sino al trimestre conclusosi il 31 marzo 1999; (3) l’ACT versata dalle ricorrenti pilota a decorrere dall’esercizio fiscale conclusosi il 30 settembre 1973 sino al 14 aprile 1999; nonché (4) i versamenti FID effettuati nel periodo compreso tra il 30 settembre 1994 ed il 30 settembre 1997.

28.      Con decisione 6 ottobre 2004, la High Court (Chancery Division), ai sensi dell’art. 234 CE, sottoponeva alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.      Se sia incompatibile con gli artt. 43 CE o 56 CE il fatto che uno Stato membro mantenga in vigore e applichi provvedimenti che esonerano dall’imposta sulle società i dividendi che una società con sede in tale Stato membro («la società residente») abbia percepito da altre società residenti e che assoggettano i dividendi che la società residente abbia percepito da società con sede in altri Stati membri («società non residenti») ad un’imposta sulle società (una volta concessa l’esenzione dalla doppia imposizione per qualsiasi ritenuta alla fonte dovuta con riferimento al dividendo e, a determinate condizioni, per l’imposta sottostante pagata dalle società non residenti sui loro utili nel rispettivo paese di residenza).

2.      Qualora uno Stato membro disponga di un sistema che, in talune circostanze, impone l’anticipo dell’imposta sulle società (advance corporation tax, «ACT») sul pagamento di dividendi da parte di una società residente ai propri azionisti e accorda un credito d’imposta ad azionisti residenti nel suddetto Stato membro con riguardo ai dividendi medesimi, se sia incompatibile con gli artt. 43 CE o 56 CE o con gli artt. 4, n. 1, o 6 della direttiva del Consiglio 90/435/CEE il fatto che il detto Stato membro mantenga in vigore e applichi provvedimenti per effetto dei quali la società residente provvede al pagamento dei dividendi ai propri azionisti senza essere tenuta a versare l’ACT nei limiti in cui abbia percepito dividendi da società residenti nello Stato membro stesso (indipendentemente dal fatto se questo avvenga in modo diretto o indiretto per il tramite di altre società residenti nel suddetto Stato membro), mentre i provvedimenti in questione non prevedono che la società residente provveda al pagamento dei dividendi ai propri azionisti senza essere tenuta a versare l’ACT nei limiti in cui abbia percepito dividendi da società non residenti.

3.      Se sia incompatibile con le disposizioni del diritto comunitario, menzionate supra nell’ambito della seconda questione, il fatto che uno Stato membro mantenga in vigore e applichi provvedimenti ai sensi dei quali il debito di imposta a titolo di ACT debba essere compensato con il debito d’imposta della società distributrice dei dividendi, e con quello di altre consociate residenti nel suddetto Stato membro, a titolo di imposta sulle società nello Stato membro in questione a fronte dei loro utili:

(i)      ma che non stabiliscono nessuna forma di compensazione dell’importo da corrispondere a titolo di ACT o un altro sgravio equivalente (quale il rimborso dell’ACT) con riguardo agli utili realizzati, a prescindere dal fatto se questo si verifichi in tale Stato o in altri Stati membri, dalle società nel gruppo non residenti in tale Stato membro; e/o

(ii)      che stabiliscono che ogni sgravio per doppia imposizione di cui benefici una società residente in tale Stato membro riduce l’imposta a debito a titolo di imposta sulle società con la quale possa essere compensata l’ACT.

4.      Qualora lo Stato membro abbia adottato provvedimenti che, in determinate circostanze, prevedono che le società residenti, se effettuano una scelta in tal senso, possano recuperare l’ACT versata sulle distribuzioni di dividendi ai loro azionisti nei limiti in cui tali distribuzioni siano state effettuate da società non residenti (incluse a tale scopo società residenti in paesi terzi) a favore di società residenti, se sia incompatibile con gli artt. 43 CE o 56 CE o con gli artt. 4, n. 1, o 6 della direttiva del Consiglio 90/435/CEE il fatto che detti provvedimenti:

(i)      obblighino le società residenti a versare l’ACT e successivamente a presentare relativa istanza di rimborso; e

(ii)      non prevedano la concessione, a favore degli azionisti di società residenti, di un credito d’imposta che avrebbero percepito per i dividendi provenienti da una società residente, la quale a sua volta non avesse percepito dividendi da società non residenti.

5.      Qualora, precedentemente al 31 dicembre 1993, uno Stato membro abbia adottato i provvedimenti indicati nella prima e nella seconda questione, e successivamente abbia emanato le ulteriori misure delineate nella quarta questione, e qualora queste ultime costituiscano una restrizione vietata dall’art. 56 CE, se detta restrizione debba essere considerata come una nuova restrizione non ancora esistente alla data del 31 dicembre 1993.

6.      Nell’eventualità in cui uno dei provvedimenti indicati nelle questioni sub 1-5 risulti in contrasto con una delle disposizioni comunitarie sopra menzionate, qualora la società residente o altre società facenti parte del medesimo gruppo propongano le seguenti domande in connessione con gli inadempimenti di cui trattasi:

(i)      una domanda di ripetizione dell’imposta sulle società illegittimamente riscossa nelle circostanze cui si riferisce la prima questione;

(ii)      una domanda di ripristino (o di risarcimento per le perdite subite) degli sgravi dall’imposta sulle società illegittimamente riscossa nelle circostanze di cui alla prima questione;

(iii) domanda di ripristino (o di risarcimento per le perdite subite) dell’ACT che non abbia potuto essere dedotta in compensazione con l’imposta sulle società – o che sarebbe stata in altro modo soggetta a sgravio – e che non sarebbe stata versata (o sarebbe stata soggetta a sgravio) se non si fosse verificata la violazione del diritto comunitario;

(iv)      una domanda relativa al mancato godimento di liquidità, qualora l’ACT sia stata portata in compensazione con l’imposta sulle società, tra la data del pagamento dell’ACT e tale compensazione;

(v)      una domanda di ripetizione dell’imposta sulle società versata dalla società o da un altro gruppo societario, qualora per una di tali società sia sorto un debito a titolo di imposta sulle società a seguito della rinuncia ad altri sgravi al fine di consentire che il proprio debito di imposta ACT venisse portato in compensazione con il proprio debito a titolo di imposta sulle società (ove i limiti imposti alla compensazione dell’ACT abbiano dato luogo a un debito residuale a titolo di imposta sulle società);

(vi)      una domanda relativa al mancato godimento di liquidità dovuto al fatto che l’imposta sulle società sia stata pagata prima della data prevista per tale adempimento o per la successiva perdita di sgravi nelle circostanze descritte supra sub v);

(vii) una domanda, proposta dalla società residente, di pagamento (o di risarcimento) del surplus di ACT che la società abbia ceduto a un’altra consociata e che non sia stato utilizzato nel momento in cui tale consociata sia stata ceduta, scissa o posta in liquidazione;

(viii) qualora l’ACT sia stata versata ma abbia successivamente costituito oggetto di ripetizione ai sensi delle disposizioni descritte nell’ambito della quarta questione, una domanda relativa al mancato godimento di liquidità relativo al periodo compreso tra la data del pagamento dell’ACT e la data in cui ne sia stata chiesta la ripetizione;

(ix)      una domanda di compensazione, qualora la società residente abbia scelto di chiedere il rimborso dell’ACT ai sensi delle disposizioni descritte in seno alla quarta questione e risarcito i suoi azionisti a fronte dell’impossibilità di ottenere un credito d’imposta maggiorando l’importo del dividendo,

se debba ritenersi che ciascuna delle domande sopra indicate costituisca:

una domanda di rimborso di somme indebitamente riscosse che sia conseguenza ed implicazione della violazione delle suesposte disposizioni del diritto comunitario; ovvero

una domanda di compensazione o di risarcimento dei danni, ragion per cui debbano sussistere le condizioni indicate nella sentenza della Corte di giustizia 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame; ovvero

una domanda diretta a ottenere un importo equivalente al beneficio indebitamente negato.

7.      Nel caso in cui la risposta a uno dei sub-quesiti in cui si articola la sesta questione sia nel senso che la domanda costituisce una domanda diretta a ottenere un importo equivalente al beneficio indebitamente negato:

(i)      se tale domanda sia una conseguenza e un’implicazione della violazione delle sopra menzionate norme comunitarie; o

(ii)      se debbano essere soddisfatte le condizioni per il rimborso sancite nella sentenza nelle cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame; o

(iii) se debbano ricorrere altri requisiti.

8.      Se ai fini della soluzione della sesta o della settima questione rilevi il fatto che, ai sensi della normativa nazionale, le istanze menzionate nella sesta questione siano azionate a titolo di ripetizione o siano proposte, o debbano esserlo, a titolo di risarcimento dei danni.

9.      Quale orientamento, se del caso, la Corte di giustizia ritenga adeguato fornire, nella fattispecie, in merito alle circostanze che il giudice nazionale dovrebbe prendere in considerazione al momento di valutare se sussista una violazione grave e manifesta nell’accezione data dalla sentenza nelle cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, Brasserie du Pêcheur e Factortame, e in particolare se, tenendo conto dello stato della giurisprudenza della Corte di giustizia sull’interpretazione delle disposizioni comunitarie pertinenti, la violazione fosse giustificabile o se, in un caso specifico, vi sia un nesso causale sufficiente per costituire un “nesso causale diretto” nell’accezione della suddetta sentenza».

29.      A termini dell’art. 103, n. 4, del regolamento di procedura, osservazioni scritte sono state presentate dalle ricorrenti pilota, dal governo del Regno Unito, dall’Irlanda e dalla Commissione. All’udienza, svoltasi il 22 novembre 2005, le dette parti hanno inoltre svolto le loro difese orali.

IV – Analisi

A –    Applicabilità degli art. 43 CE o 56 CE questioni 1-4

30.      Considerato che nelle questioni pregiudiziali 1-4 il giudice nazionale ha richiamato tanto l’art. 43 CE quanto l’art. 56 CE, occorre, in limine, esaminare quale di tali articoli trovi applicazione nella specie. Come ho avuto recentemente modo di rilevare nelle mie conclusioni nella causa Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation (30), ritengo che la normativa del Regno Unito di cui trattasi possa, in linea di principio, ricadere nella sfera tanto dell’art. 43 CE quanto dell’art. 56 CE, a seconda della natura della partecipazione che la società controllante detenga nella rispettiva controllata straniera. La Corte di giustizia ha ripetutamente affermato che una società stabilita in uno Stato membro che detenga una partecipazione nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro tale da «conferir[le] una sicura influenza sulle decisioni della società» e da «consentir[le] di indirizzarne l’attività», si avvale del proprio diritto di stabilimento (31). Pertanto, nel caso di società stabilite nel Regno Unito che detengano partecipazioni tali da soddisfare i criteri suindicati, sarà dunque rispetto all’art. 43 CE che dovrà essere verificata la compatibilità della normativa britannica con il Trattato. Spetta al giudice nazionale, dopo aver esaminato la situazione della società ricorrente, applicare tale criterio al caso specifico.

31.      Con riguardo alle ricorrenti pilota nella causa principale, risulta chiaramente dall’ordinanza di rinvio che si tratta di società residenti nel Regno Unito (tutte appartenenti al gruppo BAT) che controllano interamente società aventi sede al di fuori del Regno Unito. Pertanto, si deve ritenere che la presente causa pilota ricada nell’ambito dell’art. 43 CE. Come ho avuto modo di rilevare nelle conclusioni relative alla causa Test Claimants in Class IV of the ACT Group Litigation, per quanto l’esercizio della libertà di stabilimento da parte di tali società residenti nel Regno Unito implichi inevitabilmente un movimento di capitali al di fuori di questo Stato membro, quale condizione necessaria per stabilire una sede secondaria, ritengo nondimeno che tale aspetto costituisca solamente una conseguenza indiretta dell’esercizio della libertà di stabilimento. Ne discende che per quanto riguarda tali società l’art. 43 CE ha applicazione prioritaria (32).

32.      Nel caso di società residenti nel Regno Unito che detengano partecipazioni nel capitale di una società non residente tali da non conferire «una sicura influenza» sulle decisioni di quest’ultima e da non permettere di indirizzarne l’attività, la normativa del Regno Unito dovrebbe essere esaminata alla luce dell’art. 56 CE. Faccio osservare in proposito che tale normativa riguarda chiaramente ciò che si può definire «movimento di capitali» (33).

33.      Pertanto, in considerazione della natura particolare del caso in esame quale azione collettiva, in cui la situazione specifica di ciascuna società ricorrente ed il tipo di partecipazione detenuta dalla stessa non sono state fatte valere dinanzi alla Corte, sarebbe necessario, in linea di principio, esaminare la compatibilità della normativa britannica controversa alla luce di ambedue gli artt. 43 CE e 56 CE.

34.      Vorrei aggiungere che, sebbene i principi materiali dell’analisi diretta ad accertare l’esistenza di una violazione siano gli stessi in caso di applicazione dell’una o dell’altra disposizione, il campo di applicazione geografica e temporale dell’art. 56 CE è diverso da quello dell’art. 43 CE: mentre quest’ultimo si applica solo nel caso di restrizioni all’esercizio della libertà di stabilimento tra gli Stati membri ed è entrato in vigore come parte integrante del Trattato di Roma, l’art. 56 CE vieta anche le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri e Stati terzi, ed è entrato in vigore il 1° gennaio 1994 (anche se, a dire il vero, il principio della libera circolazione dei capitali era stato già stabilito dalla direttiva) (34). Inoltre, l’art. 56 CE è assoggettato ad una clausola di «stand still» – contenuta nell’art. 57, n. 1, CE – con riguardo ai movimenti di capitali che interessano gli Stati terzi.

35.      Di conseguenza, per quanto riguarda i principi materiali di valutazione della compatibilità, baserò la mia analisi unicamente sull’art. 43 CE, in quanto gli stessi principi si applicano nel caso di una valutazione ai sensi dell’art. 56 CE. Esaminerò separatamente alcuni aspetti legati al campo di applicazione geografica e temporale specifici dell’art. 56 CE (sollevati nell’ambito della quinta questione).

B –    Questione 1

36.      Con la prima questione, il giudice nazionale chiede se sia incompatibile con gli artt. 43 CE o 56 CE, il fatto che uno Stato membro mantenga in vigore ed applichi provvedimenti che esonerano dall’imposta sulle società i dividendi che una società stabilita in tale Stato membro abbia percepito da altre società residenti e che assoggettino all’imposta sulle società i dividendi versati ad una società residente da società con sede in altri Stati membri (una volta concessa l’esenzione dalla doppia imposizione per qualsiasi ritenuta alla fonte dovuta con riferimento al dividendo e, a determinate condizioni, per l’imposta sottostante pagata dalle società non residenti sui loro utili nel rispettivo paese di residenza).

37.      La Corte ha costantemente affermato che, se è pur vero che la materia delle imposte dirette rientra nella competenza degli Stati membri, questi ultimi devono tuttavia esercitare tale competenza nel rispetto del diritto comunitario (35). Ciò implica l’obbligo di conformarsi alle prescrizioni dell’art. 43 CE, che vieta di porre ostacoli all’apertura di una controllata, una succursale o un’agenzia da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti nel territorio di uno Stato membro.

38.      Come ho potuto osservare nelle conclusioni relative alla causa Test Claimants in the ACT Group Litigation (36), si verifica una violazione dell’art. 43 CE qualora il diverso trattamento applicato dallo Stato membro interessato ai suoi contribuenti non sia una logica e diretta conseguenza del fatto che, allo stato attuale di sviluppo del diritto comunitario, è possibile prevedere obblighi tributari diversi per le situazioni che implicano un elemento transfrontaliero e per quelle a carattere puramente interno. In altre parole, l’art. 43 CE vieta le restrizioni alla libertà di stabilimento che vanno oltre le conseguenze inevitabili del fatto che i sistemi fiscali hanno carattere nazionale, tranne nel caso in cui tali restrizioni siano giustificate e rispettino il principio di proporzionalità (37).

39.      Ciò significa che, per poter ricadere nell’ambito dell’art. 43 CE, un trattamento fiscale sfavorevole deve derivare da una discriminazione diretta o dissimulata risultante dalla normativa di un unico ordinamento, e non essere una mera conseguenza della diversità o della ripartizione della competenza tributaria tra due o più sistemi fiscali degli Stati membri, o, infine, della coesistenza di amministrazioni tributarie nazionali (38).

40.      Nel caso di uno Stato membro che abbia una potestà tributaria universale (Stato di residenza), come ho rilevato nelle mie conclusioni relative alla causa Test Claimants in the ACT Group Litigation, tale principio significa sostanzialmente che il detto Stato deve trattare i redditi conseguiti all’estero dai residenti conformemente al modo in cui ha determinato la base imponibile sul piano nazionale. Qualora quest’ultima sia stata determinata in modo tale da includere i redditi di origine straniera – ad esempio considerandoli redditi imponibili – lo Stato di residenza non dovrà discriminare tra redditi provenienti dall’estero e redditi di origine nazionale (39). In particolare la normativa nazionale non dovrà riservare ai redditi prodotti all’estero un trattamento meno favorevole rispetto a quello applicato ai redditi di origine nazionale.

41.      La questione in esame chiede sostanzialmente se sia compatibile con l’art. 43 CE il fatto che uno Stato membro, che eserciti la propria competenza fiscale come Stato di residenza al fine di ridurre la doppia imposizione economica sui dividendi, applichi un metodo di esenzione per i redditi di origine nazionale, ma per i redditi prodotti all’estero applichi un sistema basato sul credito d’imposta, che (1) nel caso di società residenti nel Regno Unito che detengano una partecipazione inferiore al 10% dei diritti di voto della società distributrice dei dividendi (che chiamerò partecipazione «di portafoglio»), accredita solo l’ammontare della ritenuta alla fonte prelevata dallo Stato fonte sui dividendi, e (2) nell’ipotesi di una società residente nel Regno Unito che detenga direttamente o indirettamente – ovvero nel caso di una società controllata da altra società che, a sua volta, detenga direttamente o indirettamente – una partecipazione non inferiore al 10% dei diritti di voto della società distributrice (che chiamerò «partecipazione di cogestione»), estende il beneficio del credito all’imposta sulle società versata all’estero sugli utili in base ai quali i dividendi erano stati distribuiti.

42.      Prendendo in primo luogo il caso delle partecipazioni di cogestione detenute in società stabilite all’estero, come osservano la Commissione ed il Regno Unito, la normativa britannica in questione raggiunge l’obiettivo di eliminare la doppia imposizione dei dividendi, con riguardo ai redditi da dividendi sia di origine nazionale, sia di fonte estera. Tuttavia, tale obiettivo è raggiunto con mezzi diversi: nel primo caso, esonerando dall’imposta sulle società i redditi da dividendi percepiti dall’azionista; nel caso dei redditi prodotti all’estero, con l’iscrizione a credito dell’importo relativo all’imposta sulle società corrisposta all’estero sugli utili alla base dei dividendi.

43.      In linea di principio, la decisione sull’opportunità di ridurre la doppia imposizione economica dei dividendi e la scelta delle modalità con cui realizzare tale riduzione, spettano unicamente agli Stati membri, che possono pertanto optare per un sistema classico (nessuna attenuazione della doppia imposizione), ovvero per un sitema cedolare, di esenzione o di imputazione (eliminazione totale o parziale della doppia imposizione economica). Qualora venga applicato in maniera imparziale ai dividendi di fonte estera ed a quelli di origine nazionale, ognuno di tali sistemi risulta perfettamente compatibile con l’art. 43 CE (40).

44.      Così, ad esempio, è, in linea di principio, pefettamente possibile applicare in modo compatibile con l’art. 43 CE un metodo di eliminazione della doppia imposizione che si basi sul credito d’imposta. Un esempio in proposito è dato dalla sentenza della Corte nella causa Manninen (41), che riguardava la normativa fiscale finlandese. Tale normativa accordava un credito d’imposta pieno agli azionisti residenti per l’importo dell’imposta finlandese sulle società percepita sugli utili distribuiti sottoforma di dividendi, ma non prevedeva crediti d’imposta per l’imposta sulle società che fosse stata prelevata all’estero sugli utili distribuiti sottoforma di dividendi da una società avente sede all’estero. Ritenendo che l’art. 56 CE obbligasse la Finlandia a concedere tale credito d’imposta in considerazione dell’imposta sulle società prelevata sui dividendi provenienti da un altro Stato membro (nella fattispecie, la Svezia), la Corte ha osservato che, nel sistema finlandese, una persona fiscalmente residente in Finlandia che investisse capitali in una società svedese, non poteva sfuggire alla doppia imposizione degli utili distribuiti dalla società a vantaggio della quale aveva realizzato l’investimento (42). Invece, la concessione di un credito d’imposta a favore dei dividendi distribuiti dalle società svedesi avrebbe eliminato la doppia imposizione dei dividendi come avveniva per gli utili distribuiti dalle società residenti in Finlandia (43).

45.      È certamente vero che l’applicazione da parte del Regno Unito di un metodo destinato a ridurre la doppia imposizione dei dividendi di fonte estera mediante la concessione di un credito d’imposta, qualora l’aliquota dell’imposta sugli utili delle società prelevata all’estero fosse superiore all’aliquota dell’imposta sulle società applicata nel Regno Unito, avrebbe l’effetto di imporre un onere fiscale maggiore sui dividendi di fonte estera che non sui dividendi di origine nazionale (in quanto il Regno Unito concede crediti fino a concorrenza con l’aliquota dell’imposta britannica sulle società, e non per l’intero ammontare dell’imposta sulle società pagata all’estero). Se, da un lato, si potrebbe dire che tale sistema può provocare una «riduzione» degli investimenti a favore delle società controllate stabilite all’estero rispetto agli investimenti a vantaggio delle controllate residenti nel Regno Unito, tuttavia tale effetto fornisce un esempio significativo di una restrizione derivante esclusivamente dalle divergenze tra i sistemi nazionali, e che, in quanto tale, non rientra nel campo di applicazione dell’art. 43 CE (44). Analogamente, se è vero che i contribuenti che percepiscono dividendi di fonte estera possono trovarsi a dover assolvere maggiori formalità per provare l’importo dell’imposta sulle società pagata all’estero e, quindi, per poter fruire del credito, si tratta in questo caso di ciò che ho definito una «quasi-restrizione», derivante dal fatto che le amministrazioni tributarie hanno, tuttora, carattere nazionale (45).

46.      In somma, l’applicazione di un sistema di prevenzione della doppia imposizione basato sul credito d’imposta non solleva, in linea di principio, alcun problema di compatibilità con l’art. 43 CE.

47.      Tuttavia, la questione in esame chiede se l’art. 43 CE consenta ad uno Stato membro di applicare un sistema di esenzione per i dividendi di origine nazionale ed un sistema basato sul credito d’imposta per i dividendi di fonte estera. La soluzione di tale questione dipende da se tale distinzione comporti che il Regno Unito tratta i dividendi di fonte estera in modo meno favorevole rispetto ai dividendi di origine nazionale.

48.      Al riguardo, il Regno Unito e la Commissione sostengono che, in ambito nazionale, un sistema di prevenzione della doppia imposizione basato sull’esenzione ed un sistema basato sul credito d’imposta avrebbero gli stessi effetti. L’adozione di un sistema di crediti d’imposta sui redditi di origine nazionale, tuttavia, comporterebbe costi amministrativi straordinari ed inutili, mentre un sistema di esenzione, che conduce agli stessi risultati, è più semplice e meno costoso da gestire. Analogamente gli effetti del regime applicato ai dividendi di origine nazionale (esenzione) e del regime applicato ai dividendi di fonte estera (credito) sono gli stessi: in ambedue i casi la doppia imposizione economica viene eliminata.

49.      Le ricorrenti pilota contestano tale conclusione. Esse sostengono che esiste una differenza tra il sistema di esenzione ed il sistema del credito d’imposta nel caso in cui la società residente distributrice dei dividendi, per effetto di particolari esenzioni e agevolazioni fiscali sull’imposta britannica sulle società, (ad esempio per gli investimenti o per la ricerca e sviluppo), abbia di fatto pagato un’imposta netta sulle società ad un’aliquota minore dell’aliquota di base britannica. In un sistema di esenzione, tale beneficio fiscale viene «trasferito» alla società madre che percepisce i dividendi – ad esempio, i dividendi distribuiti, risulteranno, alla fine, gravati da un’aliquota minore dell’aliquota di base dell’imposta sui redditi britannica. Invece, in un sistema di crediti d’imposta applicato in un contesto nazionale, nel caso in cui gli utili siano stati inizialmente gravati da un’aliquota effettiva dell’imposta sulle società minore rispetto a quella di base, per effetto di esenzioni o di detrazioni particolari, tale aliquota verrebbe comunque «limitata» al livello dell’aliquota di base dell’imposta britannica sulle società al momento della distribuzione dei dividendi alla società madre (46). Analogamente, nel caso dei dividendi di fonte estera, l’applicazione del sistema del credito d’imposta comporta sempre il fatto che il Regno Unito riporti l’imposta effettiva sulle società pagata all’estero al livello dell’aliquota di base britannica, senza tenere conto delle detrazioni fiscali concesse al livello della società controllata.

50.      Sembra perciò che l’applicazione da parte del Regno Unito di un sistema di credito d’imposta al fine di attenuare la doppia imposizione sui dividendi di fonte estera possa, in determinati casi, produrre effetti meno favorevoli rispetto al sistema di esenzione applicato ai dividendi di origine nazionale. Mentre, in un sistema di esenzione, i vantaggi fiscali costituiti dalle esenzioni e dalle detrazioni relativi all’imposta sottostante sulle società possono essere trasferiti alla società madre che percepisce i dividendi, in un sistema di credito d’imposta, tali vantaggi non possono essere trasferiti poiché l’imposta gravante sui dividendi viene limitata al livello dell’aliquota di base dell’imposta britannica sulle società. In tali casi, l’effetto prodotto da tale meccanismo potrebbe essere considerato come un’applicazione da parte del Regno Unito di una diversa (inferiore) aliquota d’imposta ai dividendi versati dalle società residenti rispetto all’aliquota gravante sui dividendi di fonte estera.

51.      Un’altra questione da accertare è se il suddetto trattamento discriminatorio possa trovare una giustificazione. In proposito, il Regno Unito sostiene che ogni restrizione può essere giustificata per motivi inerenti alla coerenza fiscale. Richiamando la sentenza Manninen, tale Stato membro asserisce che il sistema britannico ha l’effetto di attenuare la doppia imposizione economica dei dividendi nazionali ed esteri. In un contesto transfrontaliero, la coerenza fiscale è salvaguardata poiché la società madre riceve un credito pari all’importo totale dell’imposta pagata all’estero sugli utili che hanno dato luogo ai dividendi. Se gli argomenti del Regno Unito dimostrano indubbiamente che, come ho avuto modo di osservare in precedenza, l’applicazione di un sistema di credito d’imposta può, in linea di massima, essere perfettamente compatibile con l’art. 43 CE, dall’altro, essi non contribuiscono a giustificare l’esistenza di un’eventuale disparità di trattamento, discussa nei precedenti paragrafi, tra i redditi prodotti a livello nazionale ed i redditi prodotti all’estero, sotto l’aspetto che riguarda la capacità potenziale di trasferire alle società madri che percepiscono i dividendi i benefici legati alle detrazioni sottostanti.

52.      In mancanza di un meccanismo che permetta di prendere in considerazione le dette detrazioni in egual misura per i dividendi di fonte estera e per quelli di originale nazionale – elemento che non è stato confutato, nel presente caso – ritengo pertanto che la normativa fiscale britannica relativa ai dividendi delle società, le cui partecipazioni ho sopra definito «di cogestione», sia in contrasto con l’art. 43 CE.

53.      Per quanto riguarda le partecipazioni di portafoglio estere, che davano luogo ad un credito pari all’importo trattenuto dallo Stato fonte a titolo di imposta sui dividendi, la normativa britannica in questione appare chiaramente discriminatoria. Mentre l’imposta britannica sulle società non gravava sui dividendi percepiti da società residenti nel Regno Unito in relazione al possesso di partecipazioni di portafoglio in un’altra società residente, la detta imposta britannica sulle società gravava invece sui dividendi relativi a partecipazioni di portafoglio detenute in una società stabilita in un altro Stato membro, le quali beneficiavano solo di un credito pari all’ammontare della ritenuta alla fonte (che non teneva conto dell’imposta societaria sottostante pagata all’estero). Per dirlo con altre parole, il Regno Unito ha scelto, nell’esercizio delle sue competenze, di eliminare completamente la doppia imposizione economica dei dividendi generati da partecipazioni di portafoglio nel capitale di una società residente, senza applicare lo stesso trattamento nel caso dei dividendi generati da partecipazioni di portafoglio nel capitale di società aventi sede all’estero. Tale disparità costituisce evidentemente un trattamento meno favorevole dei redditi da capitale di fonte estera imponibili nel Regno Unito rispetto a redditi equivalenti di origine nazionale.

54.      Nelle osservazioni scritte e orali, il Regno Unito cerca di giustificare tale disparità con il motivo che sarebbe esageratamente costoso e complicato gestire e sorvegliare la concessione di crediti per l’imposta estera sottostante in relazione alle partecipazioni azionarie di minore entità; tale complessità provocherebbe ritardi e incertezza giuridica per i contribuenti.

55.      Non trovo convincente tale argomento. Se è vero che il fatto di accordare crediti d’imposta per i dividendi relativi a partecipazioni di portafoglio estere comporterebbe oneri amministrativi aggiuntivi per le autorità britanniche, è altrettanto vero che tale onere, secondo me, non sarebbe sproporzionato rispetto al beneficio di attenuare la doppia imposizione economica per gli azionisti britannici interessati. In proposito, vorrei richiamare la sentenza Manninen, nel punto in cui la Corte, sostenendo che l’art. 56 CE obbligava la Finlandia ad estendere il credito d’imposta per coprire l’imposta sulle società prelevata sui dividendi provenienti dalla Svezia, ha respinto gli argomenti basati sulle eventuali difficoltà che il contribuente o l’amministrazione avrebbero potuto incontrare nel reperire le informazioni necessarie per determinare l’imposta versata in un altro Stato membro (47). Come ha osservato la Corte, nonostante che, nel calcolo di un credito d’imposta concesso ad un azionista residente in Finlandia che abbia ricevuto dividendi da una società avente sede in un altro Stato membro si debba tenere conto dell’imposta effettivamente pagata da tale società, come determinata in base alle norme generali applicabili al calcolo della base imponibile, nonché dell’aliquota dell’imposta sulle società in quest’ultimo Stato membro, «eventuali difficoltà circa la determinazione dell’imposta effettivamente pagata non possono, ad ogni modo, giustificare un ostacolo alla libera circolazione dei capitali quale quello derivante dalla normativa di cui trattasi nella causa principale (48)». Esattamente le stesse considerazioni si applicano al caso che ci occupa. Faccio notare che, qualora volesse evitare oneri amministrativi straordinari, il Regno Unito potrebbe sempre scegliere di esentare tali dividendi dall’imposta britannica sulle società (come avviene nel caso dei dividendi di fonte nazionale provenienti da partecipazioni di portafoglio).

56.      Per tali motivi, ritengo che occorra risolvere la prima questione nel senso che è incompatibile con gli artt. 43 CE e 56 CE il fatto che uno Stato membro mantenga in vigore ed applichi provvedimenti come quelli di cui trattasi nella presente causa, che esonerano dall’imposta sulle società i dividendi che una società residente in tale Stato membro abbia percepito da altre società residenti, e che assoggettano i dividendi che una società residente abbia percepito da società residenti in altri Stati membri ad un’imposta sulle società, una volta concessa l’esenzione dalla doppia imposizione per qualsiasi ritenuta alla fonte dovuta sul dividendo e, a determinate condizioni, per l’imposta sottostante pagata dalle società non residenti sui loro utili nei rispettivi paesi di residenza.

C –    Questione 2 e 3

57.      Con la seconda questione, il giudice nazionale chiede se, qualora uno Stato membro abbia un sistema che in talune circostanze impone l’ACT sul pagamento di dividendi da parte di una società residente ai suoi azionisti e accorda un credito d’imposta agli azionisti residenti di tale Stato membro con riferimento a tali dividendi, sia incompatibile con gli artt. 43 CE o 56 CE, o con gli artt. 4, n. 1, o 6 della direttiva 90/435 il fatto che tale Stato membro mantenga in vigore ed applichi provvedimenti ai sensi dei quali la società residente provvede al pagamento dei dividendi ai suoi azionisti senza essere tenuta a versare l’ACT nei limiti in cui abbia percepito dividendi da società residenti in tale Stato membro (vuoi direttamente, vuoi indirettamente, per il tramite di altre società residenti nello stesso Stato membro), mentre i provvedimenti in questione non stabiliscono che la società residente possa provvedere al pagamento dei dividendi ai suoi azionisti senza essere tenuta a versare l’ACT nei limiti in cui abbia percepito dividendi da società non residenti.

58.      Con la terza questione il giudice nazionale chiede se sia incompatibile con le suddette disposizioni del diritto comunitario il fatto che uno Stato membro mantenga in vigore e applichi provvedimenti ai sensi dei quali il debito a titolo di ACT deve essere imputato al debito della società distributrice dei dividendi, e a quello di altre consociate residenti nel suddetto Stato membro, a titolo di imposta sulle società nello Stato membro in questione a fronte dei loro utili, ma che (1) non stabiliscono nessuna forma di imputazione dell’importo dovuto a titolo di ACT o un altro sgravio equivalente (come la rifusione dell’ACT) in relazione agli utili acquisiti, a prescindere da se questo si verifichi in tale Stato o in altri Stati membri, per le società del gruppo non residenti in tale Stato membro e/o (2) stabiliscono che ogni sgravio per la doppia imposizione di cui beneficia una società residente in tale Stato membro riduce il debito a titolo d’imposta sulle società al quale può essere imputato l’ACT.

59.      La seconda questione riguarda, dunque, il meccanismo del sistema britannico in questione in base al quale (1) le società azioniste del Regno Unito che percepivano dividendi da società residenti in tale Stato membro che avevano versato l’ACT sui dividendi distribuiti, ricevevano un credito d’imposta pari all’ACT versata dalla società distributrice, cosicché l’ACT veniva pagata una sola volta sui dividendi percepiti attraverso società residenti che appartenevano ad uno stesso gruppo; e (2) le società azioniste del Regno Unito che percepivano dividendi da società non residenti, non beneficiavano di tale credito, ed erano, di conseguenza, tenute a versare l’ACT sull’importo totale degli utili distribuiti. La terza questione riguarda la caratteristica del suddetto sistema, in base alla quale l’imposta delle società estere versata sui dividendi di origine estera non poteva essere dedotta dall’ACT ma solo dall’importo della MCT britannica. Poiché, tuttavia, l’ACT versata poteva, a sua volta, essere dedotta solo dalla MCT, ne derivava che le società che percepivano prevalentemente redditi di fonte estera potevano trovarsi nella situazione di non poter dedurre l’ACT (per esempio quando l’ACT pagata non era deducibile dall’imposta dovuta da una società per l’esercizio contabile considerato: cosiddetta «ACT eccedentaria»). Sebbene il sistema prevedesse alcuni meccanismi che consentivano, alla fine, di compensare tale ACT eccedentaria (che poteva, ad esempio essere sottoposta a un riporto in esercizi precedenti o successivi per essere poi dedotta dalla MCT relativa ad altri periodi d’imposta, o trasferita alle controllate residenti nel Regno Unito), tuttavia non tutte le società potevano avvalersi di tali disposizioni.

60.      Poiché le due suddette questioni trattano due aspetti del sistema fiscale britannico che, in un contesto nazionale, risultano complementari, per poter dare un giudizio complessivo sugli effetti di tale sistema è preferibile esaminare i detti aspetti congiuntamente.

1.      Compatibilità con l’art. 43 CE (e con l’art. 56 CE)

61.      Come ho osservato nei precedenti paragrafi, l’art. 43 CE vieta al Regno Unito, nei limiti in cui tale Stato membro abbia ripartito la base imponibile nazionale in modo tale da includere i redditi di fonte estera, di operare discriminazioni tra redditi di fonte estera e redditi di fonte nazionale (49). Come emerge da una costante giurisprudenza della Corte, una discriminazione consiste nell’applicazione di norme diverse a situazioni analoghe ovvero nell’applicazione della stessa norma a situazioni diverse (50).

62.      Occorre ora stabilire se il Regno Unito, concedendo un credito d’imposta alle società azioniste residenti per l’ACT pagata a monte sugli utili distribuiti, e prevedendo che l’ACT sia deducibile solo dalla MCT britannica, tratti in maniera diversa società che si trovano in situazioni comparabili.

63.      L’asserita disparità di trattamento oppone le società azioniste residenti nel Regno Unito che percepiscono dividendi sui quali è stata pagata l’ACT (che ricevono un credito d’imposta per l’ACT già versata sugli utili, con la possibilità di dedurla dal loro debito d’imposta relativo alla MCT), e le società che percepiscono dividendi sui quali è stata prelevata un’imposta all’estero, (che non hanno diritto ad un credito per l’imposta sulle società, in quanto non è stata pagata l’ACT sugli utili, né possono dedurre l’ACT dall’imposta societaria dovuta all’estero). In primo luogo occorre quindi stabilire se tali società si trovino in situazioni analoghe.

64.      Il Regno Unito sostiene di no. Con riguardo al credito relativo all’imposta sulle società, tale Stato membro rileva che si tratta di un beneficio che viene concesso solo per gli utili distribuiti con ACT assolta, e non per gli utili sui quali l’ACT non sia stata pagata. Pertanto le società che percepiscono utili sui quali sia stata pagata l’ACT e le società che percepiscono utili sui quali non sia stata pagata l’ACT, non si trovano in situazioni analoghe. E’ vero che, in quanto le società non residenti nel Regno Unito non pagano l’ACT sulla distribuzione degli utili, i dividendi così distribuiti non daranno mai luogo al detto credito d’imposta. Tuttavia, non sussiste, in tal modo, una condizione che imponga la «nazionalità» britannica della società distributrice ai fini della concessione del credito: come unica condizione per fruire di tale concessione si richiede che sia stato già effettuato il pagamento dell’ACT sugli utili distribuiti. Inoltre, per quanto riguarda la regola che stabilisce che l’ACT sia imputabile solo all’MCT, il Regno Unito asserisce che tale misura non costituisce una discriminazione nei confronti delle società che percepiscono utili di fonte estera: in ogni caso, tutte le società azioniste residenti nel Regno Unito hanno la stessa possibilità di imputare l’ACT all’MCT, senza distinzioni di sorta.

65.      Per replicare a tale argomento occorre esaminare il rapporto che intercorre tra l’imposta sulle società corrisposta all’estero sugli utili delle società non residenti nel Regno Unito, l’imposta di base sulle società applicata dal Regno Unito (l’«MCT»), che viene pagata sugli utili di fonte nazionale, e l’ACT corrisposta sugli utili distribuiti dalle società britanniche.

66.      Al riguardo, è utile richiamare la sentenza della Corte nella causa Metallgesellschaft (51) che riguardava la compatibilità del regime fiscale del Regno Unito in base al quale le controllate residenti in tale Stato membro potevano versare i dividendi alla capogruppo senza essere tenute al pagamento dell’ACT, qualora la società madre fosse anch’essa residente nel Regno Unito, ma non quando avesse sede in un altro Stato membro (cosiddetto regime «dell’esenzione a livello di gruppo»). Nel sostenere che il rifiuto di concedere tale beneficio alle società controllate da capogruppo non residenti era giustificato, il Regno Unito ha asserito, inter alia, che la situazione delle controllate, con sede nel Regno Unito, di società capogruppo anch’esse residenti non era comparabile con quella delle controllate residenti la cui capogruppo fosse stabilita in un altro Stato membro. In particolare, mentre con riferimento alle prime, il pagamento dell’ACT era solo differito nel tempo, in virtù dell’applicazione del regime dell’esenzione a livello di gruppo (ossia, sarebbe stata la società capogruppo stabilita nel Regno Unito a dover pagare l’ACT al momento di effettuare le distribuzioni soggette a tale imposta), nel secondo caso, concedere un’esenzione a livello di gruppo avrebbe avuto come conseguenza che nessuna ACT sarebbe stata versata nel Regno Unito (52).

67.      Nel respingere tale argomento, la Corte ha dichiarato che

«[i]n primo luogo, poiché l’ACT non è in nessun modo un’imposta sui dividendi, bensì un pagamento anticipato dell’imposta sulle società, è sbagliato ritenere che concedere alle controllate con sede nel Regno Unito di società capogruppo che non hanno ivi sede la facoltà di optare per il regime della tassazione degli utili a livello di gruppo consentirebbe alla controllata di eludere il pagamento nel Regno Unito di qualsiasi imposta sugli utili distribuiti sotto forma di dividendi.

Infatti, da un lato, la frazione dell’imposta sulle società, che la controllata con sede nel Regno Unito non è tenuta a pagare anticipatamente al momento del versamento dei dividendi alla sua società capogruppo nell’ambito del regime della tassazione degli utili a livello di gruppo sarà versata in linea di principio quando il termine per il pagamento dell’MCT di cui la controllata è debitrice perverrà a scadenza. E’ opportuno ricordare, a tale proposito, che la controllata stabilita nel Regno Unito di una società capogruppo stabilita in un altro Stato membro è assoggettata all’MCT nel Regno Unito, in relazione agli utili, allo stesso modo di una controllata stabilita nel Regno Unito di una società capogruppo parimenti ivi stabilita.

(…)

In secondo luogo, non si può sostenere, per rifiutare alla controllata stabilita nel Regno Unito di una società capogruppo non stabilita nel Regno Unito la possibilità di essere esentata dal pagamento dell’ACT all’atto del versamento dei dividendi, che la società capogruppo non sarà assoggettata all’ACT quando effettuerà essa stessa versamenti di dividendi, a differenza di una società capogruppo con sede nel Regno Unito.

Infatti, si deve rilevare che il mancato assoggettamento all’ACT della società capogruppo non stabilita nel Regno Unito deriva dal fatto che essa non è soggetta all’imposta sulle società nel Regno Unito, essendo soggetta a tale imposta nello Stato in cui ha sede. È pertanto logico che una società non debba pagare anticipatamente un’imposta alla quale non sarà mai assoggettata (53)».

68.      Dalle suddette considerazioni, che condivido, emerge chiaramente che, ai fini del presente giudizio, occorre considerare l’ACT come un pagamento anticipato dell’imposta britannica sulle società. E’ pur vero, come evidenzia il RegnoUnito, che l’ACT presenta caratteristiche diverse rispetto all’imposta «di base» sulle società. In particolare, la prima è versata se e quando una società distribuisce i dividendi, è calcolata in base al valore della distribuzione compiuta, e non è soggetta alle esenzioni applicabili all’MCT. Tuttavia, mi sembra che tali diferenze siano la logica conseguenza del fatto che l’ACT, per sua natura e come indica il nome stesso, viene prelevata in anticipo rispetto all’imposta «ordinaria» sulle società (MCT). Così, nel sistema britannico, l’ACT versata sui dividendi distribuiti può essere successivamente dedotta, pur entro certi limiti, dall’MCT di cui una società sia debitrice per gli utili relativi al periodo impositivo di riferimento.

69.      Di conseguenza, le società azioniste britanniche che percepiscono dividendi sui quali sia stata prelevata l’ACT e quelle che percepiscono dividendi sui quali sia stata versata l’imposta societaria all’estero, si trovano, in via di principio, in situazioni analoghe. Tale considerazione discende dal fatto che, come le società britanniche distributrici di dividendi (a monte) sono, in generale, assoggettate all’imposta sulle società – nonché, al momento della distribuzione, all’ACT – le società distributrici non residenti nel Regno Unito sono generalmente assoggettate all’imposta societaria nel paese di residenza.

70.      Occorre adesso stabilire se la normativa britannica controversa riservasse alle società azioniste che percepivano utili distribuiti da società non residenti un trattamento meno favorevole rispetto a quello applicato agli azionisti che percepivano utili distribuiti da società residenti.

71.      Mentre le prime erano tenute al versamento dell’ACT al momento della ri-distribuzione degli utili percepiti, le seconde erano effettivamente esentate dall’ACT (grazie alla concessione di un credito d’imposta), qualora tale imposta fosse già stata pagata sulla distribuzione a monte. Inoltre, l’ACT versata nell’uno come nell’altro caso poteva essere dedotta solo dall’MCT riscossa nel Regno Unito e non dall’imposta estera sulle società, pagata sugli utili distribuiti.

72.      È chiaro, secondo me, che tale disparità equivale ad un trattamento meno favorevole nei confronti dei dividendi di fonte estera.

73.      Applicato in un contesto nazionale, il sistema del Regno Unito, aveva l’obiettivo e l’effetto di eliminare la doppia imposizione economica degli utili distribuiti, a livello delle società. Grazie alla concessione di un credito fiscale sull’imposta societaria, l’ACT veniva pagata una sola volta all’interno della «catena» di distribuzione dei dividendi. Inoltre, l’ACT versata in un determinato periodo impositivo poteva essere imputata, entro un certo massimale, all’MCT. L’ACT che non poteva essere imputata in tale periodo di riferimento (o ACT «eccedentaria») poteva, teoricamente, essere compensata in altro modo; ad esempio, poteva essere sottoposta a riporto per gli esercizi precedenti o successivi, e poi dedotta dall’MCT dovuta per altri periodi di imposta, oppure poteva essere trasferita alle società controllate residenti nel Regno Unito.

74.      Invece, il detto sistema del Regno Unito non riusciva ad esonerare completamente dalla doppia imposizione economica i dividendi di fonte estera. Ciò poteva verificarsi a causa di una concomitanza di effetti dovuti al fatto che (1) l’ACT era stata prelevata in toto sugli utili ridistribuiti di fonte estera (ipotesi descritta nella questione 2 sottoposta nell’ordinanza di rinvio), ma (2) senza la possibilità di dedurre l’ACT dovuta dall’imposta estera sulle società versata a monte (ipotesi cui si riferisce la questione 3 a formulata nell’ordinanza di rinvio), e (3) lo sgravio della doppia imposizione per l’imposta estera sulle società già corrisposta all’estero, qualora concesso (ad esempio nel caso delle partecipazioni di cogestione), aveva ridotto il debito a titolo d’imposta sulle società al quale poteva essere imputata l’ACT [come indicato nella questione 3 b dell’ordinanza di rinvio].

75.      Perciò, dobbiamo concludere che, in quanto il sistema messo in atto dal Regno Unito non riusciva ad eliminare completamente la doppia imposizione economica dei dividendi di fonte estera, a differenza di quanto accadeva per i dividendi di origine nazionale, tale sistema era discriminatorio, a meno che il Regno Unito non riesca a dimostrare che tale disparità di trattamento era giustificata e proporzionata. La Corte ha dichiarato che, nei limiti in cui decida di attenuare la doppia imposizione economica sui dividendi percepiti dai residenti, lo Stato di residenza deve accordare ai dividendi di fonte estera ed ai dividendi nazionali le medesime agevolazioni, e, a tale scopo, deve tenere conto dell’imposta societaria pagata all’estero (54).

76.      Il fatto che la doppia imposizione economica risulta dall’applicazione combinata di più norme significa che può essere un’operazione complessa esprimere un giudizio sul modo in cui avrebbe dovuto essere effettivamente realizzata la completa eliminazione della doppia imposizione economica dei dividendi di fonte estera. Tale problema viene specificamente sollevato nelle questioni pregiudiziali da 6 a 9. Come espongo infra, spetta al giudice nazionale stabilire come si debba porre rimedio, in concreto, alla violazione del divieto di discriminazione operata dal Regno Unito e far sì che la soluzione così individuata risulti adeguata e idonea a ripristinare la parità di trattamento garantita dagli artt. 43 CE e 56 CE.

77.      Tuttavia, vorrei aggiungere che, qualora fosse possibile ottenere uno stesso sgravio della doppia imposizione fiscale per i dividendi di fonte estera e per quelli di origine nazionale, il Regno Unito sarebbe, in linea di principio, autorizzato a richiedere che il pagamento di eventuali debiti residui dell’imposta britannica sulle società prelevata sugli utili di fonte estera venisse anticipato al momento della distribuzione degli utili (ad esempio, sotto forma di ACT). Ciò discende, a mio parere, dal fatto che il Regno Unito è libero di scegliere come organizzare il proprio sistema fiscale, sempreché applichi quest’ultimo ai redditi di origine nazionale ed ai redditi di fonte estera senza discriminazioni di sorta. Come il Regno Unito esige il pagamento anticipato degli importi dovuti a titolo d’«imposta sulle società» sugli utili distribuiti dalle società residenti, allo stesso modo, tale Stato membro potrebbe pertanto, in via di principio, richiedere che il debito d’imposta residuale, che permanga dopo l’applicazione dello sgravio della doppia imposizione economica, venga pagato in anticipo con riguardo agli utili distribuiti da società residenti all’estero.

78.      Tale posizione non viene modificata dall’argomento del Regno Unito secondo cui non si può escludere che anche nelle fattispecie strettamente nazionali si generi un surplus di ACT, ossia, che si generi un’ACT eccedentaria, in particolare, quando l’ACT versata da un azionista residente nel Regno Unito ecceda l’importo di cui lo stesso sia debitore a titolo dell’MCT britannica (per esempio, qualora una società stabilita nel Regno Unito abbia beneficiato di considerevoli esenzioni e deduzioni fiscali dall’MCT britannica di cui è debitrice). In tale circostanza, il sistema istituito dal Regno Unito manterrebbe l’obiettivo di eliminare completamente la doppia imposizione economica dei dividendi di origine nazionale.

79.      Analogamente, non posso accogliere l’argomento del Regno Unito in base al quale le possibili differenze di trattamento tra gli azionisti che ricevono dividendi di fonte estera e gli azionisti percettori di dividendi nazionali sarebbe giustificata in base alla necessità di salvaguardare la coerenza fiscale del sistema del Regno Unito. Il governo di tale paese sostiene che siffatta giustificazione è fondata poiché esiste un nesso diretto tra il vantaggio fiscale accordato alla società azionista britannica (il beneficio del credito d’imposta per l’ACT già versato sugli utili distribuiti) e una compensazione del debito fiscale ossia l’obbligo della società distributrice (di versare l’ACT per la distribuzione degli utili). Tuttavia, come ho osservato in precedenza, le società distributrici non residenti, sebbene non siano assoggettate all’ACT britannica, tuttavia sono tenute a versare l’imposta straniera sulle società che colpisce gli utili distribuiti. Pertanto, proprio come la doppia imposizione economica viene eliminata rispetto agli utili di origine britannica, allo stesso modo tale doppia imposizione dovrebbe essere eliminata dagli utili di origine estera. Per tale motivo, ritengo che il suddetto argomento debba essere respinto (55).

2.      Compatibilità con la direttiva sulle società madri e figlie

80.      Il giudice nazionale chiede inoltre se le disposizioni che riservano la concessione di un credito d’imposta a favore delle società azioniste che ricevono dividendi sui quali sia stata già pagata l’ACT, e stabiliscono che l’ACT possa essere dedotta in compensazione solo dall’MCT dovuta nel Regno Unito, siano in contrasto con l’art. 4, n. 1 o 6, della direttiva sulle società madri e figlie, il cui testo è riportato interamente nella parte iniziale di queste conclusioni.

81.      In via preliminare rilevo che tale questione riguarda solo le operazioni di distribuzione rientranti nell’ambito di applicazione ratione temporis e materiae della direttiva sulle società madri e figlie, ossia le distribuzioni di utili tra una controllata e la propria società madre come sono definite da tale direttiva, e che siano state effettuate dopo il 1° gennaio 1992.

82.      L’art. 4, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie dispone sostanzialmente che, quando una società madre riceve utili distribuiti da una società figlia residente in un altro Stato membro, lo Stato di residenza della società madre deve esentare tali utili da imposizioni oppure accordare un credito per l’imposta societaria (o, se del caso, per la ritenuta alla fonte) già versata a fronte dei suddetti utili nello Stato di residenza della controllata.

83.      Secondo me, l’esame della compatibilità della normativa del Regno Unito con tale disposizione solleva, per quanto concerne le operazioni di distribuzione rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva sulle società madri e figlie (56), questioni piuttosto simili a quelle che ho già trattato in relazione agli artt. 43 CE e 56 CE. Rilevo, tuttavia, che l’obbligo incombente al Regno Unito in forza dell’art. 4, n. 1, è più limitato di quello posto dagli artt. 43 CE e 56 CE: mentre l’ultimo implica un divieto di discriminazione tra  redditi di fonte estera e redditi di fonte nazionale, il primo si limita a richiedere che lo Stato in cui ha sede la società madre autorizzi la deduzione dell’imposta societaria già pagata sui dividendi distribuiti, nel limite dell’importo dell’imposta nazionale corrispondente, ovvero che esenti i detti utili da imposizione.

84.      Dato che, nella fattispecie, il Regno Unito ha optato per il metodo del credito d’imposta al fine di evitare la doppia imposizione, tale Stato membro è tenuto, in forza dell’art. 4, n. 1, della suddetta direttiva ad accordare, nel limite dell’importo dell’imposta nazionale corrispondente, un credito per l’imposta societaria che una controllata non residente abbia pagato in relazione agli utili distribuiti alla società madre residente nel Regno Unito. Poiché, per le ragioni esposte in precedenza, l’ACT dovrebbe essere vista, per quanto qui interessa, come il pagamento anticipato dell’imposta societaria dovuta nel Regno Unito (sebbene colpisca gli utili al momento della distribuzione), si dovrebbe considerare che tale imposta costituisca, insieme all’MCT dovuta nel Regno Unito, la tassa nazionale britannica «corrispondente» all’imposta sulle società pagata all’estero, ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie. Ritengo che l’obbligo sancito da tale disposizione miri essenzialmente a scongiurare il rischio di una doppia imposizione economica nello Stato di residenza della società madre, dopo che sia stata versata l’imposta sulle società, e, eventualmente, sia stata applicata una ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti da una controllata, nello Stato di residenza di quest’ultima. In quanto tale, l’obbligo incombente al Regno Unito in forza di tale articolo consiste, come nel caso degli artt. 43 CE e 56 CE, nell’assicurare che non vi sia la doppia imposizione economica dei detti utili distribuiti. Siffatta interpretazione è coerente con l’obiettivo della direttiva che mira ad instaurare per tali raggruppamenti di società «norme fiscali che siano neutre nei riguardi della concorrenza (57)».

85.      A confutazione di tale argomento, il Regno Unito adduce che l’art 4, n. 1 si riferisce solo alle imposte prelevate nel momento in cui la società madre riceve gli utili distribuiti da una controllata e non riguarda un’imposta come l’ACT, che è riscossa solo se e quando venga effettuata una distribuzione degli utili, con la conseguenza che l’ACT non può essere considerata un’imposta sugli utili distribuiti da una controllata. Ritengo che tale argomento non possa essere accolto, per motivi attinenti, ancora una volta, allo scopo dell’art. 4, n. 1, che è quello di evitare la doppia imposizione degli utili distribuiti nel paese di residenza della società madre. L’interpretazione restrittiva suggerita dal governo del Regno Unito, qualora venisse applicata alla fattispecie, comprometterebbe il conseguimento di tale obiettivo.

86.      Per tale ragione, in quanto il sistema del Regno Unito non permetteva di concedere un credito per l’imposta sulla società estera versata sui dividendi riscossi nel Regno Unito in provenienza da filiali estere, da imputare non soltanto all’MCT ma anche all’ACT dovute nel Regno Unito, il detto Stato membro ha violato l’art. 4, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie.

87.      Il giudice nazionale solleva inoltre la questione relativa alla compatibilità del detto sistema con l’art. 6 della direttiva sulle società madri e figlie; tale disposizione vieta allo Stato da cui dipende la società madre di riscuotere ritenute alla fonte sugli utili che questa riceve dalla società figlia.

88.      Per esaminare tale questione è necessario richiamare la definizione di «ritenuta alla fonte» contenuta nella direttiva sulle società madri e figlie. Al riguardo, la Corte ha affermato che tali termini non sono limitati a particolari tipi di tributi nazionali precisi, ma che «la qualificazione di un’imposta, di una tassa, di un dazio o di un prelievo alla luce del diritto comunitario dev’essere compiuta dalla Corte sulla scorta delle caratteristiche oggettive dell’imposta, indipendentemente dalla qualificazione che le viene attribuita nel diritto nazionale (58)». Nel contesto dell’art. 5, n. 1, della suddetta direttiva (divieto dello Stato di residenza della società figlia di riscuotere una ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti alla società madre stabilita in un altro Stato membro), la Corte ha dichiarato che,

«(...) costituiva una ritenuta alla fonte sugli utili distribuiti ai sensi dell’art. 5, n. 1, della direttiva ogni imposta sul reddito percepito nello Stato dove i dividendi sono distribuiti e il cui fatto generatore è il versamento di dividendi o di ogni altro rendimento dei titoli, quando la base imponibile di tale imposta è il rendimento dei detti titoli e il soggetto passivo è il detentore dei medesimi titoli (59)».

89.      Trasferendo tali criteri all’ambito di applicazione dell’art. 6 della direttiva sulle società madri e figlie (che riguarda gli obblighi dello Stato da cui dipende la società madre), emerge che un’imposta applicata dallo Stato da cui dipende la società madre dovrebbe essere considerata una ritenuta alla fonte quando (1) il fatto generatore dell’imposta è la riscossione di dividendi o di ogni altro rendimento dei titoli; (2) la base imponibile è il rendimento dei detti titoli, e (3) il soggetto passivo è il detentore dei medesimi titoli.

90.      Se applichiamo i suddetti criteri al prelievo dell’ACT, mi sembra chiaro che tale imposta non possa essere considerata una ritenuta alla fonte ai sensi dell’art. 6 della direttiva sulle società madri e figlie. Come sottolinea il governo del Regno Unito nelle sue conclusioni, l’ACT non viene prelevata sul versamento di dividendi dalla società figlia alla società madre, ma colpisce piuttosto la ridistribuzione di tali dividendi dalla società madre ai suoi azionisti, cioè il pagamento di dividendi effettuato «a valle». Pertanto, il fatto generatore del prelievo dell’ACT non è tale far rientrare il detto tributo nella definizione di ritenuta alla fonte (60).

91.      Per tale motivo, ritengo che la normativa del Regno Unito controversa nella causa principale non sia in contrasto con l’art. 6 della direttiva sulle società madri e figlie.

3.      Conclusione relativa alla seconda e terza questione

92.      Per i suesposti motivi, ritengo che, in quanto il sistema del Regno Unito descritto nelle questioni 2 e 3 garantiva un’esenzione completa dalla doppia imposizione economica, al livello delle società, per i dividendi di origine nazionale distribuiti alle società azioniste britanniche, ma non riusciva ad assicurare l’esenzione completa dalla doppia imposizione economica per i dividendi distribuiti da società residenti in altri Stati membri, tale sistema sia discriminatorio e incompatibile con gli artt. 43 CE e 56 CE nonché con l’art. 4, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie, per quanto riguarda le distribuzioni che rientrano nel suo campo d’applicazione. Il detto sistema, tuttavia, non viola l’art. 6 di tale direttiva.

D –    Questione 4

93.      Con la quarta questione, il giudice nazionale chiede se, qualora i provvedimenti adottati dal Regno Unito, prevedano, in determinate circostanze, che le società residenti, se effettuano una scelta in tal senso, possano recuperare l’ACT pagata sulle distribuzioni ai loro azionisti, nei limiti in cui a dette distribuzioni provvedano società non residenti (incluse a tale scopo società residenti in paesi terzi) a favore di società residenti, sia incompatibile con gli artt. 43 CE o 56 CE, ovvero con gli art. 4, n. 1 o 6, della direttiva del Consiglio sulle società madri e figlie, il fatto che tali provvedimenti (1) obblighino società residenti a pagare l’ACT e a chiederne successivamente il rimborso e (2) non prevedano la concessione, a favore degli azionisti di società residenti, di un credito di imposta che avrebbero percepito per un dividendo proveniente da una società residente, la quale a sua volta non aveva percepito dividendi da società non residenti.

94.      Tale questione investe la compatibilità con le summenzionate norme comunitarie del cosiddetto regime Foreign Incombe Dividend (dividendi da redditi esteri) («FID»), introdotto nel Regno Unito con effetto dal 1º luglio 1994. Come ho spiegato all’inizio, tale regime prevedeva che una società con sede nel Regno Unito, prima distribuire in contanti i dividendi ai propri azionisti, potesse optare per far considerare tali dividendi come dividendi da redditi esteri. I FID erano soggetti all’ACT ma, se la società interessata poteva compensare i FID con utili esteri, poteva essere presentata richiesta di rimborso con riguardo all’ACT eccedente sorta sui FID. Tale eccedenza di ACT diveniva rimborsabile contemporaneamente con l’esigibilità della MCT, vale a dire nove mesi dopo la chiusura dell’esercizio di imposta, e dopo essere stata dedotta da ogni eventuale debito risultante dall’assoggettamento della società alla MCT per quel periodo. L’azionista beneficiario dei FID non poteva far valere un credito d’imposta ai sensi della Sezione 231, n. 1, dell’ICTA, ma un singolo che riceveva FID veniva considerato quale percettore di un reddito soggetto ad imposta all’aliquota inferiore per l’anno di accertamento. Tuttavia, nessun rimborso d’imposta veniva effettuato nei confronti di azionisti persone fisiche per imposte sui redditi considerate assolte, né un’azionista esente da imposta poteva far valere un credito d’imposta analogo a quello che sarebbe stato concesso sulla distribuzione di dividendi non FID.

95.      L’obbligo incombente al Regno Unito in forza degli artt. 43 CE e 56 CE con riguardo all’applicazione del regime FID era esattamente identico a quello che ho descritto sopra, nell’ambito dell’esame relativo alle questioni 2 e 3, ossia l’obbligo di garantire la completa ed equivalente eliminazione della doppia imposizione economica dei dividendi di fonte estera e dei dividendi di origine nazionale.

96.      Per quanto riguarda la caratteristica del regime FID descritta nella prima parte della questione 4 – ossia, l’obbligo per le società residenti che ricevessero dividendi dall’estero di versare l’ACT al momento della ridistribuzione degli stessi, e di presentare successivamente richiesta di rimborso – tale obbligo era contrario agli artt. 43 CE e 56 CE, in quanto tale assoggettamento all’ACT faceva sorgere una doppia imposizione economica nei confronti dei dividendi di fonte estera. Né poteva chiaramente valere a giustificazione il fatto che le società residenti potessero successivamente chiedere il rimborso delle somme versate a titolo di ACT: per analogia con quanto la Corte ha dichiarato nella sentenza Metallgesellschaft (61), lo svantaggio a livello di liquidità subito da tali società nel periodo transitorio precedente la richiesta di rimborso costituisce, agli effetti del divieto di discriminazione, un trattamento meno favorevole (62).

97.      La seconda parte della questione 4 riguarda il meccanismo del regime FID per effetto del quale, in quanto società con sede nel Regno Unito avevano ricevuto dividendi da società non residenti, gli azionisti (a valle) di queste società britanniche non potevano beneficiare di un credito d’imposta che avrebbero ottenuto per un dividendo proveniente da una società residente nel Regno Unito, la quale a sua volta non aveva percepito dividendi da società non residenti.

98.      Al riguardo, rilevo che, in quanto il Regno Unito ha scelto di impedire la doppia imposizione economica attraverso la concessione di un credito d’imposta per i dividendi di origine nazionale, tale Stato membro è tenuto, in forza degli artt. 43 CE e 56 CE, ad impedire la doppia imposizione dei dividendi di fonte estera in maniera equivalente (63).

99.      Quanto all’argomento del Regno Unito, secondo cui, in base al regime FID gli azionisti di società residenti potevano, in realtà, evitare la doppia imposizione, poiché venivano equiparati ai percettori di reddito cui era stata applicata l’aliquota più bassa per l’anno di accertamento, vorrei ricordare che spetta al giudice nazionale stabilire, nel caso specifico, se tale trattamento costituisse effettivamente uno sgravio della doppia imposizione economica equivalente a quello concesso per i dividendi di fonte nazionale.

100. Nei limiti in cui il regime FID non comportava, per gli azionisti di società residenti nel Regno Unito che ricevevano FID, uno sgravio della doppia imposizione economica equivalente a quello concesso agli azionisti che ricevevano utili di origine nazionale, tale regime era contrario gli artt. 43 CE e 56 CE, a meno che non vi fosse una giustificazione.

101. In sua difesa, il Regno Unito ha affermato, anzitutto, che, in quanto il regime FID era a carattere del tutto facoltativo, tale regime non poteva in nessun caso costituire una restrizione della libertà di stabilimento o della libertà di circolazione dei capitali: le sottostanti disposizioni fiscali del Regno Unito (esaminate nell’ambito delle questioni 2 e 3) sono state mantenute in vigore per tutto il periodo di riferimento. Tuttavia, nella misura in cui tali norme fiscali sottostanti erano anch’esse discriminatorie e contrarie agli art. 43 CE e 56 CE, tale argomento risulta chiaramente erroneo. Le società residenti che avevano azionisti stranieri non potevano in nessun caso ricevere un trattamento non discriminatorio dei loro utili provenienti dall’estero rispetto agli utili di origine nazionale.

102. In secondo luogo, il Regno Unito sostiene che una società controllata non residente, in quanto non ha dovuto pagare l’ACT al momento della distribuzione, è comunque in grado di versare alla società madre del Regno Unito dividendi di importo maggiore rispetto a quelli che potrebbe versare una controllata residente, la quale è invece tenuta al pagamento dell’ACT sulla distribuzione dei dividendi. Ancora una volta, tale argomento trascura il fatto che, sebbene una controllata non residente sia esonerata dal pagamento dell’ACT, essa è stata tuttavia assoggettata al pagamento dell’imposta sulle società applicata all’estero, aspetto che, come ho osservato supra, pone le società madri che ricevono dividendi provenienti dall’estero e le società madri che ricevono dividendi nazionali in una situazione analoga.

103. Infine, il governo del Regno Unito adduce che il regime FID è giustificato dalla necessità di salvaguardare la coerenza del sistema fiscale britannico, come aveva sostenuto relativamente alla questione 2, nonché dall’esigenza di assicurare controlli fiscali efficaci, in particolare, con riferimento ai paesi terzi. Per quanto riguarda le restrizioni intracomunitarie, in quanto tali argomenti sono stati dedotti, ripetono quelli che ho esaminato nell’ambito della questione 2, e debbono essere respinti per gli stessi motivi. La questione se tali argomenti meritino maggiore credito con riguardo alle restrizioni applicate nei confronti dei «paesi terzi» è stata sollevata all’interno della questione 5 ed è in quell’ambito che la esaminerò, brevemente.

104. Diversa è la questione se i titolari potenziali di un’azione di risarcimento per un danno causato da una tale violazione debbano essere solo gli azionisti stessi e non la società che distribuisce gli utili. Su tale punto, le ricorrenti pilota sostengono che le società madri operanti distribuzioni di utili provenienti dall’estero siano state costrette, a causa del regime FID, ad aumentare i dividendi corrisposti ai loro azionisti, al fine di distribuire importi equivalenti a quelli versati dalle società capogruppo che operavano distribuzioni di utili di origine nazionale. Esaminerò questo punto nell’ambito della questione 6, che riguarda le soluzioni appropriate per le violazioni.

105. Il giudice nazionale solleva inoltre il problema della compatibilità con gli artt. 4, n. 1, e 6, della direttiva sulle società madri e figlie, dei due aspetti del regime FID specificati nell’ordinanza di rinvio – obbligo delle società residenti che distribuiscono dividendi di fonte estera di pagare l’ACT [questione 4 a] e mancata concessione di crediti d’imposta agli azionisti a valle di tali società [questione 4 b]. Per quanto concerne l’art. 4, n. 1, come ho spiegato relativamente alle questioni 2 e 3, tale disposizione pone un obbligo di eliminare completamente la doppia imposizione economica a livello della società azionista che percepisce i dividendi, con riguardo alle operazioni di distribuzioni che rientrano nella sfera di applicazione ratione materiae e ratione temporis della direttiva. Perciò, l’analisi della questione 4 a (assoggettamento all’ACT) è identica a quella già effettuata in relazione agli artt. 43 CE e 56 CE. Al contrario, la questione 4 b (concessione di un credito d’imposta) riguarda una disparità di trattamento al livello non della società stessa che riceve i dividendi, ma al livello dei suoi azionisti. Di conseguenza, non mi sembra che tale restrizione possa ricadere nell’ambito dell’art. 4, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie. Allo stesso modo, per ragioni analoghe a quelle che ho esposto nell’ambito delle questioni 2 e 3, ritengo che nessuno degli aspetti indicati nella questione 4 costituisca, a mio parere, una violazione dell’art. 6 della direttiva medesima.

106. Propongo pertanto di risolvere la quarta questione nel senso che, qualora i provvedimenti adottati dal Regno Unito prevedano che, in determinate circostanze, le società residenti, se effettuano una scelta in tal senso, possano recuperare l’ACT pagata sulle distribuzioni ai loro azionisti nei limiti in cui tali distribuzioni siano state effettuate da società non residenti (incluse a tale scopo società stabilite in paesi terzi), (1) è incompatibile con gli art. 43 CE e 56 CE , nonché con la direttiva sulle società madri e figlie, il fatto che detti provvedimenti obblighino le società residenti a versare l’ACT e a chiederne successivamente il rimborso, in quanto tale misura non garantisce per i dividendi di origine estera un’esenzione dalla doppia imposizione economica equivalente a quella per i dividendi di origine nazionale; e (2) è incompatibile con gli artt. 43 CE e 56 CE il fatto di non prevedere la concessione, a favore degli azionisti di società residenti, di uno sgravio della doppia imposizione economica equivalente a quello che avrebbero ricevuto per i dividendi provenienti da una società residente, la quale a sua volta non avesse percepito dividendi da società non residenti.

E –    Questione 5

107. Con la quinta questione il giudice nazionale chiede se, qualora, precedentemente al 31 dicembre 1993, uno Stato membro abbia adottato i provvedimenti indicati nelle questioni 1 e 2, e successivamente abbia emanato le ulteriori misure indicate nella quarta questione 4, e qualora queste ultime costituiscano una restrizione vietata dall’art. 56 CE, detta restrizione debba essere considerata come una nuova restrizione non ancora esistente alla data del 31 dicembre 1993.

108. Il giudice nazionale solleva tale questione nell’ambito dell’art. 57, n. 1, CE, a tenore del quale le disposizioni dell’art. 56 CE che vietano le restrizioni della libera circolazione dei capitali «lasciano impregiudicata l’applicazione ai paesi terzi di qualunque restrizione in vigore alla data del 31 dicembre 1993 in virtù delle legislazioni nazionali o della legislazione comunitaria per quanto concerne i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti, che implichino investimenti diretti, inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari». Perciò tale questione mira ad accertare, essenzialmente, se, nei limiti in cui i provvedimenti indicati nella questione 4 ricadano nel divieto di cui all’art. 56 CE, tale divieto comprenda le restrizioni dei movimenti di capitali tra Stati membri e paesi terzi (64).

109. Nella prima questione si chiede se le disposizioni sui FID, in vigore dal 1º luglio 1994, possano essere considerate far parte delle restrizioni «esistenti» al 1° dicembre 1993.

110. In proposito, tanto le ricorrenti nella causa principale quanto il governo del Regno Unito fanno riferimento, giustamente, alla sentenza della Corte nella causa Konle (65). Tale causa riguardava l’interpretazione di una clausola derogatoria per l’Austria nell’atto relativo alle condizioni di adesione della Repubblica d’Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia e degli adattamenti dei Trattati sui quali si fonda l’Unione europea (66) che consentiva a tale Stato membro di mantenere in vigore per un periodo determinato la legislazione esistente in materia di residenze secondarie (regime di previa autorizzazione). La Corte ha anzitutto osservato che, se interpretare il contenuto della legislazione vigente al momento dell’adesione dell’Austria rientrava nelle competenze del giudice nazionale, spettava però alla Corte fornire a quest’ultimo gli elementi interpretativi della nozione comunitaria di «legislazione vigente» a quella data (67). La Corte ha così proseguito:

«[o]gni disposizione adottata posteriormente alla data di adesione non è, per questo solo fatto, automaticamente esclusa dal regime derogatorio istituito dall’[articolo derogatorio dell’Atto di adesione]. Così, se essa è sostanzialmente identica alla legislazione anteriore, o se si limita a ridurre o ad eliminare ostacoli all’esercizio dei diritti e delle libertà comunitarie che esistevano nella legislazione precedente, essa beneficerà della deroga.

Per contro, una legislazione che si basi su una logica diversa da quella del diritto precedente e istituisca nuove procedure non può essere equiparata alla legislazione vigente al momento dell’adesione (68)».

111. Come ho osservato nelle mie conclusioni relative alla causa Ospelt, dall’art. 57, n. 1, CE discende inoltre che gli Stati membri hanno il potere di adeguare la normativa vigente senza modificare la situazione giuridica esistente (69).

112. Nel contesto della causa che ci occupa, in base alla descrizione fornita dal giudice nazionale nell’ordinanza di rinvio, emerge chiaramente, a mio parere, che l’oggetto e gli effetti dell’introduzione del regime FID fossero quelli di ridurre (sebbene non di eliminare) gli ostacoli esistenti all’esercizio delle libertà garantite dagli artt. 43 CE e 56 CE – ossia la protezione insufficiente contro la doppia imposizione economica dei dividendi di fonte estera. Invero, questi ultimi erano rimasti assoggettati all’ACT anche dopo l’introduzione delle modifiche relative ai FID, che costituivano un regime facoltativo per le società rientranti nel loro ambito di applicazione. Vorrei aggiungere che siffatta interpretazione dell’art. 57, n. 1, CE, che include la legislazione mirante a ridurre le restrizioni esistenti, appare perfettamente logica: in assenza di tale interpretazione, gli Stati membri sarebbero spinti a mantenere le restrizioni esistenti piuttosto che a cercare di eliminarle, in parte o completamente.

113. Di conseguenza, sebbene l’interpretazione ultima del contenuto, dello scopo e dell’effetto del regime FID rientri fra le competenze del giudice nazionale, in base alle descrizioni fornite nell’ordinanza di rinvio, posso concludere che tale sistema rientri fra le restrizioni esistenti al 31 dicembre 1993 ai sensi dell’art. 57, n. 1, CE.

114. La seconda questione è se il regime FID ricada nell’ambito di applicazione materiale dell’art. 57, n. 1, CE.

115. Le ricorrenti pilota nella causa principale sostengono che il detto regime esuli dall’ambito di applicazione ratione materiae dell’art. 57, n. 1, CE, che è limitato ai movimenti di capitali provenienti dai paesi terzi o ad essi diretti, che implichino «investimenti diretti, inclusi gli investimenti in proprietà immobiliari, lo stabilimento, la prestazione di servizi finanziari o l’ammissione di valori mobiliari nei mercati finanziari».

116. Le ricorrenti ritengono che il termine «investimenti» debba essere interpretato restrittivamente, e che, pertanto, non contempli i pagamenti effettuati in conseguenza di tali investimenti. Non concordo con tale tesi. Come ha affermato la Corte, poiché una discriminazione sul piano fiscale tra i dividendi di origine nazionale e i dividendi di origine estera può avere l’effetto di rendere meno attraenti gli investimenti nelle azioni di società stabilite in altri Stati membri, tale trattamento discriminatorio dev’essere considerato una restrizione alla libera circolazione dei capitali (70).

117. Le ricorrenti sostengono inoltre che l’uso dell’espressione «investimenti diretti» in tale contesto, non debba estendersi alle partecipazioni di minore entità (ad esempio, le partecipazioni di portafoglio) detenute da società britanniche all’estero. Sotto tale aspetto è vero che, in quanto costituisce un’eccezione all’art. 56 CE, l’art. 57, n. 1, CE, deve essere interpretato restrittivamente (71). Ritengo che la nozione di investimenti diretti debba essere interpretata conformemente alle indicazioni contenute nell’allegato I della direttiva 88/361/CEE, che riporta la nomenclatura dei movimenti di capitali di cui all’art. 1 della direttiva. Il titolo 1 dell’allegato riguarda gli «Investimenti diretti», e la sezione più significativa, per quanto qui interessa, compare sub 2): «Partecipazione a imprese nuove o esistenti al fine di stabilire o mantenere legami economici durevoli». Il preambolo della direttiva chiarisce ulteriormente il significato dell’espressione «investimenti diretti», intendendo «[g]li investimenti di qualsiasi tipo effettuati da persone fisiche, imprese commerciali, industriali o finanziarie aventi lo scopo di stabilire o mantenere legami durevoli e diretti fra il finanziatore e l’imprenditore o l’impresa a cui tali fondi sono destinati per l’esercizio di un’attività economica. Tale nozione va quindi intesa in senso lato».

118. Il preambolo prosegue «[p]er quanto riguarda le imprese menzionate al punto I.2 della nomenclatura e che hanno lo statuto di società per azioni, si ha partecipazione con carattere di investimento diretto, quando il pacchetto di azioni in possesso di una persona fisica, di un’altra impresa, o di qualsiasi altro detentore, attribuisce a tali azionisti, sia a norma delle disposizioni di legge nazionali, sia altrimenti, la possibilità di partecipare effettivamente alla gestione di tale società o al suo controllo».

119. Spetta al giudice nazionale stabilire, nel caso specifico, quando la partecipazione che una società residente nel Regno Unito detiene nel capitale di una società residente in uno Stato terzo sia tale da permettere alla prima di stabilire o mantenere «legami economici durevoli», con la seconda e da conferire così alla società britannica la possibilità di «partecipare effettivamente alla gestione di tale società o al suo controllo». Vorrei osservare, tuttavia, che la soglia indicata da tale direttiva rimane al di sotto del limite dell’«influenza sicura» cui mi sono riferito nell’ambito della distinzione tra le sfere di applicazione dell’art. 43 CE e dell’art. 56 CE, esposta supra, sub (A).

120. Pertanto il divieto di cui all’art. 56 CE sarebbe d’applicazione solo nel caso in cui la partecipazione di una società residente nel Regno Unito in una società residente in uno Stato terzo non fosse tale da consentirle una partecipazione effettiva nella gestione di quest’ultima.

121. Quanto detto solleva a sua volta la questione se le stesse considerazioni si applichino all’analisi dell’art. 56 CE con riguardo ai movimenti di capitali all’interno della Comunità rispetto ai movimenti di capitali tra Stati membri e paesi terzi. Al riguardo, risulta evidente dalla formulazione dell’art. 56, n. 1, CE che le restrizioni alla libera circolazione di capitali tra Stati membri e paesi terzi sono, in linea di principio, vietate. Ciononostante, ritengo che, nell’esame volto ad accertare se tali restrizioni siano giustificate (vuoi in base all’art. 58, n. 1, CE, vuoi in base al criterio della discriminazione di cui all’art. 56 CE), occorra effettuare considerazioni diverse da quelle che riguardano il caso delle restrizioni agli scambi squisitamente intracomunitari. Come ho osservato nelle conclusioni relative alla causa Ospelt, ciò che caratterizza il contesto specifico della libera circolazione dei capitali all’interno della Comunità è che essa deve essere considerata come un elemento costitutivo dell’Unione Economica e Monetaria (72). Come ho rilevato in tale occasione, il fatto che, con la realizzazione dell’Unione economica e monetaria, la politica monetaria venga fissata dalla Banca Centrale Europea, presuppone un’assoluta unità in termini di circolazione di denaro e capitali. Tale contesto non vige nel caso dei movimenti di capitali tra Stati membri e paesi terzi, per quanto anche a livello mondiale abbia avuto luogo una consistente liberalizzazione dei capitali (73). Perciò non escludo che uno Stato membro possa dimostrare che una restrizione ai movimenti di capitali con un paese terzo sia giustificata in base ad un determinato motivo, in circostanze nelle quali lo stesso motivo non servirebbe a giustificare una restrizione ai movimenti di capitali solamente tra Stati membri.

122. Nel caso di specie, tuttavia, come ho rilevato in precedenza, il Regno Unito non ha spiegato con validi argomenti perché le restrizioni previste dal regime FID con riguardo ai movimenti di capitali con i paesi terzi dovrebbero essere giustificate in base a specifiche considerazioni. Gli argomenti addotti a giustificazione delle dette misure si basano sostanzialmente sul principio della coerenza fiscale; inoltre, tale Stato membro adduce che il «deflusso di risorse» dalla Comunità per effetto dei movimenti con i paesi terzi desta maggiori preoccupazioni rispetto a situazioni analoghe che si presentano in un contesto intracomunitario. Tale argomento in astratto, tuttavia, non basta a dimostrare che le restrizioni imposte dal regime FID in relazione ai dividendi provenienti da paesi terzi erano giustificate in quel caso in particolare.

123. Comunque, in considerazione della risposta che ho dato in merito alla portata dell’art. 57, n. 1 CE in questo particolare caso, non ritengo necessario dare una soluzione definitiva su questo punto.

124. Ritengo pertanto che la quinta questione dovrebbe essere risolta nel senso che, qualora, precedentemente al 31 dicembre 1993, uno Stato membro abbia adottato i provvedimenti enunciati in seno alla prima e sulle questioni 1 e 2, e dopo tale data abbia emanato le ulteriori misure delineate nell’ambito della questione 4, e qualora queste ultime costituiscano un restrizione vietata dall’art. 56 CE, tale restrizione rientra fra i provvedimenti già esistenti alla data del 31 dicembre 1993 ai sensi dell’art. 57, n. 1, CE.

F –    Questioni 6-9

125. Con le questioni da 6 a 9 formulate nell’ordinanza di rinvio, il giudice nazionale chiede quali rimedi dovrebbero essere garantiti alle società residenti nel Regno Unito o ad altre società facenti parti del medesimo gruppo, qualora uno dei provvedimenti enunciati sulle questioni 1-5 fosse incompatibile con una delle disposizioni comunitarie menzionate in tali questioni.

126. Secondo una costante giurisprudenza della Corte in materia, il diritto di ottenere il rimborso delle somme riscosse da uno Stato membro in violazione di norme del diritto comunitario costituisce la conseguenza e il complemento dei diritti attribuiti agli amministrati dalle disposizioni comunitarie nell’interpretazione loro data dalla Corte (74). Lo Stato membro è quindi tenuto, in via di principio, a rimborsare i tributi riscossi in violazione del diritto comunitario (75).

127. In mancanza di una disciplina comunitaria in materia di ripetizione di imposte nazionali indebitamente riscosse, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, purché le dette modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall’altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (76).

128. Nella presente questione pregiudiziale si chiede se le domande delle ricorrenti debbano essere considerate come domande di ripetizione dell’imposta illegittimamente riscossa, ovvero come domande di risarcimento danni o come domande miranti ad ottenere un importo che rappresenta il mancato guadagno causato da un beneficio che sarebbe stato negato loro illegittimamente.

129. Anche su questo punto, è rilevante la sentenza della Corte nella causa Metallgesellschaft. La seconda questione pregiudiziale posta dal giudice nazionale nell’ambito di tale procedimento riguardava i mezzi di ricorso appropriati che dovevano essere messi a disposizione allorché una controllata residente nel Regno Unito e una capogruppo non residente fossero state private del beneficio dell’esenzione a livello di gruppo in violazione dell’art. 43 CE. In particolare si chiedeva se l’art. 43 CE attribuisse a tale controllata e/o alla sua capogruppo il diritto di ottenere una somma di denaro pari agli interessi maturati sui pagamenti anticipati effettuati dalla controllata a partire dalla data dei detti pagamenti fino alla data di scadenza dei termini per il versamento dell’imposta, anche se il diritto nazionale vietava la corresponsione di interessi su un capitale non dovuto. La Corte ha precisato che non le spettava dare una qualificazione giuridica (secondo il diritto vigente nel Regno Unito) delle domande presentate dalle ricorrenti nelle cause principali innanzi al giudice di rinvio, ma che spettava alle società interessate precisare la natura e il fondamento della loro azione (domanda di restituzione o domanda di risarcimento danni), sotto il controllo del giudice di rinvio (77).

130. Su tali basi, la Corte ha proseguito nell’esame delle questioni emergenti da entrambe le ipotesi avanzate dal giudice di rinvio, considerando, in primo luogo, l’ipotesi in cui le domande delle ricorrenti nelle cause principali fossero considerate domande di restituzione, e, in secondo luogo, l’ipotesi in cui esse dovevano essere qualificate come domande di risarcimento danni (78). La Corte ha concluso che, in ogni caso, l’art. 43 CE esigeva che le ricorrenti disponessero di un mezzo di ricorso effettivo per ottenere il rimborso o il risarcimento delle perdite economiche da esse sofferte, a vantaggio delle autorità dello Stato membro interessato, in seguito al pagamento anticipato dell’imposta (79). – Il semplice fatto che un simile ricorso abbia ad oggetto solamente il pagamento degli interessi, corrispondenti alla perdita finanziaria subita a causa dell’indisponibilità delle somme anzitempo versate, non costituisce un motivo valido per respingere tale ricorso (80).

131. Rilevo che in tale causa il giudice nazionale non aveva posto alcuna questione circa l’interpretazione delle condizioni generali per far sorgere la responsabilità degli Stati membri in seguito ad una violazione del diritto comunitario enunciate nella sentenza Brasserie du Pêcheur, e pertanto la Corte non ha verificato se tali condizioni fossero soddisfatte (81). L’avvocato generale Fennelly aveva brevemente considerato tale questione, sebbene solo in subordine, ritenendo che fosse «più equo e più logico trattare l’azione delle ricorrenti come una domanda di rimborso, piuttosto che come un’azione per il risarcimento dei danni (82).

132. Nel caso in esame, mi sembra che, con un’unica eccezione, le domande descritte nella sesta questione posta dal giudice del rinvio debbano essere considerate equivalenti alle domande di rimborso di somme indebitamente versate, ossia, alle domande di recupero dei tributi indebitamente percepiti ai sensi della giurisprudenza della Corte, che il Regno Unito, in linea di principio, è tenuto a rimborsare. La nozione su cui si basa tale principio è che il Regno Unito non deve approfittare, e le società – o i raggruppamenti di società – che abbiano dovuto pagare un’imposta illegittima non devono subire una perdita, a causa di detta imposta (83). In quanto tale, affinché il mezzo di ricorso offerto alle ricorrenti pilota sia effettivo e consenta loro il rimborso o il risarcimento delle perdite finanziarie sofferte a vantaggio delle autorità dello Stato membro interessato, è mia opinione che tale soluzione debba essere estesa a tutte le conseguenze dirette dell’indebita riscossione dei tributi. Ciò include, a mio parere: (1) il rimborso dell’imposta sulle società indebitamente riscossa [questioni 6(i),(iii) e (vii)]; (2) il ripristino di qualsiasi sgravio applicato all’imposta sulle società illegittimamente riscossa [questione 6(ii)]; (3) il ripristino degli sgravi cui una società abbia rinunciato per compensare l”imposta sulle società illegittimamente riscossa [questione 6(v)]; (4) la perdita di liquidità dovuta al fatto che l’imposta sulle società è stata pagata prima della data prevista per tale adempimento, a causa della violazione del diritto comunitario [questioni 6(iv), (vi), e (viii)] (84). In ogni caso, è compito del giudice nazionale accertare che il danno di cui si chiede il risarcimento sia stata una diretta conseguenza dell’indebita riscossione dell’imposta.

133. In proposito, non sono convinto che il capo di conclusioni descritto nella questione 6 sub (ix) debba essere considerato equivalente ad una domanda di rimborso di somme indebitamente riscosse. Le ricorrenti nella causa principale sostengono fondamentalmente che la differenza di trattamento discriminatoria con cui le autorità fiscali britanniche, che negavano crediti d’imposta equivalenti agli azionisti di società britanniche che percepivano FID ha indotto tali società ad aumentare i dividendi per compensare questi azionisti. Tuttavia, non mi pare che tale aumento dei dividendi operato dalla società distributrice possa essere considerato una diretta conseguenza del rifiuto illegittimo, da parte del Regno Unito, di concedere crediti d’imposta equivalenti ai loro azionisti. La diretta conseguenza di tale diniego, consiste, semmai, nell’imposta supplementare applicata a tali azionisti che sarebbe stato evitata qualora il Regno Unito avesse adempiuto i propri obblighi derivanti dal diritto comunitario – perdite economiche, peraltro, subite dagli azionisti, non dalla società distributrice. Al contrario, qualsiasi maggiorazione dell’importo dei dividendi distribuiti agli azionisti da queste società non mi sembra una conseguenza inevitabile del rifiuto di concedere un credito d’imposta, né, in mancanza di ulteriori elementi, si potrebbe concludere che il versamento di dividendi con importo maggiorato si qualifichi come perdita subita dalla società distributrice.

134. In linea di principio, spetta al giudice nazionale dare una qualificazione giuridica, conformemente al diritto nazionale, alle domande che gli sono state presentate. Tuttavia, come ho precisato poc’anzi, l’esercizio della suddetta facoltà è subordinato alla condizione che tale qualificazione consenta alle ricorrenti pilota di disporre di un mezzo di ricorso effettivo per ottenere il rimborso o il risarcimento delle perdite economiche sofferte a vantaggio delle autorità dello Stato membro interessato, in seguito al pagamento anticipato dell’imposta (85). Tale obbligo implica che il giudice nazionale, nel qualificare le domande ai sensi del diritto nazionale, tenga conto del fatto che le condizioni stabilite dalla giurisprudenza Brasserie du Pêcheur per l’insorgenza della responsabilità per danni potrebbero non risultare soddisfatte in un dato caso, e ciononostante anche in tale situazione dovrà assicurare che i mezzi di ricorso effettivi siano garantiti.

135. Nella fattispecie, per esempio, non sono convinto che le condizioni stabilite dalla Corte nella sentenza Brasserie du Pêcheur sarebbero soddisfatte relativamente a tutti gli aspetti del sistema del Regno Unito di cui trattasi che, secondo me, viola il diritto comunitario. Chiaramente, è soddisfatta la prima condizione (violazione di una norma giuridica preordinata a conferire diritti ai singoli), poiché ognuna delle norme comunitarie invocate ha effetto diretto. Lo stesso dicasi nelle grandi linee per la terza condizione (esistenza di un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi), con la possibile eccezione della domanda descritta nella questione 6 sub (ix), per le ragioni che ho ricordato poc’anzi.

136. Tuttavia, nutro seri dubbi sul fatto che la seconda condizione – l’esistenza di una violazione «sufficientemente caratterizzata» della norma comunitaria – venga soddisfatta con riguardo a tutti gli aspetti del sistema controverso che, secondo me, viola il diritto comunitario. Come ha osservato la Corte nella citata sentenza Brasserie du Pêcheur,

«[q]uanto a tale violazione sufficientemente caratterizzata della norma comunitaria, il criterio decisivo per rilevarne l’esistenza è quello della violazione grave e manifesta, da parte dello Stato membro, dei limiti posti al suo potere discrezionale.

Al riguardo, fra gli elementi che il giudice competente può eventualmente prendere in considerazione, vanno sottolineati il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, l’ampiezza del potere discrezionale che tale norma riserva alle autorità nazionali o comunitarie, il carattere intenzionale o involontario della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità o l’inescusabilità di un eventuale errore di diritto, la circostanza che i comportamenti adottati da un’istituzione comunitaria abbiano potuto concorrere all’omissione, all’adozione o al mantenimento in vigore di provvedimenti o di prassi nazionali contrari al diritto comunitario.

Comunque sia, una violazione del diritto comunitario è grave e manifesta quando sia perdurata nonostante la pronuncia di una sentenza che ha accertato l’inadempimento contestato, di una sentenza pregiudiziale o di una giurisprudenza consolidata della Corte in materia, dalle quali risulti l’ illegittimità del comportamento in questione (86)».

137. Nella causa Metallgesellschaft, come ho osservato supra, tale questione non è stata esaminata dalla Corte, né è stata sollevata dal giudice nazionale. L’avvocato generale Fennelly che, come ho già ricordato, ha ritenuto che nel caso di specie le ricorrenti dovessero disporre di un rimedio sotto forma di restituzione in natura, ha comunque formulato alcune osservazioni, in subordine, riguardo alla questione se le condizioni stabilite dalla giurisprudenza nella causa Brasserie du Pêcheur fossero soddisfatte. Egli ha rilevato che «[l]a questione è se la chiarezza e la precisione dell’art. [43] del Trattato CE fossero tali che la violazione possa essere considerata grave e manifesta. Occorre esaminare tale questione alla luce dell’utilizzo diffuso della residenza quale criterio per la tassazione diretta, congiuntamente al grado di sviluppo della giurisprudenza pertinente all’epoca dei fatti . Essa riguarda i limiti all’utilizzo di questo criterio da parte degli Stati membri allorché risulti svantaggioso per i residenti di altri Stati membri. In breve, il rifiuto di concedere il regime di imposizione a livello di gruppo, considerato oggettivamente, era scusabile o inescusabile? (87)». Egli ha poi osservato che, in quanto la causa in esame verteva su una discriminazione indiretta « [i]n generale, la discriminazione indiretta dev’essere qualificata come “manifesta e grave”(...) Per qualificare come scusabile una violazione dell’art. 52 del Trattato come quella qui in discussione, il giudice a quo dev’essere persuaso non solo del fatto che le autorità britanniche abbiano effettivamente ritenuto che rifiutare di estendere il beneficio del regime di imposizione a livello di gruppo ai gruppi facenti capo a una società non stabilita nel Regno Unito fosse strettamente necessario, ma anche che tale parere fosse obiettivamente ragionevole alla luce della sentenza Bachmann (88) e del principio di interpretazione restrittiva delle eccezioni alle regole fondamentali del Trattato, quale la libertà di stabilimento (89)».

138. Concordo con l’avvocato generale Fennelly sul fatto che, al fine di stabilire se una violazione come quella imputata al Regno Unito nel presente caso sia grave e manifesta, la questione decisiva consista nell’accertare se l’errore di diritto commesso da tale Stato membro fosse oggettivamente scusabile o inescusabile. Concordo anche sul fatto che, in molte aree del diritto comunitario, la discriminazione indiretta risponde a tale criterio. Tuttavia, come ho osservato nelle mie conclusioni relative alla causa Test Claimants in the ACT Group Litigation (90), una parte della giurisprudenza in cui la Corte ha definito i limiti dell’applicazione delle disposizioni del Trattato sulla libera circolazione in materia di imposte dirette è estremamente complessa e, per taluni aspetti, in fase di sviluppo. Per esempio, non risultava abbastanza chiaramente, secondo me, fino alla pronuncia delle recenti sentenze Verkooijen (91) e Manninen (92), che gli Stati membri i quali agiscano nel ruolo di Stato di residenza sono tenuti, in forza degli artt. 43 CE e 56 CE, a concedere agli azionisti residenti che ricevono redditi provenienti dall’estero uno sgravio della doppia imposizione economica equivalente a quello accordato agli azionisti residenti che percepiscono redditi di origine nazionale. Tuttavia, tali aree possono essere confrontate con gli obblighi che derivano chiaramente dal diritto derivato – come ad esempio quelli sanciti dalla direttiva sulle società madri e figlie – o dalla giurisprudenza della Corte esistente all’epoca in cui vigevano i provvedimenti in questione. In somma, da quanto esposto si evince che le violazioni che sfiorano il limite di quello che, all’epoca dei fatti, era lo stadio di sviluppo della giurisprudenza in materia, non dovrebbero essere considerate una violazione grave e manifesta dei limiti del potere discrezionale di uno Stato membro ai sensi della giurisprudenza della Corte. Spetta al giudice nazionale qualificare la violazione in base ai fatti della causa a qua (93).

139. Sono pertanto del parere che le questioni da 6 a 9 debbano essere risolte nel senso che, in mancanza di disciplina comunitaria in materia di restituzione delle imposte nazionali indebitamente riscosse, spetti all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti che i contribuenti derivano dal diritto comunitario, ivi compresa la qualificazione dei ricorsi presentati dai ricorrenti dinanzi ai giudici nazionali. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, i giudici nazionali devono assicurare che le ricorrenti dispongano di un mezzo di ricorso effettivo che consente loro di ottenere il rimborso o il risarcimento delle perdite economiche da esse sofferte come conseguenza diretta di un prelievo fiscale effettuato in violazione del diritto comunitario.

V –    Limitazione temporale

140. Nelle sue osservazioni orali, il governo britannico ha chiesto che, nel caso in cui la Corte ritenesse che la sua normativa sia incompatibile con il diritto comunitario, essa valuti la possibilità di limitare nel tempo gli effetti della sua sentenza. Esso chiede, eventualmente, di riaprire il procedimento allorché avrà statuito nella causa Banca Popolare di Cremona (94). Esso osserva che prima della sentenza Metallgesellschaft (95), che riguardava un aspetto della normativa diverso da quello di cui trattasi nella presente causa, la normativa che era in discussione in tale causa non era mai stata contestata dinanzi alla Corte. Inoltre, questa normativa era rimasta sostanzialmente identica tra il 1973 e la sua abrogazione nel 1999, allorché i sistemi di imputazione costituivano il metodo che la Commissione preferiva in materia di lotta contro la doppia imposizione. Infine, il governo del Regno Unito afferma che il valore potenziale delle azioni in corso potrebbe ammontare a 7 miliardi di sterline, costo che potrebbe esser ancora aggravato dalla complessità delle situazioni che si riscontrano nel risolvere ricorsi alcuni dei quali risalgono al 1974.

141. Le ricorrenti replicano che le eventuali conseguenze finanziarie della presente causa sono lungi dal raggiungere la valutazione del governo e pretendono che i dati numerici si collochino piuttosto in una forchetta compresa tra 100 milioni e 2 miliardi di sterline a seconda dell’esito di un ricorso pendente dinanzi ai giudici inglesi relativamente alla limitazione nel tempo. Esse aggiungono che, anche se fino a duna data relativamente recente, la normativa britannica non aveva costituito oggetto di reclami espliciti dinanzi ai giudici britannici sulla base degli artt. 43 e 56 CE, le misure controverse – ed in particolare la loro applicazione transfrontaliera – erano state tuttavia contestate seguendo altre strade prima di quella. Infine, le ricorrenti chiedono che, nel caso in cui la Corte intendesse limitare nel tempo gli effetti della sua sentenza, la fase orale del procedimento sia riaperta al fine di consentire loro di presentare osservazioni complementari al riguardo.

142. Comincio con il ricordare i principi che si applicano ad una domanda di limitazione nel tempo degli effetti della sentenza. La Corte, in una costante giurisprudenza, ha dichiarato che l’interpretazione che essa dà ad una disposizione di diritto comunitario si limita a chiarire e precisare il significato e la portata di questa, così come avrebbe dovuto essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore. Solo in via eccezionale, e tenuto conto della necessità di certezza del diritto, la Corte, in applicazione del principio generale della certezza del diritto inerente all’ordinamento giuridico comunitario, ha deciso di limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. La Corte ha fatto ricorso a tale soluzione soltanto in presenza di circostanze ben precise, quando, da un lato, vi era (1) un rischio di gravi ripercussioni economiche dovute, in particolare all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente, e (2) quando, dall’altro, risultava che i singoli e le autorità nazionali erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa comunitaria a causa di un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni comunitarie, incertezza alla quale avevano eventualmente contribuito gli stessi comportamenti tenuti da altri Stati membri o dalla Commissione (96).

143. All’argomento che il governo britannico ha dedotto nella presente fattispecie, rispondo innanzi tutto che, allorché una parte avvia un’azione dinanzi alla Corte, essa deve assicurarsi che i suoi argomenti siano stati sufficientemente esposti e che la Corte disponga di informazioni sufficienti per poter statuire. È indispensabile rispettare questo principio procedurale fondamentale per evitare alla Corte di dover statuire su questioni puramente ipotetiche o sulla base di semplici supposizioni che possono risultare imprecise. Inoltre, le osservazioni scritte delle parti dovrebbero in via di principio coprire tutti i motivi che esse deducono (97). Si tratta non solo di consentire alle altre parti in causa di rispondere a ciascuno di essi, ma anche di aiutare la Corte a prendere decisioni iniziali quali, ad esempio, la decisione di assegnare la causa ad un collegio particolare o quella di realizzare gli adempimenti istruttori che potrebbero risultare necessari.

144. Nella presente causa, il governo britannico non aveva presentato la domanda di limitazione degli effetti della sentenza nel tempo nelle sue osservazioni scritte. Esso l’ha fatto solo all’udienza senza fornire argomenti nel merito o prove dettagliate su alcuno dei due elementi di cui, contrariamente alla costante giurisprudenza esposta precedentemente, occorre fornire la dimostrazione alla Corte affinché essa possa limitare la portata cronologica della sua sentenza. Per quanto riguarda il primo elemento, ossia il rischio di ripercussioni economiche gravi dovute al numero elevato di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base della normativa ritenuta validamente vigente, il Regno Unito, pur avendo valutato in 7 miliardi di sterline la cifra in questione, non ha fornito alcuna indicazione su come è pervenuto a tale cifra o sul numero di rapporti giuridici interessati su cui essa era basata. Esso non ha poi fornito chiarimenti al riguardo in risposta all’argomento delle ricorrenti secondo cui il vero e proprio importo in gioco si collocherebbe tra 100 milioni e 2 miliardi di sterline. Per quanto riguarda il secondo elemento, ossia il requisito secondo cui i singoli e le autorità nazionali siano stati «indotti ad un comportamento non conforme alla normativa comunitaria a causa di un’obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni comunitarie», il governo britannico si è limitato a dichiarare che il suo sistema ACT non era mai stato impugnato per violazione del diritto comunitario prima della causa Metallgesellschaft e che a quel tempo i sistemi di imputazione costituivano il metodo che la Commissione preferiva in materia di lotta contro la doppia imposizione. Esso non ha fornito alcun argomento in cui abbia precisato quali sentenze della Corte relative all’art. 43 e/o all’art. 53 CE fossero pertinenti nella fattispecie né alcun argomento relativo alla data di riferimento che la Corte dovrebbe prendere in considerazione se decidesse di limitare gli effetti della sua sentenza (98).

145. Ritengo pertanto che la Corte dovrebbe respingere la domanda del governo britannico di limitazioni temporali senza alcun’altra forma di procedimento poiché esso non l’ha sufficientemente motivata. Osservo che tale governo non ha cercato di fornire una qualsiasi giustificazione per chiarire che non aveva presentato la sua domanda di limitazione temporale nelle sue osservazioni scritte o che non aveva fornito argomenti nel merito su tale punto durante tutto il procedimento dinanzi alla Corte. Certo, esso aveva chiesto alla Corte di riaprire il procedimento allorché questa avrebbe statuito nella causa Banca Popolare di Cremona, ma i principali punti della giurisprudenza della Corte che enunciano le due condizioni di base sopra menzionate che gli consentono di limitare gli effetti delle sue sentenze nel tempo sono stati definiti da lunga data. Non è stato sollevato nella presente causa l’altro aspetto di questa giurisprudenza in discussione, nel procedimento Banca Popolare di Cremona che era stato riaperto in seguito alle conclusioni che l’avvocato generale Jacobs aveva presentato in tale causa, ossia la possibilità di fissare la data di riferimento per gli effetti di una sentenza futura.

146. Se la Corte dovesse ritenere che l’omissione del Regno Unito di giustificare la sua domanda non è sufficiente di per sé per eliminare la questione di una limitazione nel tempo, tuttavia, pur essendo riluttante per i motivi sopra indicati ad esprimere un parere nel merito senza aver ascoltato argomenti sostanziali, vorrei svolgere le seguenti osservazioni. Benché, come ho detto precedentemente, i limiti del campo di applicazione delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione nel campo delle imposte dirette non sono mai stati ovvi, mi sembra che il Regno Unito avrebbe dovuto sapere che esisteva un rischio che un sistema che trattava redditi di origine straniera meno favorevolmente dei redditi di origine nazionale poteva essere considerato discriminatorio ed incompatibile con il diritto comunitario. Al Regno Unito avrebbe dovuto quantomeno essere chiara, dopo la sentenza che la Corte ha pronunciato nella causa Avoir Fiscal, se non precedentemente, la potenziale applicazione del principio di base che vieta qualsiasi discriminazione ai provvedimenti fiscali di imposizione diretta, benché la causa Avoir Fiscal riguardasse un altro tipo di discriminazione praticata mediante siffatti provvedimenti (99). Per il resto, non posso concordare con il suggerimento implicito del Regno Unito secondo cui la preferenza che la Commissione avrebbe accordato a quel tempo ai metodi di imputazione nella lotta contro la doppia imposizione economica avesse consentito di credere che il suo regime fosse compatibile con il diritto comunitario: anche supponendo che la Commissione abbia approvato i metodi di imputazione in generale, essa non approvava le caratteristiche discriminatorie specifiche del sistema di imputazione britannico di cui trattasi nella presente fattispecie. Non vi è alcun motivo per credere che il Regno Unito fosse stato «indotto» a mantenere il suo regime a causa di un’incertezza obiettiva e rilevante circa il significato delle disposizioni comunitarie o che la Commissione abbia contribuito a creare una tale incertezza, ai sensi del secondo elemento di variazione descritto nella giurisprudenza della Corte sopra esposta.

147. Per i motivi che ho appena indicato ritengo che la Corte debba respingere la domanda del governo del Regno Unito intesa a limitare nel tempo gli effetti della sua sentenza.

VI – Conclusione

Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di giustizia di risolvere nel seguente modo le questioni poste dalla High Court of Justice of England and Wales Chancery Division:

–        «è incompatibile con gli artt. 43 CE e 56 CE il fatto che uno Stato membro mantenga in vigore ed applichi provvedimenti come quelli di cui trattasi nella presente causa, che esonerano dall’imposta sulle società dividendi che una società residente in tale Stato membro abbia percepito da altre società residenti, e che assoggettano i dividendi che una società residente abbia percepito da società residenti in altri Stati membri a un’imposta sulle società, una volta concessa l’esenzione dalla doppia imposizione per qualsiasi ritenuta alla fonte dovuta sul dividendo e, a determinate condizioni, per l’imposta sottostante pagata dalle società non residenti sui loro utili nei rispettivi paesi di residenza;

–        in quanto il sistema del Regno Unito descritto nelle questioni 2 e 3 garantiva un’esenzione completa dalla doppia imposizione economica, al livello delle società, per i dividendi di origine nazionale distribuiti alle società azioniste britanniche, ma non riusciva ad assicurare l’esenzione completa dalla doppia imposizione per i dividendi distribuiti da società residenti in altri Stati membri, tale sistema è discriminatorio e incompatibili con gli artt. 43 CE e 56 CE nonché con l’art. 4, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie, per quanto riguarda le distribuzioni di utili che rientrano nel suo campo d’applicazione. Il detto sistema, tuttavia, non viola l’art. 6 di tale direttiva.

–        qualora i provvedimenti adottati dal Regno Unito prevedano che, in determinate circostanze, le società residenti, se effettuano una scelta in tal senso, possano recuperare l’ACT pagata sulle distribuzioni ai loro azionisti nei limiti in cui tali distribuzioni siano state effettuate da società non residenti (incluse a tale scopo società stabilite in paesi terzi), (1) è incompatibile con gli artt. 43 CE e 56 CE , nonché con l’art. 4, n. 1, della direttiva 90/435/CEE, il fatto che detti provvedimenti obblighino le società residenti a versare l’ACT e a chiederne successivamente il rimborso, in quanto tale misura non garantisce per i dividendi di origine estera un’esenzione dalla doppia imposizione economica equivalente a quella per i dividendi di origine nazionale; e (2) è incompatibile con gli artt. 43 CE e 56 CE il fatto di non prevedere la concessione, a favore degli azionisti di società residenti, di uno sgravio della doppia imposizione economica equivalente a quello che avrebbero ottenuto per i dividendi provenienti da una società residente, la quale a sua volta non avesse percepito dividendi da società non residenti;

–        qualora, precedentemente al 31 dicembre 1993, uno Stato membro abbia adottato i provvedimenti enunciati nelle questioni 1 e 2, e dopo tale data abbia emanato le ulteriori misure delineate nella questione 4, e qualora queste ultime costituiscano un restrizione vietata dall’art. 56 CE, tale restrizione rientra fra i provvedimenti già esistenti alla data del 31 dicembre 1993 ai sensi dell’art. 57, n. 1, CE;

–        in mancanza di disciplina comunitaria in materia di restituzione delle imposte nazionali indebitamente riscosse, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti che i contribuenti derivano dal diritto comunitario, ivi compresa la qualificazione dei ricorsi presentati dai ricorrenti dinanzi ai giudici nazionali. Tuttavia, nell’esercizio di tale competenza, i giudici nazionali devono assicurare che le ricorrenti dispongano di un mezzo di ricorso effettivo che consente loro di ottenere il rimborso o il risarcimento delle perdite economiche da esse sofferte come conseguenza diretta di un prelievo fiscale effettuato in violazione del diritto comunitario».


1 – Lingua originale: l'inglese.


2 – V. le mie conclusioni presentate il 23 febbraio 2006 (sentenza 12 dicembre 2006, Racc. pag. I‑11673).


3 – V., comunque, l'art. 5, n. 1, della direttiva del Consiglio 23 luglio 1990, 90/435/CEE, concernente il regime fiscale comune applicabile alle società madri e figlie di Stati Membri diversi (GU 1990 L 225/6) (gli utili distribuiti da una società figlia alla società madre che detiene almeno il 25% del capitale della società figlia sono esenti da ritenuta alla fonte).


4 – La motivazione principale di tale obiettivo consiste nell'evitare una discriminazione svantaggiosa nei confronti del finanziamento di società mediante fondi propri.


5 – V. la Reform of Corporation Tax (Riforma dell'imposta sulle società), un documento ufficiale presentato al Parlamento del Regno Unito all'atto dell'adozione di un sistema di imputazione parziale, punti 1 e 5 (Cmnd. 4955).


6 – Section 14, n. 1, dell'Income and Corporation Taxes Act 1988 (legge relativa alle imposte sul reddito e le società, in prosieguo: l'«ICTA»), nella versione allora vigente.


7 – Section 238, n. 1, ICTA.


8 – Section 797, n. 4, ICTA.


9 – Section 239 ICTA.


10 – Section 240 ICTA.


11 – Section 247 ICTA.


12 – Sentenza 8 marzo 2004, cause riunite C‑397/98 e C‑410/98, Metallgesellschaft e a. (Racc. pag. I‑1727).


13 – Section 208 ICTA.


14 – Section 790 ICTA.


15 – Section 788 ICTA.


16 – Così, ad esempio, l'art. 22, lett. B), della CDI Regno Unito – Paesi Bassi, disponeva, nel periodo di cui è causa, che, «qualora tale reddito sia costituito da dividendi versati da società con sede nei Paesi Bassi ad altra società con sede nel Regno Unito che controlli, direttamente o indirettamente, una partecipazione non inferiore ad un decimo dei diritti di voto della prima società, la compensazione d'imposta riguarderà (oltre a qualsivoglia imposta versata nei Paesi Bassi sui relativi dividendi) anche l'imposta applicabile nei Paesi Bassi sugli utili conseguiti dalla detta prima società». V. anche le CDI concluse dal Regno Unito con la Francia e con la Spagna.


17 – Section 208 ICTA.


18 – Section 231, n. 1, ICTA.


19 – Section 238, n. 1 ICTA.


20 – Section 241 ICTA.


21 – Sezioni 246A-246Y ICTA.


22 – Una società azionista poteva tuttavia utilizzare i FID ad essa erogati per assolvere dall'imposta dei FID versati, cosicché l'ACT veniva corrisposta unicamente sull'eccedenza tra i FID versati e i FID ricevuti.


23 – Section 231, n. 1, ICTA.


24 – Section 20, n. 1, ICTA.


25 – Section 231, nn. 1, 3, ICTA.


26 – Per le società che avevano provveduto al riporto dell'eccedenza di ACT, veniva introdotto un «ACT ombra» che consentiva alle società di far valere l'eccedenza di ACT.


27 – V. nota 3.


28 – Le ricorrenti pilota sono la B.A.T. Industries plc, la British American Tobacco (Investments) Ltd, la British American Tobacco (Holdings) Limited, la BAT 1998 Limited e la British American Tobacco plc.


29 Per quanto le caratteristiche fondamentali della struttura del gruppo delle ricorrenti pilota non siano cambiate nel periodo di cui è causa, è cambiata l'identità della società capogruppo nell'ambito delle ricorrenti pilota.


30 – V. nota 2.


31 – Sentenza 13 aprile 2000, causa C-251/98, Baars (Racc. pag. I‑2787, punto 22). Sebbene tale causa riguardasse la partecipazione detenuta da un cittadino di uno Stato membro e non da una società, il principio si applica ugualmente alle società stabilite in tale Stato membro. V., inoltre, l’art.  58, n. 2, CE, a tenore del quale l’applicazione delle disposizioni sulla libera circolazione dei capitali non pregiudica «l’applicabilità di restrizioni in materia di diritto di stabilimento compatibili con il presente trattato».


32 – V. le conclusioni dell’avvocato generale Alber nella causa Baars (cit. supra, alla nota 31), nel punto in cui osserva «[n]el caso in cui sussista una diretta lesione della libertà di stabilimento, la quale comporti indirettamente una riduzione dei flussi di capitali tra gli Stati membri, sono applicabili unicamente le norme in materia di libertà di stabilimento (paragrafo 22).


33 – Sebbene il Trattato non contenga una definizione di tale concetto, la Corte ha affermato che, se è vero che la percezione di dividendi può di per sé non costituire un movimento di capitali, essa tuttavia presuppone la partecipazione nel capitale di imprese nuove o già operanti, il che costituisce movimento di capitali. V. sentenza 6 giugno 2000, causa C‑35/98, Verkooijen (Racc. pag. I‑4071). V., inoltre, sentenza 7 settembre 2004, causa C‑319/02, Manninen, (Racc. pag. I‑7477), dove, tuttavia, questo punto non è stato esplicitamente discusso.


34 – Direttiva del Consiglio CEE del 24 giugno 1988, per l’attuazione dell’articolo 67 del trattato (GU L 178, pag. 5).


35 – V., per esempio, sentenza 13 dicembre 2005, causa C-446/03, Marks & Spencer/David Halsey (Racc. pag. I‑10837, punto 29) e giurisprudenza ivi citata.


36 – v. supra alla nota 2.


37 – Tale ragionamento è ampiamente sviluppato nei paragrafi 31-54 delle mie conclusioni nella causa Test Claimants in the ACT Group Litigation (citate supra alla nota 2).


38 – Ibidem, paragrafo 55.


39 – Ibidem, paragrafo 58.


40 – A titolo di esempio, si veda inoltre l’art. 4 della direttiva sulle società madri e figlie (cit. supra alla nota 3), ai sensi del quale lo Stato in cui ha sede la società madre che riceve utili distribuiti dalla figlia può scegliere un metodo di tassazione dei dividendi basato sull’esenzione o sull’imputazione.


41 – V. supra alla nota 33.


42 – Sentenza Manninen, cit. supra alla nota 33 (punto 36).


43 – Ibidem (punto 48).


44 – V. le mie conclusioni nella causa Test Claimants in the ACT Group Litigation, cit. supra alla nota 2 (paragrafi 43 e segg.).


45 – V. anche conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa Manninen, cit. supra alla nota 33 (paragrafo 74).


46 – Si veda, per analogia, in che modo ha funzionato, in un contesto nazionale, il sistema di imputazione finlandese per riportare la tassa effettiva pagata sugli utili distribuiti al 29%, aliquota di base dell’imposta finlandese sui dividendi (la differenza è stata posta a carico della società distributrice); v. sentenza Manninen, cit. supra alla nota 33 (punto 11).


47 – Su tali argomenti, si vedano le conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa Manninen, cit. supra alla nota 33 (paragrafo 77).


48 – Sentenza Manninen, cit. supra alla nota 33 (punto 54).


49 – V. le mie conclusioni nella causa Test Claimants in the ACT Group Litigation, paragrafo 58.


50 – V., inter alia, sentenza 29 aprile 1999, causa C‑311/97, Royal Bank of Scotland (Racc. pag. I‑2651, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).


51 – V. supra alla nota 12.


52 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12 (punti 46-48).


53 –      Ibidem, punti 52, 53, 55 e 56.


54 – V. le mie conclusioni nella causa Test Claimants in the ACT Group Litigation, cit. supra alla nota 2 (paragrafo 58) e sentenze ivi citate (segnatamente, sentenze Manninen, e Verkooijen, citate supra alla nota 33); v. infine, sentenza 15 luglio 2004, causa C‑315/02, Lenz (Racc. pag. I‑7063).


55 – In aggiunta, noto che, per i casi in cui il sistema britannico desse luogo ad un surplus ACT, uno dei possibili modi di «utilizzo» di tali somme consisteva nel trasferimento del credito di ACT eccedentaria alle controllate residenti nel Regno Unito (che potevano dedurlo dall’MCT dovuta nel Regno Unito). Come ha osservato la Commissione, il solo fatto di aver riservato tale possibilità di compensare l’ACT eccedentaria alle controllate residenti nel Regno Unito costituirebbe una discriminazione: nei limiti in cui le controllate non residenti venivano assoggettate all’MCT nel Regno Unito, non vedo perché non potessero fruire parimenti del diritto di «utilizzare» il credito di ACT eccedentaria della società madre. Tuttavia, poiché la compatibilità di tale disposizione con il diritto comunitario non è oggetto delle questioni sollevate dal giudice nazionale nell’ordinanza di rinvio, non è necessario prolungare la discussione su questo punto.


56 – Ossia, una società madre che detenga una partecipazione minima del 25% nel capitale di una società stabilita in un altro stato membro, qualora ambedue le società soddisfino le condizioni di cui all’art. 2 della direttiva (v. art. 3 della direttiva).


57 – V. il preambolo della direttiva sulle società madri e figlie.


58 – V. sentenze 25 settembre 2003, causa C‑58/01, Océ van der Grinten (Racc. pag. I‑9089, punto 46), 8 giugno 2000, causa C‑375/98, Epson Europe (Racc. pag. I‑4243, punto 22), e 4 ottobre 2001, causa C‑294/99, Athinaiki Zithopiia (Racc. pag. I‑6797, punti 26 e 27).


59 –      V. sentenze Océ van der Grinten, cit. supra, alla nota 58 (punto 47); Epson Europe, cit. alla nota 58 (punto 23), Athinaiki Zithopiia, cit. alla nota 58 (punti 28 e 29).


60 – Osservo che la fattispecie in esame non rientra nell’ambito di applicazione dei principi enunciati all’art. 7, n. 1, della direttiva sulle società madri e figlie, in cui si indica che l’espressione «ritenuta alla fonte» non comprende il pagamento anticipato o preliminare (ritenuta) dell'imposta sulle società allo Stato membro in cui ha sede la società figlia, effettuato in concomitanza con la distribuzione degli utili alla società madre. Chiaramente, l'ACT è un'imposta applicata dallo Stato membro della società madre, e non dallo Stato membro della società figlia.


61 – V. supra alla nota 12.


62 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12 (punto 44).


63 – Sentenza Manninen, cit. supra alla nota 33.


64 – Rilevo che le questioni 1-3 riguardano espressamente le sole restrizioni intracomunitarie, come indicato dal giudice nazionale, poiché si riferiscono a restrizioni che esistevano anteriormente al 31 dicembre 1993 ai sensi dell’art. 57, n. 1, CE.


65 – Causa C‑302/87, Konle/Austria (Racc. pag. I‑3099).


66 – GU 1994, C 241, pag. 21.


67 – Ibidem, punto  27.


68 –      Ibidem, punti 52 e 53. V., inoltre, sentenza 15 maggio 2003, causa C‑300/01, Salzmann (Racc. pag. I‑4899) e le mie conclusioni presentate il 10 aprile 2003, nella causa decisa con sentenza 23 settembre 2003, C‑452/01, Ospelt (Racc. pag. I‑9743, paragrafo 52 delle conclusioni).


69 – Conclusioni presentate nella causa Ospelt, cit. supra alla nota 68 (paragrafo 53).


70 – V. sentenza Manninen, cit. supra alla nota 33 (punti 22-24) e le conclusioni dell’avvocato generale Kokott presentate in tale causa (paragrafi 27-33).


71 – V. le mie conclusioni nella causa Ospelt, cit. supra alla nota 67.


72 – Conclusioni nella causa Ospelt, cit. supra alla nota 68 (paragrafi 35-40).


73 – Ibidem (paragrafi 41 e 42).


74 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra, alla nota 12 (punto 84). V., inoltre, sentenze 9 novembre 1983, causa 199/82, San Giorgio (Racc. pag. 3595, punto 12); 2 febbraio 1988, causa 309/85, Barra (Racc. pag. 355, punto 17); 6 luglio 1995, causa C-62/93, BP Soupergaz (Racc. pag. I‑1883, punto 40); 9 febbraio 1999, causa C‑343/96, Dilexport (Racc. pag. I-579, punto 23), e 21 settembre 2000, cause riunite C‑441/98 e C‑442/98, Michaïlidis (Racc. pag. I‑7145, punto 30).


75 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra, alla nota 12 above (punto 84). V., inoltre, sentenze 13 dicembre 2005, Marks & Spencer (citata alla nota 35); 9 dicembre 2003, causa C‑129/00, Commissione/Italia (Racc. pag. I‑14637, punto 25); 14 gennaio 1997, cause riunite da C‑192/95 a C‑218/95, Comateb e a., (Racc. pag. I‑165, punto 20), e Dilexport, cit. supra, alla nota 74 (punto 23), e Michailidis, cit. supra, alla nota 74 (punto 30).


76 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. (punto 85). V., inoltre, sentenze Marks & Spencer I, cit. supra, alla nota 75 (punto 39), 15 settembre 1998, causa C-231/96, Edis (Racc. pag. I‑4951, punti 19 e 34); causa C-260/96, Spac (Racc. pag. I‑4997, punto 18); 17 novembre 1998, causa C‑228/96, Aprile (Racc. pag. I‑7141, punto 18), e Dilexport, cit. supra, alla nota 74 (punto 25). V., ugualmente, sentenza 20 settembre 1991, causa C‑453/99, Courage/crehan (Racc. pag. I‑6297).


77 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra, punto 81.


78 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12 (punti 82-95).


79 – Ibidem (punto 96).


80 – Ibidem.


81 – Sentenza 5 marzo 1996, cause riunite C‑46/93 e C‑48/93, e Factortame (Racc. pag. I‑1029).


82 – Conclusioni dell’avvocato generale Fennelly nella causa Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12 (paragrafo 52).


83 – Ibidem (paragrafo 45).


84 – V., in proposito, la soluzione data dalla Corte alla seconda questione posta nella causa Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12.


85 – Sentenza Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12 (punto 96).


86Sentenza Brasserie du Pêcheur, cit. supra alla nota 80 (punti 55-58).


87 – Conclusioni dell’avvocato generale Fennelly nella causa Metallgesellschaft, cit. supra alla nota 12 (paragrafo 56).


88 – Causa C‑204/90, Racc. pag. I‑249.


89 – Ibidem, punto 56.


90 – V. supra alla nota 2.


91 – V. supra alla nota 33.


92 – Ibidem.


93 – V., per esempio, sentenza Brasserie du Pêcheur, cit. supra alla nota 81 (punto 58).


94 – Causa C‑475/03, Banca Popolare di Cremona, conclusioni dell'avvocato generale Stix-Hackl del 14 marzo 2005 (sentenza 3 ottobre 2006, Racc. pag. I‑9373).


95 – Cit. alla nota 12


96 – V. causa C‑209/03, Bidar (Racc. pag. I‑2119, punti 66-69); conclusioni dell'avvocato generale Jacobs presentate nella causa Banca popolare di Cremona, cit. alla nota 94, paragrafi 74 e 75 e conclusioni dell'avvocato generale Tizzano presentate il 10 novembre 2005 nella causa C‑292/04, Meilicke (sentenza 6 marzo 2007, Racc. pag. I‑0000).


97 – V., nel caso dei ricorsi diretti, gli artt. 38 e 42, n. 2, del regolamento di procedura della Corte. L'art. 38 richiede che i ricorsi contengano una «esposizione sommaria dei motivi dedotti». L'art. 42, n. 2, stabilisce che «è vietata la deduzione di motivi nuovi in corso di causa, a meno che essi si basino su elementi di diritto e di fatto emersi durante il procedimento. Se, durante il procedimento, una delle parti deduce mortivi nuovi ai sensi del comma precedente, il presidente può, dopo la scadenza dei normali termini processuali, su relazione del giudice relatore e sentito l'avvocato generale, impartire all'altra parte un termine per controdedurre sui motivi. La decisione sulla ricevibilità di un motivo nuovo è riservata alla sentenza definitiva».


98 – Per contro, nelle cause Banca Popolare di Cremona, cit. alla nota 94, e Meilicke, cit. alla nota 96, i governi italiano e tedesco, nelle loro osservazioni scritte originarie, avevano fornito argomenti nel merito circa la questione delle limitazioni temporali.


99 – Causa C‑270703, Commissione/Repubblica francese (Racc. pag. I‑273).