Language of document : ECLI:EU:C:2017:553

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

MICHAL BOBEK

presentate il 13 luglio 2017 (1)

Causa C574/15

Mauro Scialdone

(domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Varese, Italia)

«Rinvio pregiudiziale – Imposta sul valore aggiunto (IVA) – Direttiva 2006/112 – Articolo 4, paragrafo 3, TUE – Principio di leale cooperazione – Articolo 325 TFUE – Tutela degli interessi finanziari dell’Unione – Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Convenzione TIF) – Normativa nazionale che prevede sanzioni penali relative all’omesso versamento di ritenute e IVA nei termini di legge – Soglia pecuniaria più elevata applicabile ai reati connessi all’IVA – Normativa nazionale che prevede una causa di non punibilità per avvenuto pagamento dell’IVA – Obbligo a carico degli Stati membri di stabilire sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 49, paragrafo 1, della Carta – Principio di legalità – Applicazione retroattiva della pena più lieve – Certezza del diritto»






Indice


I. Introduzione

II. Contesto normativo

A. Diritto dell’Unione europea

1. La Carta

2. Articolo 325 TFUE

3. Convenzione TIF

4. Direttiva IVA

5. Regolamento n. 2988/95

B. Diritto italiano

III. Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

IV. Analisi

A. Disposizioni di diritto dell’Unione europea applicabili al caso di specie

1. Convenzione TIF

a) La Convenzione TIF e l’IVA

b) La nozione di frode ai sensi della Convenzione TIF

2. Articolo 325 TFUE

a) Eventuale pregiudizio degli interessi finanziari dell’Unione

b) Applicabilità dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE

c) Articolo 325, paragrafo 1, TFUE in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE

3. La direttiva IVA e il principio di leale cooperazione

4. Conclusione intermedia

B. Risposta alle questioni pregiudiziali

1. Prima parte della terza questione: la Convenzione TIF

2. Prima questione: soglie differenziate e obbligo di stabilire sanzioni equivalenti

a) Definizione del regime nazionale «analogo»

b) Una differenziazione giustificata?

3. Seconda questione e seconda parte della terza questione: causa di non punibilità e sanzioni effettive e dissuasive

a) La nuova causa di non punibilità

b) Rilevanza della soglia di EUR 50 000 stabilita nella Convenzione TIF

c) Conclusione intermedia

C. Effetti di una potenziale incompatibilità tra normativa nazionale e diritto dell’Unione

1. Il «fulcro» del principio di legalità: il divieto di retroattività

2. Il significato più ampio del principio di legalità: lex mitior e certezza del diritto in materia penale

3. Le implicazioni del principio della lex mitior e della certezza del diritto nella causa in esame

V. Conclusione


I.      Introduzione

1.        In Italia, l’omesso versamento dell’IVA correttamente dichiarata entro i termini di legge comporta sanzioni penali. Pertanto, il sig. Mauro Scialdone, in veste di amministratore unico di una società che non aveva provveduto al versamento entro i suddetti termini, veniva accusato della commissione di un reato.

2.        In pendenza del procedimento penale a carico del sig. Scialdone, la normativa nazionale applicabile è stata modificata. In primo luogo, la modifica ha innalzato notevolmente la soglia al di sopra della quale l’omesso versamento dell’IVA è considerato un reato. Essa ha inoltre stabilito soglie differenti per quanto concerne l’IVA e le ritenute. In secondo luogo, ha aggiunto una nuova causa di non punibilità in caso di pagamento integrale del debito tributario, comprese sanzioni amministrative e interessi, anteriormente alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.

3.        Dopo l’entrata in vigore della nuova modifica, la condotta del sig. Scialdone non sarebbe stata più punibile in base al principio di applicazione retroattiva della sanzione penale più lieve. L’importo dell’IVA che aveva omesso di versare tempestivamente è inferiore alla nuova soglia. Ciononostante, il giudice del rinvio nutre dubbi in ordine alla compatibilità della modifica con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, l’articolo 325 TFUE, la direttiva IVA (2) e la Convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (3), in particolare riguardo a se il nuovo regime sanzionatorio per l’omesso versamento dell’IVA rispetti l’obbligo di prevedere sanzioni per violazioni del diritto dell’Unione in forme analoghe a quelle previste per violazioni simili nel diritto interno e se sia conforme all’obbligo degli Stati membri di imporre sanzioni dissuasive ed effettive. Ecco le questioni principali cui la Corte è chiamata a rispondere nel caso di specie.

4.        Tuttavia, il giudice del rinvio ha altresì suggerito che, qualora dovesse essere dichiarata incompatibile con il diritto dell’Unione, la modifica in esame dovrebbe essere disapplicata, con conseguente persistenza della perseguibilità penale del sig. Scialdone. Pertanto, la fattispecie solleva questioni fondamentali riguardanti i principi di legalità e certezza del diritto e, in particolare, l’applicazione retroattiva della pena più lieve di cui all’articolo 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta».

II.    Contesto normativo

A.      Diritto dell’Unione europea

1.      La Carta

5.        L’articolo 49 della Carta stabilisce i principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene. Il primo paragrafo così dispone: «Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».

2.      Articolo 325 TFUE

6.        Ai sensi dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, «[l]’Unione e gli Stati membri combattono contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure adottate a norma del presente articolo, che siano dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri e nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione».

7.        L’articolo 325, paragrafo 2, TFUE dispone quanto segue: «[g]li Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari».

3.      Convenzione TIF

8.        L’articolo 1 della Convezione TIF prevede quanto segue:

«1.      Ai fini della presente convenzione costituisce frode che lede gli interessi finanziari delle Comunità europee:

(…)

b)      in materia di entrate, qualsiasi azione od omissione intenzionale relativa:

–        all’utilizzo o alla presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti cui consegua la diminuzione illegittima di risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse;

–        alla mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico cui consegua lo stesso effetto;

–        alla distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto, cui consegua lo stesso effetto.

2.      Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, ciascuno Stato membro prende le misure necessarie e adeguate per recepire nel diritto penale interno le disposizioni del paragrafo 1, in modo tale che le condotte da esse considerate costituiscano un illecito penale.

(…)

4.      Il carattere intenzionale di un’azione o di un’omissione di cui ai paragrafi 1 e 3 può essere dedotto da circostanze materiali oggettive».

9.        Conformemente all’articolo 2, paragrafo 1, della Convenzione TIF «[o]gni Stato membro prende le misure necessarie affinché le condotte di cui all’articolo 1 nonché la complicità, l’istigazione o il tentativo relativi alle condotte descritte all’articolo 1, paragrafo 1 siano passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive che comprendano, almeno nei casi di frode grave, pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione, rimanendo inteso che dev’essere considerata frode grave qualsiasi frode riguardante un importo minimo da determinare in ciascuno Stato membro. Tale importo minimo non può essere superiore a [EUR] 50 000».

4.      Direttiva IVA

10.      Ai sensi dell’articolo 206 della direttiva IVA, «[o]gni soggetto passivo che è debitore dell’imposta deve pagare l’importo netto dell’IVA al momento della presentazione della dichiarazione IVA prevista all’articolo 250. Gli Stati membri possono tuttavia stabilire un’altra scadenza per il pagamento di questo importo o riscuotere acconti provvisori».

11.      L’articolo 250, paragrafo 1, della direttiva citata così recita: «Ogni soggetto passivo deve presentare una dichiarazione IVA in cui figurino tutti i dati necessari per determinare l’importo dell’imposta esigibile e quello delle detrazioni da operare, compresi, nella misura in cui sia necessario per la determinazione della base imponibile, l’importo complessivo delle operazioni relative a tale imposta e a tali detrazioni, nonché l’importo delle operazioni esenti».

12.      Ai sensi dell’articolo 273 della medesima direttiva, «[g]li Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera. (…)».

5.      Regolamento n. 2988/95

13.      Ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 2, del regolamento (CE, Euratom) n. 2988/95 relativo alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità (4): «[c]ostituisce irregolarità qualsiasi violazione di una disposizione del diritto comunitario derivante da un’azione o un’omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità o ai bilanci da queste gestite, attraverso la diminuzione o la soppressione di entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto delle Comunità, ovvero una spesa indebita».

B.      Diritto italiano

14.      Gli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo 74/2000 (5), all’epoca dei fatti del caso di specie e fino al 21 ottobre 2015, così disponevano:

«Articolo 10 bis

È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.

Articolo 10 ter

La disposizione di cui all’articolo 10 bis si applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo».

15.      L’articolo 13, comma 1, del decreto legislativo 74/2000 prevedeva un’attenuazione del trattamento sanzionatorio attraverso la configurazione di una circostanza attenuante, con diminuzione della pena fino ad un terzo ed esclusione di pene accessorie se i debiti tributari, comprese le sanzioni amministrative, venivano estinti mediante pagamento prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.

16.      In forza delle modifiche introdotte, rispettivamente, dagli articoli 7 e 8 del decreto legislativo 158/2015 (6), gli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo 74/2000 hanno assunto la seguente formulazione (a decorrere dal 22 ottobre 2015):

«Articolo 10 bis

È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta.

Articolo 10 ter

È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta».

17.      Il decreto legislativo 158/2015 ha modificato anche l’articolo 13, primo comma, del decreto legislativo 74/2000 aggiungendo una nuova causa di non punibilità. Detto articolo così recita: «[i] reati di cui agli articoli 10 bis, 10 ter e 10 quater, comma 1, non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti (…)».

18.      Infine, una disposizione distinta disciplina le sanzioni tributarie non penali. L’articolo 13, comma 1, del decreto legislativo n. 471/1997 (7), stabilisce che: «chi non esegue, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, i versamenti in acconto, i versamenti periodici, il versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, detratto in questi casi l’ammontare dei versamenti periodici e in acconto, ancorché non effettuati, è soggetto a sanzione amministrativa pari al trenta per cento di ogni importo non versato, anche quando, in seguito alla correzione di errori materiali o di calcolo rilevati in sede di controllo della dichiarazione annuale, risulti una maggiore imposta o una minore eccedenza detraibile (…)».

III. Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

19.      L’Agenzia delle Entrate eseguiva un accertamento presso la società Siderlaghi S.r.l.. La società aveva debitamente dichiarato la propria IVA per l’esercizio finanziario 2012. L’importo dell’IVA dovuta ammontava complessivamente a EUR 175 272. La normativa nazionale prevedeva che tale importo dovesse essere pagato entro la fine di un periodo stabilito per il versamento relativo al periodo di imposta successivo, vale a dire il 27 dicembre 2013. L’accertamento ha rivelato che la Siderlaghi S.r.l. non aveva provveduto a versare l’IVA dovuta entro il termine prescritto.

20.      L’Agenzia delle Entrate contestava il debito alla Siderlaghi S.r.l. e la società optava per il pagamento rateizzato dell’imposta. Ai sensi del diritto nazionale, ciò indicava la possibilità di una decurtazione nella misura di due terzi dell’importo delle sanzioni amministrative applicabili.

21.      Poiché il sig. Scialdone è l’amministratore unico della Siderlaghi S.r.l., il Pubblico ministero avviava un procedimento penale contro di lui quale rappresentante legale della società per omesso versamento dell’IVA nei termini prescritti. Il Pubblico ministero contestava al sig. Scialdone il reato di cui all’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000 e chiedeva al Tribunale di Varese (Italia) (giudice del rinvio) l’emissione di un decreto penale di condanna alla pena della multa di EUR 22 500.

22.      In seguito all’avvio del procedimento penale contro il sig. Scialdone, il decreto legislativo 158/2015 ha modificato gli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo 74/2000 introducendo altresì una causa di non punibilità attraverso l’articolo 13 del decreto legislativo 74/2000.

23.      Gli effetti di tali modifiche si traducono, in primo luogo, nell’innalzamento delle soglie oltre le quali l’omesso versamento dell’IVA costituisce un reato. La soglia originaria fissata a EUR 50 000 per i reati relativi all’omesso versamento di ritenute e IVA (si noti che la medesima soglia si applicava ad entrambi i tipi di imposte) è stata portata a EUR 150 000 per le ritenute e a EUR 250 000 per l’IVA. In secondo luogo, il reato non è più punibile se il debito tributario, comprese sanzioni amministrative e interessi, è pagato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.

24.      Il giudice del rinvio chiarisce che, nel caso di specie, all’imputato viene contestato il mancato versamento dell’IVA per un valore corrispondente all’importo di EUR 175 272. L’effetto delle modifiche introdotte dal decreto legislativo 158/2015 si estrinseca nel fatto che la sua condotta perde rilevanza penale, poiché tale importo è inferiore alla nuova soglia minima di EUR 250 000. Quale norma più favorevole al reo, troverebbe applicazione quella più recente. Tuttavia, qualora dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione, le nuove norme dovrebbero essere disapplicate. Di conseguenza, la condotta dell’imputato potrebbe ancora dar luogo a una condanna penale.

25.      Per quanto riguarda la nuova causa di non punibilità, il giudice del rinvio spiega che, avendo la Siderlaghi S.r.l. optato per la rateizzazione del debito, il pagamento può verosimilmente avvenire prima dell’apertura del dibattimento. Pertanto, la richiesta di decreto penale di condanna presentata dal Pubblico Ministero dovrebbe essere respinta. Tuttavia, qualora la nuova causa di non punibilità debba essere ritenuta incompatibile con il diritto dell’Unione, il giudice del rinvio potrà pronunciarsi sulla responsabilità penale dell’imputato.

26.      Per di più, se il diritto dell’Unione dovesse essere interpretato come proposto dal giudice del rinvio, gli Stati membri sarebbero obbligati a sanzionare con pene detentive l’omesso versamento dell’IVA per importi pari ad almeno EUR 50 000 e superiori ad esso. Secondo tale giudice, ciò significherebbe che l’infrazione nel caso in esame dovrebbe essere considerata come particolarmente grave. Così, la sanzione richiesta dal Pubblico Ministero potrebbe essere respinta dal giudice del rinvio in quanto essa, vincolante per detto giudice, esclude la reclusione. A giudizio di quest’ultimo, tale esclusione riduce considerevolmente l’efficacia della sanzione.

27.      In tale contesto di fatto e di diritto, il Tribunale di Varese ha sospeso il procedimento disponendo altresì il rinvio delle seguenti questioni pregiudiziali:

1)      Se il diritto europeo, e in particolar modo il combinato disposto degli [articoli] 4, paragrafo 3, TUE, [e] 325 TFUE e [della] direttiva 2006/112/CE che prevedono l’obbligo di assimilazione in capo agli Stati membri per quanto riguarda le politiche sanzionatorie, possa essere interpretato nel senso che osti alla promulgazione di una norma nazionale che preveda che la rilevanza penale dell’omesso versamento dell’IVA consegua al superamento di una soglia pecuniaria più elevata rispetto a quella stabilita in relazione all’omesso versamento dell’imposta diretta sui redditi;

2)      se il diritto europeo, e in particolar modo il combinato disposto degli [articoli] 4, paragrafo 3, TUE, [e] 325 TFUE e [della] direttiva 2006/112 che impongono l’obbligo a carico degli Stati membri di prevedere sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate a tutela degli interessi finanziari della UE, possa essere interpretato nel senso che osti alla promulgazione di una norma nazionale che escluda la punibilità dell’imputato (sia esso amministratore, rappresentante legale, delegato a svolgere funzioni di rilevanza tributaria ovvero concorrente nell’illecito), qualora l’ente dotato di personalità giuridica ad esso riconducibile abbia provveduto al pagamento tardivo dell’imposta e delle sanzioni amministrative dovute a titolo di IVA, nonostante l’accertamento fiscale sia già intervenuto e si sia provveduto all’esercizio dell’azione penale, al rinvio a giudizio, all’accertamento della rituale instaurazione del contraddittorio in sede di processo e fin tanto che non si è proceduto alla dichiarazione di apertura del dibattimento, in un sistema che non commina a carico del predetto amministratore, rappresentante legale ovvero al loro delegato e concorrente nell’illecito alcuna altra sanzione, neppure a titolo amministrativo;

3)      se la nozione di illecito fraudolento disciplinata all’articolo 1 della Convenzione TIF vada interpretata nel senso di ritenere incluso nel concetto anche l’ipotesi di omesso, parziale, tardivo versamento dell’imposta sul valore aggiunto e, conseguentemente, se l’articolo 2 della convenzione summenzionata imponga allo Stato membro di sanzionare con pene detentive l’omesso, parziale, tardivo versamento dell’IVA per importi superiori a 50 000,00 euro.

In caso di risposta negativa, occorre chiedersi se la prescrizione dell’articolo 325 TFUE, che obbliga gli Stati membri a comminare sanzioni, anche penali, dissuasive, proporzionate ed effettive, vada interpretata nel senso che osti ad un assetto normativo nazionale che esenta da responsabilità penale e amministrativa gli amministratori e i rappresentanti legali delle persone giuridiche, ovvero i loro delegati per la funzione e i concorrenti nell’illecito, per l’omesso, parziale, ritardato versamento di IVA in relazione ad importi corrispondenti a 3 o 5 volte le soglie minime stabilite in caso di frode, pari a 50 000,00 euro.

28.      I governi tedesco, italiano, olandese e austriaco nonché la Commissione europea hanno presentato osservazioni scritte. Tutte le suddette parti interessate, ad eccezione del governo austriaco, hanno esposto le proprie difese orali all’udienza tenutasi il 21 marzo 2017.

IV.    Analisi

29.      Le tre questioni sottoposte dal giudice del rinvio mirano ad accertare se le modifiche apportate dal decreto legislativo 158/2015 relative all’omesso pagamento dell’IVA dichiarata sono conformi al diritto dell’Unione europea. Il giudice a quo ha sollevato tali questioni in riferimento all’articolo 4, paragrafo 3, TUE, all’articolo 325 TFUE, alla Convenzione TIF e alla direttiva IVA.

30.      In effetti, il contesto normativo della causa in esame è piuttosto complesso. Pertanto, analizzerò in primis le specifiche norme di diritto dell’Unione invocate dal giudice del rinvio che risultano applicabili alla presente causa (A), prima di proporre delle risposte alle tre questioni sollevate da quest’ultimo (B). Per concludere, mi soffermerò sulle conseguenze che un potenziale accertamento di incompatibilità con il diritto dell’Unione potrebbe (o meglio non dovrebbe) determinare sul procedimento principale (C).

A.      Disposizioni di diritto dell’Unione europea applicabili al caso di specie

1.      Convenzione TIF

31.      Tutte le parti interessate che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte concordano nel ritenere che la Convenzione TIF non si applichi al caso di specie. Tuttavia, le ragioni che le hanno condotte a tale conclusione differiscono.

32.      Il governo olandese afferma che la Convenzione TIF non è applicabile all’IVA. Le altre parti interessate che hanno presentato osservazioni (come il governo olandese, in un’argomentazione in subordine) sostengono che il reato di omesso versamento dell’IVA, oggetto della causa in questione, non rientra nella nozione di «frode» ai sensi della Convenzione succitata.

33.      Sono state dunque avanzate due diverse argomentazioni. La prima nega in generale l’applicabilità della Convenzione TIF all’IVA in quanto tale, mentre la seconda indica che, sebbene l’IVA possa essere probabilmente oggetto di detta Convenzione, la specifica tipologia di condotta in questione nel caso di specie non lo è. Esaminerò queste due argomentazioni in ordine successivo.

a)      La Convenzione TIF e l’IVA

34.      Nella causa Taricco, la Corte ha affermato che la nozione di «frode» definita all’articolo 1 della Convenzione TIF «include […] le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione» (8).

35.      Nella causa in esame, il governo olandese ha invitato la Corte a rivedere tale conclusione. A suo avviso, l’IVA non rientra nella nozione di «entrate» ai fini della Convenzione TIF. Secondo il governo olandese, gli Stati membri quali parti della Convenzione TIF hanno fornito un’interpretazione autentica della portata della nozione di «entrate» di cui all’articolo 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati (9) in una relazione esplicativa (10). Tale relazione esclude esplicitamente l’IVA dalla nozione di «entrate» di cui all’articolo 1, paragrafo 1, della Convenzione TIF (11). Il governo olandese afferma inoltre che la Corte ha già tenuto conto delle dichiarazioni e delle relazioni esplicative come elementi di interpretazione autentica e dovrebbe agire in tal senso anche nella presente causa.

36.      Non concordo con l’affermazione secondo cui la relazione esplicativa del Consiglio del 1997 rappresenterebbe una qualche forma di «interpretazione autentica» di una convenzione firmata tra gli Stati membri due anni prima. A mio avviso, le argomentazioni del governo olandese possono essere respinte senza la necessità che la Corte si pronunci in ordine alla complessa questione del ruolo della Convenzione di Vienna nell’interpretazione delle convenzioni tra gli Stati membri (12).

37.      A livello di tesi generale, concordo certamente con il governo olandese sul fatto che, all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, la volontà o l’intenzione dell’autore dell’atto svolge un determinato ruolo ermeneutico (13). Tale intenzione legislativa potrebbe essere espressa all’interno del medesimo documento, come nel caso di un preambolo, o in un documento distinto. In passato, ad esempio, la Corte ha fatto riferimento ai lavori preparatori (14), a dichiarazioni allegate ai trattati (15), o a determinati documenti esplicativi allo scopo di interpretare il diritto primario (16).

38.      Tuttavia, affinché tali documenti o dichiarazioni siano intesi come un’espressione dell’intento dei redattori, è necessaria la presenza di due elementi: quello istituzionale e quello temporale. Sotto il profilo istituzionale, tali documenti devono essere discussi o approvati dalle medesime parti o dai medesimi organi che hanno adottato l’atto definitivo o hanno partecipato alla sua adozione. A livello temporale, onde affermare che riflettano effettivamente l’atteggiamento mentale del redattore (o dei redattori) durante il processo decisionale, tali documenti di norma devono essere redatti o nel corso della stesura o, al più tardi, nel momento in cui è stato adottato l’atto.

39.      Il problema dell’argomentazione del governo olandese consiste nella sua carenza in relazione a entrambi tali aspetti. La relazione esplicativa del 1997 oggetto della presente causa non è stata adottata dalle medesime parti, ossia dagli Stati membri, ma è stata approvata dal Consiglio – che non è parte della Convenzione (17). Inoltre, la Convenzione è stata firmata nel 1995. La relazione esplicativa del Consiglio risale al 1997.

40.      L’impossibilità di affermare che la relazione esplicativa sia dotata di qualche valore interpretativo «autentico» nel caso di specie non impedisce, tuttavia, che una siffatta relazione esplicativa disponga di una determinata forza persuasiva. Dopotutto, essa era stata approvata dall’istituzione responsabile di aver preparato il progetto da presentare agli Stati membri in quanto parti contraenti (18). In situazioni simili, la Corte si è basata su relazioni esplicative in diverse occasioni in passato (19). In particolare, ha preso in considerazione relazioni esplicative elaborate dal Consiglio in riferimento a convenzioni che, come la Convenzione TIF, sono state adottate ai sensi dell’articolo K.3 TUE (20).

41.      Il valore interpretativo di siffatte relazioni esplicative è tuttavia differente. Tali relazioni non costituiscono l’interpretazione «autentica», bensì una delle argomentazioni ermeneutiche che possono essere prese in considerazione e poi ponderate unitamente e rispetto ad altre argomentazioni tratte dal testo, dalla logica, dal contesto più ampio e dallo scopo della disposizione interpretata. Un elemento ancor più rilevante è dato dal fatto che l’uso di tali argomentazioni trova i suoi evidenti limiti nel testo della disposizione giuridica interpretata. Non ci si può dunque basare su una relazione simile onde giungere a un’interpretazione contrastante con la formulazione e l’interpretazione sistematica e teleologica della disposizione.

42.      Come già illustrato con chiarezza dall’avvocato generale Kokott nelle sue conclusioni nella causa Taricco (21), sarebbe questo precisamente il risultato cui la Corte perverrebbe qualora seguisse l’argomentazione avanzata dal governo olandese.

43.      Invero, l’esclusione dell’IVA dalla nozione di «entrate» nella definizione di frode ai sensi della Convenzione TIF relativamente all’IVA non risulta dalla sua formulazione. Proprio al contrario, la Convenzione TIF implica, con il suo articolo 1, paragrafo 1, lettera b), un’interpretazione estensiva della nozione di «entrate», in quanto è presente un rinvio generico a «risorse del bilancio generale delle Comunità europee o dei bilanci gestiti dalle Comunità europee o per conto di esse». L’IVA fa parte delle risorse proprie dell’Unione, che costituiscono il fulcro della nozione di «entrate» (22). Inoltre, la Convenzione TIF non stabilisce alcuna condizione relativa alla riscossione diretta per conto dell’Unione europea (23). Quest’interpretazione estensiva è supportata dagli obiettivi stabiliti nel preambolo della Convenzione TIF – «prendendo nota che la frode ai danni delle entrate e delle spese della comunità in molti casi non si limita ad un unico paese, ma è spesso l’opera di organizzazioni criminali» – in cui si dichiara che «la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee esige che ogni condotta fraudolenta che leda tali interessi debba dar luogo ad azioni penali» e si aggiunge che è necessario «rendere tali condotte passibili di sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive». Tutto sommato, si può ritenere che tali affermazioni siano rivolte anche al sistema dell’IVA. Infine, il fatto che la Convenzione TIF faccia riferimento a reati «in materia di tasse», è un altro indice del fatto che l’IVA non è esclusa dalla nozione di interessi finanziari dell’Unione (24).

44.      Di conseguenza, la relazione esplicativa non può essere utilizzata per modificare in modo significativo l’ambito di applicazione di una disposizione in contrasto con la sua formulazione, il sistema e gli obiettivi stabiliti nella Convenzione TIF. L’esclusione di uno degli elementi del sistema delle risorse proprie dell’Unione dall’ambito di applicazione della Convezione TIF mediante siffatta relazione andrebbe ampiamente oltre la mera «spiegazione». Difatti, equivarrebbe a una modifica dell’ambito di applicazione della Convenzione TIF.

45.      Occorre aggiungere che tale modifica era certamente possibile. Se le Parti contraenti avessero avuto realmente l’intenzione di escludere l’IVA dall’ambito di applicazione della Convenzione TIF, nulla avrebbe impedito loro di includere una definizione modificata della nozione di «entrate» in un protocollo successivo. Invero, quando le modifiche dell’ambito di applicazione della Convenzione TIF sono state ritenute necessarie, sono state effettuate tramite l’adozione di protocolli specifici in due diverse occasioni (25).

46.      Pertanto, non ravviso buone ragioni per discostarsi dalla conclusione che l’IVA rientra nell’ambito di applicazione della Convenzione TIF.

b)      La nozione di frode ai sensi della Convenzione TIF

47.      Le parti che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte hanno concordato sul fatto che l’omesso versamento dell’IVA debitamente dichiarata non costituisce frode ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione TIF. Il governo italiano ha inoltre chiarito nelle sue osservazioni scritte e orali che i reati relativi all’omessa o falsa dichiarazione, nonché altri reati riguardanti una condotta fraudolenta, sono previsti in altre disposizioni del decreto legislativo 74/2000.

48.      Condivido l’opinione secondo la quale il reato cui fa riferimento l’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000 (sia prima sia dopo la modifica del decreto legislativo 158/2015) non possa rientrare nella nozione di frode di cui alla Convenzione TIF.

49.      L’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione TIF definisce la frode ai fini di tale convenzione. Relativamente alle entrate esso si riferisce a tre tipi di azioni od omissioni intenzionali cui consegue la diminuzione illegittima di risorse dell’Unione: i) l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti; ii) la mancata comunicazione di un’informazione in violazione di un obbligo specifico; e iii) la distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto.

50.      Nessuno dei tre tipi di frode elencati corrisponde alla condotta di cui trattasi nella causa in esame. L’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000 riguarda l’omesso versamento dell’IVA debitamente dichiarata entro i termini di legge. Sebbene tale omesso versamento possa essere effettivamente intenzionale e comportare la riduzione dell’entrata fiscale, tale condotta non implica dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti, né tantomeno la mancata comunicazione di un’informazione. Tutto è stato correttamente dichiarato ma, per qualche ragione specifica, la corretta dichiarazione non è stata seguita da un pagamento ugualmente corretto, vale a dire tempestivo. Inoltre, non si può ritenere che omettendo di pagare l’IVA debitamente dichiarata, si verifichi una «distrazione di un beneficio lecitamente ottenuto». Per definizione, l’omesso versamento nei termini prescritti dalla legge costituisce un illecito.

51.      Per tali ragioni, non ritengo possibile affermare che la nozione di frode di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione TIF integri un reato come quello oggetto del procedimento principale, ossia l’omesso versamento dell’IVA debitamente dichiarata entro i termini di legge. Pertanto, concordo sul fatto che la Convenzione TIF non sia applicabile nel caso di specie.

2.      Articolo 325 TFUE

52.      L’articolo 325 TFUE sancisce il consolidamento degli obblighi dell’Unione e degli Stati membri di tutelare gli interessi finanziari dell’Unione. Inoltre, esso stabilisce le competenze dell’Unione in tale settore.

53.      L’articolo 325, paragrafo 1, TFUE concerne l’obbligo dell’Unione e degli Stati membri di combattere contro la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione stessa mediante misure che siano sia dissuasive sia effettive. Il successivo paragrafo 2 afferma che gli Stati membri adottano, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro interessi finanziari.

54.      Le parti che hanno presentato osservazioni non concordano circa l’applicabilità dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE alla presente causa.

55.      Il governo tedesco sostiene che i paragrafi 1 e 2 dell’articolo citato non sono applicabili. Questo, in primo luogo, perché gli interessi finanziari dell’Unione non sono lesi in quanto l’IVA è stata correttamente dichiarata. In secondo luogo, il reato in questione nel caso di specie non rientra nemmeno nell’ambito di applicazione dell’articolo 325, paragrafo 2, TFUE, dal momento che ha ad oggetto solo la «frode». In terzo luogo, il reato non è neanche contemplato dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE poiché tale disposizione deve essere interpretata sistematicamente nel senso che le «altre attività illegali» cui fa riferimento riguardano solamente azioni fraudolente di analoga gravità. In sede di udienza il governo olandese ha sostenuto una posizione simile.

56.      Sempre in udienza, il governo italiano ha sostenuto che i paragrafi 1 e 2 dell’articolo 325 TFUE non sono applicabili al reato di cui alla causa in esame, dal momento che la condotta prevista dall’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000 non può essere ritenuta un’azione fraudolenta ai sensi della Convenzione TIF.

57.      La Commissione è di parere opposto e afferma che l’articolo 325, paragrafo 2, TFUE deve essere interpretato in senso lato. Esso comprende la nozione di «altre attività illegali» di cui all’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, che possono includere reati o irregolarità di tipo non fraudolento.

58.      A mio avviso, l’interpretazione corretta dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE sembra porsi in qualche modo a metà strada tra tali posizioni. In primo luogo, il reato oggetto della causa in esame potrebbe ledere gli interessi finanziari dell’Unione (a). In secondo luogo, esso rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE ma non del paragrafo 2 del medesimo articolo (b). In terzo luogo, l’obbligo di definire misure volte a tutelare gli interessi finanziari dell’Unione, che sono analoghe a quelle adottate per tutelare gli interessi finanziari nazionali, deriva non soltanto dall’articolo 325, paragrafo 2, TFUE, ma anche dal combinato disposto del paragrafo 1 del succitato articolo e dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE (c).

a)      Eventuale pregiudizio degli interessi finanziari dell’Unione

59.      La Corte ha già chiarito che la portata dell’espressione «interessi finanziari dell’Unione» è ampia. Essa comprende le entrate e le spese rientranti nel bilancio dell’Unione e quelle facenti parte del bilancio di altri organi o organismi istituiti dai trattati (26). Le entrate che provengono dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo le norme dell’Unione sono incluse nelle risorse proprie di quest’ultima. Su tale base, la Corte ha confermato l’esistenza di un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA conformemente al diritto applicabile dell’Unione e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione europea delle risorse IVA: «qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde» (27).

60.      La Corte ha dunque dichiarato che la connessione con la tutela degli interessi finanziari dell’Unione a norma dell’articolo 325 TFUE non riguarda solo sovrattasse e procedimenti penali per frode fiscale riguardanti l’inesattezza delle informazioni fornite in materia di IVA (28) ma, più in generale, la corretta riscossione dell’IVA (29). Detta Corte ha inoltre confermato che le disposizioni di diritto nazionale aventi ad oggetto reati in materia di IVA e volte ad assicurare l’esatta riscossione di tale imposta, come le disposizioni di diritto italiano concernenti l’omesso versamento dell’IVA in questione nel caso di specie, costituiscono un’attuazione dell’articolo 325 TFUE ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta (30).

61.      Il reato di cui trattasi nella fattispecie riguarda l’omesso versamento. Si potrebbe pertanto argomentare che gli interessi finanziari dell’Unione non sono realmente lesi: il pagamento è stato ritardato, ma comunque avverrà. Unitamente all’obbligo di versare gli interessi sulla somma dovuta una volta pagata, le entrate dell’Unione non dovrebbero in definitiva essere lese. Un reato siffatto non potrebbe dunque essere previsto dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE.

62.      Occorre sottolineare che il reato non riguarda soltanto i versamenti ritardati, ma, in senso più ampio, l’omesso versamento, per qualsiasi ragione. Così, le somme dovute potrebbero invero essere pagate successivamente, ma potrebbero anche non essere pagate affatto. In ogni caso, esse semplicemente non sono state pagate. Come suggerisce il buon senso, il mancato ricevimento di denaro da parte di un soggetto può indubbiamente ledere gli interessi finanziari di un altro soggetto, considerato di certo che, come giustamente rilevato dalla Commissione, il reato si verifica solo in seguito al superamento di una determinata soglia, né insignificante, né marginale.

63.      Pertanto, la tesi del governo tedesco secondo cui il «versamento ritardato» dell’IVA non lede gli interessi finanziari dell’Unione in quanto l’IVA è stata correttamente dichiarata, non può essere accolta.

b)      Applicabilità dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE

64.      A causa della complessità della sua storia legislativa (31), l’articolo 325 TFUE non è forse la disposizione più trasparente del trattato.

65.      L’elemento chiave ampiamente discusso nella causa in esame è costituito dalla differenza testuale tra il primo e il secondo paragrafo dell’articolo 325 TFUE: il paragrafo 1 fa riferimento sia alla «frode» sia ad «altre attività illegali», mentre il paragrafo 2 menziona solo la «frode».

66.      Nessuna di queste nozioni è definita nei trattati. La nozione di frode deve essere interpretata come un concetto autonomo di diritto dell’Unione europea, alla luce dell’obiettivo generale dell’articolo 325 TFUE di offrire un solido quadro concernente la protezione degli interessi finanziari dell’Unione (32). L’ambito di applicazione di detta nozione non corrisponde necessariamente alla definizione di frode nel diritto penale nazionale (33). La definizione di «frode» nella Convenzione TIF, alla quale la Corte ha fatto riferimento nella sentenza Taricco (34), costituisce un orientamento utile in tal senso, trattandosi della prima definizione fornita nel diritto dell’Unione. Tuttavia, la nozione di frode di cui all’articolo 325 TFUE non si limita necessariamente a quella della Convenzione TIF o della legislazione secondaria (35). La nozione generica di «frode» di cui all’articolo citato può anche ricomprendere, nel settore specifico dell’IVA, azioni od omissioni intenzionali intese ad ottenere un indebito vantaggio economico o fiscale, a danno degli interessi finanziari dell’Unione (36).

67.      Ad ogni modo, la Corte ha confermato che il versamento tardivo dell’IVA non può essere assimilato, di per sé, all’evasione fiscale o alla frode (37).

68.      La nozione di altre attività illegali dicui all’articolo 325, paragrafo 1, TFUE è senza dubbio un concetto più ampio rispetto a quello di frode. Secondo la sua lettura naturale, la nozione racchiude probabilmente ogni comportamento illegale, ossia illecito, che lede gli interessi finanziari dell’Unione.

69.      Non ravviso motivi per cui l’omesso versamento entro il termine stabilito dalla legge, che in questo senso è chiaramente illegale, non dovrebbe essere inteso come un’altra attività illegale. Come già illustrato supra ai paragrafi da 59 a 63 delle presenti conclusioni, l’omesso versamento, al raggiungimento di soglie come quelle previste nel diritto nazionale, può certamente ledere gli interessi finanziari dell’Unione ai sensi dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE.

70.      Tuttavia, la nozione di «altre attività illegali» non compare nell’articolo 325, paragrafo 2, TFUE, che stabilisce solamente l’obbligo degli Stati membri di adottare, per combattere contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione, le stesse misure che adottano per combattere contro la frode che lede i loro stessi interessi finanziari. Tale differenza di formulazione può essere interpretata in due modi.

71.      Da un lato, si potrebbe suggerire che, analogamente al paragrafo 1, il paragrafo 2 dell’articolo 325 TFUE riguarda entrambi i concetti, sia quello di «frode» sia quello di «altre attività illegali». Questa linea argomentativa presenterebbe l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE come un «cappello introduttivo», che stabilisce un quadro di riferimento applicabile all’intera disposizione del medesimo articolo, inclusi tutti i suoi paragrafi. Essa rileverebbe che l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE stabilisce un obbligo generale dell’Unione e degli Stati membri di combattere contro la frode e le altre attività illegali «mediante misure adottate a norma del presente articolo». Inoltre porrebbe in evidenza la complessità della storia legislativa di tale disposizione (38), che ostacola una chiara deduzione dell’intento legislativo, data la rapida successione di modifiche di detta disposizione.

72.      Dall’altro, potrebbe essere parimenti plausibile basarsi sulla chiara differenza testuale tra il paragrafo 1 e il paragrafo 2 dell’articolo 325 TFUE, sostenendo che il paragrafo 2 riguardi solo le misure volte a combattere contro la frode, ma non lealtre attività illegali. Queste due disposizioni prevedono una diversa portata dell’obbligo di efficacia e dell’obbligo di assimilazione ivi rispettivamente stabiliti. Se i redattori dei trattati intendevano attribuire il medesimo significato a entrambi i paragrafi, perché li hanno formulati diversamente? Inoltre, se auspicavano una lettura delle due nozioni dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE come «cappello introduttivo» dell’intero articolo, perché non è stata introdotta una terza nozione unitaria che le racchiudesse entrambe (un termine legislativo generale)? Esistono anche ulteriori argomentazioni sistemiche: l’articolo 325, paragrafi 3 e 4, TFUE mantiene chiaramente la medesima distinzione e rimanda solo alla frode. Così, è difficile interpretare l’assenza di «altre attività illegali» nell’articolo 325, paragrafo 2, come un mero «lapsus calami» dei redattori del trattato a meno che, ovviamente, questi ultimi fossero particolarmente distratti e avessero avuto tale lapsus per tre volte nello stesso articolo.

73.      Nel complesso, ritengo più plausibile il secondo approccio ermeneutico. Ciononostante, ai fini della presente causa, non sono convinto che la Corte debba di fatto pronunciarsi su tale questione. Sebbene ampiamente discusso, l’articolo 325, paragrafo 2, TFUE risulta piuttosto fuorviante nel caso di specie. A tutti i fini pratici, la portata dell’obbligo di cui all’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, se letto e valutato congiuntamente al principio di leale cooperazione sancito dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, equivale a un obbligo alquanto identico di adottare misure analoghe per tutelare gli interessi finanziari nazionali e dell’Unione.

c)      Articolo 325, paragrafo 1, TFUE in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE

74.      Anche se l’articolo 325, paragrafo 2, TFUE fosse ritenuto non applicabile al caso di specie, esiste comunque il principio trasversalmente applicabile di leale cooperazione sancito dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE. Letto congiuntamente all’obbligo generale stabilito dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, tale principio equivale all’obbligo di adottare misure contro le attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione in condizioni analoghe a quelle applicabili alle attività illegali che ledono gli interessi finanziari nazionali.

75.      La sostanziale sovrapposizione degli obblighi imposti dall’articolo 325, paragrafo 2, TFUE e dal principio di leale cooperazione ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE affonda le proprie radici nella genesi della prima disposizione. In un certo senso, l’articolo 325, paragrafo 2, TFUE rappresenta una codificazione in un settore specifico della giurisprudenza della Corte sul principio di leale cooperazione (39).

76.      Il fatto che gli obblighi di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE abbiano carattere trasversale, in quanto permeano l’intero ordinamento giuridico dell’Unione, implica un’ulteriore conseguenza. L’obbligo di adottare misure per combattere le attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’Unione in condizioni analoghe a quelle applicabili in relazione agli interessi finanziari nazionali non opera solo in combinazione con gli obblighi imposti dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, ma anche unitamente agli obblighi più specifici derivanti dalla direttiva IVA. Dal momento che le disposizioni di quest’ultima sono senza dubbio le più dettagliate in merito al versamento e alla riscossione dell’imposta, può essere correttamente eseguita un’analisi più approfondita ai sensi delle disposizioni di tale direttiva. Affronterò queste ultime nella sezione successiva delle presenti conclusioni.

77.      Prima, però, è opportuno evidenziare un’osservazione conclusiva: le misure da adottare al fine di combattere contro la frode e le altre attività illegali ai sensi dell’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e dell’articolo 4, paragrafo 3, TUE non sono necessariamente misure di carattere penale. Ciò che è richiesto è che le misure siano effettive e dissuasive. Ovviamente, dunque, tali misure possono comportare, come ultima ratio, sanzioni penali. Tuttavia, prima di raggiungere tale livello, onde combattere effettivamente la frode e le altre attività illegali potrebbe essere sufficiente una gamma di azioni più ampia, quali misure amministrative, civili od organizzative (40). Analogamente, le misure che gli Stati membri devono adottare ai sensi dell’articolo 325 TFUE non sono limitate a quelle connesse ad attività criminali o irregolarità amministrative già oggetto della normativa settoriale dell’Unione (41).

3.      La direttiva IVA e il principio di leale cooperazione

78.      L’articolo 206 della direttiva IVA stabilisce l’obbligo per i soggetti passivi di pagare l’IVA al momento della presentazione della dichiarazione dell’imposta prevista all’articolo 250 di detta direttiva. Esso garantisce, comunque, agli Stati membri la possibilità di stabilire un’ulteriore scadenza per il pagamento. L’articolo 273 della direttiva in questione concede agli Stati membri la libertà di adottare misure volte ad assicurare il pagamento nel senso che possono stabilire altri obblighi che ritengono necessari per assicurare l’esatta riscossione dell’IVA ed evitare l’evasione.

79.      Al di là di tali disposizioni, tuttavia, la direttiva IVA non stabilisce ulteriori norme specifiche volte ad assicurare l’esatta riscossione. Essa non prevede misure concrete o, se del caso, sanzioni, da adottare nelle eventualità di omesso versamento nei termini stabiliti dagli Stati membri ai sensi del suo articolo 206.

80.      La scelta delle sanzioni adeguate resta dunque affidata alla discrezionalità degli Stati membri che, tuttavia, non è illimitata: in assenza di una disposizione specifica per le sanzioni in caso di violazione, l’articolo 4, paragrafo 3, TUE impone agli Stati membri di adottare misure efficaci contro i comportamenti lesivi degli interessi finanziari dell’Unione (42). Tali misure si applicano, sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza. In ogni caso, le sanzioni imposte da tali misure devono essere effettive, proporzionali e dissuasive (43).

81.      Nel settore specifico dell’IVA, agli Stati membri è richiesto di lottare contro la frode (44). Più in generale, e secondo giurisprudenza consolidata, gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva IVA, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, impongono agli Stati membri l’obbligo di adottare tutte le misure legislative e amministrative atte a garantire il prelievo integrale dell’IVA nel loro territorio (45). Gli Stati membri sono obbligati ad accertare le dichiarazioni fiscali dei contribuenti, la relativa contabilità e gli altri documenti utili, nonché a calcolare e a riscuotere l’imposta dovuta (46).

82.      In sintesi, da tali considerazioni discende che gli obblighi imposti dalla direttiva IVA, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, si estendono chiaramente oltre la prevenzione della frode. Sono più generali e riguardano l’esatta riscossione dell’imposta in senso lato. Essi, dunque, interessano non solo norme stabilite dagli Stati membri volte a sanzionare la violazione di obblighi di carattere meramente formale, quali ad esempio dichiarazioni errate, ma anche versamenti tardivi, purché non eccedano quanto necessario al fine di raggiungere l’obiettivo di garantire l’esatta riscossione dell’IVA e di evitare l’evasione (47).

83.      Si potrebbe ribadire ancora una volta che il fatto che misure nazionali siffatte siano oggetto delle norme summenzionate della direttiva IVA, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE non pregiudica, a mio avviso, la natura delle misure nazionali. Analogamente, o piuttosto anche a fortiori,all’articolo 325, paragrafo 1, TFUE (48), la direttiva IVA non obbliga necessariamente gli Stati membri ad imporre sanzioni di carattere penale. La scelta delle modalità è nuovamente a discrezione degli Stati membri. Il diritto dell’Unione è interessato al risultato concreto: misure effettive, proporzionate e dissuasive atte a garantire l’esatta riscossione e a impedire l’evasione.

4.      Conclusione intermedia

84.      Alla luce di quanto precede ritengo che l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, e gli articoli 206 e 273 della direttiva IVA siano le disposizioni applicabili ai fini della causa in esame.

B.      Risposta alle questioni pregiudiziali

85.      Esaminerò ora le questioni concrete poste dal giudice del rinvio alla luce delle suindicate disposizioni applicabili di diritto dell’Unione.

86.      La seguente argomentazione è strutturata come segue: in primo luogo, affronterò la prima parte della terza questione sollevata dal giudice del rinvio relativa alla Convenzione TIF (1). In secondo luogo, mi concentrerò sulla prima questione relativa all’obbligo di stabilire sanzioni equivalenti (2). In terzo luogo, tratterò congiuntamente la seconda questione e la seconda parte della terza questione sottoposte dal giudice del rinvio circa l’obbligo di adottare sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate per le violazioni del diritto dell’Unione (3).

1.      Prima parte della terza questione: la Convenzione TIF

87.      Il giudice del rinvio auspica accertare se la nozione di frode di cui all’articolo 1 della Convenzione TIF ricomprenda l’omesso, parziale o tardivo versamento dell’IVA. Di conseguenza, esso chiede se l’articolo 2 di tale convenzione imponga allo Stato membro di sanzionare con pene privative della libertà personale tale condotta qualora essa riguardi importi superiori a EUR 50 000.

88.      La risposta è negativa. Come ho spiegato supra ai paragrafi da 48 a 51 delle presenti conclusioni, la Convenzione TIF non è applicabile al caso in esame. A mio avviso, l’illecito di cui trattasi in quest’ultimo non può rientrare nella nozione di frode ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della convenzione citata.

89.      Propongo dunque di rispondere alla prima parte della terza questione nei seguenti termini: la nozione di frode di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione TIF non comprende un illecito, come quello oggetto del procedimento principale, relativo all’omesso versamento dell’IVA correttamente dichiarata entro il termine stabilito dalla legge.

2.      Prima questione: soglie differenziate e obbligo di stabilire sanzioni equivalenti

90.      Con la prima questione il giudice del rinvio chiede se l’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000 (come modificato dal decreto legislativo 158/2015), che stabilisce una soglia di rilevanza penale più elevata per l’omesso versamento dell’IVA (EUR 250 000) rispetto a quella prevista per la ritenuta (EUR 150 000), sia compatibile con il diritto dell’Unione.

91.      Tale questione verte essenzialmente sull’obbligo di stabilire sanzioni, per le violazioni del diritto dell’Unione, analoghe o equivalenti a quelle previste per violazioni simili del diritto nazionale. Nel presente caso, tale obbligo deriva dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE in combinato disposto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e le summenzionate disposizioni della direttiva IVA.

92.      Facendo valere in modo specifico il principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE, la Corte ha stabilito che gli Stati membri devono assicurare che le violazioni del diritto dell’Unione siano sanzionate sotto il profilo sostanziale e procedurale, in termini «analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza (…)». Inoltre, le autorità nazionali devono procedere nei confronti delle violazioni del diritto dell’Unione «con la stessa diligenza usata nell’esecuzione delle rispettive legislazioni nazionali» (49).

a)      Definizione del regime nazionale «analogo»

93.      La difficoltà nella causa in esame consiste nel creare un quadro di riferimento in base al quale valutare l’obbligo di istituire sanzioni analoghe. Occorre valutare quali possano essere le violazioni del diritto nazionale simili per natura ed importanza e quale altro contesto normativo nazionale possa fungere da punto di riferimento nel caso di specie.

94.      Le osservazioni presentate dinanzi alla Corte concludono asserendo che le soglie differenziate introdotte dal decreto legislativo 158/2015 non violano l’obbligo di stabilire sanzioni analoghe o equivalenti. Tuttavia, le ragioni per giungere a una siffatta conclusione differiscono.

95.      Il governo italiano sostiene che i due illeciti non sono affatto paragonabili. Secondo la Commissione le differenti soglie introdotte negli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo 74/2000 sono paragonabili, ma la differenza può essere giustificata. Il governo austriaco introduce un argomento più originale, suggerendo che il settore dell’IVA non può, per definizione, porre problemi in merito all’obbligo di stabilire sanzioni equivalenti. L’IVA costituisce un’entrata sia per gli Stati membri sia per l’Unione. Pertanto, gli interessi finanziari dell’Unione sotto forma di entrate IVA sono sempre protetti allo stesso modo degli interessi finanziari nazionali.

96.      Nella fattispecie, la valutazione di sanzioni analoghe si riduce essenzialmente ad accertare se il sistema dell’IVA possa essere paragonato alla tassazione diretta allo scopo di valutare l’obbligo di stabilire sanzioni analoghe.

97.      In proposito è possibile prevedere due approcci.

98.      In primis, seguendo un approccio più restrittivo, che corrisponde a quello sostenuto dal governo austriaco, il regime IVA potrebbe essere inteso come un caso del tutto isolato (50). Le sue caratteristiche e il suo funzionamento unici e peculiari e il suo funzionamento renderebbero impossibile il confronto con qualsiasi altro sistema di tassazione o fonte di entrata. Poiché l’IVA costituisce una fonte d’entrata nazionale e dell’Unione, l’obbligo di istituire sanzioni analoghe sarebbe sempre soddisfatto di per sé.

99.      Comprendo il motivo per cui, relativamente a questioni più specifiche e concrete, laddove potrebbero esservi più differenze che analogie nel sistema e nella riscossione dell’IVA, si potrebbe suggerire un siffatto approccio. Tuttavia, allo stato attuale del diritto, tale approccio sarebbe problematico e illogico. Esso priverebbe di qualsiasi contenuto il requisito fondamentale concernente l’adozione di misure analoghe o simili, ossia «l’obbligo di assimilazione». L’assimilazione (equivalenza) non potrebbe più essere esaminata. Il suo criterio sarebbe di fatto circolare, testato su sé stesso e nei propri confronti (51).

100. Un secondo approccio, più ampio, alla comparabilità pone il quadro di riferimento a un livello di astrazione più elevato, pur cercando l’analogia più stretta possibile con la pertinente violazione del diritto dell’Unione nell’ordinamento giuridico nazionale. Una visione più astratta e ampia chiarisce altresì che nessuna imposta è del tutto isolata, bensì rappresenta un pezzo di «continente» (tassabile), una parte del tutto.

101. A mio parere, l’«obbligo di assimilazione» richiede quel genere di considerazione più ampia sulla comparabilità al fine di individuare le violazioni pertinenti del diritto nazionale che sono simili per natura e importanza, in particolare nel settore della tutela degli interessi finanziari dell’Unione. In tal caso, il punto di osservazione è di per sé un confronto strutturale e sistemico. Un requisito di totale identità renderebbe estremamente difficile rinvenire fonti di entrate o di spesa equivalenti all’interno degli Stati membri. Le violazioni connesse all’IVA, a causa della specificità del sistema di riscossione del tributo, non potrebbero mai essere considerate analoghe alle violazioni di qualsiasi altra imposta.

102. Per contro, nei singoli casi riguardanti l’applicazione del principio di non discriminazione o del principio di equivalenza a norme o rimedi procedurali distinti, l’obiettivo è per definizione molto più concreto e molto circoscritto. In tal caso, le differenze concrete e specifiche tra la tassazione diretta e indiretta, valutate a quel livello di astrazione, possono rendere non confrontabili le singole situazioni (52).

103. In ogni caso, tale approccio più ampio era stato già adottato dalla Corte nella causa Taricco. Nel fornire indicazioni al giudice nazionale allo scopo di valutare l’equivalenza dei regimi relativi ai termini di prescrizione nei casi di evasione dell’IVA, la Corte ha fatto riferimento ai termini di prescrizione applicabili in materia di accise sui prodotti del tabacco (53).

104. Nel caso di specie, la più stretta analogia con l’illecito relativo all’omesso versamento dell’IVA di cui all’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000 si riscontra con l’illecito riguardante l’omesso versamento di ritenute da parte del sostituto d’imposta di cui all’articolo 10 bis del medesimo decreto. Entrambi gli illeciti mostrano varie analogie: il loro obiettivo generale consiste nel garantire la riscossione ed hanno ad oggetto la condotta connessa all’omesso versamento entro il termine stabilito dalla legge. Il parallelismo sistematico di entrambe le disposizioni deriva dalla stessa normativa italiana, che ha scelto di disciplinare entrambi gli illeciti nel medesimo atto legislativo, in disposizioni parallele strettamente connesse.

105. Pertanto non ravviso particolari difficoltà logiche nel suggerire che l’articolo 10 bis è la disposizione «analoga» all’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000. Entrambi gli illeciti sono confrontabili. La prossima questione verte dunque sulla possibile giustificazione della soglia differenziata riportata in entrambe le disposizioni.

b)      Una differenziazione giustificata?

106. Il governo italiano ha cercato di spiegare le ragioni che hanno indotto il legislatore a stabilire differenti soglie applicabili alle violazioni per l’omesso versamento dell’IVA e delle ritenute.

107. In primo luogo, a titolo preliminare, tale governo ha chiarito in sede di udienza che i soggetti passivi non sono passibili di sanzioni penali per l’omesso versamento di tasse dirette. L’illecito cui l’articolo 10 bis si riferisce non riguarda il contribuente, bensì la persona obbligata a pagare la ritenuta al suo posto.

108. In secondo luogo, oltre alle differenze strutturali generali scaturenti dal carattere diretto e indiretto della tassazione, il governo italiano ha dedotto motivi specifici a favore della differenziazione, concernenti il grado più elevato di gravità e la maggiore difficoltà di scoperta e riscossione.

109. Da un lato, circa l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti cui la tassa viene ritenuta, il governo italiano spiega che l’articolo 10 bis riguarda non solo un omesso versamento, ma anche l’emissione di un documento non corretto. La scoperta dell’omesso versamento e la riscossione dell’imposta sono quindi ostacolati, in quanto il sostituito riceve una certificazione che lo libera dal pagamento nei confronti dell’amministrazione.

110. Dall’altro, riferendosi all’omesso versamento di ritenute risultanti dalla dichiarazione annuale presentata dal sostituto d’imposta, il governo italiano dichiara che il grado di gravità più elevato deriva dalle conseguenze che tale omissione può comportare per i contribuenti sostituiti, che rischiano di dover pagare due volte la tassa dovuta.

111. In entrambi i motivi, la difficoltà di rilevare la violazione (54) nonché i diversi interessi protetti sono stati considerati dal legislatore nazionale come una giustificazione della differenziazione fra le soglie in questione.

112. Naturalmente, alcuni argomenti addotti dal governo italiano possono essere ritenuti più convincenti di altri. Allo stesso modo, non è ancora chiaro cosa sia esattamente accaduto nel 2015 per determinare la necessità improvvisa di individuare una differenza tra le soglie dei due illeciti rispetto alla situazione precedente, quando entrambe le violazioni erano disciplinate nei medesimi termini.

113. Tuttavia, ritengo che questioni come quella in esame costituiscano precisamente il campo in cui gli Stati membri hanno il diritto di operare le proprie scelte normative. A mio parere, il governo italiano ha offerto ragioni plausibili sul motivo per cui ha voluto differenziare. Esso ha inoltre dimostrato l’esistenza di un processo deliberativo in proposito a livello nazionale. Se la portata della discrezionalità procedurale e dell’autonomia istituzionale assume qualche significato in quest’ambito, non dovrebbe spettare alla Corte il compito di giudicare ex post tali scelte normative nazionali, ulteriormente inserite nel più ampio e più complesso tessuto legislativo della normativa fiscale degli Stati membri.

114. Di conseguenza, suggerisco che l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, in combinato disposto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e la direttiva IVA, non osta alle disposizioni nazionali che, al fine di determinare la rilevanza penale della condotta consistente nell’omesso versamento di un’imposta nei termini di legge, fissano una soglia pecuniaria più elevata per l’IVA rispetto a quella stabilita per la ritenuta.

3.      Seconda questione e seconda parte della terza questione: causa di non punibilità e sanzioni effettive e dissuasive

115. Il giudice del rinvio ha espresso altresì dubbi in ordine al possibile impatto delle due modifiche introdotte dal decreto legislativo 158/2015 sull’effettività e la capacità dissuasiva delle sanzioni penali stabilite dal decreto legislativo 74/2000.

116. In primo luogo, con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, in combinato disposto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e la direttiva IVA, osti a una disposizione nazionale che escluda la punibilità delle persone responsabili in materia fiscale qualora l’ente che esse rappresentano abbia provveduto al pagamento dell’importo dovuto a titolo di IVA, insieme agli interessi e alle sanzioni amministrative dovuti per il pagamento tardivo, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento in primo grado. Detto giudice sottolinea che l’ordinamento italiano non impone a tali soggetti altre sanzioni, nemmeno di natura amministrativa.

117. In secondo luogo, nella seconda parte della terza questione, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che esenta da responsabilità penale e amministrativa quelle persone responsabili in materia fiscale per l’omesso, parziale o tardivo versamento dell’imposta, in relazione ad importi corrispondenti a tre o cinque volte la soglia minima di EUR 50 000 stabilita dalla Convenzione TIF.

118. Entrambe le questioni riguardano l’obbligo degli Stati membri di adottare sanzioni effettive e dissuasive. Nella presente sezione le esaminerò ambedue in successione.

a)      La nuova causa di non punibilità

119. La Commissione ritiene che la seconda questione, relativa alla nuova causa di non punibilità introdotta dal decreto legislativo 158/2015 (nuovo articolo 13, paragrafo 1, del decreto legislativo 74/2000) debba essere dichiarata irricevibile. A suo avviso, tenuto conto che la soglia per l’illecito relativo all’IVA (EUR 250 000) non è stata raggiunta nel caso in esame (l’importo dovuto era pari a EUR 175 272), tale motivazione non potrebbe essere applicata nella fattispecie.

120. Concordo con questa tesi. Infatti, qualora la Corte decida di seguire le risposte da me proposte alla prima e alla terza questione, non occorrerà fornire una risposta alla seconda questione. Tuttavia, per assistere appieno la suddetta Corte, offrirò una sintesi di risposta a tale particolare questione, nell’ipotesi in cui la Corte dovesse giungere a una conclusione differente.

121. In generale (55), l’obbligo di stabilire sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate a tutela degli interessi finanziari dell’Unione emerge da una duplice fonte del diritto dell’Unione. L’obbligo di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE richiede di contrastare in modo efficace e dissuasivo le violazioni del dovere di versare l’IVA ai sensi degli articoli 206 e 273 della direttiva IVA: esiste l’obbligo generale di adottare tutte le misure legislative e amministrative idonee a garantire che l’IVA sia interamente riscossa nei rispettivi territori (56). Lo stesso emerge anche dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, che obbliga gli Stati membri a combattere contro la frode e le altre attività illegali lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive (57).

122. A mio parere, la nuova causa di non punibilità in questione non viola l’obbligo di imporre sanzioni effettive e dissuasive.

123. Anzitutto, in generale, l’obbligo di adottare sanzioni proporzionate,effettive e dissuasive nell’ambito dell’IVA non comporta necessariamente l’obbligo di imporre sanzioni di natura penale (58). Invero, in determinate situazioni, la gravità degli illeciti potrebbe richiedere la rilevanza penale come unica soluzione per garantire l’effettività e la capacità dissuasiva (59). Tuttavia, al di fuori di tali situazioni specifiche e gravi, le sanzioni applicabili possono assumere la forma di sanzioni amministrative, di sanzioni penali o di una combinazione delle due (60).

124. Nel contesto dell’IVA, l’omesso versamento dell’imposta correttamente dichiarata nei termini di legge non può essere considerato tanto grave al punto che l’obbligo di adottare misure efficaci e dissuasive richiederebbe inevitabilmente la previsione di sanzioni penali (61). Naturalmente, gli Stati membri, con la dovuta considerazione della loro situazione economica e sociale, possono procedere ad adottare tali sanzioni nei casi che ritengono sufficientemente gravi, nel rispetto del principio di proporzionalità. Tuttavia, la rilevanza penale di tale comportamento non può ritenersi imposta dal diritto dell’Unione.

125. In secondo luogo, il carattere effettivo e dissuasivo delle misure istituite dalla normativa italiana al fine di assicurare la riscossione dell’IVA deve essere considerato in senso più ampio e sistematico. Occorre prestare particolare attenzione all’interazione tra le varie sanzioni penali e amministrative applicabili in presenza di un omesso versamento dell’IVA entro il termine stabilito dalla legge (62).

126. Il governo italiano ha spiegato che, secondo l’articolo 13, paragrafo 1, del decreto legislativo 471/1997, i soggetti obbligati a versare l’imposta sono in ogni caso sottoposti ad un sistema di sanzioni amministrative che possono raggiungere il 30% dell’importo non corrisposto oltre agli interessi. Dalla genesi legislativa dell’emendamento in questione si evince che la modifica della soglia prevista dal decreto legislativo 158/2015 ha debitamente preso in considerazione l’esistenza di sanzioni amministrative che continuano ad applicarsi a quelle situazioni che non raggiungono la soglia prevista per le sanzioni penali (63). Allo stesso modo, la nuova causa di non punibilità connessa al versamento è una scelta legislativa diretta a concedere la possibilità di evitare la responsabilità penale qualora l’ente responsabile del versamento dell’imposta estingua i suoi debiti, con l’inclusione dell’imposta dovuta, degli interessi e del pagamento delle sanzioni amministrative. Anche in questo caso, le sanzioni amministrative per i soggetti passivi sono state ritenute sufficienti dal legislatore (64).

127. In altri termini, anche se l’amministratore responsabile del soggetto giuridico debitore dell’imposta potesse sfuggire alla responsabilità penale qualora il soggetto giuridico effettui infine il versamento, il soggetto giuridico, che è il responsabile in primo luogo, dovrà comunque pagare gli interessi e le sanzioni amministrative per il versamento tardivo.

128. Potrebbe essere utile, a questo punto, fare un passo indietro e provare a guardare l’insieme, non solo il singolo elemento. Qual è lo scopo di attribuire rilevanza penale al versamento tardivo di importi dovuti alle risorse pubbliche? Forse, diversamente da altri atti penalmente rilevanti, in cui il danno arrecato non può essere annullato, e in cui l’obiettivo principale della sanzione diviene quello di punire e rieducare il trasgressore, per i reati fiscali o tributari lo scopo è anche quello diricorrere alla minaccia di una sanzione penale per obbligare al versamento nel singolo caso e promuovere dunque l’adempimento in modo più generale in futuro. In altri termini, il conferimento della rilevanza penale non è il solo scopo in sé. Un altro fine della sanzione è probabilmente quello di mantenere la correttezza fiscale e obbligare all’adempimento. Se si sposa tale logica, allora l’offerta al trasgressore di un’ultima possibilità di adempiere prima che inizi il processo non comporta un ostacolo all’effettività dell’esecuzione, ma piuttosto l’effetto contrario (65).

129. In tale contesto, la motivazione della causa di non punibilità introdotta nell’articolo 13 del decreto legislativo 74/2000 favorisce l’adempimento e, pertanto, promuove l’effettività e la capacità dissuasiva del sistema di esecuzione. L’efficacia delle sanzioni è connessa all’incentivo a versare l’imposta. La capacità dissuasiva è assicurata dalla necessità di ottenere non solamente l’importo principale, ma anche gli interessi maturati e il corrispondente importo delle sanzioni amministrative.

130. Si potrebbe rammentare che, in passato, la Corte ha dichiarato che un regime progressivo di sanzioni è idoneo a promuovere la regolarizzazione del versamento (66). Essa ha anche ritenuto gli interessi una sanzione adeguata in caso di violazioni di un obbligo formale (67).

131. Infine, occorre tenere presente che, nell’imporre sanzioni effettive e dissuasive entro l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, gli Stati membri devono anche rispettare il principio di proporzionalità. Dai documenti preparatori del decreto legislativo 158/2015 emerge che il legislatore italiano ha scelto di adottare una scala progressiva di sanzioni amministrative e penali. In ossequio a considerazioni di proporzionalità, esso ha riservato le sanzioni penali per i casi più gravi. In tale contesto, la motivazione della causa di non punibilità di cui trattasi può anche essere intesa come ulteriore inclusione delle considerazioni di proporzionalità all’interno del regime di esecuzione generale.

b)      Rilevanza della soglia di EUR 50 000 stabilita nella Convenzione TIF

132. Per quanto riguarda la seconda parte della terza questione posta dal giudice del rinvio, non ritengo che la soglia della Convenzione TIF costituisca un punto di riferimento idoneo a valutare l’effettività delle sanzioni al di fuori del quadro definito in tale particolare strumento.

133. Anzitutto, come spiegato nei paragrafi da 48 a 51 delle presenti conclusioni, l’illecito in questione non rientra nell’ambito di applicazione della Convenzione TIF. La soglia stabilita da quest’ultima rileva soltanto per lo specifico illecito di frode.

134. In secondo luogo, come rilievo subordinato, la soglia di EUR 50 000 di cui all’articolo 2 della Convenzione TIF si applica solamente come criterio per stabilire un importo minimo al di sopra del quale la frode deve essere considerata così grave da generare pene privative della libertà che possono comportare l’estradizione. Tuttavia, la soglia di EUR 50 000 non è nemmeno applicabile come soglia generale di rilevanza penale in quanto tale.

135. Pertanto, ritengo che la soglia di cui alla Convenzione TIF non possa essere richiamata neanche ai fini di una più ampia analogia. In un caso come quello in esame essa è del tutto irrilevante.

c)      Conclusione intermedia

136. Di conseguenza, propongo alla Corte di rispondere alla seconda questione e alla seconda parte della terza questione nei seguenti termini: l’obbligo di stabilire sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate per assicurare una corretta riscossione dell’IVA, imposto dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, in combinato disposto con la direttiva IVA, non osta a una normativa nazionale come quella in questione nel caso di specie che, pur prevedendo un sistema di sanzioni amministrative, esclude le persone fisiche responsabili per l’assolvimento di obblighi tributari:

–        da responsabilità penale e amministrativa per l’omesso versamento dell’IVA correttamente dichiarata entro il termine stabilito dalla legge in relazione a importi pari a tre o cinque volte la soglia minima di EUR 50 000 stabilita dalla Convenzione TIF;

–        da responsabilità penale se l’ente per il quale esse operano ha pagato tardivamente l’IVA dovuta, nonché gli interessi e gli importi delle sanzioni amministrative irrogate, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento in primo grado.

C.      Effetti di una potenziale incompatibilità tra normativa nazionale e diritto dell’Unione

137. Nelle presenti conclusioni ho proposto che la Corte risponda alle questioni sottoposte dal giudice del rinvio nel senso che le disposizioni rilevanti di diritto dell’Unione non ostano alle modifiche apportate dal decreto legislativo 158/2015. Qualora la Corte giunga alla medesima conclusione, non occorrerebbe affrontare gli effetti potenziali (temporali) di una dichiarazione di incompatibilità nella causa in esame.

138. Se la Corte dovesse decidere diversamente, dovrebbero essere affrontati gli effetti dell’incompatibilità del diritto nazionale con il diritto dell’Unione. In particolare, sarebbe necessario esaminare le implicazioni pratiche derivanti dal principio del primato del diritto dell’Unione, ossia l’obbligo di disapplicare le disposizioni nazionali in contrasto con tale diritto. Ciò dovrebbe avvenire alla luce dello scenario in esame, in cui le disposizioni nazionali in questione costituiscono disposizioni più favorevoli di diritto penale in un procedimento penale in corso.

139. Allo scopo di assistere pienamente la Corte, esporrò alcune riflessioni finali relativamente a tale questione, dal momento che questa è stata espressamente sollevata dal giudice del rinvio e discussa in udienza dalle parti interessate.

140. Il giudice del rinvio ha espresso il parere che, se le modifiche introdotte dal decreto legislativo 158/2015 dovessero essere ritenute incompatibili con il diritto dell’Unione, la successiva disapplicazione delle norme più favorevoli non contraddirebbe né il principio di legalità, né il principio della lex mitior di cui all’articolo 49, paragrafo 1, della Carta. In primo luogo, la disapplicazione delle disposizioni nazionali come modificate dal decreto legislativo 158/2015 comporterebbe la (ri)applicazione della versione precedente di tali disposizioni, in vigore all’epoca dei fatti salienti. In secondo luogo, se dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione, le nuove disposizioni non sarebbero mai state giuridicamente parte dell’ordinamento italiano. Dal momento che le decisioni della Corte nel procedimento pregiudiziale hanno un effetto ex tunc, la disposizione così interpretata dovrebbe essere applicata nel modo indicato dalla suddetta Corte anche ai rapporti giuridici precedenti alla sentenza ma non ancora definiti.

141. La Commissione e il governo italiano hanno affrontato tali argomenti in sede di udienza. Essi sembrano ritenere che le disposizioni più favorevoli del diritto nazionale non possano essere disapplicate nel caso di specie, anche nel caso in cui fossero dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione.

142. Concordo con la Commissione e con il governo italiano. A mio parere, il principio di legalità osta alla possibilità di mettere da parte le disposizioni penali più favorevoli durante procedimenti penali in corso, anche se queste ultime dovessero essere ritenute incompatibili con il diritto dell’Unione. In altri termini, in un caso come quello in esame, il primato delle disposizioni di diritto dell’Unione, che impone agli Stati membri l’obbligo di rendere esecutive sanzioni effettive, dissuasive e simili, deve essere applicato in modo coerente con altre norme di pari rango all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione: il principio della lex mitior, previsto dall’articolo 49, paragrafo 1, della Carta, unitamente alla tutela del legittimo affidamento e alla certezza del diritto, considerati nel contesto specifico del diritto penale.

143. È pacifico che, secondo il principio del primato del diritto dell’Unione, le disposizioni dei trattati e le disposizioni direttamente applicabili del diritto secondario hanno l’effetto, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, di rendere inapplicabili le disposizioni nazionali contrastanti (68).

144. L’obbligo di disapplicazione costituisce forse l’emanazione più vigorosa di tale principio. Le conseguenze pratiche del primato nei singoli casi devono essere, tuttavia, controbilanciate e armonizzate con il principio generale di certezza del diritto e, in modo più specifico nel settore del diritto penale, con il principio di legalità. L’obbligo degli Stati membri di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione non può dopotutto contrastare con i diritti della Carta (69), che prevede anche i principi fondamentali di legalità, lex mitior e certezza del diritto.

145. Nell’analisi che segue suggerisco quanto segue: il principio di legalità, il quale deve essere correttamente inteso non solo in modo minimalista (1) ma, in senso più ampio, come comprendente anche la regola della lex mitior assieme all’imperativo della maggiore certezza del diritto in materia penale (2), implica che, nel caso in esame, le disposizioni più favorevoli del decreto legislativo 158/2015 non possono essere disapplicate (3). L’ultima conclusione vale indipendentemente dalla possibile dichiarazione di incompatibilità con il diritto dell’Unione in relazione al diritto primario (articolo 325, paragrafo 1, TFUE) o alla direttiva IVA.

1.      Il «fulcro» del principio di legalità: il divieto di retroattività

146. Il principio di legalità, sancito dall’articolo 49, paragrafo 1, della Carta, implica anzitutto il divieto di retroattività. È previsto nelle prime due frasi di tale disposizione (70) e, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, corrisponde all’articolo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).

147. Si può asserire che il «fulcro» del principio di legalità, il quale costituisce l’espressione più forte e specifica del principio della certezza del diritto (71), ricomprende solo gli elementi sostanziali della definizione dei reati e delle pene. Esso esige che la normativa definisca chiaramente i reati e le pene che si applicano nel momento in cui l’atto punibile o l’omissione sono commessi. Questo requisito è soddisfatto quando i soggetti di diritto possono conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, nel caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la loro responsabilità penale (72). Tuttavia, i requisiti previsti non possono essere intesi come un divieto di graduale chiarimento delle norme della responsabilità penale mediante interpretazioni giurisprudenziali, sempreché queste ultime siano ragionevolmente prevedibili (73).

148. Di conseguenza, se il diritto nazionale, nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale, non conteneva disposizioni espresse che prevedessero la responsabilità penale per una determinata condotta, «il principio della legalità delle pene, quale consacrato dall’articolo 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, vieta di sanzionare penalmente un tale comportamento, anche nel caso in cui la norma nazionale sia contraria al diritto dell’Unione» (74).

149. Così, il «fulcro» del principio di legalità, presente nella prima e nella seconda frase dell’articolo 49, paragrafo 1, della Carta, vieta l’applicazione retroattiva di nuove norme penali relative alla determinazione dei reati e delle pene che non erano in vigore nel momento in cui è stata commessa l’azione punibile. In questa sede occorre sottolineare due elementi, vale a dire la limitazione ad elementi sostanziali concernenti l’azione e la pena con riferimento a un determinato momento nel tempo in cui l’azione o l’omissione è stata commessa.

2.      Il significato più ampio del principio di legalità: lex mitior e certezza del diritto in materia penale

150. Tuttavia, il contenuto delle garanzie di cui all’articolo 49, paragrafo 1, non termina qui. A mio parere, il contenuto autentico delle garanzie di cui al suddetto articolo è più ampio, in entrambe le dimensioni appena delineate: quella sostanziale e quella temporale.

151. Senza addentrarsi in dibattiti più approfonditi vertenti su cosa sia di preciso sostanzialmente incluso, si potrebbe forse solo rammentare che, secondo la CEDU, l’obiettivo specifico dell’articolo 7, paragrafo 1, è altresì lungi dall’essere chiaro. In particolare, la nozione di «pena» e la sua portata hanno subito una determinata evoluzione giurisprudenziale. Recentemente, nella causa Del Río Prada, la Grande Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU») ha rammentato che la distinzione tra una «pena» (la «sostanza», che dovrebbe essere ricompresa nell’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU), e una misura che riguarda l’irrogazione o l’esecuzione di una pena (maggiormente protesa verso gli elementi di «procedura») non è chiara (75). La Corte EDU ha effettuato un’ampia valutazione fondata, tra l’altro, sulla natura e lo scopo della misura, sulla sua qualificazione ai sensi del diritto nazionale, e sui suoi effetti.

152. Sussistono molti argomenti in merito a una siffatta valutazione, orientata sull’effetto o sull’impatto, che è meno interessata alle sottigliezze delle singole tassonomie nazionali, le quali possono certamente differire fra i diversi Stati membri, concentrandosi più concretamente sull’autentico funzionamento delle norme. Soprattutto, tuttavia, forse capta meglio quale dovrebbe essere l’obiettivo della tutela effettiva dei diritti fondamentali: il singolo e l’impatto che una norma produce sulla sua posizione, non le etichette tassonomiche ad essa apposte dal rispettivo diritto nazionale.

153. Per questa ragione, sebbene nella formulazione della terza frase dell’articolo 49, paragrafo 1, della Carta compaia l’espressione una «pena più lieve», non ritengo che tale disposizione possa essere letta riferendosi solo ed esclusivamente alla gravità della pena. Devono altresì essere inclusi quantomeno tutti gli elementi costitutivi di un reato, per un semplice motivo: se, a seguito della commissione di un reato, è emanata una nuova legge che modifica la definizione dell’illecito penale a favore dell’imputato, ciò significherebbe che la sua azione non sarebbe più (del tutto) punibile penalmente. In tal caso, ciò implicherebbe che nessuna pena può essere inflitta. Nessuna pena è certamente una pena più lieve. Sarebbe semplicemente illogico insistere, in tali circostanze, sul fatto che la nuova legge non disciplina direttamente le «pene» in senso tecnico.

154. L’elemento più importante per il caso in esame è forse il secondo: la dimensione temporale di ciò che è tutelato dal principio di legalità. In proposito, la formulazione della terza frase dell’articolo 49, paragrafo 1, della Carta già indica chiaramente che tale principio riguarda anche il tempo successivo alla commissione del reato. La suddetta frase prevede l’applicazione della retroattività della pena più lieve: lex mitior.

155. La regola della lex mitior è già stata riconosciuta dalla Corte come un principio generale del diritto dell’Unione derivante dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri (76) Tale orientamento giurisprudenziale, unitamente all’articolo 49, paragrafo 1, della Carta, ha dimostrato infatti la propria influenza sull’evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU. Sembrerebbe che tale Corte EDU si sia discostata dalla propria giurisprudenza, secondo cui il principio della lex mitior non rientrava nell’articolo 7 della CEDU, per riconoscerlo quale elemento implicito in detta disposizione, anche sotto l’influenza della più ampia tutela prevista ai sensi del diritto dell’Unione (77).

156. La lex mitior costituisce di fatto un’eccezione al divieto di applicazione retroattiva della norma penale. Essa autorizza la retroattività in bonam partem. A rigor di logica dunque la retroattività in malam partem è vietata.

157. Secondo la recente giurisprudenza della Corte EDU, il principio di retroattività della norma penale più favorevole comporta che «qualora vi siano delle differenze tra la norma penale in vigore al momento della commissione di un reato e le successive norme penali emanate prima della pronuncia di una sentenza definitiva, il giudice è tenuto ad applicare la norma le cui disposizioni sono più favorevoli per l’imputato» (78). Secondo la Corte EDU, tale obbligo di applicare «tra diverse norme penali, quella le cui le disposizioni risultano più favorevoli per l’imputato costituisce un chiarimento delle norme sulla successione delle norme penali, che si pone in accordo con un altro elemento essenziale dell’articolo 7, vale a dire la prevedibilità delle pene». Come il divieto di retroattività, la lex mitior si applica alle disposizioni che definiscono reati e pene (79).

158. Tuttavia, l’esatto contenuto della regola della lex mitior è lungi dall’essere consolidato. Tale principio mostra una specifica ispirazione sottostante: esso «comporta necessariamente una successione di leggi nel tempo e poggia sulla constatazione che il legislatore ha cambiato parere o in merito alla qualificazione penale dei fatti o in merito alla pena da applicare a un’infrazione» (80). Questa specificità ha condotto a determinati approcci che sottolineano le diverse logiche sottese al divieto di applicazione retroattiva delle norme penali e al principio della lex mitior. Quest’ultimo, secondo tali prospettive, non scaturirebbe affatto dai requisiti di prevedibilità o di certezza del diritto, ma si fonderebbe solamente su considerazioni di correttezza, che rispecchiano i cambiamenti di opinione del legislatore relativamente a un comportamento illecito (81).

159. Qualunque sia l’esatto valore a sostegno della regola della lex mitior, il suo funzionamento non è difficile da comprendere: salvo nei casi in cui ci si trova chiaramente di fronte a una normativa a esclusivo vantaggio di qualcuno o perfino dinanzi all’abuso di procedure legislative (82), la lex mitior è per definizione un «biglietto di sola andata» per una destinazione più favorevole. Questo significa che dopo la commissione dell’azione, le nuove norme penali possono essere applicate solamente a vantaggio dell’imputato. In scenari alquanto improbabili, ciò potrebbe accadere anche ripetutamente a beneficio dell’imputato. Tale aspetto può essere altresì raccordato con il linguaggio e lo spirito della terza frase dell’articolo 49, paragrafo 1, della Carta. Tuttavia, ritengo che l’elemento non conciliabile con tale disposizione sia costituito dal ritorno alla disposizione più severa una volta che la lex mitior è stata correttamente attivata oppure dall’adozione di norme penali nuove e più rigorose con la relativa applicazione retroattiva. In tal caso, la regola della lex mitior sitrasformerebbein una norma instabile e reversibile, che consente cambiamenti in lungo e in largo delle norme penali in seguito alla commissione dell’azione.

160. Pertanto, il principio della lex mitior e il principio della certezza del diritto non sono circoscritti al momento in cui i fatti sono stati commessi, ma si estendono per l’intera durata del procedimento penale (83).

161. Invero, occorre rammentare che l’applicazione del principio della lex mitior rientra di per sé nel più ampio principio della certezza del diritto, il quale impone che le norme giuridiche siano chiare e precise e che la loro applicazione sia prevedibile per gli individui (84) Ciò consente agli interessati di conoscere esattamente la portata degli obblighi che essa impone loro edi dosialtresì  (85).

162. Pertanto, il principio della lex mitior forma parte integrante delle norme giuridiche di base che disciplinano il funzionamento inter-temporale di disposizioni penali successivamente promulgate. I requisiti di prevedibilità e certezza del diritto comprendono dunque anche la sua applicazione quale parte degli ordinamenti giuridici nazionali e dell’Unione. Sarebbe in contrasto con tali requisiti, essenziali per il principio della certezza del diritto, l’eventualità che, una volta emanata e divenuta applicabile una norma penale più favorevole, essa sia disapplicata per rendere nuovamente applicabile una norma penale più rigorosa, pur essendo in vigore al momento della commissione dei fatti.

163. In sintesi, la mia conclusione è che il principio della lex mitior garantito nella terza frase dell’articolo 49, paragrafo 1, della Carta impedisce la regressione a norme precedenti e più rigide relative agli elementi costitutivi di un reato e alle pene, qualora la successiva normativa nazionale debitamente promulgata abbia generato legittime aspettative nella sfera personale dell’imputato. Tale garanzia può essere intesa sia come un livello più ampio del principio di legalità sia come un diritto distinto, che scaturisce dai requisiti della certezza del diritto e della prevedibilità delle norme penali.

164. L’interesse fondamentale sottostante è chiaro: gli individui devono poter fare affidamento sulle norme di diritto penale debitamente promulgate (86) adattando il loro comportamento di conseguenza. È infatti assolutamente possibile che, facendo affidamento su norme più favorevoli promulgate nel diritto nazionale, una persona oggetto di un procedimento penale o il suo rappresentante possa aver adottato determinate decisioni procedurali o modificato la sua linea di azione in modo pertinente per l’ulteriore sviluppo di tale procedimento.

165. Certamente il diritto dell’Unione fa parte degli ordinamenti giuridici nazionali; pertanto, deve essere preso in considerazione nella valutazione della conformità. Si potrebbe quindi suggerire che ignorantia legis europae non excusat. Un individuo che non paga le tasse non può vantare un «diritto all’impunità» garantito dal diritto nazionale che è incompatibile con il diritto dell’Unione.

166. In casi come quello in esame, reputo estremamente difficile condividere tale affermazione su vari livelli. Concentrandosi soltanto sul livello delle implicazioni pratiche, occorre chiedersi se ci si può realmente e ragionevolmente attendere che gli individui valutino costantemente da sé le norme nazionali promulgate con riferimento alla loro conformità con il diritto dell’Unione e che su tale base decidano sulla loro responsabilità penale. Pur suggerendo che ci si possa invero attendere quanto detto nelle ipotesi in cui una normativa nazionale affermi «X» mentre una chiara norma di diritto dell’Unione asserisca «diversamente da X», ci si può attendere lo stesso anche rispetto alla compatibilità delle norme nazionali con disposizioni di diritto dell’Unione alquanto «testualmente economiche», come l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, la cui interpretazione richiede la (infatti ripetuta) attenzione della Granze Sezione della Corte?

3.      Le implicazioni del principio della lex mitior e della certezza del diritto nella causa in esame

167. Nella causa Berlusconi (87) la Corte aveva già affrontato la questione se il principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite si applichi qualora questa sia contraria ad altre norme di diritto dell’Unione Tuttavia, poiché tale causa riguardava una direttiva, la risposta fornita si era fondata sul fatto che le disposizioni delle direttive non possono essere fatte valere per aggravare o determinare la responsabilità penale dei singoli (88).

168. Nella presente causa, le disposizioni pertinenti di diritto dell’Unione non sono solo la direttiva IVA in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 3, TUE, ma anche le disposizioni del diritto primario, vale a dire l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE, che «pongono a carico degli Stati membri un obbligo di risultato preciso e non accompagnato da alcuna condizione quanto all’applicazione della regola in esse enunciata (…)» (89). La Corte ha dichiarato, di conseguenza, che l’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE può spiegare l’effetto, «nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, di rendere ipso iure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale esistente» (90). Quest’affermazione era stata, tuttavia, immediatamente precisata: in un siffatto scenario, il giudice nazionale dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati (91).

169. A mio parere, l’imperativo del rispetto dei principi di legalità, compresa la regola della lex mitior, e di certezza del diritto, impedisce la possibilità di mettere da parte le disposizioni penali nazionali più favorevoli nel procedimento principale. Nella causa de qua, tale conclusione potrebbe essere raggiunta in due modi, se necessario.

170. In primis, l’emendamento che ha modificato la soglia della rilevanza penale dell’illecito concernente l’omesso versamento dell’IVA dichiarata (aggiungendo contestualmente la nuova causa di non punibilità) ha modificato, a mio avviso, gli elementi costitutivi di un atto con rilevanza penale. L’impostazione di una soglia pecuniaria per integrare la responsabilità penale è un elemento obiettivo della definizione di un reato. In quanto tale, questo cambiamento potrebbe essere inteso come un elemento rientrante nel «fulcro» sostanziale del principio di legalità, in combinato disposto con il principio della lex mitior.

171. In secondo luogo, anche se un siffatto cambiamento successivo dovesse essere considerato come esterno alla visione più restrittiva del principio di legalità, poiché, stricto sensu, è sopravvenuto in un momento successivo a quello in cui l’azione principale era stata commessa, sarebbe certamente sussunto nel significato più ampio di tale principio. Una volta entrato in vigore, il nuovo emendamento nazionale ha innescato la regola della lex mitior, che ha generato legittime aspettative nella sfera personale dell’imputato sul fatto che la nuova disposizione più favorevole sarebbe stata applicabile nei suoi confronti.

172. Occorre formulare due ulteriori osservazioni conclusive.

173. Innanzitutto, in un caso come quello in questione, assume, in definitiva, scarso rilievo che una potenziale incompatibilità delle norme nazionali con il diritto dell’Unione sia dichiarata rispetto al diritto derivato o rispetto al diritto primario dell’Unione europea. Il ragionamento appena esposto e i limiti dell’articolo 49, paragrafo 1, della Carta sono trasversali, applicabili indipendentemente dalla fonte dell’obbligo a livello di diritto dell’Unione.

174. Certamente, la Corte ha sottolineato che «le norme di diritto dell’Unione direttamente applicabili che sono fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro che esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli, soggetti di rapporti giuridici disciplinati dal diritto dell’Unione, devono esplicare la pienezza dei loro effetti in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità» (92).

175. Tuttavia, nel contempo, è stato anche riconosciuto che l’impossibilità di basarsi su determinate disposizioni di diritto dell’Unione al fine di determinare o aggravare la responsabilità penale non può essere limitata, diper sé, alle direttive. Considerazioni analoghe sono state svolte in merito alle disposizioni di un regolamento che attribuisce agli Stati membri il potere di adottare sanzioni relative alle infrazionidelle sue disposizioni, precisamente allo scopo di rispettare i principi di certezza del diritto e divieto di retroattività di cui all’articolo 7 della CEDU (93).

176. A mio parere, non si può supporre automaticamente che le disposizioni del Trattato le quali impongono a carico degli Stati membri un obbligo preciso e incondizionato sull’esito da conseguire, come nel caso dell’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFUE, soddisfino in modo automatico e in ogni situazione, il requisito di prevedibilità richiesto dai principi di legalità e certezza del diritto nel settore specifico del diritto penale (94).

177. Il principio di legalità non può essere interpretato come un divieto di graduale chiarimento delle norme sulla responsabilità penale. Tuttavia, può «opporsi all’applicazione retroattiva di una nuova interpretazione di un divieto di legge» (95). L’elemento chiave è, ancora una volta, la prevedibilità della singola norma in questione.

178. A livello più generale e sistematico fatico a comprendere il motivo per cui la giurisprudenza sull’effetto diretto differenziato delle disposizioni del Trattato rispetto alle direttive che, di per sé, rappresenta il frutto dell’evoluzione storicamente condizionata della giurisprudenza di questa Corte piuttosto che di qualsiasi scelta di principio basata su differenze chiaramente discernibili nella formulazione di tali fonti del diritto dell’Unione, debba essere il fattore determinante in casi come quello in esame. Occorre chiedersi se antiche impasse dottrinali, difficili da spiegare anche ad un avido studente di diritto dell’Unione, siano realmente determinanti per la (non) istituzione della responsabilità penale in casi ampiamente slegati delle questioni specifiche dell’effetto diretto. Ciò ancor più in un caso come quello di cui trattasi in cui, a tutti i fini pratici, il contenuto di entrambi i livelli di obblighi (Trattato e direttiva IVA) è alquanto simile, e la loro valutazione è svolta difatti in modo congiunto.

179. In secondo luogo, la questione sottostante sollevata dal caso in esame concerne gli effetti temporali delle decisioni di questa Corte (96). Come rammentato dal giudice del rinvio nella sua ordinanza, la norma di base sull’applicabilità temporale delle decisioni della Corte è essenzialmente quella di retrospettività incidentale: la Corte succitata fornisce l’interpretazione delle disposizioni di diritto dell’Unione ex tunc, che diviene immediatamente applicabile a tutti i casi ancora aperti (e talvolta anche chiusi (97)) in cui è applicata la medesima disposizione. Tuttavia, sono previsti alcuni limiti nei confronti di un simile approccio che, ancora una volta, si riducono alla stessa questione, vale a dire la prevedibilità. Quanto più la Corte sviluppa il diritto al di là della specifica formulazione delle disposizioni interpretate, tanto più difficile diviene verosimilmente mantenere la regola della piena applicazione ex tunc di tali decisioni giudiziarie (98).

180. Un’eventuale incompatibilità delle norme nazionali con il diritto dell’Unione non ha l’effetto di rendere queste ultime inesistenti (99). Il fatto che norme nazionali ritenute in seguito incompatibili con il diritto dell’Unione possano produrre effetti giuridici che, in determinate circostanze, possono generare aspettative, è dimostrato dal fatto che, in taluni casi, la Corte ha temporaneamente limitato gli effetti delle proprie sentenze al fine di tutelare i requisiti del principio di certezza del diritto. In tale contesto si può ricordare che detta Corte ha dichiarato che «eccezionalmente e per considerazioni imperative di certezza del diritto» (soltanto) la Corte può «concedere una sospensione provvisoria dell’effetto di disapplicazione esercitato da una norma di diritto dell’Unione rispetto a norme di diritto interno con esso in contrasto» (100).

181. Si potrebbe sottolineare quanto segue: suggerire che, come espressioni di diritto dell’Unione, la lex mitior e il requisito della certezza del diritto in materia penale impediscono la disapplicazione delle norme del diritto nazionale più favorevoli, non richiederebbe una rivalutazione considerevole dell’approccio, in realtà piuttosto restrittivo, alla limitazione degli effetti temporali delle decisioni della Corte. Si escluderebbe soltanto un’eccezione di applicazione limitata rilevante per i singoli procedimenti penali in corso, lasciando intatte le generali conseguenze normative dell’incompatibilità. Naturalmente, le osservazioni formulate dalla Corte potrebbero implicare procedimenti d’infrazione per mancato rispetto degli obblighi derivanti da essa (101), e in ogni caso, condurrebbero all’obbligo di modificare di conseguenza l’ordinamento giuridico nazionale per il futuro.

V.      Conclusione

182. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere alle questioni sottoposte dal Tribunale di Varese nei seguenti termini:

–        La nozione di frode di cui all’articolo 1, paragrafo 1, lettera b), della Convenzione TIF relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee non comprende un illecito, come quello oggetto del procedimento principale, relativo all’omesso versamento dell’IVA correttamente dichiarata entro il termine stabilito dalla legge.

–        L’articolo 4, paragrafo 3, TUE, in combinato disposto con l’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e la direttiva IVA, non osta alle disposizioni nazionali che, al fine di determinare la rilevanza penale della condotta consistente nell’omesso versamento di un’imposta nei termini di legge, fissano una soglia pecuniaria più elevata per l’imposta sul valore aggiunto (IVA) rispetto a quella stabilita per la ritenuta.

–        L’obbligo di stabilire sanzioni effettive, dissuasive e proporzionate per assicurare una corretta riscossione dell’IVA, imposto dall’articolo 325, paragrafo 1, TFUE e dall’articolo 4, paragrafo 3, TUE, in combinato disposto con la direttiva IVA, non osta a una normativa nazionale come quella in questione nel caso di specie che, pur prevedendo un sistema di sanzioni amministrative, esenta le persone fisiche responsabili per l’assolvimento di obblighi tributari:

–        da responsabilità penale e amministrativa per l’omesso versamento dell’IVA correttamente dichiarata entro il termine stabilito dalla legge in relazione agli importi pari a tre o cinque volte la soglia minima di EUR 50 000 stabilita dalla Convenzione TIF;

–        da responsabilità penale se l’ente per il quale esse operano ha pagato tardivamente l’IVA dovuta, nonché gli interessi e gli importi delle sanzioni amministrative irrogate, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento in primo grado.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      Direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (GU 2006, L 347, pag. 1) (in prosieguo: la «direttiva IVA»).


3      Convenzione redatta in base all’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea (GU 1995, C 316, pag. 49) (in prosieguo: la «Convenzione TIF»).


4      Regolamento del Consiglio, del 18 dicembre 1995 (GU 1995, L 312, pag. 1) (in prosieguo: il «regolamento n. 2988/95»).


5      Decreto legislativo del 10 marzo 2000, n. 74, Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205 (GURI n. 76 del 31 marzo 2000) (in prosieguo: il «decreto legislativo 74/2000»).


6      Decreto legislativo del 24 settembre 2015, n. 158, Revisione del sistema sanzionatorio, in attuazione dell’articolo 8, comma 1, della legge 11 marzo 2014, n. 23 (GURI n. 233 del 7 ottobre 2015 – Supplemento Ordinario n. 55) (in prosieguo: il «decreto legislativo 158/2015»).


7      Decreto legislativo del 18 dicembre 1997, n. 471, Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell’articolo 3, comma 133, lettera q), della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (GURI n. 5 dell’8 gennaio 1998 – Supplemento Ordinario n. 4).


8      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 41).


9      Conclusa il 23 maggio 1969, United Nations Treaty Series (Raccolta dei Trattati delle Nazioni Unite), vol. 1155, pag. 331. Il governo olandese afferma che un trattato deve essere interpretato in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del medesimo nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo; anche il contesto dovrà essere preso in considerazione così come, tra l’altro, ogni accordo intervenuto tra le parti circa l’attuazione delle sue disposizioni [articolo 31, paragrafi 1 e 3, lettera a), della Convenzione di Vienna]. Esso cita anche l’articolo 31, paragrafo 4, della Convenzione di Vienna, ai sensi del quale si ritiene che un termine abbia un significato particolare se si accerta che tale era l’intenzione delle parti.


10      Relazione esplicativa della convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (Testo approvato dal Consiglio il 26 maggio 1997) (GU 1997, C 191, pag. 1).


11      Ai sensi del paragrafo 1.1 di tale relazione, «[p]er entrate si intendono le entrate provenienti dalle prime due categorie di risorse proprie di cui all’articolo 2, paragrafo 1 della decisione 94/728/CE del Consiglio, del 31 ottobre 1994, relativa al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee (…). Sono escluse le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme alla base imponibile IVA negli Stati membri, non essendo l’IVA una risorsa propria riscossa direttamente per conto della Comunità. Sono altresì escluse le entrate provenienti dall’applicazione di un tasso uniforme alla totalità dei PNL degli Stati membri».


12      La Corte ha già avuto modo di affermare che, sebbene non vincolante per l’Unione europea e per tutti gli Stati membri di quest’ultima, la Convenzione di Vienna rispecchia le norme del diritto internazionale consuetudinario che, in quanto tali, vincolano le istituzioni dell’Unione e fanno parte dell’ordinamento giuridico di quest’ultima – v., ad esempio, sentenza del 25 febbraio 2010, Brita, (C‑386/08, EU:C:2010:91, punti 42 e 43 e la giurisprudenza ivi citata) o, per una conferma più recente, sentenza del 21 dicembre 2016, Consiglio/Fronte Polisario(C‑104/16 P, EU:C:2016:973, punto 86). Per un’analisi generale, v., a titolo esemplificativo, Kuijper, P.J., The European Courts and the Law of Treaties: The Continuing Story, in Cannizzaro, E. (a cura di) The Law of Treaties Beyond the Vienna Convention, OUP, 2011, pagg. da 256 a 278. Tuttavia, la Corte ha richiamato la Convenzione di Vienna per lo più in riferimento a trattati con paesi terzi. Essa ha altresì dichiarato che le regole poste dalla Convenzione di Vienna si applicano a un accordo concluso tra gli Stati membri e un’organizzazione internazionale (sentenza dell’11 marzo 2015, Oberto e O’Leary, C‑464/13 e C‑465/13, EU:C:2015:163, punto 36). A quanto mi consta, il riferimento alla Convenzione di Vienna è avvenuto soltanto una volta nel quadro di una convenzione tra Stati membri adottata sulla base dell’ex-articolo 220 CEE, nella sentenza del 27 febbraio 2002, Weber (C‑37/00, EU:C:2002:122, punto 29) che rimanda all’applicazione territoriale della Convenzione del 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 1972, L 299, pag. 32; come modificato dalle successive convenzioni di adesione per i nuovi Stati membri).


13      Nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea tale ruolo è tuttavia alquanto diverso da qualsiasi forma di interpretazione autentica vincolante ai sensi degli articoli 31, paragrafi 2, e 3, lettere a) e b), della Convenzione di Vienna (per ulteriori approfondimenti su tali norme v., ad esempio, Villinger, M.E., Commentary on the 1969 Vienna Convention on the Law of Treaties (Martinus Nijhoff, Leiden, 2009) pagg. da 429 a 432).


14      V., ad esempio, sentenze del 27 novembre 2012, Pringle(C‑370/12, EU:C:2012:756, punto 135), e del 3 ottobre 2013, Inuit Tapiriit Kanatami e a./Parlamento e Consiglio (C‑583/11 P, EU:C:2013:625, punto 59).


15      V., ad esempio, sentenza del 2 marzo 2010, Rottmann (C‑135/08, EU:C:2010:104, punto 40).


16      V., in particolare, le spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali (GU 2007, C 303, pag. 17), elaborate, nella versione iniziale, sotto l’autorità del praesidium della Convenzione che ha redatto la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.


17      A fini di completezza, si potrebbe aggiungere che il medesimo ragionamento sarebbe applicabile a una potenziale argomentazione tratta dall’articolo 31, paragrafi 3, lettera a), o 4, della Convenzione di Vienna, avanzata dal governo olandese (v. supra, nota 9).


18      La Convenzione TIF è stata adottata sulla base dell’articolo K.3, paragrafo 2, lettera c), TUE (nella versione di Maastricht), secondo cui il Consiglio aveva il diritto di elaborare convenzioni di cui avrebbe raccomandato l’adozione da parte degli Stati membri conformemente alle loro rispettive norme costituzionali.


19      V., ad esempio, sentenze del 26 maggio 1981, Rinkau (157/80, EU:C:1981:120, punto 8); del 17 giugno 1999, Unibank(C‑260/97, EU:C:1999:312, punti 16 e 17); dell’11 luglio 2002, Gabriel (C‑96/00, EU:C:2002:436, punti 41 e segg.), e del 15 marzo 2011, Koelzsch (C‑29/10, EU:C:2011:151, punto 40).


20      La Corte ha anche fatto riferimento a relazioni esplicative di convenzioni adottate sulla base di tale disposizione (alcune delle quali non sono mai entrate in vigore) che hanno ispirato successivi atti di diritto derivato. V., ad esempio, sentenze dell’8 maggio 2008, Weiss und Partner(C‑14/07, EU:C:2008:264, punto 53); del 1o dicembre 2008, Leymann e Pustovarov (C‑388/08 PPU, EU:C:2008:669, punto 74); del 15 luglio 2010, Purrucker(C‑256/09, EU:C:2010:437, punti 84 e segg.); dell’11 novembre 2015, Tecom Mican e Arias Domínguez(C‑223/14, EU:C:2015:744, punti 40 e 41), e del 25 gennaio 2017, Vilkas (C‑640/15, EU:C:2017:39, punto 50).


21      Conclusioni dell’avvocato generale Kokott in Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:293, paragrafi da 99 a 102).


22      Decisione del Consiglio, del 21 aprile 1970, relativa alla sostituzione dei contributi finanziari degli Stati membri con risorse proprie delle Comunità (70/243/CECA, CEE, Euratom) (GU 1970, L 94, pag. 19). Per la disposizione attualmente in vigore, v. l’articolo 2, paragrafo 1, lettera b), della decisione del Consiglio 2014/335/UE, Euratom, del 26 maggio 2014, relativa al sistema delle risorse proprie dell’Unione europea (GU 2014, L 168, pag. 105). Si stima che, per il 2015, le entrate dalle «risorse proprie tradizionali» ammontino al 12,8% e dall’IVA al 12,4% delle entrate totali delle risorse proprie. V. Commissione europea, Integrated Financial Reporting Package (pacchetto integrato sull’informativa finanziaria), 2015.


23      Sentenza dell’8 settembre 2015,Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 41). È il caso dell’articolo 2 del regolamento 2899/95, che si riferisce a «entrate provenienti da risorse proprie percepite direttamente per conto delle Comunità».


24      Articolo 5, paragrafo 3, della Convezione TIF.


25      Protocollo, elaborato sulla base dell’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea, della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (GU 1996, C 313, pag. 2) e secondo protocollo, redatto sulla base dell’articolo K.3 del Trattato sull’Unione europea, della convenzione relativa alla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee (GU 1997, C 221, pag. 12).


26      Sentenze del 10 luglio 2003, Commissione/BCE (C‑11/00, EU:C:2003:395, punto 89), e Commissione/BEI (C‑15/00, EU:C:2003:396, punto 120).


27      V. sentenze del 15 novembre 2011, Commissione/Germania (C‑539/09, EU:C:2011:733, punto 72); del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 26); dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 38); del 7 aprile 2016, Degano Trasporti (C‑546/14, EU:C:2016:206, punto 22), e del 16 marzo 2017, Identi (C‑493/15, EU:C:2017:219, punto 19).


28      Sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 27).


29      V., in tal senso, sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 39).


30      V. sentenza del 5 aprile 2017, Orsi e Baldetti (C‑217/15 e C‑350/15, EU:C:2017:264, punto 16).


31      L’articolo 209A TCE (Maastricht) conteneva solo gli attuali paragrafi 2 e 3. Il Trattato di Amsterdam ha aggiunto l’attuale paragrafo 1 nell’allora articolo 280 TCE, nonché il paragrafo 4 contenente la base giuridica per l’adozione di misure comunitarie, stabilendo tuttavia che «tali misure non riguardano l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione della giustizia negli Stati membri». Il trattato di Lisbona ha eliminato tale limitazione. Relativamente all’evoluzione della formulazione di tale disposizione attraverso le versioni successive del Trattato prima del Trattato di Lisbona, v. conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa Commissione/BCE (C‑11/00, EU:C:2002:556).


32      Circa l’ampio concetto di «frode» ai sensi dell’articolo 325 TFUE v., ad esempio: Waldhoff, C., «AEUV Art. 325 (ex-Art. 280 EGV) [Bekämpfung von Betrug zum Nachteil der Union]» in Calliess, C., e Ruffert, EUV/AEUV Kommentar, 5a ed (C.H. Beck, Monaco di Baviera, 2016, pag. 4); Magiera «Art. 325 AEUV Betrugsbekämpfung» in Grabitz, E., Hilf, M., Nettesheim, M., Das Recht der Europäischen Union (C.H. Beck, Monaco di Baviera, 2016, pagg. 15 e segg.); Satzger «AEUV Art. 325 (ex-Art. 280 EGV) [Betrugsbekämpfung]» in Streinz, EUV/AEUV (CH. Beck, Monaco di Baviera, 2012, pag. 6); Spitzer H., e Stiegel, U., «AEUV Artikel 325 (ex-Artikel 280 EGV) [Schutz der finanziellen Interessen der Union]» in von der Groeben/Schwarze/Hatje, Europäisches Unionsrecht (Nomos, Baden-Baden, 2015, pagg. 12 e segg.).


33      V., ad esempio, relativamente alle difficoltà in ordine alla definizione di «frode» v., ad esempio, «Incompatibilités entre systèmes juridiques et mesures d’harmonisation: Rapport final du groupe d’experts chargé d’une étude comparative sur la protection des intérêts financiers de la Communauté», Delmas-Marty, M., nel Seminar on the Legal Protection of the Financial Interests of the Community, Bruxelles, novembre 1993, Oak Tree Press Dublin, 1994. Per una visione d’insieme v. anche lo Study on the legal framework for the protection of EU financial interests by criminal law RS 2011/07, relazione finale del 4 maggio 2012.


34      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 41).


35      V., ad esempio, la definizione contenuta nella Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, COM (2012) 363 final. La base giuridica originaria della proposta era l’articolo 325, paragrafo 4, TFUE. Detta base è stata modificata in sede di negoziazione della proposta con riferimento all’articolo 83, paragrafo 2, TFUE (posizione del Consiglio in prima lettura, documento del Consiglio 6182/17del 5 aprile 2017).


36      V., in tal senso, sentenze del 27 settembre 2007, Collée (C‑146/05, EU:C:2007:549, punto 39); dell’8 maggio 2008, Ecotrade SpA, (C‑95/07 e C‑96/07, EU:C:2008:267, punto 71), e del 17 luglio 2014, Equoland (C‑272/13, EU:C:2014:2091, punto 39).


37      V., in tal senso, sentenze del 12 luglio 2012, EMS-Bulgaria Transport (C‑284/11, EU:C:2012:458 punto 74), e del 20 giugno 2013, Rodopi-M 91 (C‑259/12, EU:C:2013:414, punto 42).


38      V. supra, nota 31.


39      Sentenza del 21 settembre 1989, Commissione/Grecia, (68/88, EU:C:1989:339, punti 24 e 25). A conferma di questa sostanziale sovrapposizione v. sentenza dell’8 luglio 1999, Nunes e de Matos (C‑186/98, EU:C:1999:376, punto 13), che richiama l’articolo 5 nonché l’articolo 209°A, primo paragrafo, del Trattato CE.


40      V., ad esempio, sentenza del 29 marzo 2012, Pfeifer & Langen (C‑564/10, EU:C:2012:190, punto 52) per quanto riguarda l’articolo 325 TFUE in relazione alle misure per il prelievo di interessi nell’ambito del recupero di vantaggi indebitamente percepiti a carico del bilancio dell’Unione europea.


41      V., a tal fine, sentenza del 28 ottobre 2010, SGS Belgio e a. (C‑367/09, EU:C:2010:648, punti 40 e 42).


42      V., ad esempio, sentenza del 28 ottobre 2010, SGS Belgio e a.(C‑367/09, EU:C:2010:648, punto 41).


43      V., ad esempio, sentenze del 21 settembre 1989, Commissione/Grecia (68/88, EU:C:1989:339, punto 24), e del 3 maggio 2005, Berlusconi e a. (C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, EU:C:2005:270, punto 65 e la giurisprudenza ivi citata).


44      V. sentenze del 26 febbraio 2014, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 25); dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 36), e del 17 dicembre 2015, WebMindLicenses (C‑419/14, EU:C:2015:832, punto 41).


45      V., in tal senso, sentenza del 7 aprile 2016, Degano Trasporti (C‑546/14, EU:C:2016:206, punto 19 e la giurisprudenza ivi citata).


46      V., ad esempio, sentenza nella causa Commissione/Italia, (C‑132/06, EU:C:2008:412, punto 37).


47      V., in tal senso, sentenze del 12 luglio 2012, EMS-Bulgaria Transport (C‑284/11, EU:C:2012:458, punto 69); del 20 giugno 2013, Rodopi-M 91 (C‑259/12, EU:C:2013:414, punti 38 e segg.), e del 17 luglio 2014, Equoland (C‑272/13, EU:C:2014:2091, punto 46).


48      V. supra paragrafo 77 delle presenti conclusioni.


49      V. sentenze del 21 settembre 1989, Commissione/Grecia (68/88, EU:C:1989:339, punti 24 e 25), e dell’8 luglio 1999, Nunes e de Matos (C‑186/98, EU:C:1999:376, punti 10 e 11).


50      Per un approccio analogo v. anche Delmas-Marty, M., «Incompatibilités entre systèmes juridiques et mesures d’harmonisation» op. cit., pag. 97; Waldhoff, C., «AEUV Art. 325 (ex-Art. 280 EGV) [Bekämpfung von Betrug zum Nachteil der Union]» in C. Calliess e Ruffert, EUV/AEUV Kommentar, 5a ed., C.H. Beck, Monaco di Baviera, 2016, pag. 10; Spitzer, H., e Stiegel, U., «AEUV Artikel 325 (ex-Artikel 280 EGV) [Schutz der finanziellen Interessen der Union]» in von der Groeben/Schwarze/Hatje, Europäisches Unionsrecht, Nomos, Baden-Baden, 2015, pag. 44.


51      A meno che, naturalmente, un giorno la valutazione dell’assimilazione (o equivalenza) non dovesse più essere effettuata internamente (all’interno di uno Stato membro), ma piuttosto esternamente (ponendo a confronto gli approcci negli Stati membri). A livello pragmatico tale cambiamento nel diritto potrebbe essere forse davvero necessario un giorno, se sempre più regimi giuridici nazionali diventassero armonizzati, con l’effettiva scomparsa di qualsiasi idoneo parametro di confronto nazionale. Sotto il profilo sistematico, un siffatto modo di valutare l’adeguatezza di procedure o rimedi favorirebbe forse meglio l’idea di similarità da introdurre nell’esecuzione nazionale del diritto dell’Unione, in luogo di un test che, in realtà, evidenzia ulteriormente una potenziale divergenza.


52      È in un contesto così specifico che ritengo che la Corte costituzionale italiana abbia dichiarato la non comparabilità fra gli articoli 10 bis e 10 ter del decreto legislativo di cui alla causa in esame. V. sentenza della Corte costituzionale italiana del 12 maggio 2015, n. 100/2015 (IT:COST:2015:100). Più in generale, la tassazione diretta e indiretta erano anche considerate non confrontabili dalla giurisprudenza della Corte, ma in un contesto ancora una volta differente (sempre in ambito IVA; ma in un caso relativo al diritto di rimborso del contribuente, non riguardo l’irrogazione di sanzioni da parte degli Stati membri). V. sentenza del 15 marzo 2007, Reemtsma Cigarettenfabriken (C‑35/05, EU:C:2007:167, punti 44 e 45).


53      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 48). Analogamente, nella sentenza del 29 marzo 2012, Pfeifer & Langen (C‑564/10, EU:C:2012:190, punto 52) la Corte ha dichiarato che gli Stati membri sono tenuti, a norma dell’articolo 325 TFUE, e in assenza di norme specifiche dell’Unione, «quando il rispettivo diritto nazionale prevede il prelievo di interessi nell’ambito del recupero di vantaggi del medesimo tipo indebitamente percepiti a carico del loro bilancio nazionale, a prelevare in maniera analoga interessi in occasione del recupero di vantaggi indebitamente percepiti a carico del bilancio dell’Unione».


54      Sulla rilevanza della difficoltà di accertare una violazione v. sentenza del 25 febbraio 1988, Drexl (299/86, EU:C:1988:103, punti 22 e 23).


55      V. supra, paragrafi da 52 a 84 delle presenti conclusioni.


56      Sentenze del 17 luglio 2008, Commissione/Italia (C‑132/06, EU:C:2008:412, punto 37); del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 25), e dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 36).


57      Sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 26), e dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 37).


58      V. anche supra paragrafi 77 e 83.


59      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 39). V. anche conclusioni dell’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer in Commissione/Consiglio (C‑176/03, EU:C:2005:311, paragrafo 43).


60      Sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 34), e dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 39).


61      Occorre rilevare che, in un’ottica comparativa, non tutti gli Stati membri prevedono delle sanzioni penali per condotte relative all’omesso versamento dell’IVA nei termini di legge. A tal proposito sembra esservi una varietà considerevole.


62      Si può aggiungere che la questione connessa relativa al principio ne bis in idem costituisce l’oggetto della causa pendente in Menci. Considerata l’importanza delle questioni sollevate dalla sentenza della Corte EDU, 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia (CE:ECHR:2016:1115JUD002413011, Grande Sezione)sull’interpretazione dell’articolo 50 della Carta, il caso è stato assegnato alla Grande Sezione e la fase orale è stata riaperta. V. ordinanza della Corte (Grande Sezione) del 25 gennaio 2017,Menci(C‑524/15, non pubblicata, EU:C:2017:64).


63      V. spiegazione dell’articolo 8 (che modifica l’articolo 10 ter del decreto legislativo 74/2000) nello schema di decreto legislativo concernente la revisione del sistema sanzionatorio, del 26 giugno 2015.


64      V. ibidem, spiegazione dell’articolo 11 (che modifica l’articolo 13 del decreto legislativo 74/2000).


65      Questo forse è anche il motivo per cui in un certo numero di ordinamenti giuridici degli Stati membri è possibile riscontrare norme formulate in vario modo relative all’interruzione dell’azione penale per l’omesso versamento di contributi fiscali, tributari, o di previdenza sociale se il debito è pagato interamente prima dell’apertura del processo.


66      Sentenza del 20 giugno 2013, Rodopi-M 91 (C‑259/12, EU:C:2013:414, punto 40).


67      Circa le violazioni degli obblighi formali v. sentenza del 17 luglio 2014, Equoland (C‑272/13, EU:C:2014:2091, punto 46 e la giurisprudenza ivi citata).


68      V., ad esempio, sentenze del 9 marzo 1978, Simmenthal (106/77, EU:C:1978:49, punto 17), e del 14 giugno 2012, ANAFE (C‑606/10, EU:C:2012:348, punto 73 e la giurisprudenza ivi citata).


69      V., in proposito, sentenza del 29 marzo 2012, Belvedere Costruzioni (C‑500/10, EU:C:2012:186, punto 23).


70      Prima dell’entrata in vigore della Carta, il principio dell’irretroattività delle norme penali è stato anche considerato tra i principi generali del diritto, la cui osservanza deve essere garantita dalla Corte. V., ad esempio, sentenze del 10 luglio 1984, Kirk (63/83, EU:C:1984:255, punto 22); del 13 novembre 1990, Fédesa e a. (C‑331/88, EU:C:1990:391, punto 42); del 7 gennaio 2004, X (C‑60/02, EU:C:2004:10, punto 63); del 15 luglio 2004, Gerekens e Procola (C‑459/02, EU:C:2004:454, punto 35); e del 29 giugno 2010, E e F (C‑550/09, EU:C:2010:382, punto 59).


71      V., in proposito, sentenze del 3 giugno 2008, Intertanko e a. (C‑308/06, EU:C:2008:312, punto 70), e del 28 marzo 2017, Rosneft (C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 162).


72      V., ad esempio, sentenze del 3 maggio 2007, Advocaten voor de Wereld (C‑303/05, EU:C:2007:261, punto 50); del 31 marzo 2011, Aurubis Balgaria (C‑546/09, EU:C:2011:199, punto 42), e del 28 marzo 2017, Rosneft (C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 162).


73      V. sentenza del 28 marzo 2017, Rosneft (C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 167 e la giurisprudenza ivi citata).


74      V., ad esempio, sentenze del 7 gennaio 2004, X (C‑60/02, EU:C:2004:10, punto 63), e del 28 giugno 2012, Caronna(C‑7/11, EU:C:2012:396, punto 55).


75      V. sentenze della Corte EDU, 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna [GC], (CE:ECHR:2013:1021JUD004275009, punti 85 e segg., che si riferisce, tra l’altro, alla sentenza del 12 febbraio 2008, Kafkaris/Cipro [GC] CE:ECHR:2008:0212JUD002190604, punto 142).


76      V. sentenze del 3 maggio 2005, Berlusconi e a. (C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, EU:C:2005:270, punto 68); dell’8 marzo 2007, Campina (C‑45/06, EU:C:2007:154, punto 32); dell’11 marzo 2008, Jager (C‑420/06, EU:C:2008:152, punto 59), e del 4 giugno 2009, Mickelsson e Roos (C‑142/05, EU:C:2009:336, punto 43).


77      Sentenza della Grande Sezione della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c.Italia (n. 2) (CE:ECHR:2009:0917JUD001024903, §§ da 105 a 109).


78      V. sentenze della Grande Sezione della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c.Italia (n. 2), (CE:ECHR:2009:0917JUD001024903, § 109), e 18 marzo 2014, Öcalan c. Turchia (n. 2) (CE:ECHR:2014:0318JUD002406903, § 175), nonché sentenze 12 gennaio 2016,Gouarré Patte c. Andorra (CE:ECHR:2016:0112JUD003342710, § 28); 21 luglio 2016, Ruban c.Ucraina (CE:ECHR:2016:0712JUD000892711, § 37), e 24 gennaio 2017, Koprivnikar c. Slovenia (CE:ECHR:2017:0124JUD006750313, § 49).


79      Sentenza della Grande Sezione della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia (n. 2) (CE:ECHR:2009:0917JUD001024903, § 108).


80      Sentenza del 6 ottobre 2016, Paoletti e a. (C‑218/15, EU:C:2016:748, punto 27).


81      V., in particolare, il parere parzialmente dissenziente del giudice Nicolaou, con l’adesione dei giudici Bratza, Lorenzen, Jočienė, Villiger e Sajó nel caso Scoppola (nota 77), nonché il parere dissenziente del giudice Sajó nella sentenza della Corte EDU, 24 gennaio 2017,Koprivnikar c. Slovenia (CE:ECHR:2017:0124JUD006750313). Una visione più ampia del principio, tuttavia, era inclusa nel parere favorevole del giudice Pinto de Albuquerque con l’adesione del giudice Vučinić nella sentenza della Grande Sezione della Corte EDU, 18 luglio 2013, Maktouf e Damjanović c. Bosnia ed Erzegovina (CE:ECHR:2013:0718JUD000231208).


82      Così, ad esempio, il dirottamento del processo legislativo e l’adozione di norme a esclusivo vantaggio di determinate persone non rientrerebbero in una siffatta corretta applicazione del principio della lex mitior. Tali persone non potevano avere avuto alcuna buona fede e dunque legittime aspettative. Al contrario, per quanto riguarda i destinatari «ordinari» della normativa, sussiste una correlazione tra l’applicabilità del principio della lex mitior e il principio di certezza e di prevedibilità del diritto.


83      Ancora una volta occorre notare che, nella propria valutazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della CEDU, la Corte EDU ha considerato che l’elemento rilevante non è dato solo dalla formulazione di una pena al momento della commissione dei reati, ma anche, in determinati casi, dal tempo in cui la sentenza è stata pronunciata e notificata. Sentenza della Corte EDU, 21 ottobre 2013, Del Río Prada c. Spagna, (CE:ECHR:2013:1021JUD004275009, punti 112 e 117), relativa al fatto che le modifiche giurisprudenziali (pari al protrarsi della durata della detenzione) non potevano essere previste dalla ricorrente all’epoca in cui era stata condannata e in cui le era stata notificata la decisione di disporre la continuazione delle sue condanne e di stabilire una durata massima della pena.


84      V., ad esempio, sentenza del 13 ottobre 2016, Polkomtel (C‑231/15, EU:C:2016:769, punto 29 e la giurisprudenza ivi citata).


85      V., ad esempio, sentenze del 9 marzo 2017, Doux (C‑141/15, EU:C:2017:188, punto 22 e giurisprudenza citata), e del 28 marzo 2017, Rosneft (C‑72/15, EU:C:2017:236, punto 161).


86      Diversamente dalla causa ANAFE, la causa de qua non riguarda un’ordinanza amministrativa, bensì il diritto penale. V. sentenza del 14 giugno 2012, ANAFE (C‑606/10, EU:C:2012:348, punti 70 e segg.), in cui la Corte ha respinto la possibilità di far valere le legittime aspettative dei titolari dei permessi di rientro emessi dall’amministrazione francese in violazione del codice Schengen.


87      V. sentenza del 3 maggio 2005, Berlusconi e a. (C – 387/02, C – 391/02 e C‑403/02, EU:C:2005:270 punto 70).


88      V., ad esempio, sentenze dell’11 giugno 1987, X (14/86, EU:C:1987:275, punto 20); dell’8 ottobre 1987, Kolpinghuis Nijmegen (80/86, EU:C:1987:431 punto 13); del 26 settembre 1996, Arcaro (C‑168/95, EU:C:1996:363, punto 37); del 12 dicembre 1996, X (C – 74/95 e C – 129/95, EU:C:1996:491, punto 24); del 7 gennaio 2004, X (C‑60/02, EU:C:2004:10, punto 61), e del 3 maggio 2005, Berlusconi e a., (C – 387/02, C – 391/02 e C – 403/02, EU:C:2005:270, punto 74), o del 22 novembre 2005, Grøngaard e Bang (C‑384/02, EU:C:2005:708, punto 30). V. anche, per quanto concerne le decisioni quadro, sentenze del 16 giugno 2005, Pupino (C‑105/03, EU:C:2005:386, punto 45), e dell’8 novembre 2016, Ognyanov (C‑554/14, EU:C:2016:835, punto 64).


89      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 51).


90      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 52).


91      Sentenza dell’8 settembre 2015, Taricco e a. (C‑105/14, EU:C:2015:555, punto 53).


92      V. sentenza dell’8 settembre 2010, Winner Wetten (C‑409/06, EU:C:2010:503, punto 54, e la giurisprudenza ivi citata).


93      V. sentenza del 7 gennaio 2004, X(C‑60/02, EU:C:2004:10, punti 62 e 63).


94      Possono esservi, tuttavia, talune disposizioni del Trattato che definiscono chiaramente «le infrazioni nonché la natura e l’entità delle sanzioni» in modo da soddisfare i requisiti di cui all’articolo 49, paragrafo 1, della Carta. V. sentenza del 29 marzo 2011, ThyssenKrupp Nirosta/Commissione (C‑352/09 P, EU:C:2011:191, punti 82 e segg.) in cui la Corte ha dichiarato che «all’epoca dei fatti, l’art. 65, nn. 1 e 5 [del Trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio] prevedeva un fondamento normativo chiaro per la sanzione inflitta nella specie, ragion per cui la ricorrente non poteva ignorare le conseguenze derivanti dal proprio comportamento».


95      V. ad esempio, sentenze del 28 giugno 2005, Dansk Rørindustri e a./Commissione (C‑189/02 P, C‑202/02 P, C‑205/02 P a C‑208/02 P e C‑213/02 P, EU:C:2005:408, punto 217), o del 10 luglio 2014, Telefónica e Telefónica de España/Commissione (C‑295/12 P, EU:C:2014:2062, punto 147).


96      In generale, circa le limitazioni temporali delle pronunce pregiudiziali, v. Düsterhaus, D., «Eppur Si Muove! The Past, Present and (possible) Future of Temporal Limitations in the Preliminary Ruling Procedure», Yearbook of European Law, vol. 35, 2016, pagg. da 1 a 38).


97      V., in proposito, sentenze del 13 gennaio 2004, Kühne & Heitz (C‑453/00, EU:C:2004:17, punto 28), o del 18 luglio 2007, Lucchini (C‑119/05, EU:C:2007:434, punto 63).


98      Occorre aggiungere che il problema è certamente non nuovo e non limitato all’ordinamento giuridico dell’Unione. Per una panoramica di diritto comparato v., ad esempio, Steiner, E., Comparing the Prospective Effect of Judicial Rulings Across Jurisdictions, Springer, 2015 o Popelier P., e a. (a cura di), The Effects of Judicial Decisions in Time, Intersentia, Cambridge, 2014.


99      V., a tal proposito, sentenze del 22 ottobre 1998, IN. CO. GE.’90 e a. (da C‑10/97 a C‑22/97, EU:C:1998:498, punto 21), e del 19 novembre 2009, Filipiak (C‑314/08, EU:C:2009:719, punto 83).


100      V. sentenze del 28 luglio 2016, Association France Nature Environnement (C‑379/15, EU:C:2016:603, punto 33), con riferimento alla sentenza dell’8 settembre 2010, Winner Wetten (C–-409/06, EU:C:2010:503, punto 67).


101      V., ad esempio, sentenze del 21 settembre 1989, Commissione/Grecia (68/88, EU:C:1989:339, punto 24); del 18 ottobre 2001, Commissione/Irlanda (C‑354/99, EU:C:2001:550 punti da 46 a 48), e del 17 luglio 2008, Commissione/Italia (C‑132/06, EU:C:2008:412, punto 52).