Language of document : ECLI:EU:C:2002:373

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

DÀMASO RUIZ-JARABO COLOMER

presentate il 13 giugno 2002 (1)

Causa C-206/01

Arsenal Football Club plc

contro

Matthew Reed

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla High Court of Justice (England and Wales), Chancery Division]

«Marchi di impresa - Ravvicinamento delle legislazioni - Direttiva 89/104/CEE - Art. 5 - Diritti del titolare del marchio - Portata e limiti - Uso dello stesso segno da parte di terzi per prodotti identici a quelli per i quali è stata effettuata la registrazione - Interpretazione del concetto di “uso in quanto marchio”»

1.
    Può il proprietario di un marchio d'impresa registrato vietare ai terzi qualsiasi uso, nel commercio, di segni identici al proprio marchio per prodotti o servizi uguali a quelli per cui il marchio è stato registrato, al di fuori degli usi contemplati dall'art. 6 della prima direttiva sui marchi di impresa (in prosieguo: la «direttiva» o la «prima direttiva»)? (2) O, al contrario, il diritto esclusivo riconosciuto dall'art. 5 copre solamente l'impiego del marchio che ne rivela l'origine, ossia il rapporto esistente tra il titolare ed i prodotti o servizi contrassegnati dal marchio? Nel caso in cui venga data una soluzione affermativa a questo secondo interrogativo, si può considerare indicativo di tale vincolo l'uso che esprime un sentimento di sostegno, fedeltà o appartenenza nei confronti del proprietario del segno?

2.
    Questi sono i dubbi che la High Court of Justice (England & Wales; in prosieguo: la «High Court») chiede a questa Corte di dissipare nell'ambito del presente procedimento pregiudiziale.

I - Fatti all'origine della causa principale e questioni pregiudiziali

3.
    L'Arsenal Football Club Plc (in prosieguo: l'«Arsenal») è una nota società calcistica di diritto inglese, fondata nel 1986, conosciuta anche con il soprannome di the Gunners.

4.
    Fin dal 1989, questa società ha registrato due marchi denominativi, «Arsenal» e «Arsenal Gunners», e due marchi figurativi, l'uno denominato Crest Device, e l'altro, The Cannon Device, per contraddistinguere indumenti, articoli d'abbigliamento e calzature sportive, prodotti che sono compresi nella classe 25 della nomenclatura internazionale dei marchi commerciali.

5.
    Il sig. Matthew Reed è un commerciante che dal 1970 vende souvenir ed oggetti legati alla società ricorrente nei dintorni dello stadio di Highbury, campo di gioco della squadra. Tali oggetti contengono i segni che la società ha registrato come marchi.

6.
    In particolare, il sig. Reed vende sciarpe sulle quali compare a chiare lettere la parola «Arsenal». Si tratta di prodotti il cui carattere non ufficiale viene esplicitamente dichiarato dal sig. Reed in un cartello apposto sui chioschi dove egli esercita la sua attività commerciale, recante il seguente testo:

«Il termine o il (i) logotipo(i) contenuti negli articoli in vendita sono utilizzati unicamente allo scopo di decorare il prodotto e non implicano né esprimono appartenenza o alcun altro rapporto con il fabbricante o i distributori di qualsiasi altro prodotto. Sono prodotti ufficiali dell'Arsenal soltanto quei prodotti provvisti dell'apposita etichetta che contrassegna i prodotti ufficiali dell'Arsenal».

7.
    L'Arsenal ha promosso due azioni contro il sig. Reed, l'una per contraffazione (passing of) e l'altra per violazione del diritto di marchio, confluite in un unico procedimento. La prima azione è stata respinta poiché, secondo la High Court, la società ricorrente non aveva provato l'esistenza di una reale confusione nella mente dei consumatori, né, in particolare, aveva dimostrato che nella mente del pubblico i prodotti venduti dal convenuto provengono dall'Arsenal o sono commercializzati su licenza di quest'ultimo.

8.
    In merito alla seconda azione, la High Court ha respinto l'argomento dell'Arsenal secondo il quale l'utilizzo da parte del sig. Reed delle indicazioni e dei simboli registrati come marchi verrebbe percepito dai consumatori come uso indicativo della provenienza dei prodotti (badge of origin), ossia, costituirebbe un uso del segno «in quanto marchio d'impresa» (trademark use).

9.
    Secondo il tribunale britannico il pubblico percepisce le denominazioni e le rappresentazioni grafiche contenute nei prodotti commercializzati dal convenuto come una dimostrazione di sostegno, fedeltà o appartenenza (badge of support, loyalty or affiliation).

10.
    Con questa premessa, la High Court sottopone alla Corte di giustizia le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)    Qualora un marchio sia validamente registrato ed un terzo

    a)     utilizzi nel commercio un segno identico al detto marchio per designare prodotti uguali a quelli commercializzati dal titolare del marchio,

    b)     non possa difendersi dall'accusa di violazione del diritto di marchio sulla base dell'art. 6, n. 1, della direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa,

    si chiede se egli possa far valere in sua difesa il fatto che l'uso contestato non indica l'origine dei prodotti (ossia non indica un vincolo commerciale tra i prodotti ed il titolare del marchio).

2)    In caso di soluzione affermativa, si chiede se sia sufficiente ad esprimere tale vincolo la circostanza che l'uso di cui trattasi venga percepito come un una dimostrazione di sostegno, fedeltà o appartenenza nei confronti del titolare del marchio».

II - Procedimento dinanzi alla Corte di giustizia

11.
    Hanno presentato osservazioni scritte nel presente procedimento, entro i termini a tal fine previsti all'art. 20 dello statuto CE della Corte di giustizia, l'Arsenal, il sig. Reed, la Commissione e l'Autorità di vigilanza dell'Associazione europea di libero scambio.

12.
    All'udienza, tenutasi il 14 maggio 2002, sono comparse per svolgere osservazioni orali le parti nel procedimento principale e la Commissione.

III - Contesto normativo

1. Il diritto comunitario: la prima direttiva

13.
    La direttiva «ha come obiettivo il ravvicinamento delle legislazioni in materia di marchi d'impresa, allo scopo di eliminare le disparità che possano ostacolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi, nonché falsare le condizioni di concorrenza nel mercato comune. Tuttavia l'armonizzazione che essa persegue è soltanto parziale, cosicché l'intervento del legislatore comunitario si limita a determinati aspetti attinenti ai marchi d'impresa acquisiti in seguito a registrazione» (3).

14.
    L'art. 2 dispone come segue:

«Possono costituire marchi di impresa tutti i segni che possono essere riprodotti graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, la forma del prodotto o il suo confezionamento, a condizione che tali segni siano adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli delle altre imprese».

15.
    L'art. 5, intitolato «Diritti conferiti dal marchio d'impresa» delinea i diversi gradi di tutela giuridica che devono essere assicurati ai titolari di questa forma di proprietà industriale in base alla direttiva (4).

A - L'art. 5, n. 1

16.
    Il n. 1 conferisce al titolare il diritto di vietare ai terzi l'uso del marchio nel commercio, delineando, tuttavia, due distinte ipotesi d'uso e, di conseguenza, diversi livelli di tutela.

17.
    La prima ipotesi consiste nell'uso di un segno identico al marchio di impresa per prodotti o servizi di tipologia identica a quelli per cui il marchio è stato registrato [lett. a)]. Comprende i casi di imitazione e di contraffazione. Come ha espressamente indicato l'Autorità di vigilanza dell'Associazione europea del libero scambio nelle sue osservazioni scritte, la lett. a) garantisce la tutela dalle imitazioni. Tale tutela è assoluta ed incondizionata (5), e non è soggetta a limitazioni ulteriori rispetto a quelle derivanti dall'art. 6 della direttiva.

18.
    Da parte sua, la lett. b) contempla tre ipotesi: l'identità dei segni e la somiglianza dei prodotti o servizi; l'ipotesi inversa della somiglianza delle indicazioni e l'identità dei beni o delle prestazioni, ed, infine, la somiglianza degli uni e degli altri. In tali ipotesi la tutela è condizionata dall'esistenza del rischio di confusione, che comprende il rischio di associazione (6).

19.
    Durante il presente procedimento incidentale le parti che hanno presentato osservazioni hanno discusso intorno alla questione se il potere conferito al proprietario si estenda fino ad inibire l'uso del marchio o addirittura, piú estensivamente, del segno che vi è incorporato. La discussione è bizantina. La direttiva ha per oggetto i marchi registrati (7), vale a dire, i segni che possono essere riprodotti graficamente e sono adatti a distinguere i prodotti o i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese (8). Cosí, nelle ipotesi di identità dei simboli (9), il contravventore si serve del marchio vero e proprio (il segno registrato) (10), mentre nei casi di somiglianza, usa indicazioni simili, che tuttavia, per definizione, non coincidono con il marchio (11).

20.
    L'elemento decisivo consiste nel fatto che il titolare può vietare ad un terzo di usare il marchio per gli stessi o per diversi prodotti o servizi, ovvero può inibire l'uso di segni ed indicazioni che, considerati complessivamente (12), possono confondere le menti dei consumatori a causa della loro somiglianza con quelli registrati.

B - L'art. 5, nn. 2 e 5

21.
    La direttiva è volta a raggiungere un'armonizzazione parziale. Essa limita il suo intervento ai marchi acquisiti mediante registrazione (13). Si tratta, in certa misura, di una regola de minimis (14), che non impedisce agli Stati membri, in determinati casi, di prevedere una maggior tutela rispetto a quella elargita dalla norma comunitaria.

22.
    Uno di questi casi è rappresentato dai marchi che godono di notorietà (15), cui si riferisce l'art. 5, n. 2, che consente agli ordinamenti giuridici nazionali di spingersi oltre quanto stabilito dal legislatore comunitario e vietare l'uso di un segno simile a quello registrato, anche in relazione a prodotti o servizi non affini. Si tratta di una tutela nazionale specifica, supplementare e facoltativa (16).

23.
    D'altra parte, la direttiva non pregiudica le disposizioni applicabili negli Stati membri che, avendo il loro fondamento giuridico in settori diversi dal diritto dei marchi, tutelano contro l'uso di un segno registrato come marchio che abbia un fine diverso da quello di contraddistinguere i prodotti o servizi garantiti. Tale norma, annunciata nel sesto ‘considerando’ (17), è contenuta nell'art. 5, n. 5.

24.
    In ambedue i casi, la tutela rimane soggetta alla condizione che il contravventore intenda trarre un indebito vantaggio dalla notorietà del marchio ovvero che tale uso possa nuocere al carattere distintivo del marchio o alla sua notorietà. L'obiettivo consiste nel garantire al proprietario del segno distintivo il diritto di preservare il suo avviamento commerciale (goodwill) (18), tutelandolo contro la concorrenza sleale (19).

C - Gli artt. 6 e 7

25.
    Questi due precetti rappresentano il «rovescio della medaglia» rispetto all'art. 5, ed hanno lo scopo di conciliare i diritti del titolare del marchio registrato con l'interesse generale, che chiede libertà di circolazione delle merci e libera prestazione dei servizi all'interno del mercato comune (20).

26.
    Ambedue gli articoli pongono limiti alla facoltà del titolare del marchio e descrivono i casi in cui non gli è consentito inibire l'uso del marchio da parte di terzi, vuoi perché si tratta di segni singolari o che vengono usati con fini specifici, vuoi perché per ragioni di politica commerciale è consigliabile evitare che avvenga una compartimentazione del mercato intracomunitario per effetto di ostacoli all'esercizio delle libertà che ho ricordato al precedente paragrafo (art. 7).

2. Normativa del Regno Unito

27.
    La prima direttiva è stata recepita nell'ordinamento britannico con il Trade Mark Act (legge sui marchi commerciali) del 1994, che ha sostituito la normativa in vigore dal 1938.

28.
    L'art. 10 del summenzionato provvedimento così recita:

«1.    E' responsabile di contraffazione di un marchio d'impresa chi fa uso nel commercio di un segno identico al marchio per beni o servizi identici a quelli per cui il marchio è registrato.

2.    E' responsabile di contraffazione di un marchio d'impresa chi fa uso nel commercio di un segno distintivo per il quale, a motivo

(...)

(b)    della sua somiglianza con il marchio e del suo impiego per designare beni o a servizi identici o simili a quelli per cui il marchio è registrato,

esiste un rischio di confusione da parte del pubblico, comprendente la probabilità dell'associazione con il marchio».

IV - Analisi delle questioni pregiudiziali

29.
    La High Court si rivolge alla Corte di giustizia nell'ambito di un procedimento che oppone il titolare di un marchio di impresa ad un terzo che commercializza prodotti appartenenti alla stessa tipologia di quelli oggetto di registrazione, sui quali compare il segno distintivo, nonostante il fatto che il terzo renda noto che la presenza del segno non esprime appartenenza né altro legame con il proprietario.

30.
    Le questioni poste dal giudice britannico riguardano, di conseguenza, l'interpretazione dell'art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva. Tuttavia, le soluzioni che la Corte di giustizia fornirà, dovranno essere il frutto di un'elaborazione che muove da un'analisi completa del detto precetto e di quelli con cui esso è interrelato.

1. La prima questione pregiudiziale

A - Interpretazione sistematica degli artt. 5, 6 e 7 della direttiva

31.
    I diritti del titolare del marchio d'impresa registrato vengono delimitati dalla direttiva in senso positivo e negativo.

32.
    Dall'analisi che ho sviluppato nei precedenti paragrafi discende, come primo corollario che, con riferimento alla delimitazione positiva, la direttiva persegue l'armonizzazione dei diritti del titolare del marchio (art. 5, n. 1) che consistono nel vietare l'uso di segni identici o simili per designare prodotti uguali o simili a quelli per i quali è stata effettuata la registrazione, con la condizione, in caso di somiglianza, che esista un rischio di confusione da parte del pubblico. Come ha rilevato l'Autorità di vigilanza dell'Associazione europea di libero scambio, spetta al diritto comunitario tutelare dalle imitazioni e dal rischio di confusione.

33.
    Ricade inoltre nell'ambito del diritto comunitario la tutela non facoltativa dei marchi rinomati (art. 5, n. 2) contro il loro uso da parte di terzi per contraddistinguere gli stessi prodotti o prodotti simili a quelli per i quali è stata effettuata la registrazione. Tale forma di tutela deve essere apprestata anche in assenza di un rischio di confusione, pena accordare a questa categoria di marchi una tutela minore quando i prodotti sono simili rispetto a quando non presentano alcuna affinità con i prodotti per i quali è stata effettuata la registrazione (21).

34.
    Ritengo che l'art. 5, n. 2, vada interpretato nel senso che i marchi rinomati devono in ogni caso venire tutelati, a prescindere dal rischio di confusione (22). Con riferimento a questo tipo di segni, la direttiva dispone l'armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri, riguardo al loro uso per designare prodotti uguali o simili, lasciando agli Stati membri la facoltà di estendere la tutela anche qualora i prodotti o servizi in questione siano diversi da quelli per i quali è stata effettuata la registrazione. L'unica condizione valevole in ambedue i casi è che, mediante l'uso illegittimo del marchio rinomato, il terzo intenda trarre un indebito vantaggio ovvero possa nuocere al carattere distintivo del marchio, o al suo prestigio ed alla sua notorietà.

35.
    Rimangono perciò escluse dall'armonizzazione voluta dalla direttiva, sia la tutela dei marchi rinomati quando i prodotti non si presentano neppure simili, sia la disciplina di determinati usi del segno distintivo per fini diversi da quello di contraddistinguere beni o servizi (art. 5, nn. 2 e 5).

36.
    I limiti negativi sono tutti definiti dal diritto comunitario, sebbene la concreta applicazione di uno di essi (il limite previsto all'art. 6, n. 2) (23) dipenda dal riconoscimento di taluni diritti da parte degli ordinamenti degli Stati membri.

37.
    Il contesto di fatto all'origine della causa principale configura un uso del segno registrato come marchio per contraddistinguere prodotti identici a quelli per cui esso è stato registrato. Di conseguenza, tale fattispecie è, in via di principio, sussumibile nell'art. 5, n. 1, lett. a), e, pertanto, ricade interamente nell'ambito della direttiva e dell'armonizzazione cui essa è volta.

38.
    Dall'analisi sistematica dei diversi paragrafi dell'art. 5, deriva una seconda conseguenza, e cioè che, conformemente ai nn. 1 e 2, il titolare del marchio non può inibire «qualsiasi uso» del segno, ma solo gli usi il cui fine è quello di contraddistinguere (24) i prodotti o i servizi che esso rappresenta dai prodotti o servizi di altre imprese (25). Altrimenti, il n. 5 non avrebbe alcuna ragion d'essere.

39.
    In altre parole, il n. 1 tutela l'esattezza delle informazioni che il segno registrato fornisce riguardo ai beni e alle prestazioni da esso contraddistinti e, di conseguenza, tutela l'identità. Il n. 2 tutela i titolari dei marchi che godono di notorietà contro l'utilizzo da parte di terzi, al margine di questa funzione di filiazione, conferendo agli Stati membri la possibilità di estendere la tutela ai casi in cui i beni o i servizi siano diversi. Ed infine, il n. 5 esclude dall'ambito della direttiva la tutela contro l'impiego di un marchio per fini diversi da quello di contraddistinguere prodotti o servizi. In sintesi, una fattispecie in cui un segno venga usato per un fine diverso da quello di contraddistinguere un prodotto o un servizio rispetto ad altri prodotti o servizi non ricade sotto l'art. 5, n. 1.

40.
    Quindi, conformemente al suddetto n. 1, il titolare del marchio registrato può opporsi all'uso da parte di un terzo, nel commercio, del marchio o di segni ad esso somiglianti per contraddistinguere gli stessi prodotti o servizi, o altri prodotti o servizi che siano affini a quelli per i quali è stata effettuata la registrazione, il che, per di piú, è coerente con la definizione di marchio di impresa fornita dall'art. 2 della direttiva (26). In altre parole, e riprendendo i termini utilizzati dalla High Court e dalle parti nel presente procedimento pregiudiziale, il titolare può opporsi all'uso da parte di un terzo del proprio marchio in quanto tale (27).

B - Interpretazione dei concetti giuridici indefiniti di «uso del marchio per contraddistinguere» ovvero «uso in quanto marchio»

41.
    Orbene, affermare che il titolare del marchio registrato può vietare ad un terzo l'uso del «marchio in quanto marchio», equivale a non dire niente. E' pertanto necessario dare un contenuto a questo concetto giuridico indefinito e, nel fare ciò, dobbiamo tenere ben presenti le funzioni proprie del marchio d'impresa (28).

42.
    In altre occasioni ed in differenti contesti (29), ho rilevato come, posto che la funzione principale del marchio d'impresa è quella di contraddistinguere prodotti e servizi provenienti da imprese diverse, allo scopo di garantire all'utilizzatore finale o al consumatore l'identità dell'origine degli uni e degli altri, tale scopo immediato e specifico dei marchi non rappresenti altro che una tappa lungo il percorso che giunge all'obiettivo ultimo, ossia garantire un regime di concorrenza reale nel mercato interno (30).

43.
    Al fine di raggiungere tale obiettivo e con una sosta obbligata nella suddetta fermata intermedia, il percorso può essere effettuato a bordo di distinti veicoli oppure servendosi di alcuni di essi contemporaneamente. Con il summenzionato costante obiettivo di contraddistinguere i prodotti e i servizi di un'impresa da quelli di altre imprese, il segno distintivo può indicare non solo la provenienza dei prodotti o servizi, ma altresí la loro qualità (31), la reputazione (32) o il prestigio di chi li produce o fornisce, essendo possibile utilizzare il marchio anche per scopi pubblicitari con l'intento di informare e persuadere il consumatore (33).

44.
    Siffatti modi di impiegare un marchio costituiscono usi che contribuiscono al raggiungimento del suddetto scopo, poiché aiutano il consumatore ad operare una distinzione tra i prodotti e servizi offerti dalle varie imprese, consentendogli di scegliere liberamente tra le molteplici opzioni disponibili e quindi agevolando la concorrenza nel mercato interno (34). In tutti questi casi il marchio viene usato «in quanto marchio», ed il titolare è quindi legittimato ad opporsi a tale uso, sempreché non si verifichi una circostanza in cui, conformemente agli artt. 6 e 7 della direttiva, il diritto del proprietario decade.

45.
    Giungo ad un risultato analogo al precedente se, mutando prospettiva, sposto l'ottica dall'uso del marchio ai diritti del titolare. Al proprietario di un marchio registrato viene riconosciuta una serie di diritti e prerogative affinché, mediante l'uso esclusivo del segno distintivo e la conseguente identificazione dei prodotti e servizi che offre, si instauri nel mercato comune un regime di concorrenza leale, non falsato, al riparo da coloro che intendono trarre vantaggio dal prestigio altrui ed approfittarne; perciò la portata di tali situazioni giuridiche privilegiate non potrà eccedere ciò che è strettamente necessario per svolgere tale compito essenziale. Ed è ovvio che non si può accordare al titolare di un determinato segno distintivo un uso esclusivo nei confronti di tutti ed in qualsiasi circostanza, ma solo nei confronti di coloro che pretendono trarre vantaggio dalla posizione o reputazione del segno (35), rendendolo oggetto di contraffazione o usandolo in modo tale da indurre i consumatori in errore circa la sua origine, nonché circa la qualità dei beni o dei servizi da esso rappresentati.

46.
    Mi sembra riduttivo e semplicistico limitare la funzione del marchio all'indicazione della provenienza imprenditoriale. Nelle sue osservazioni orali, la Commissione si è espressa sulla stessa linea. L'esperienza insegna che, nella maggior parte dei casi, l'utilizzatore ignora l'identità del produttore dei beni consumati. Il marchio acquista vita propria, esprime, come ho anticipato, la qualità, la reputazione ed anche, in certi casi, un modus vivendi.

47.
    I messaggi che il marchio suggerisce sono, inoltre, autonomi. Il segno distintivo può indicare al contempo la provenienza imprenditoriale, il prestigio del titolare e la qualità dei prodotti contrassegnati, ma nulla esclude che il consumatore, pur ignorando chi fabbrica i prodotti o presta i servizi che incorporano il marchio (36), li acquisti perché percepisce quest'ultimo come emblema di prestigio o garanzia di qualità. Se osservo il funzionamento attuale del mercato ed il comportamento del consumatore medio, non ravviso alcun motivo per cui queste altre funzioni del marchio non debbano anch'esse godere di tutela accanto alla funzione che indica l'origine imprenditoriale dei prodotti e dei servizi (37).

48.
    Ad abundantiam, e come rileva l'Autorità di vigilanza dell'Associazione europea di libero scambio, in determinate situazioni i consumatori sono maggiormente interessati al marchio in sé e per sé che non ai prodotti sui quali è apposto.

49.
    A questo punto, sono nelle condizioni di proporre alla Corte di giustizia di risolvere la prima questione posta dalla High Court nel senso che, conformemente al disposto dell'art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva, il titolare del marchio registrato può inibire l'uso da parte di un terzo di segni identici a quelli che costituiscono il marchio per designare gli stessi prodotti o servizi, quando tali segni possono indurre in errore circa l'origine, la provenienza, la qualità o il prestigio di tali prodotti o servizi (38).

50.
    Se vogliamo dirlo in forma negativa, e con parole piú vicine a quelle usate dalla High Court nel formulare la questione pregiudiziale, chi si serve di un marchio altrui può eccepire al titolare di fare un uso del marchio che non rivela la provenienza dei prodotti o dei servizi né crea confusione circa la qualità e la reputazione degli uni o degli altri.

51.
    A fronte delle tesi massimaliste sostenute dall'Arsenal e dalla Commissione - secondo le quali, in una fattispecie come quella della causa principale ed in assenza delle condizioni previste all'art. 6, n. 1, della direttiva, il titolare del marchio può vietare l'uso di quest'ultimo a tutti gli altri -, condivido l'opinione più articolata dell'Autorità di vigilanza dell'Associazione europea di libero scambio. La mia posizione poggia, quindi, sulle considerazioni esposte nei precedenti paragrafi nonché sul ragionamento che la detta parte ha esposto al punto 19 delle sue osservazioni scritte, e cioè: quando la direttiva stabilisce una tutela assoluta per i casi di identità (39), deve intendersi che, tenuto conto dell'oggetto e della finalità del diritto di marchio, il termine «assoluta» significa che il titolare è tutelato a prescindere dal rischio di confusione, poiché, in presenza delle dette situazioni, il rischio di confusione viene presunto (40), e non significa, invece, che il proprietario è tutelato nei confronti di tutti ed in tutte le circostanze.

C - Presunzione di «uso in quanto marchio»

52.
    Ho appena rilevato che nei casi di identità il rischio di confusione può essere presunto. Lo stesso motivo che giustifica tale presunzione permette di giungere alla conclusione che, nelle dette situazioni di identità, si configura da parte del terzo un uso del marchio d'impresa in quanto marchio. Siffatta presunzione iuris tantum può venire confutata mediante prova contraria. Di conseguenza, esiste la possibilità, seppure remota, che in un caso concreto l'uso di un segno identico ad un altro registrato come marchio non possa venire vietato dal titolare sulla base dell'art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva.

D - L'apprezzamento delle circostanze specifiche di ciascun caso spetta al giudice nazionale

53.
    Stabilire quando un marchio d'impresa viene usato in quanto tale da un terzo è una questione di fatto il cui accertamento spetta al giudice nazionale in funzione degli elementi di cui dispone per risolvere la causa. Vi sono casi come la lite che oppone l'Arsenal al sig. Reed, nei quali, data l'identità sia dei segni che dei prodotti o servizi controversi, vigerà una presunzione dell'uso del marchio «in quanto marchio d'impresa», laddove, in molti altri casi, non si avrà una situazione altrettanto nitida e si dovranno pertanto prendere in considerazione la natura dei beni e delle prestazioni di cui trattasi, la condizione degli eventuali destinatari di questi ultimi, la struttura del mercato e la collocazione sul mercato del titolare del marchio, un esame, insomma, che esula dalle competenze della Corte di giustizia.

54.
    Tenendo presente quanto finora esposto, propongo alla Corte di giustizia di risolvere la prima questione pregiudiziale come segue:

1)    L'art. 5, n. 1, lett. a), della direttiva dev'essere interpretato nel senso che, in base al disposto ivi contenuto, il titolare di un marchio d'impresa registrato può vietare ad un terzo l'uso di segni identici per designare gli stessi prodotti o servizi per i quali è stata effettuata la registrazione, quando tali segni possono indurre in errore circa l'origine, la provenienza, la qualità o la reputazione dei prodotti o servizi considerati.

2)    In tali casi di identità vige la presunzione iuris tantum che l'uso del marchio da parte di un terzo venga effettuato in quanto tale.

3)    Stabilire quando un terzo fa uso di un segno distintivo «in quanto marchio» è una questione di fatto il cui accertamento spetta al giudice nazionale in funzione degli elementi di cui dispone per risolvere la causa.

2. La seconda questione pregiudiziale

A - Usi estranei alla funzione propria dei marchi. Gli usi non commerciali

55.
    Considerata la portata che, a mio avviso, deve essere riconosciuta ai diritti che tutelano il titolare di un marchio registrato e, di conseguenza, stabiliti i limiti ai quali i terzi devono attenersi nel far uso del simbolo registrato o di segni simili, occorre risolvere la seconda questione posta dalla High Court, che rappresenta, oltretutto, la chiave di volta per la soluzione della lite principale.

56.
    E a questo punto imboccherò un percorso inverso rispetto a quello seguito in precedenza dove, per risolvere la prima questione pregiudiziale, ero partito dalla nozione di marchio e delle sue funzioni per poi individuare, dopo aver definito il concetto di «uso in quanto marchio», il limite entro il quale il titolare può esercitare le sue prerogative. Tenterò adesso di fornire chiarimenti sui modi di impiegare i segni che costituiscono un marchio di impresa che non hanno niente a che fare con la funzione peculiare di questa espressione della proprietà intellettuale. Delimiterò in tal modo l'ambito della questione, riducendo la zona d'ombra nella quale si trova l'incognita da risolvere.

57.
    Per cominciare, esiste un primo limite esterno all'idea di «uso in quanto marchio», che attiene alla nozione vera e propria di segno distintivo. Il titolare non può, in via di principio, opporsi all'uso da parte di terzi del simbolo o dell'indicazione registrati qualora non abbia avuto accesso alla registrazione per mancanza dei requisiti imposti per il marchio o per il verificarsi di uno degli impedimenti previsti dalla direttiva (41). Diversa è la questione se, fintanto che la registrazione non viene annullata, essa produca effetti giuridici e conferisca al titolare la copertura giuridica sufficiente per opporsi all'uso del marchio da parte di terzi.

58.
    Cosí accade nella causa C-299/99, per la quale ho presentato le conclusioni il 23 gennaio 2001 (42), dove, a mio avviso, il marchio che la Philips Electronics NV oppone nella lite principale alla Remington Consumer Products Limited non possiede i requisiti che l'ordinamento giuridico comunitario prescrive affinché un segno sia registrabile come marchio. Tale motivo è stato addotto anche nella causa promossa dall'Arsenal contro Reed, dove il convenuto ha eccepito l'invalidità dei segni registrati a favore della società di calcio per difetto del carattere distintivo. Tale eccezione è stata respinta dalla High Court.

59.
    Con riferimento ai segni che possono legittimamente aspirare ad ottenere il marchio di impresa, il titolare non ha facoltà, sulla base della direttiva, di vietare che i terzi facciano un uso del segno che non sia «nel commercio» (43), cioè un uso ai margini di qualsiasi attività commerciale consistente nel produrre o distribuire beni o servizi sul mercato.

60.
    La direttiva accorda al titolare il monopolio del segno registrato come marchio. Tuttavia tale potere di disporre in via esclusiva del marchio è, come ho in precedenza osservato, strumentale, in quanto serve al raggiungimento di un fine che lo trascende. Se il fine è quello di consentire ai consumatori di scegliere i beni ed i servizi all'interno di un mercato aperto, dove vige la libera concorrenza, gli usi che il proprietario del marchio può vietare ai terzi sono, precisamente, quelli che vengono effettuati in questo ambito e che, di conseguenza, possono incidere sul suddetto obiettivo.

61.
    Negli ultimi tempi il diritto dei marchi è stato oggetto di forti pressioni affinché il concetto dei segni adatti a costituire questa forma di proprietà industriale comprenda non solo i segni percettibili attraverso la vista (44), ma anche quelli riconoscibili mediante altri sensi, come l'udito o l'olfatto (45). Un eventuale ampliamento della varietà di segni suscettibili di ottenere il marchio deve accompagnarsi ad una puntuale delimitazione dei diritti conferiti al proprietario in conseguenza della titolarità. Sarebbe assurdo, perfino grottesco, sostenere che per il fatto che qualcuno ha registrato il colore turchese come marchio, gli artisti plastici dovranno rinunciare, in futuro, ad usare questo colore per le loro creazioni.

62.
    Quest'ultima affermazione, che - sono certo - riscuote consenso unanime, mi permette di precisare il concetto di «commercio». L'utilizzo del marchio di impresa che può essere inibito dal proprietario non è qualsiasi uso che comporti un vantaggio materiale per l'utilizzatore finale, e neppure quello che si traduca in termini economici, ma solo, come indicano con maggiore chiarezza le versioni diverse dalla spagnola, l'uso che viene effettuato nel mondo degli affari, negli scambi commerciali, avente ad oggetto, precisamente, la distribuzione di beni e servizi sul mercato. In definitiva, l'uso commerciale (46).

63.
    Altrettanto legittimo sembra essere l'uso privato del marchio BMW apposto su un portachiavi, dal quale l'utilizzatore non trae altri vantaggi materiali se non la comodità di disporre delle chiavi usate abitualmente su un unico supporto (47), alla stregua di quanto fece Andy Warhol, negli anni sessanta del secolo scorso, che riprodusse il marchio delle zuppe Campbell in numerose delle sue tele (48), attività dalla quale, evidentemente, trasse un beneficio economico (49). Un'interpretazione estremista della portata dei diritti del titolare del marchio avrebbe potuto privare l'arte contemporanea di dipinti tanto espressivi, eccezionale esempio della «pop art». Altri usi non commerciali, come quelli a scopo educativo, sono ugualmente esclusi dalla tutela conferita al titolare.

64.
    Di conseguenza, il proprietario di un marchio d'impresa non è in condizione di opporsi all'uso da parte di un terzo del simbolo o della indicazione che gli appartengono se si tratta di un segno non suscettibile di diventare marchio, o se, pur potendo il segno diventare marchio, l'uso che intendono farne i terzi non ha come obiettivo il suo sfruttamento commerciale.

B - Gli usi che esprimono adesione, fedeltà o sostegno al titolare del marchio, costituiscono, in via di principio, un uso «in quanto marchio»

65.
    Giungo cosí alla zona di penombra, all'«alone di incertezza» dove va ricercata la risposta al dubbio che la High Court nutre.

66.
    Ritengo che gli usi ai quali allude il giudice britannico con la seconda questione rappresentino modi di impiego del marchio che, come esso stesso riconosce, esprimono un rapporto tra i prodotti, il segno ed il suo titolare, ossia, tra le sciarpe che contengono il marchio controverso e l'Arsenal (50). L'interpretazione estensiva che ho proposto per risolvere la prima questione pregiudiziale giustifica questa affermazione.

67.
    La natura o la qualità di tale rapporto sono irrilevanti ai fini del diritto dei marchi. Date le funzioni proprie di questi segni distintivi e considerato lo scopo che la direttiva persegue, l'elemento decisivo non consiste tanto nel «sentimento» che possono provare nei confronti del titolare l'acquirente dei beni contrassegnati dal marchio ed il terzo che si serve di quest'ultimo, ma il fatto che il prodotto viene acquistato poiché, a prescindere da qualsiasi motivo che possa aver ispirato l'acquisto, grazie alla presenza del segno, esso viene associato al marchio, e, se del caso, al suo proprietario.

68.
    E' irrilevante stabilire se la decisione di utilizzare il marchio deriva dal fatto che l'acquirente lo percepisce come un segno di distinzione o come garanzia di qualità o, invece, scaturisce da un atto di ribellione, e rappresenta un gesto di adesione al culto del brutto. In sintesi, ai fini della soluzione della lite non rileva la questione se un appassionato del calcio acquista una maglia di una determinata squadra, contrassegnata dal relativo marchio, poiché si tratta della sua squadra del cuore e desidera indossarla oppure perché è tifoso della squadra avversaria ed ha intenzione di bruciarla. La chiave sta nel fatto che ha deciso di acquistare il detto indumento poiché questo si identifica con il marchio, e attraverso di esso con il suo titolare, cioè la squadra.

69.
    La discussione deve essere trasferita su un terreno diverso. Ammettendo che nei casi di identità il consumatore acquisti il prodotto perché incorpora il segno, l'angolazione dalla quale si deve ricavare la risposta per la High Court è quella di colui che si serve del segno senza esserne il titolare. Non occorre ricercare il motivo per cui una persona acquista un bene o fa uso di un servizio, bensí il motivo che ha condotto chi non è proprietario del marchio a immettere il prodotto sul mercato o a fornire la prestazione utilizzando lo stesso segno distintivo. Se questa persona, a prescindere dal motivo che l'ha spinta, cerca di sfruttare il marchio d'impresa a fini commerciali, starà usando quest'ultimo «in quanto marchio» ed il titolare avrà la facoltà di inibire tale uso, entro i limiti e nell'ambito dei poteri previsti dall'art. 5 della direttiva.

70.
    Va da sé che il proprietario di un marchio d'impresa può disapprovare l'uso di quest'ultimo da parte di un terzo, sempreché lo abbia registrato per usarlo in quanto tale. Se non lo utilizza a fini commerciali, non si configurerà un «uso effettivo» (51) del segno distintivo e sui diritti del proprietario penderà la «spada di Damocle» della decadenza e della nullità, nel caso in cui egli volesse opporsi alla registrazione di nuove indicazioni (52).

71.
    A seguito di tali considerazioni, e vista la situazione di fatto che si cela dietro le questioni formulate dai giudici britannici, bisogna chiedersi se, quando un club calcistico (o in generale, una società sportiva) iscrive un marchio nel registro della proprietà industriale, agisce unicamente al fine di distribuire ai propri tifosi i prodotti recanti i segni rappresentativi dell'ente, allo scopo di far ottenere alle sue formazioni un maggior sostegno da parte del pubblico nell'impresa per la conquista del traguardo sportivo, o se, invece, si tratta di un'attività imprenditoriale addizionale, che contribuisce ad accrescere il numero dei risultati.

72.
    E' evidente che la risposta non può scaturire da un'analisi del processo alle intenzioni di ciascun ente sportivo (nel caso di specie, l'Arsenal), ma ma piuttosto dall'analisi oggettiva della posizione che le società e gli enti che amministrano i grandi club calcistici occupano attualmente sul piano sociale ed economico.

C - Il calcio come fenomeno economico

73.
    Il calcio svolge un ruolo importante nel mondo contemporaneo. Dalla sua nascita, in seno all'università inglese attorno alla metà del XIX secolo, fino ai nostri giorni, questo sport ha saputo adattarsi con successo ai cambiamenti prodotti dal passaggio del tempo, fino a diventare, grazie alla diffusione delle sue manifestazioni attraverso i mezzi di telecomunicazione, in un fenomeno di massa che si pone al di sopra delle frontiere geografiche, superando le barriere culturali, religiose e sociali. La chiave del successo del calcio (e del suo mistero, per i non appassionati) consiste nell'enorme capacità di scatenare passioni (53), la cui origine si deve all'identificazione delle squadre, legate ad una determinata città o ad un determinato paese, con i loro tifosi (54).

74.
    Per decenni il calcio si è caratterizzato per la sua rilevanza sociale, rimanendo relegato ad un ruolo secondario sul piano economico. Paradossalmente, un'attività che attirava l'interesse di milioni di persone in tutto il mondo era solo in minima parte oggetto di sfruttamento commerciale e rimaneva estranea, per esempio, al modello di gestione dei grandi campionati nordamericani per professionisti (55), la cui espansione negli anni sessanta è legata alla vendita di diritti televisivi esclusivi ed al suo controllo da parte di grandi imprenditori (56).

75.
    Questo scenario ha subito un mutamento radicale all'inizio degli anni novanta, quando hanno cominciato ad apparire le reali potenzialità commerciali del calcio (57). Sulla scia del magnate australiano Rupert Murdoch, proprietario della rete SKY, che aveva ottenuto enormi guadagni dallo sfruttamento in via esclusiva dei diritti di trasmissione del campionato di calcio inglese, le principali imprese audiovisive europee hanno realizzato ingenti investimenti per riuscire ad impossessarsi dei diritti televisivi in occasione di numerose competizioni nazionali ed internazionali (58), contribuendo in modo decisivo a scatenare una delle trasformazioni piú importanti che tale sport ha attraversato fin dalla sua origine (59).

76.
    In un lasso di tempo relativamente breve, la pratica del calcio a livello professionale ha assunto le sembianze di un'industria che mobilita un volume di denaro impensabile fino a pochi anni or sono, ed allo stesso modo capace di creare migliaia di posti di lavoro nonché di dar vita ad attività economiche in settori tra loro assai diversi (60). E' difficile fornire dati esatti, tuttavia si stima che in Italia, uno dei paesi con la più alta professionalizzazione del calcio, questo sport mobilita circa 4.500 milioni di euro all'anno e rappresenta il quattordicesimo gruppo industriale del paese (61). Nel caso della Spagna, si stima che tale attività ammonti, considerate le sue espressioni dirette ed indirette, a circa euro 3 000 milioni e che occupi un centinaio di migliaia di persone (62).

77.
    In tale contesto, i club calcistici coinvolti nei maggiori campionati europei hanno operato importanti modifiche sul piano organizzativo. Salvo eccezioni, hanno abbandonato il loro carattere meramente sportivo per trasformarsi in società commerciali e sono sempre di più quelli quotati sui mercati finanziari (63). Non deve meravigliare il fatto che in pochi anni i bilanci delle squadre siano generalmente saliti alle stelle, al punto tale che alcune tra le squadre piú famose d'Europa hanno un budget che supera abbondantemente i 100 milioni di euro, ammontare paragonabile alle spese di una città spagnola di medie dimensioni (64).

78.
    Il modello di gestione piú elogiato al momento attuale è quello del Manchester United, probabilmente la società calcistica piú ricca del mondo (65). Le redini di svariate squadre tra le migliori d'Europa sono tenute da imprenditori di successo, la cui concezione del calcio rispecchia un vero e proprio cambiamento epocale. Cosí, ad esempio, Sergio Cragnotti, presidente della Lazio di Roma considera il calcio «l'attività commerciale piú importante in un sistema economico sempre piú globalizzato»; pertanto, a suo avviso, «non si deve considerare [il calcio] strettamente come sport, ma come industria dello spettacolo» (66). Una simile visione è condivisa da Florentino Pérez, presidente del Real Madrid che, riferendosi alle prospettive economiche dell'ente da lui diretto, ha parlato nei termini di una «Walt Disney inutilizzata» (67).

79.
    Dietro tale immagine si cela una realtà non altrettanto degna di lusinghe per la maggior parte delle squadre professioniste, molte delle quali accumulano ingenti debiti. Di fatto, secondo un'analisi della rivista The Economist (68), al momento attuale, caratterizzato dalla forte crescita degli stipendi dei giocatori e dei costi delle loro cessioni (69), le squadre sono travolte da una dinamica che le costringe a spendere una parte considerevole delle loro entrate, senza che si possa parlare di cattiva gestione. Tale circostanza spiega, per esempio, perché in Italia, dove il campionato di calcio attrae numerosi investimenti, la somma totale dei debiti contratti dalle società calcistiche supera attualmente euro 1 000 milioni (70).

80.
    E' vero che le fonti di finanziamento delle società sono diventate piú numerose negli ultimi anni. I tradizionali incassi derivanti dalla vendita dei biglietti nei botteghini o dalle quote dei soci sono divenute meno importanti a fronte di un'altra serie di entrate piú consistenti, quali quelle derivanti dalle ritrasmissioni televisive, la vendita di prodotti collegati alle squadre, lo sfruttamento dei diritti di immagine dei giocatori ed Internet (71). Le squadre europee ricevono denaro anche attraverso altri canali, tra i quali si evidenziano i compensi ottenuti per la partecipazione al campionato organizzato dall'Unione europea delle federazioni di calcio (UEFA), per la celebrazione di partite amichevoli o per la gestione di locali ed attrezzature (negozi, bar, sale per riunioni).

81.
    Tra le entrate che hanno acquisito sempre maggiore importanza negli ultimi anni compare, effettivamente, la vendita di prodotti legati alla squadra, attività comunemente nota come «merchandising» (72). Questa attività commerciale, finalizzata alla vendita, diretta o mediante imprese licenziatarie, di sciarpe, bandierine, indumenti o altri articoli che rappresentano la squadra, ha dimostrato di essere una tra le piú redditizie (73), tanto da avere assunto un ruolo prioritario per gli amministratori delle società (74). A parere del direttore responsabile del marketing per il Real Madrid, tra i motivi che spiegano il successo del «merchandising» ce n'è uno semplice: «la fedeltà nei confronti delle squadre di calcio è molto forte. Il rapporto che lega un tifoso alla sua squadra è caratterizzato da un grado di fedeltà talmente alto da rappresentare un sogno per i marchi di un qualsiasi altro settore, che sono sempre molto piú sensibili alle oscillazioni del mercato» (75).

82.
    Le previsioni di crescita legate al merchandising sono notoriamente in rialzo. La diffusione del calcio per mezzo della televisione e di Internet consente alle squadre europee di aprire il loro mercato ad altri continenti, in particolare, in Asia, dove la passione per questo sport è notevolmente aumentata negli ultimi anni, grazie anche alla celebrazione in Giappone e Corea delle partite di Coppa del Mondo 2002, che vengono giocate dalle formazioni nazionali (76). Alcune società calcistiche europee hanno deciso di aprire punti vendita in alcune città del continente asiatico per vendere direttamente i loro articoli (77).

83.
    Il successo del «merchandising» ha fatto uscire allo scoperto le immense potenzialità del calcio inteso come attività commerciale, il che spiega perché la quotazione dei giocatori, veri protagonisti dello spettacolo, dipende non soltanto dal loro rendimento sul terreno di gioco, ma altresí dai profitti che la squadra può ottenere dalla loro immagine, attraverso la pubblicità o la vendita di articoli associati al personaggio sportivo. Le importanti cessioni di calciatori realizzate negli ultimi anni avallano questa affermazione, come ad esempio l'acquisto del calciatore giapponese Nakata da parte del Parma (78) e, in particolar modo, quello del francese Zinedine Zidane da parte del Real Madrid, l'ingaggio storicamente piú alto, che si aggira attorno ai 70 milioni di euro, gran parte dei quali si spera vengano recuperati attraverso la vendita di maglie (79).

84.
    Le grandi squadre come l'Arsenal, che ha vinto recentemente il campionato inglese, non sono semplici associazioni sportive dedite alla pratica del calcio, ma veri e propri «empori» che, all'insegna della pratica del calcio a livello professionale, sviluppano attività economiche di prim'ordine. Quando registrano un segno allo scopo di immettere sul mercato, direttamente o attraverso un licenziatario, determinati beni e servizi contrassegnati dal marchio, fanno un uso effettivo della loro proprietà intellettuale e possono vietare ai terzi di utilizzare la stessa indicazione allo scopo di sfruttarla commercialmente ed ottenerne un vantaggio economico, ricorrendo a tutti i mezzi a tal fine predisposti dall'ordinamento giuridico, inclusi quelli piú drastici (80).

85.
    In definitiva, ed in risposta alla seconda questione sollevata dalla High Court, ritengo che l'uso da parte di terzi che il titolare può inibire ai terzi sia quello finalizzato allo sfruttamento commerciale del marchio, concetto che contempla l'uso dei segni distintivi registrati come marchi dalle società proprietarie delle squadre di calcio per la vendita di indumenti ed oggetti legati alla formazione sportiva.

86.
    Sono irrilevanti, al riguardo, i motivi che spingono il consumatore ad operare una determinata scelta. L'elemento decisivo è rappresentato dal fatto che il destinatario acquista certi prodotti o li consuma in quanto contengono il segno distintivo.

87.
    Le precedenti asserzioni, al pari delle soluzioni che suggerisco a proposito della prima questione pregiudiziale, non seguono fedelmente il copione che viene proposto nelle questioni formulate dalla High Court, tuttavia, fornendo un' interpretazione della direttiva, possono porgere al giudice nazionale una soluzione utile ed adeguata ai fini della decisione della causa principale (81).

V - Conclusione

88.
    Alla luce delle considerazioni che precedono, ed al fine di risolvere le questioni pregiudiziali poste dalla High Court, propongo alla Corte di giustizia di dichiarare quanto segue:

«1)    L'art. 5, n. 1, lett. a) della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa, deve essere interpretato nel senso che, sulla base del disposto ivi contenuto, il titolare di un marchio registrato può vietare ai terzi l'uso di segni identici per prodotti o servizi uguali a quelli per i quali è stata effettuata la registrazione, quando tali segni possono indurre in errore circa l'origine, la provenienza, la qualità o la reputazione dei detti prodotti o servizi.

2)    Stabilire quando un terzo fa uso di un marchio d'impresa “in quanto marchio” è una questione di fatto il cui accertamento spetta al giudice nazionale in funzione degli elementi di cui dispone per risolvere la causa. Ciononostante, nei casi di identità sia dei segni che dei prodotti o servizi vige una presunzione iuris tantum che il terzo usi il marchio in quanto tale.

3)    L'uso che il titolare può vietare ai terzi è quello finalizzato allo sfruttamento commerciale del marchio, concetto che contempla l'utilizzo di segni distintivi registrati come marchi dalle società proprietarie delle squadre di calcio per la vendita di indumenti ed oggetti legati alla formazione sportiva.

4)    Sono irrilevanti, al riguardo, i motivi che inducono un consumatore a scegliere determinati prodotti o servizi. L'elemento decisivo consiste nel fatto che il destinatario li acquista o utilizza poiché contengono il segno distintivo».


1: -     Lingua originale: lo spagnolo.


2: -     Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d'impresa (GU L 40, pag. 1).


3: -     V. paragrafo 3 delle conclusioni che ho presentato il 6 novembre 2001 nella causa C-273/00, Sieckmann, non ancora decisa con sentenza. V., in proposito, il primo, terzo, quarto e quinto ‘considerando’ della prima direttiva.


4: -     Un'analisi del contenuto dell'art. 5 della direttiva è presente nella sentenza 23 febbraio 1999, causa C-63/97, BMW (Racc. pag. I-905, punti 27 e segg.). Io stesso ho avuto modo di analizzare tale precetto nelle conclusioni che ho presentato il 21 marzo 2002 nella causa C-23/01, Robelco, non ancora decisa con sentenza (paragrafi 24 e segg.).


5: -     V. decimo ‘considerando’ della direttiva. Piú avanti preciserò che cosa, a mio avviso, deve intendersi per «tutela assoluta».


6: -     Esiste un completo parallelismo tra l'art. 5, n. 1, e l'art. 4, n. 1 che contempla gli impedimenti alla registrazione o i motivi di nullità. Si ricordi che, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia, il concetto di rischio di associazione, presente negli artt. 4, n. 1, lett. b), e 5, n. 1, lett. b), della direttiva, non è alternativo al concetto di rischio di confusione, ma al contrario, serve a precisarne la portata (v., per ambedue i casi, sentenza 22 giugno 2000, causa C-425/98, Marchio Mode, Racc. pag. I-4861, punto 34).


7: -     V. art. 1.


8: -     V. art. 2 della direttiva.


9: -     Sia nel caso in cui i prodotti o servizi siano identici a quelli per i quali è stata effettuata la registrazione, sia nel caso in cui non vi sia identità bensí somiglianza.


10: -     E' il caso di specie, in cui il sig. Reed vende oggetti recanti segni registrati dall'Arsenal come marchi.


11: -    L'avvocato generale Jacobs, nelle conclusioni presentate il 17 gennaio 2002 nella causa C-291/00, LTJ Diffusion - non ancora decisa con sentenza -, sostiene che l'identità sussiste quando il marchio è riprodotto in forma identica, senza aggiunte, omissioni o modifiche, tranne che siano minuscole o insignificanti. Egli aggiunge che, in quest'ultima ipotesi, il giudice nazionale deve stabilire, in primo luogo, quale percezione dei segni contrapposti abbia il consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e perspicace; in seguito, il giudice dovrà procedere ad una valutazione globale delle caratteristiche grafiche e fonetiche dei segni, nonché delle degli altri elementi sensibili o concettuali, e dovrà prendere in considerazione l'impressione complessiva che essi producono, in particolare, in base ai loro elementi distintivi e dominanti.


12: -     Riguardo alla valutazione globale del segno, v. sentenze 11 novembre 1997, causa C-251/95, Sabel (Racc. pag. I-6191, punti 22 e 23), e 22 giugno 1999, causa C-342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer (Racc. pag. I-3819, punti 18 e 19).


13: -     V. il terzo ed il quarto ‘considerando’, nonché l'art. 1 della direttiva.


14: -     Come risulta dal settimo ‘considerando’.


15: -     Nel nono ‘considerando’ della direttiva si legge che «è fondamentale, per agevolare la libera circolazione dei prodotti e la libera prestazione dei servizi, procurare che i marchi di impresa registrati abbiano ormai negli ordinamenti giuridici di tutti gli Stati membri, la medesima tutela: che ciò non priva tuttavia gli Stati membri della facoltà di tutelare maggiormente i marchi di impresa che abbiano acquisito una notorietà».


16: -     V. le conclusioni che l'avvocato generale Jacobs ha presentato il 21 marzo 2002 nella causa C-292/00, Davidoff (in particolare, al paragrafo 46), non ancora decisa con sentenza.


17: -     «La presente direttiva non esclude che siano applicate ai marchi d'impresa norme del diritto degli Stati membri diverse dalle norme del diritto dei marchi di impresa, come le disposizioni sulla concorrenza sleale, la responsabilità civile o la tutela dei consumatori».


18: -     V. paragrafo 27 delle conclusioni che ho presentato nella causa Robelco, citata alla nota 4.


19: -     Con riferimento all'art. 5, n. 2, della direttiva, questa è l'interpretazione data dall'avvocato Jacobs nelle conclusioni sulla causa Davidoff, citate (in particolare, paragrafo 66).


20: -     V. sentenza BMW, citata, punto 62.


21: -     Tuttavia, nelle conclusioni sulla causa Davidoff, citate supra, l'avvocato generale Jacobs sostiene che i marchi rinomati godono nell'ordinamento comunitario della stessa tutela accordata agli altri marchi. A suo avviso, questa categoria di segni distintivi può godere della tutela supplementare e facoltativa prevista dall'art. 5, n. 2, della direttiva, solo quando i prodotti o i servizi controversi non sono simili. Se, viceversa, lo sono, i giudici nazionali, in considerazione della giurisprudenza della Corte di giustizia sulla tutela dei marchi che possiedono un carattere distintivo particolare, devono appurare se esista un rischio di confusione ai sensi degli artt. 4, nn. 1 e 5, n. 1, della direttiva (paragrafo 68). A dispetto delle sue conclusioni molto bene argomentate, il mio collega non può evitare di riconoscere che «potrebbe sussistere un'area in cui un marchio che gode di notorietà non è tutelato contro l'uso di marchi o di segni identici o simili» (paragrafo 51), sebbene nella riga successiva precisi che «in pratica (tale area) può essere quasi insignificante», e che la giurisprudenza della Corte di giustizia sui marchi con forte carattere distintivo ne limita ancora di piú l'ambito. Quando esiste un criterio di interpretazione alternativo, non si può mantenere il criterio che conduce ad un risultato palesemente irrazionale, con il pretesto della sua irrilevanza nella pratica e della sua eventuale modulazione per via giurisprudenziale. Inoltre, credo che la tesi di Jacobs muova da una premessa errata. Quanto piú forte è il carattere distintivo di un segno, minore sarà il rischio di confusione. L'uso della denominazione «Coco-Colo» per designare delle bevande, e la commercializzazione dei relativi prodotti, non creeranno alcun rischio di confusione con le bibite distribuite dalla «Coca-Cola», data la forza distintiva, la solidità e la notorietà di questo marchio. Seguendo la tesi del rischio di confusione, è possibile che i marchi rinomati rimangano privi di tutela contro coloro che fanno uso di denominazioni simili per designare prodotti uguali o somiglianti.


22: -     Questa interpretazione è implicitamente riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che, al punto 20 della citata sentenza Sabel, ha affermato che l'art. 5, n. 5, consente al «titolare di un marchio che goda di notorietà di inibire l'uso senza giusti motivi di contrassegni identici o simili al proprio marchio, senza necessità che risulti accertato un rischio di confusione, anche quando i prodotti di cui trattasi non siano simili».


23: -     «Il diritto conferito dal marchio di impresa non permette al titolare dello stesso di vietare ai terzi l'uso nel commercio di un diritto anteriore di portata locale, se tale diritto è riconosciuto dalle leggi dello Stato membro interessato e nel limite del territorio in cui esso è riconosciuto».


24: -     Nel corso della trattazione analizzerò la portata del termine «contraddistinguere», contenuto nell'art. 5, n. 5, della direttiva.


25: -     L'art. 5, n. 3, fa menzione, a titolo meramente enunciativo, di alcuni usi del marchio di impresa che il titolare può vietare ai terzi:

    «Si può in particolare vietare, se le condizioni menzionate ai paragrafi 1 e 2 sono soddisfatte:

    a) di apporre il segno sui prodotti o sul loro condizionamento;

    b) di offrire i prodotti, di immetterli in commercio o di detenerli a tali fini, oppure di offrire o fornire servizi contraddistinti dal segno;

    c) di importare o esportare servizi contraddistinti dal segno;

    d) di utilizzare il segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità.

    (...)».


26: -     In tal senso si è espresso l'avvocato generale Jacobs nelle conclusioni che ha presentato il 20 settembre 2001 nella causa C-2/00, Hölterhoff, decisa con sentenza 14 maggio 2002 (Racc. pag. I-0000). V., in particolare, paragrafo 37 delle conclusioni.     


27: -     Tale orientamento è stato d'altronde adottato dalla Corte di giustizia la quale, nel punto 38 della citata sentenza BMW, ha affermato che «la sfera di applicazione dell'art. 5, nn. 1 e 2, della direttiva, da un lato, e dell'art. 5, n. 5, dall'altro, dipendono dalla questione se l'uso del marchio serva a contraddistinguere i prodotti o servizi di cui trattasi nel senso che provengono da un'impresa determinata, vale a dire in quanto marchio, o se l'uso persegua altri scopi».


28: -     Nella citata sentenza Hölterhoff, la Corte di giustizia ha rinunciato a definire il concetto di uso ai sensi dell'art. 5, n. 1, lett. a) e lett. b), della direttiva (v., in particolare, punto 17).


29: -     V. paragrafi 35 e segg. delle conclusioni che ho presentato nella causa decisa con sentenza 4 ottobre 2001, C-517/99, Merz and Krell (Racc. pag.I-6959); v., altresí, i paragrafi 16 e segg. delle conclusioni da me presentate nella causa Sieckmann, citata.


30: -     Nelle conclusioni sul caso Sieckmann ho indicato che, paradossalmente, per assicurare la libera concorrenza sul mercato si configura un diritto che costituisce un'eccezione al principio generale della concorrenza, in quanto attribuisce al suo titolare la facoltà di appropriarsi in via esclusiva di determinati segni e indicazioni (v. nota 12 delle dette conclusioni).


31: -     La funzione del marchio di impresa come espressione di qualità non è estranea all'ordinamento comunitario. L'art. 22, n. 2, del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU L 11, 1994, pag. 1) consente al titolare di far valere i diritti che gli derivano dalla proprietà del segno distintivo registrato nei confronti del licenziatario che trasgredisca le clausole del contratto di licenza relative alla qualità dei prodotti fabbricati o dei servizi prestati.


32: -     La Corte di giustizia ha espressamente riconosciuto la funzione del marchio relativa alla reputazione del prodotto o servizio nel contesto dell'esaurimento degli effetti dei diritti conferiti da un marchio (sentenze 11 luglio 1996, cause riunite C-427/93, C-429/93 e C-436/93, Bristol-Myers Squibb e a. (Racc. pag. I-3457), e 4 novembre 1997, causa C-337/95, Parfums Christian Dior (Racc. pag. I-6013).


33: -     L'affermazione secondo cui il marchio non serve solo ad indicare l'origine imprenditoriale dei prodotti o servizi da esso designati è presente da anni nella giurisprudenza della Corte di giustizia, dove si rileva che, attraverso l'identità dell'origine, si intende tutelare la posizione e la notorietà del titolare, nonché la qualità delle sue opere (v. sentenza 17 ottobre 1990, causa C-10/89, HAG GF, Racc. pag. I-3711, punto 14, e le sentenze in essa citate).


34: -     V. le conclusioni che ho presentato nella causa Sieckmann, paragrafo 17.


35: -     V. paragrafi 31, 32, 42 e 43 delle conclusioni che ho presentato nella causa decisa con la citata sentenza Merz e Krell.


36: -     Nei casi in cui il titolare conceda una licenza a terzi per produrre i beni designati dal marchio, l'indicazione dell'origine perde rilevanza e passa in secondo piano, finanche ad uscire di scena.


37: -     Siffatta interpretazione si sta facendo largo negli ordinamenti degli Stati membri. Cosí nel diritto tedesco, il titolare può vietare ad un terzo l'uso del proprio marchio con «carattere distintivo», nozione che viene interpretata estensivamente. In tale paese, la dottrina, tenendo conto delle funzioni del marchio, sostiene che il proprietario può vietare, salvo aver dato il consenso, l'uso del proprio segno distintivo nell'ambito di un'attività economica (Fezer, Markenrecht, 3a ed. 2001; § 14, allegati 31 e 34). La dottrina austriaca si mostra sulla stessa linea e, con maggior precisione, segnala che si configura una contraffazione del marchio quando questo viene usato, per esempio, nel merchandising (Schanda, Markenschuttzgesetz - Praxiskommentar, 1999, 9 61, e Character- und Personality-Merchandising, ÖBI 1998, pag. 323; Ciresa, Die «Spanische Reitschule»- höchsgerichtlicher Todessto für das Merchandising?, RdW 1996, pagg. 193 e segg).

    La condizione dell'uso con «carattere distintivo» o dell'«uso in quanto marchio» è presente anche in ordinamenti quali il finlandese, l'irlandese, lo svedese e lo spagnolo, nonché nella giurisprudenza della Corte di giustizia del Benelux. Pertanto, secondo tali ordinamenti giuridici, la soluzione del dubbio oggetto della questione pregiudiziale in esame dipenderà dall'interpretazione che si vorrà dare ai detti concetti e, pertanto, da quale nozione delle funzioni proprie dei marchi si vorrà prendere in considerazione. Ordinamenti come il francese o quello greco consentono al proprietario di un marchio di opporsi, salvo aver dato proprio consenso, a qualsiasi uso del marchio da parte di terzi, di guisa che ogni forma di impiego del marchio stesso per designare prodotti e servizi identici configura una violazione dei diritti di proprietà industriale. La giurisprudenza e la dottrina elleniche (N. Rokas, Changements fonctionels du droit de marque, EåìðÄ, 1997, pagg. 445 e segg.) abbracciano una nozione estensiva delle funzioni del marchio ed accanto all'indicazione dell'origine dei prodotti collocano la funzione pubblicitaria.

    Lo stesso orientamento è seguito dal diritto portoghese, secondo la cui lettera le norme di diritto positivo non impongono un uso con carattere distintivo affinché il titolare del marchio possa far valere il proprio diritto esclusivo nei confronti di terzi. Una concezione ugualmente ampia è condivisa anche dalla dottrina (A. Côrte-Real Cruz, «O contúdo e extensâo do direito à marca: a marca de grande prestigio», in Direito Industrial, Vol. I, ADPI - Associaçâo Portuguesa de Direito Industrial, Almedina, Coimbra 2001, 2001, pagg. 79-117, in particolare, a pag. 88 ed a pag. 94, e segg.). La giurisprudenza del Regno Unito, sebbene non unanime, segue, su questo punto un'interpretazione estensiva. Viceversa, la dottrina è su posizioni piú restrittive.

    Infine, la giurisprudenza italiana si è trovata ad affrontare una causa la cui fattispecie è del tutto simile a quella che riguarda l'Arsenal. Si trattava in quel caso dell'uso del marchio «Milan A.C.» da parte di una società, per fotografie di calciatori che indossavano la maglia di questa squadra sportiva. Il tribunale milanese investito della controversia ha ritenuto abusivo tale uso, nei limiti in cui il marchio non era necessario affinché nella mente dell'acquirente si creasse un legame tra i giocatori fotografati ed il Milan A.C. (Report Q168 in the name of the Italian Group «Use of a mark “as a mark” as a legal requirement in respect of the acquisition, maintenance and infringement of rights» disponibile sul sito www.aippi.org).


38: -    A mio avviso, è riscontrabile un'asimmetria nella giurisprudenza della Corte di giustizia riguardo alle funzioni dei marchi. Quando si è trattato di definire il concetto di rischio di confusione, la Corte ha posto l'accento sulla funzione di questa espressione della proprietà industriale che consiste nel rivelare l'origine imprenditoriale dei prodotti o dei servizi rappresentati dal marchio [v. sentenze citate Sabel e Marchio Mode; v., inoltre, sentenza 29 settembre 1998, causa C-39/97, Canon (Racc. pag. I-5507)]. Invece, quando la Corte si è pronunciata in un contesto diverso, a proposito dell'esaurimento dei diritti conferiti dal marchio, essa ha adottato un orientamento più estensivo ed ha tenuto presente il detto fine ultimo, che consiste nell'instaurazione di un regime non falsato di concorrenza nel mercato interno, il che implica necessariamente la tutela del titolare del marchio e della qualità dei suoi prodotti contro coloro che intendano servirsi abusivamente della sua posizione e della notorietà del segno distintivo; tale intento, come risulta chiaramente, va oltre l'idea, piú ristretta, del rischio di confusione circa l'origine dei prodotti [v. sentenza 23 maggio 1978, causa 102/77, Hoffmann-La Roche (Racc. pag. 1139) e le sentenze Hag GF e Parfums Christian Dior, citate]. In ambedue le situazioni il marchio assolve le stesse funzioni ed anche la posizione giuridica del titolare deve essere la stessa.


39: -     Decimo ‘considerando’.


40: -     L'avvocato generale Jacobs, nelle conclusioni presentate nella citata causa LTJ Diffusion, espone che nei casi di identità, il rischio di confusione può ritenersi presunto (v. paragrafi 35 e segg.). Nell'art. 16, n. 1, dell'Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio, allegato all'Accordo che istituisce l'Organizzazione mondiale del commercio, siglato a Marrakech il 15 aprile 1994 (GU 1994, L 336, pagg. 214-223), si legge che quando un terzo fa uso di un'indicazione identica a quella registrata dal titolare come marchio, per beni o servizi identici, si presume che vi sia un rischio di confusione.


41: -     V. artt. 2, 3 e 4.


42: -     Al momento in cui scrivo la Corte di giustizia non si è ancora pronunciata.


43: -     Espressione utilizzata dall'art. 5, n. 1. La versione tedesca della direttiva usa l'espressione geschäftlichen Verkehr, nella francese si legge vie des affaires, l'inglese utilizza course of trade, l'italiana indica nel commercio ed infine, la versione portoghese parla di vida commercial.


44: -     Inclusi i meri colori privi di raffigurazione, che rappresentano già una realtà presso alcuni registri nazionali della proprietà industriale e presso L'Ufficio per l'armonizzazione nel mercato interno. Quest'ultimo ha registrato il colore lilla per contraddistinguere cioccolato, caramelle ed altri prodotti dolciari (marchio comunitario n. 31336). In Francia, il Conseil d'État ha riconosciuto il colore rouge congo per designare prodotti petroliferi (sentenza 8 febbraio 1974, JCP 1974, III, 17.720). L'Ufficio marchi e brevetti del Regno Unito ha ammesso, con effetto a partire dal 1994, la registrazione del colore rosa per rappresentare una fibra di vetro isolante (marchio n. 2004215). Questo marchio è stato in seguito registrato presso gli uffici competenti del Benelux (marchio n. 575855) e del Portogallo (marchio n. 310894). La Corte di giustizia ha dinanzi a sé la causa C-104/01, nella quale lo Hoge Raad dei Paesi Bassi chiede in che misura la direttiva consente di registrare come marchio un semplice colore, in quanto tale.


45: -     V., in proposito, le conclusioni che ho presentato nella causa Sieckmann. E' in corso il procedimento pregiudiziale C-283/01, Shield Mark, nel quale la Corte di giustizia dovrà decidere se i rumori o i suoni possano costituire un marchio d'impresa.


46: -     Negli atti del congresso ALAI 2001, organizzato dalla «Columbia Law School» su Tema II. Las relaciones entre el derecho de autor, el derecho de marcas y la competencia desleal. Sección II. Anàlisis jurídico y debate sobre la relación entre las excepciones al derecho de autor y al derecho de marcas: ¿ El derecho de marcas prohíbe, o debería prohibir, los actos amparados por las excepciones al derecho de autor? [Tema II. La relazione tra diritto d'autore, diritto dei marchi e concorrenza sleale. Sezione II. Analisi giuridica e discussione sul rapporto tra le deroghe al diritto d'autore e ai diritti dei marchi: Il diritto dei marchi vieta, o dovrebbe vietare, le azioni che ricadono nelle deroghe al diritto d'autore?], si indica che, perché l'uso costituisca una violazione del diritto di marchio, deve trattarsi di un impiego il cui obiettivo consiste nell'indicare l'origine commerciale dei beni o dei servizi considerati (A. Kur).


47: -     Nel citato rapporto a cura di A. Kur, si legge che, a differenza di quanto accade nel contesto del diritto d'autore, la copia privata non suscita problemi nell'ambito del diritto dei marchi.


48: -     Per esempio, «200 lattine di zuppa Campbell», 1962 olio su tela, cm. 188x254, New York, collezione privata.


49: -     Oserei persino affermare che è stato proficuo per la famosa zuppa l'uso da parte di Warhol del suo segno distintivo.


50: -     Per quanto il sig. Reed dichiari che i prodotti in vendita non provengono dall'Arsenal e che la loro vendita non è autorizzata da questo ente, egli li pone in commercio (ed i suoi clienti li acquistano) precisamente perché contengono quegli stessi segni che, registrati, identificano la società calcistica.


51: -     Sul concetto di «uso effettivo» dei marchi avrò modo di pronunciarmi tra breve, in occasione della presentazione delle conclusioni nella causa C-40/01, Ansul B.V.


52: -     V. gli artt. 10 e 11 della direttiva.


53: -     Bill Shankly, che è stato il mitico allenatore del Liverpool negli anni '60 e '70 del secolo scorso, esprimeva tale concetto con queste parole: «Il calcio non è una questione di vita o di morte. E' qualcosa di molto più importante» (Football isn't a matter of life and death. It's far more important than that).


54: -     Come osserva G. Bueno, filosofo e docente emerito dell'Università di Oviedo, il calcio è uno sport che riesce, mediante la televisione, a mobilitare città intere che si identificano con le loro squadre. A suo giudizio, mai potrebbe essere altrettanto rilevante, per esempio, una partita tra due sindacati operai (v. l'intervista pubblicata sul quotidiano La Nueva España del 13 febbraio 2002).


55: -     Di football americano, di baseball e di pallacanestro.


56: -     V. l'articolo di S. Segurola dal titolo «Al borde de la hipertrofia», pubblicato nell'edizione del quotidiano spagnolo El País del 16 luglio 2000.


57: -     In proposito, l'ordinanza di rinvio è particolarmente eloquente riguardo all'Arsenal Football Club.


58: -     Si deve tener presente che per le piattaforme digitali e le emittenti televisive via cavo, il calcio ha costituito il principale richiamo per gli abbonati. D'altronde, le nuove tecnologie hanno reso possibile una diversificazione delle modalità di pagamento, concedendo a ciascuno spettatore, in cambio del pagamento di un canone, la facoltà di scegliere quali partite vedere.


59: -     L'articolo di S. Segurola, «El fútbol rompe con su pasado», si può consultare sul sito www.elpais.es/especiales/2001/liga-00-01/liga01.htm. L'autore descrive l'avvento di una nuova era per il calcio, in cui le attività commerciali hanno il sopravvento.


60: -     Specialmente nell'industria alberghiera, nel commercio, nel settore dei trasporti, come in quello dei mezzi di telecomunicazione.


61: -     Informazione apparsa l'8 gennaio 2001 sul sito www.hot.it/canali/finanza/strumenti/borsacalcio.


62: -     Articolo sul calcio intitolato «Un Negocio de Primera Division», pubblicato sul quotidiano spagnolo El Mundo, edizione del 21 marzo 1999.


63: -     Inghilterra ed Italia sono i paesi che contano il maggior numero di squadre presenti in borsa. Sono quotate, ad esempio, il Manchester United F.C., il Chelsea F.C., il Leeds F.C., la SS. S. Lazio, la A.S. Roma e la Juventus F.C.


64: -     In base ad uno studio della società di revisione Deloitte & Touch, nel corso della stagione 1998-99 il Manchester United ha registrato il maggior numero di entrate, essendo riuscito ad incassare piú di 100 milioni sterline all'anno. Subito dopo si sono piazzati il Bayern Monaco ed il Real Madrid, che hanno incassato quasi 80 milioni ciascuno. L'Arsenal occupava la decima posizione, con 50 milioni di sterline (v. l'informazione apparsa sull'edizione di The Economist dell'8 febbraio 2001, dal titolo «It's a funny old game»).


65: -     In base ai dati forniti dal quotidiano spagnolo El Mundo, edizione dell'8 febbraio 2002, il gruppo inglese è valutato intorno a euro 1 600 milioni. Negli ultimi tre anni, il Manchester ha fatturato una media di 120 milioni di sterline a stagione, ottenendo quasi 20 milioni di sterline al lordo d'imposta (dati ottenuti l'11 marzo 2001 dal sito www.soccerbusinessonline.com). Sul piano sportivo, la squadra che ha ottenuto il miglior riconoscimento è il Real Madrid, cui la FIFA ha assegnato il titolo di «miglior club calcistico del XX secolo».


66: -     Informazione ottenuta attraverso il sito www.soccerage.com, che citava un'intervista apparsa sul quotidiano italiano «La Repubblica» del 17 luglio 2000.


67: -     V. l'articolo di V. Verdú, dal titolo «El fútbol de ficción», apparso sul quotidiano El País del 15 luglio 2001.


68: -     «Football and prune juice», pubblicato sul numero dell'8 febbraio 2001.


69: -     Secondo uno studio della società Deloitte & Touche, citata dalla rivista The Economist nel servizio cui mi sono riferito nella nota precedente, mentre le entrate delle società sono aumentate del 177% tra le stagioni 1993-94 e 1998-99, gli stipendi dei giocatori sono saliti del 266%.


70: -     Dati apparsi il 20 marzo 2002 sul sito www.futvol.com.


71: -     I club piú popolari in Europa ricevono ogni giorno milioni di visite sulle loro pagine web, mediante le quali incassano somme considerevoli in termini di pubblicità o di vendite on-line.


72: -     Grazie al successo di questa attività, le squadre sono inclini a promuovere i rivenditori ufficiali all'interno dei centri commerciali a scapito delle bancarelle poste nei dintorni degli stadi, molte delle quali, come nel caso del sig. Reed, sono gestite da privati, senza che vi sia alcun vincolo con gli enti proprietari delle squadre.


73: -     In base ai dati forniti dalla rivista The EconomistIt's a funny old game», dell'8 febbraio 2001), il «merchandising» e gli sponsor procurano al Manchester il 26% delle entrate. Per quanto riguarda il Real Madrid, questa attività rappresenta approssimativamente la quinta parte delle entrate della società e si prevede che cresca in futuro (v. il budget del 2001, consultabile su www.realmadrid.com).


74: -     Prova ne è l'accordo siglato il 7 febbraio 2001 tra il Manchester United e la squadra di baseball New York Yankees, in virtú del quale ambedue le società potranno vendere i loro rispettivi marchi presso i rivenditori autorizzati esclusivi delle squadre e condurre congiuntamente le trattative sui diritti con gli sponsor e con le società televisive.


75: -     J.A. Sànchez Periéñez, direttore responsabile del marketing del Real Madrid, intervista apparsa su El País settimanale, edizione del 3 marzo 2002.


76: -     Per questo motivo alcuni websites di società calcistiche europee rendono disponibile una versione in lingua giapponese.


77: -     Il Manchester United ha aperto negozi a Singapore, Bangkok, Kuala Lumpur e Hong Kong (v. The Economist, «It's A funny old game», dell'8 febbraio 2001).


78: -     Ai fini della quotazione di questo calciatore si è tenuto indubbiamente conto del fatto che si tratta del giocatore giapponese che ha ottenuto i migliori risultati in Europa.


79: -     Si prevede di vendere nell'arco dell'attuale stagione sportiva 500 000 maglie in tutto il mondo. In totale, l'incasso dovrebbe raggiungere i 36 milioni di euro, la metà dei quali, circa, spetterebbe alla società.


80: -    Sulle pagine sportive dell'edizione del 25 aprile di quest'anno del quotidiano madrileno El País è apparso un trafiletto dove si riportava che agenti della Guardia Civil avevano arrestato a Valencia quattro persone con l'accusa di aver distribuito illegalmente quattordicimila articoli recanti il logotipo del Real Madrid, per un valore di mercato superiore a euro 336 000. Durante lo svolgimento dei mondiali di calcio del 1998 le autorità francesi hanno avviato 41 procedimenti per uso non autorizzato di marchi commerciali. Nel rapporto sugli interventi delle autorità doganali in materia di contraffazione di marchi, elaborato dalla Direzione generale delle dogane e delle imposte indirette del Ministero francese delle Finanze per gli anni 1994-1998, si registra un notevole aumento della contraffazione di marchi relativi ad articoli associati dal pubblico alla pratica di sport. Nel bilancio effettuato dalla stessa autorità, relativamente all'anno 2001, si riporta l'incameramento di 810 000 articoli commemorativi della Coppa del Mondo di calcio del 2002 (questi ultimi due documenti sono accessibili alla consultazione sul sito Internet della Direzione delle finanze www.finances.gouv.fr/douanes/actu/rapport). Sul sito www.sport.fr compare un'informazione, datata 25 aprile 2002, nella quale si annuncia la massiccia immissione sul mercato di imitazioni delle maglie delle squadre nazionali che partecipano ai Mondiali di Corea e Giappone, e si rende noto che sono già in commercio marchi contraffatti di squadre quali Manchester United, Real Madrid o Juventus di Torino.


81: -     Nelle conclusioni che ho presentato il 5 aprile 2001 nella causa C-55/00, Gottardo, decisa con sentenza 15 gennaio 2002 (Racc. pag. I-415), ho avuto occasione di affermare che «la funzione ermeneutica affidata alla Corte di giustizia dall'art. 234 CE, volta a garantire un'applicazione uniforme del diritto comunitario negli Stati membri, non può limitarsi a fornire risposte alle questioni, rispettando rigidamente i termini in cui sono state formulate, bensí prevede che la Corte, nella sua veste di interprete qualificato del diritto comunitario, debba analizzare il problema con maggiore lungimiranza e maggiore flessibilità per dare una risposta utile al giudice nazionale che la richiede ed agli altri giudici dell'Unione europea, alla luce delle norme comunitarie in vigore. Altrimenti, il dialogo tra organi giurisdizionali instaurato dall'art. 234 CE potrebbe rimanere eccessivamente limitato nelle mani del giudice che propone la questione, al punto da determinare, a seconda della formulazione data, la soluzione pregiudiziale» (paragrafo 36, secondo capoverso).