Language of document : ECLI:EU:C:2009:429

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

YVES BOT

presentate il 7 luglio 2009 1(1)

Causa C‑555/07

Seda Kücükdeveci

contro

Swedex GmbH & Co. KG

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Landesarbeitsgericht Düsseldorf (Germania)]

«Direttiva 2000/78/CE – Principio di non discriminazione fondata sull’età – Normativa nazionale relativa al licenziamento che prevede di non tenere conto del periodo di servizio svolto in azienda prima del compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore per il calcolo della durata del preavviso – Normativa nazionale incompatibile con l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 – Ruolo e poteri del giudice nazionale – Principi generali del diritto – Invocabilità di esclusione di una direttiva in una controversia tra singoli»





1.        Il presente rinvio pregiudiziale invita nuovamente la Corte a precisare il regime giuridico e la portata del divieto di discriminazione fondata sull’età nel diritto comunitario. Esso offre alla Corte l’occasione per chiarire la portata che va riconosciuta alla sentenza 22 novembre 2005, Mangold (2).

2.        Più esattamente, la presente causa porterà la Corte a precisare il regime giuridico del principio generale di non discriminazione fondata sull’età e la funzione da esso svolta in una situazione in cui il termine di trasposizione della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (3), è scaduto. Occorrerà, in particolare, stabilire il ruolo e i poteri del giudice nazionale nei confronti di una normativa nazionale che contiene una discriminazione basata sul criterio dell’età, quando i fatti all’origine della causa principale sono successivi al termine di trasposizione della direttiva 2000/78 e la controversia contrappone due privati.

3.        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra la sig.ra Kücükdeveci e il suo ex datore di lavoro, la Swedex GmbH & Co. KG (in prosieguo: la «Swedex»), a proposito del calcolo della durata del preavviso applicabile al suo licenziamento.

4.        Nelle presenti conclusioni spiegherò, anzitutto, perché la direttiva 2000/78 costituisce, nella presente causa, una norma di riferimento rispetto alla quale deve essere stabilita la sussistenza o meno di una discriminazione fondata sull’età.

5.        In seguito, indicherò che tale direttiva, a mio parere, dev’essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale in forza della quale il periodo di occupazione svolto da un lavoratore prima di aver compiuto il venticinquesimo anno di età non va considerato per il calcolo della durata dell’impiego che, di per sé, serve a determinare il termine di preavviso che il datore di lavoro deve rispettare in caso di licenziamento.

6.        Infine, esporrò i motivi per i quali considero che, in una situazione nella quale il giudice del rinvio non possa interpretare il diritto nazionale in modo conforme con la direttiva 2000/78, quest’ultimo dispone, in forza del principio di preminenza del diritto comunitario e alla luce del principio di non discriminazione in ragione dell’età, il potere di disapplicare il diritto nazionale contrastante con tale direttiva, e questo anche nell’ambito di una controversia tra due privati.

I –    Il contesto normativo

A –    La direttiva 2000/78

7.        Ai sensi dell’art. 1 della direttiva 2000/78, essa «mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

8.        L’art. 2 di tale direttiva recita:

«1.   Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2.     Ai fini del paragrafo 1:

a)      sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

(...)

(…)».

9.        L’art. 3, n. 1, della detta direttiva precisa:

«Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

(…)

c)      all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione;

(…)».

10.      L’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 dispone:

«Fatto salvo l’articolo 2, paragrafo 2, gli Stati membri possono prevedere che le disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscano discriminazione laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari.

Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare:

a)      la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi;

b)      la fissazione di condizioni minime di età, di esperienza professionale o di anzianità di lavoro per l’accesso all’occupazione o a taluni vantaggi connessi all’occupazione;

c)      la fissazione di un’età massima per l’assunzione basata sulle condizioni di formazione richieste per il lavoro in questione o la necessità di un ragionevole periodo di lavoro prima del pensionamento».

11.      In conformità dell’art. 18, primo comma, della direttiva 2000/78, la sua trasposizione nell’ordinamento giuridico degli Stati membri doveva avvenire entro il 2 dicembre 2003. Tuttavia, ai sensi del secondo comma del medesimo articolo:

«Per tener conto di condizioni particolari gli Stati membri possono disporre se necessario di tre anni supplementari, a partire dal 2 dicembre 2003 ovvero complessivamente di sei anni al massimo, per attuare le disposizioni relative alle discriminazioni basate sull’età o sull’handicap. In tal caso essi informano immediatamente la Commissione (…)».

12.      La Repubblica federale di Germania ha beneficiato di tale facoltà, di modo che la trasposizione delle disposizioni della direttiva 2000/78 relative alla discriminazione basata sull’età e sull’handicap, sarebbe dovuta avvenire in tale Stato membro entro il 2 dicembre 2006.

B –    Il diritto nazionale

13.      L’art. 622 del codice civile tedesco (Bürgerliches Gesetzbuch, in prosieguo: il «BGB»), intitolato «Termini di preavviso nei rapporti di lavoro», così recita:

«1)   Il rapporto di lavoro con un operaio o con un impiegato (lavoratore) può essere risolto rispettando un preavviso di quattro settimane, con effetto al quindicesimo giorno o all’ultimo giorno del mese di scadenza del termine.

2)     Per il licenziamento da parte del datore di lavoro, si applicano i seguenti termini di preavviso:

–        se il rapporto di lavoro nell’azienda o nell’impresa è durato due anni: un mese, con effetto alla fine di un mese di calendario;

–        se è durato cinque anni: due mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario;

–        se è durato otto anni: tre mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario;

–        se è durato dieci anni: quattro mesi, con effetto alla fine di un mese di calendario;

(…)

Nel calcolo della durata dell’impiego non va considerato il tempo precedente al compimento del venticinquesimo anno di età del lavoratore [(4)]».

14.      Gli artt. 1, 2 e 10 della legge generale sulla parità di trattamento (Allgemeines Gleichbehandlungsgesetz) del 14 agosto 2006 (5), che ha trasposto la direttiva 2000/78, recitano:

«Art. 1 – Finalità della legge

La presente legge ha l’obiettivo di impedire o di eliminare qualsiasi pregiudizio basato sulla razza o sull’origine etnica, sul sesso, sulla religione o sulle convinzioni personali, sull’handicap, sull’età o sull’identità sessuale.

Art. 2 – Ambito di applicazione

(…)

4)     Ai licenziamenti si applicano esclusivamente le disposizioni relative alla tutela generale e particolare contro i licenziamenti.

(…)

Art. 10 – Legittimità di talune disparità di trattamento collegate all’età

Fatto salvo l’art. 8, si autorizza una disparità di trattamento collegata all’età laddove essa sia oggettivamente e ragionevolmente giustificata e basata su una finalità legittima. I mezzi per il conseguimento di tale finalità devono essere appropriati e necessari. Tali disparità di trattamento possono comprendere in particolare:

1.     la definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione e alla formazione professionale, di occupazione e di lavoro, comprese le condizioni di retribuzione e di licenziamento, per i giovani, i lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento professionale o assicurare la protezione degli stessi;

(…)».

II – La controversia di cui alla causa principale e le questioni pregiudiziali

15.      La sig.ra Kücükdeveci è nata il 12 febbraio 1978. Essa lavorava dal 4 giugno 1996, ossia dall’età di 18 anni, alle dipendenze della Swedex.

16.      Con lettera 19 dicembre 2006, la Swedex ha licenziato la dipendente, con effetto, considerato il termine di preavviso legale, al 31 gennaio 2007.

17.      Con ricorso proposto il 9 gennaio 2007, la sig.ra Kücükdeveci ha impugnato il licenziamento dinanzi all’Arbeitsgericht Mönchengladbach (Tribunale del lavoro di Mönchengladbach Germania). A sostegno del proprio ricorso, essa ha segnatamente fatto valere che il licenziamento doveva avere effetto solo a partire dal 30 aprile 2007, in quanto, in forza dell’art. 622, n. 2, prima frase, punto 4, del BGB, il termine di preavviso di licenziamento dopo dieci anni di servizio in azienda viene prolungato a quattro mesi, con effetto alla fine del mese.

18.      A suo parere, l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB, nella parte in cui prevede che per il calcolo della durata del preavviso di licenziamento non va considerato il periodo di servizio svolto in azienda prima del compimento del venticinquesimo anno di età, costituirebbe una discriminazione basata sull’età contrastante con il diritto comunitario. Pertanto, tale disposizione nazionale dovrebbe essere disapplicata.

19.      Avendo l’Arbeitsgericht Mönchengladbach accolto il ricorso della sig.ra Kücükdeveci, la Swedex ha deciso di impugnare tale decisione dinanzi al Landesarbeitsgericht Düsseldorf (Germania).

20.      Nella sua ordinanza di rinvio, il giudice a quo fa osservare che, benché l’organizzazione della tutela dell’occupazione possa avere un’incidenza indiretta sul comportamento dei datori di lavoro in materia di assunzione, non è dimostrato che la soglia dei 25 anni persegua e realizzi concretamente obiettivi che rientrano nell’ambito della politica dell’occupazione e del mercato del lavoro.

21.      Secondo tale giudice, il fatto di collegare il prolungamento del termine di preavviso ad un’età minima si basa essenzialmente sulle concezioni del legislatore tedesco in materia di politica sociale e familiare nonché sulla considerazione secondo la quale i lavoratori più anziani sono colpiti più intensamente dalle conseguenze della disoccupazione a causa dei loro obblighi familiari ed economici e della diminuzione della loro flessibilità e della loro mobilità professionali. L’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB riflette la valutazione del legislatore secondo la quale i giovani lavoratori reagiscono in genere più agevolmente e più rapidamente alla perdita del loro impiego, e che, considerata la loro età, può essere ragionevolmente richiesta loro una flessibilità e una mobilità maggiori. In conformità dell’obiettivo di tutela dei lavoratori più anziani e occupati da più tempo, l’art. 622, n. 2, del BGB prevede indubbiamente che il periodo di occupazione svolto in azienda prima del compimento del venticinquesimo anno di età non va considerato e soltanto a partire da tale età i lavoratori acquisiscono progressivamente il diritto a termini di preavviso più lunghi, in funzione della durata del servizio svolto in azienda.

22.      Il giudice del rinvio non è convinto dell’incostituzionalità dell’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB. Per contro, egli esprime i propri dubbi sulla compatibilità di tale disposizione con il diritto comunitario.

23.      Più esattamente, riguardo all’argomento formulato dalla Corte nella citata sentenza Mangold e alle «considerazion[i] legat[e] alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e [alla] situazione personale dell’interessato» ivi menzionate, il giudice del rinvio dubita che la disparità di trattamento possa oggettivamente giustificarsi in forza dei principi generali del diritto comunitario ovvero alla luce dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78.

24.      Egli considera, inoltre, che risulta dalla giurisprudenza della Corte che tale direttiva non possa avere un effetto diretto sulla controversia principale. Egli rileva, altresì, basandosi su due recenti sentenze della Corte che hanno ricordato e precisato il dovere di interpretazione conforme spettante ai giudici nazionali (6), che permane la condizione che la normativa nazionale possa essere interpretata. In forza dei criteri secondo i quali, durante l’interpretazione di una disposizione legislativa, si deve tener conto non soltanto della lettera della stessa, ma anche della sua collocazione sistematica nel contesto normativo di cui trattasi e degli scopi perseguiti, secondo l’intenzione manifesta del legislatore, dalla normativa di cui essa fa parte (7), il giudice del rinvio ritiene che l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB, il cui tenore è inequivocabile, non possa essere interpretato.

25.      Egli si domanda, quindi, quali conseguenze debba trarre il giudice nazionale dall’eventuale incompatibilità tra tale disposizione e il principio generale del diritto comunitario costituito dal divieto di discriminazione in ragione dell’età.

26.      Il giudice del rinvio pone, al riguardo, l’accento sul fatto che la Costituzione tedesca obbliga i giudici nazionali ad applicare le norme legislative in vigore. Egli dubita che la citata sentenza Mangold possa essere intesa nel senso che i giudici nazionali si vedono attribuire il potere, allorché applicano il diritto comunitario primario, di disapplicare le normative nazionali incompatibili. Una tale situazione presenterebbe, infatti, il rischio di comportare divergenze di giurisprudenza tra i giudici degli Stati membri che possono decidere di disapplicare o meno una normativa nazionale a seconda che la considerino compatibile o meno con il diritto comunitario primario. Tali riflessioni portano il giudice del rinvio a chiedere alla Corte di precisare se, nella citata sentenza Mangold, essa intendeva escludere che i giudici nazionali fossero tenuti, in forza del loro diritto interno, ad effettuare un rinvio pregiudiziale prima di decidere la disapplicazione di una norma legislativa nazionale in quanto incompatibile con il diritto comunitario primario. Infine, essa indica che la disapplicazione del diritto nazionale incompatibile che è imposta nella citata sentenza Mangold, solleva il problema della tutela del legittimo affidamento dei cittadini nell’applicazione delle leggi vigenti, a maggior ragione quando si pone il problema della loro compatibilità con i principi generali del diritto comunitario.

27.      Di conseguenza, il Landesarbeitsgericht di Düsseldorf ha deciso di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      a)     Se una normativa nazionale, secondo la quale i termini di preavviso per il licenziamento che il datore di lavoro deve rispettare si prolungano progressivamente con l’aumentare della durata dell’impiego, senza tuttavia considerare il periodo di tempo in cui il lavoratore ha occupato l’impiego precedentemente al compimento del venticinquesimo anno di età, sia contraria al divieto di discriminazione in ragione dell’età sancito dal diritto comunitario, e segnatamente al diritto primario della CE od alla direttiva (...) 2000/78 (...);

b)      se una ragione giustificativa del fatto che un datore di lavoro debba rispettare soltanto un termine di preavviso di base per il licenziamento dei lavoratori più giovani possa essere ravvisata nella circostanza che al datore di lavoro viene riconosciuto un interesse economico ad una gestione flessibile del personale, il quale verrebbe pregiudicato da termini di preavviso di licenziamento più lunghi, mentre ai giovani lavoratori non viene accordata la tutela dei diritti quesiti e delle aspettative (garantita ai lavoratori più anziani attraverso termini di preavviso più estesi), ad esempio perché si presume una loro maggiore mobilità e flessibilità professionale e personale in ragione dell’età e/o dei minori obblighi sociali, familiari e privati su di essi incombenti.

2)               In caso di soluzione affermativa della questione sub 1 a) e negativa della questione sub 1 b):

se il giudice di uno Stato membro in una causa tra privati debba disapplicare una normativa di legge esplicitamente contraria al diritto comunitario ovvero se debba tenere conto della fiducia riposta dai destinatari delle norme nell’applicazione delle leggi nazionali vigenti, in modo tale per cui la conseguenza dell’inapplicabilità sopravvenga soltanto in seguito ad una decisione della Corte di giustizia delle Comunità europee sulla normativa contestata o su una normativa essenzialmente analoga».

III – Analisi

A –    Sulla prima questione, sub a) e b)

28.      Tale prima questione mira, in sostanza, a sapere se il diritto comunitario debba essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale in forza della quale non va considerato il periodo di occupazione svolto dal lavoratore precedentemente al compimento del venticinquesimo anno di età ai fini del calcolo del termine di preavviso di licenziamento. Prima di rispondere a tale questione occorre, come invita il giudice del rinvio, precisare quale sia la norma comunitaria di riferimento nella presente causa, vale a dire il principio di non discriminazione fondata sull’età, che costituisce, secondo la Corte, un principio generale del diritto comunitario (8), oppure la direttiva 2000/78.

1.      Qual è la norma comunitaria di riferimento?

29.      Ritengo sia la direttiva 2000/78 quella che deve costituire, in una situazione come quella di cui trattasi nella causa principale, la norma di riferimento per stabilire la sussistenza o meno di una discriminazione in ragione dell’età vietata dal diritto comunitario.

30.      Ricordo, anzitutto, che risulta sia dal titolo e dal preambolo, sia dal contenuto e dalla finalità, che la direttiva 2000/78 si propone di fissare un quadro generale per garantire ad ogni individuo la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, offrendo una protezione efficace contro le discriminazioni fondate su uno dei motivi di cui all’art. 1, fra i quali è menzionata l’età (9).

31.      Si osserva che i fatti all’origine della controversia nella causa principale sono avvenuti dopo la scadenza del termine di cui ha beneficiato la Repubblica federale di Germania per trasporre tale direttiva, ossia dopo il 2 dicembre 2006.

32.      Del resto, a mio parere non vi è alcun dubbio che la normativa nazionale in esame rientri nell’ambito di applicazione della detta direttiva. Ricordo, in proposito, che ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78, essa «si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, (…) per quanto attiene (…) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione». Dato che l’art. 622 del BGB costituisce una disposizione che disciplina una delle condizioni nelle quali può avvenire un licenziamento, esso deve considerarsi rientrante nella sfera di applicazione di tale direttiva.

33.      La mia analisi volta a stabilire se l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB sia contrastante con il divieto di discriminazione in ragione dell’età formulato dal diritto comunitario, si fonderà quindi principalmente sulle disposizioni della direttiva 2000/78 che precisano ciò che deve considerarsi una disparità di trattamento basata sull’età contraria al diritto comunitario. Tale direttiva costituisce quindi il quadro dettagliato che consente di rilevare la sussistenza o meno di discriminazioni collegate all’età in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

34.      Non vedo, pertanto, alcun motivo per conferire una portata autonoma al principio generale di non discriminazione fondata sull’età limitandoci ad interpretare quest’ultimo, dato che una tale posizione presenta l’inconveniente maggiore di togliere ogni effetto utile alla direttiva 2000/78. Questo non significa, tuttavia, che il principio generale del diritto comunitario costituito dal principio di non discriminazione fondata sull’età non svolgerà alcun ruolo nell’analisi del presente rinvio pregiudiziale. In quanto strettamente collegato alla direttiva 2000/78, la quale ha l’obiettivo principale di agevolarne l’attuazione, tale principio generale dovrà essere preso in considerazione, come spiegherò nell’ambito della soluzione della seconda questione, quando si tratterà di stabilire se e a quali condizioni possa essere invocata la direttiva 2000/78 nell’ambito di una controversia tra privati.

35.      Ciò precisato, occorre ora esaminare se la direttiva 2000/78, e in particolare il suo art. 6, n. 1, debba essere interpretata nel senso che osta ad una normativa nazionale quale l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB.

2.      La direttiva 2000/78 osta all’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB?

36.      Osservo, anzitutto, che nella parte in cui l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB esclude il periodo di occupazione svolto dai lavoratori prima del compimento del venticinquesimo anno di età dal calcolo della durata dell’occupazione la quale, di per sé, permette di stabilire il termine di preavviso applicabile in caso di licenziamento, esso istituisce una disparità di trattamento direttamente basata sull’età, quale quella di cui all’art. 2, nn. 1 e 2, lett. a), della direttiva 2000/78. Infatti, l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB istituisce in modo diretto un trattamento meno favorevole ai lavoratori licenziati che hanno iniziato un rapporto di lavoro con il loro datore di lavoro prima del compimento del venticinquesimo anno di età rispetto ai lavoratori licenziati che hanno iniziato tale rapporto dopo tale età. Inoltre, tale misura svantaggia i lavoratori giovani rispetto ai lavoratori più anziani, in quanto i primi possono potenzialmente essere esclusi, come dimostra la situazione della sig.ra Kücükdeveci, dal meccanismo di tutela costituito dall’aumento progressivo dei termini di preavviso di licenziamento in funzione della durata del servizio svolto in azienda.

37.      Emerge, tuttavia, dall’art. 6, n. 1, primo comma, della direttiva 2000/78 che tali disparità di trattamento basate sull’età non costituiscono una discriminazione vietata in forza del suo art. 2 «laddove esse siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari». Tali finalità legittime, le quali sono obiettivi di politica sociale (10), possono infatti giustificare disparità di trattamento collegate all’età, il cui art. 6, n. 1, secondo comma, della direttiva 2000/78 fornisce vari esempi.

38.      Il rappresentante della Repubblica federale di Germania ha esposto, nel corso dell’udienza, il contesto generale nel quale era stata istituita la soglia dei 25 anni. Risulta che il legislatore tedesco ha attuato, nel 1926, un sistema di aumento progressivo dei termini di preavviso di licenziamento in base alla durata del rapporto di lavoro. L’introduzione della soglia dei 25 anni a partire dalla quale i periodi di occupazione vengono considerati aveva lo scopo di sgravare parzialmente i datori di lavoro da tale prolungamento graduale dei termini di preavviso. Sembra si tratti di una disposizione volta ad agevolare il compromesso politico per l’adozione del provvedimento principale costituito dal detto prolungamento dei termini. Inoltre, l’obiettivo di tale norma sembra essere la concessione di una maggiore flessibilità ai datori di lavoro qualora desiderino licenziare lavoratori giovani, e tale flessibilità nei confronti dei più giovani doveva compensare in qualche modo l’onere, che gravava sui datori di lavoro, dell’aumento progressivo dei termini di preavviso in funzione della durata del rapporto di lavoro. In altri termini, il legislatore tedesco avrebbe tentato di bilanciare il rafforzamento della tutela dei lavoratori in funzione della durata del servizio svolto in azienda con l’interesse dei datori di lavoro ad una gestione flessibile del personale.

39.      Inoltre, i chiarimenti forniti dal giudice del rinvio consentono di precisare il contesto nel quale è stato adottato l’art. 622, n. 2, del BGB. Considerato nel suo complesso, tale articolo mira a rafforzare la tutela dei lavoratori anziani contro la disoccupazione. Il legislatore tedesco è partito dal postulato secondo il quale i lavoratori anziani sarebbero maggiormente colpiti da una situazione di disoccupazione rispetto ai lavoratori giovani, dato che i primi hanno obblighi familiari ed economici che i secondi in genere non hanno e che, per di più, hanno una minore mobilità professionale. All’epoca dell’adozione della disposizione controversa, vale a dire agli inizi del XX secolo, sembra che gli impiegati, prevalentemente di sesso maschile, erano soliti formarsi una famiglia all’età media di circa 30 anni. Non avendo generalmente obblighi familiari prima di tale età, i lavoratori giovani sarebbero sufficientemente tutelati dall’applicazione del termine di preavviso di base. Inoltre, questi ultimi riuscirebbero a reagire più agevolmente e più rapidamente alla perdita del posto di lavoro.

40.      È stato altresì affermato che la soglia dei 25 anni potrebbe essere vista come misura che persegue una finalità legittima di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro, in quanto avrebbe l’effetto di ridurre il tasso di disoccupazione più elevato nei lavoratori giovani, creando condizioni che potrebbero agevolare l’assunzione in tale fascia di età. In altri termini, il fatto di dover rispettare soltanto il termine di preavviso di base incentiverebbe i datori di lavoro ad assumere più lavoratori giovani.

41.      Alla luce di tali chiarimenti, può ritenersi che l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB, ai sensi del quale non va considerato il periodo di servizio svolto in azienda precedentemente al compimento del venticinquesimo anno di età, persegua una finalità legittima ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78, vale a dire un obiettivo di politica sociale?

42.      A mio parere, occorre distinguere il provvedimento dell’aumento progressivo del termine del preavviso di licenziamento in funzione della durata dell’occupazione nell’impresa da quello della fissazione di un’età minima di 25 anni per beneficiare di tale aumento.

43.      La finalità del prolungamento del preavviso è chiaramente quella di tutelare i lavoratori che, secondo il legislatore tedesco, hanno minori capacità di adattamento e minori possibilità di reinserimento allorché siano stati occupati per lungo tempo in un’impresa. Se un datore di lavoro decide di licenziare un lavoratore in servizio da lungo tempo nella sua impresa, un termine di preavviso prolungato agevola sicuramente il passaggio di tale lavoratore verso una nuova situazione professionale, segnatamente la ricerca di un nuovo impiego. Tale rafforzamento della tutela del lavoratore licenziato in funzione della durata del servizio svolto in azienda può, a mio avviso, considerarsi una misura che persegue un obiettivo di politica dell’occupazione e del mercato del lavoro, ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78.

44.      Per contro, appare più difficile identificare una finalità legittima, ai sensi della medesima norma, riguardo alla mancata considerazione del periodo di occupazione svolto prima del compimento del venticinquesimo anno di età.

45.      Riguardo, anzitutto, all’affermazione secondo la quale un tale provvedimento avrebbe un effetto positivo sull’assunzione dei lavoratori giovani, essa sembra alquanto teorica. Per contro, è sicuro che termini di preavviso brevi hanno necessariamente un impatto negativo sulla ricerca di un nuovo impiego da parte dei lavoratori giovani. L’istituzione della soglia di 25 anni a partire dalla quale si applica il sistema di prolungamento dei termini di preavviso non favorisce dunque, a mio parere, l’inserimento professionale dei lavoratori giovani, ai sensi dell’art. 6, n. 1, secondo comma, lett. a), della direttiva 2000/78.

46.      L’obiettivo principale di tale misura, quale risulta dal suo contesto generale, è quello di consentire ai datori di lavoro di gestire con maggiore flessibilità la categoria di dipendenti rappresentata dai lavoratori giovani, in quanto il legislatore tedesco ha ritenuto che questi ultimi avessero meno bisogno di tutela in caso di licenziamento rispetto ai lavoratori più anziani. Si pone, dunque, il problema di stabilire se tale interesse dei datori di lavoro a poter gestire con maggiore flessibilità una categoria di lavoratori possa essere considerato un obiettivo che rientra nella politica sociale di cui all’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78, come quelli connessi alla politica dell’occupazione e del mercato del lavoro.

47.      Nella citata sentenza Age Concern England, la Corte ha indicato che, per il loro carattere d’interesse generale, tali finalità legittime sono diverse dai motivi puramente individuali propri della situazione del datore di lavoro, come la riduzione dei costi o il miglioramento della competitività, senza che peraltro si possa escludere che una norma nazionale riconosca, nel perseguimento delle suddette finalità legittime, un certo grado di flessibilità in favore dei datori di lavoro (11). Ne deduco che la Corte non esclude che un provvedimento nazionale relativo alla politica dell’occupazione e del mercato del lavoro possa tradursi con la concessione di «un certo grado di flessibilità in favore dei datori di lavoro». Mi sembra tuttavia difficile ammettere che tale flessibilità concessa ai datori di lavoro possa costituire una finalità legittima di per sé. La Corte ha, infatti, ben precisato che le finalità «legittime», ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78, hanno un «carattere d’interesse generale». Ebbene, tale dimensione d’interesse generale sembra assente nel provvedimento che stabilisce di non considerare i periodi di occupazione svolti prima del venticinquesimo anno di età, il quale porta, alla fine, ad escludere una categoria di lavoratori, nella fattispecie i più giovani, da un regime di tutela in materia di licenziamento.

48.      Inoltre, dubito della pertinenza di uno dei postulati sui quali si fonda l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB, vale a dire che i lavoratori giovani reagiscono più agevolmente e rapidamente alla perdita del loro posto di lavoro rispetto agli altri lavoratori. La parte importante di disoccupazione rappresentata dai giovani nelle nostre società pone in discussione tale postulato che era forse fondato nel 1926, ma che oggi non è più attuale.

49.      Per tali motivi, ritengo che il provvedimento che stabilisce di non tener conto del periodo di occupazione svolto prima del compimento del venticinquesimo anno di età per il calcolo del preavviso di licenziamento non persegua una finalità legittima ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78.

50.      In ogni caso, anche se la Corte dovesse considerare che tale provvedimento persegua un giustificato obiettivo di politica sociale, quali quelli connessi alla politica dell’occupazione e del mercato del lavoro, ritengo che una tale misura vada oltre quanto appropriato e necessario per conseguire tale obiettivo.

51.      Effettivamente, gli Stati membri dispongono di un ampio margine di discrezionalità non solo nella scelta di perseguire uno scopo determinato fra altri in materia di politica sociale e di occupazione, ma altresì nella definizione delle misure atte a realizzare detto scopo (12). Tuttavia, la Corte ha altresì indicato che semplici affermazioni generiche, riguardanti l’attitudine di un provvedimento determinato a partecipare alla politica dell’occupazione, del mercato del lavoro o della formazione professionale, non sono sufficienti affinché risulti che l’obiettivo perseguito da tale provvedimento possa essere tale da giustificare una deroga al principio di non discriminazione fondata sull’età, né costituiscono elementi sulla scorta dei quali poter ragionevolmente ritenere che gli strumenti prescelti siano atti alla realizzazione di tale obiettivo (13). Infatti, anche supponendo che l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB persegua l’obiettivo volto ad agevolare l’assunzione dei lavoratori giovani, e quindi l’inserimento professionale di tale categoria di lavoratori, non vi è alcun elemento concreto che rinforzi tale affermazione o che dimostri che tale provvedimento sia idoneo al conseguimento di tale obiettivo. Il carattere appropriato e necessario di tale misura non è quindi, a mio parere, dimostrato.

52.      Per di più, l’applicazione dell’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB porta ad una situazione in cui tutti i lavoratori che hanno iniziato il rapporto di lavoro prima del compimento del venticinquesimo anno di età e che sono licenziati poco tempo dopo aver raggiunto tale età, come la sig.ra Kücükdeveci, sono esclusi in maniera generale, indipendentemente dalla loro situazione personale e familiare nonché dal loro livello di formazione, da un elemento importante della tutela dei lavoratori in caso di licenziamento. Inoltre, tale esclusione generale decisa nel 1926 è stata mantenuta senza dimostrare, a mio parere, che la fissazione di una tale soglia di età è sempre adatta alla situazione economica e sociale attuale di tale categoria di lavoratori.

53.      Per tali ragioni, propongo alla Corte di dichiarare che l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78 dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, quale quella di cui alla causa principale, che prevede, in modo generale, di non tenere conto dei periodi di occupazione svolti prima del venticinquesimo anno di età ai fini del calcolo dei termini di preavviso di licenziamento.

B –    Sulla seconda questione

54.      Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, quali conseguenze debba trarre dall’incompatibilità dell’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB con la direttiva 2000/78. In particolare, se egli debba disapplicare tale disposizione nazionale in una controversia tra privati di cui è investito. Inoltre, se tale giudice abbia l’obbligo di adire in via pregiudiziale la Corte prima di poter disapplicare una norma nazionale contrastante con il diritto comunitario.

55.      Quest’ultimo interrogativo non richiede, a mio parere, una lunga trattazione. È infatti chiaro, dopo la sentenza 9 marzo 1978, Simmenthal (14), che il giudice nazionale, in quanto giudice comunitario di diritto comune, ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli, disapplicando qualsiasi disposizione nazionale contrastante con il diritto comunitario. Tale dovere che spetta al giudice nazionale di disapplicare le disposizioni nazionali che ostano alla piena efficacia delle norme comunitarie non è assolutamente condizionato dall’esercizio di un previo rinvio pregiudiziale dinanzi alla Corte, salvo trasformare, nella maggior parte dei casi, la facoltà di rinvio di cui dispongono i giudici nazionali in forza dell’art. 234, secondo comma, CE in un obbligo generalizzato di rinvio.

56.      La prima parte della questione posta dal giudice del rinvio, per contro, è più delicata e non trova una risposta esplicita nella giurisprudenza della Corte.

57.      Il problema se una direttiva trasposta erroneamente o non trasposta da uno Stato membro possa essere invocata nell’ambito di una controversia tra privati ha tuttavia ricevuto, in più occasioni, una chiara risposta da parte della Corte. Infatti, quest’ultima ha costantemente deciso che una direttiva non può di per se stessa creare obblighi a carico di un singolo e non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei suoi confronti. Ne consegue, secondo la Corte, che anche una disposizione chiara, precisa e incondizionata di una direttiva volta a conferire diritti o ad imporre obblighi ai privati non può trovare applicazione in quanto tale nell’ambito di una controversia che veda contrapposti esclusivamente dei singoli (15). La Corte rifiuta quindi di effettuare un passo che avrebbe la conseguenza di assimilare le direttive ai regolamenti, riconoscendo alla Comunità il potere di emanare norme che facciano sorgere con effetto immediato obblighi a carico dei singoli, mentre tale competenza le spetta solo laddove le sia attribuito il potere di adottare regolamenti (16). Tale posizione rispetta la natura particolare della direttiva che, per definizione, fa sorgere direttamente obblighi soltanto a carico degli Stati membri destinatari e può imporre obblighi ai singoli soltanto attraverso provvedimenti nazionali di trasposizione (17).

58.      La Corte ha bilanciato tale netto rifiuto di un effetto diretto orizzontale delle direttive evidenziando l’esistenza di soluzioni alternative atte a salvaguardare i singoli che si ritengono lesi dall’omessa o dall’errata trasposizione di una direttiva.

59.      Il primo palliativo all’assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive consiste nell’obbligo che spetta al giudice nazionale di interpretare il diritto interno per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, così da conseguire il risultato perseguito da quest’ultima (18). Il principio di interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio nei limiti del loro potere, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme ed applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia della direttiva di cui trattasi e di pervenire ad una soluzione conforme allo scopo perseguito da quest’ultima (19).

60.      Nella citata sentenza Pfeiffer e a., la Corte ha precisato, riguardo ad una controversia tra singoli, la procedura che il giudice nazionale deve seguire, riducendo ulteriormente la linea di confine tra l’invocabilità d’interpretazione conforme e l’invocabilità di una direttiva al fine di disapplicare il diritto nazionale incompatibile. La Corte ha, infatti, indicato che, se il diritto nazionale, mediante l’applicazione di metodi di interpretazione da esso riconosciuti, in determinate circostanze consente di interpretare una norma dell’ordinamento giuridico interno in modo tale da evitare un conflitto con un’altra norma di diritto interno o di ridurre a tale scopo la portata di quella norma applicandola solamente nella misura compatibile con l’altra, il giudice ha l’obbligo di utilizzare gli stessi metodi al fine di ottenere il risultato perseguito dalla direttiva (20).

61.      Tuttavia, è ben vero che l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli della certezza del diritto e dell’irretroattività, e non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (21).

62.      Il secondo palliativo all’assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive può essere attivato proprio nel caso in cui il risultato prescritto da una direttiva non può essere conseguito mediante interpretazione. Il diritto comunitario impone, infatti, agli Stati membri di risarcire i danni da essi causati ai singoli a causa della mancata attuazione di tale direttiva, purché siano soddisfatte tre condizioni. Anzitutto, la direttiva in questione deve avere lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli. Deve essere, poi, possibile individuare il contenuto di tali diritti sulla base delle disposizioni di detta direttiva. Infine, deve sussistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo a carico dello Stato membro e il danno subito (22).

63.      Infine, il terzo palliativo consiste nella scissione tra l’effetto diretto orizzontale delle direttive e la loro invocabilità al fine di escludere l’applicazione del diritto nazionale incompatibile, anche nell’ambito di una controversia tra singoli. Tale soluzione porta a considerare che se le direttive non possono sostituire il diritto nazionale assente o incompleto per imporre direttamente obblighi in capo ai singoli, esse possono tuttavia essere fatte valere per disapplicare il diritto nazionale incompatibile, in quanto il giudice nazionale potrà applicare soltanto il diritto nazionale espurgato dalle disposizioni contrastanti con la direttiva per risolvere una controversia tra singoli.

64.      Tale scissione tra l’effetto diretto cosiddetto «di sostituzione» delle direttive e l’invocabilità di esclusione delle stesse, tuttavia, non è mai stata oggetto di un riconoscimento generale ed esplicito da parte della Corte (23). Pertanto, la portata di tale terzo palliativo resta, per il momento, molto limitata (24).

65.      Riassumendo, la linea giurisprudenziale attuale relativa all’effetto delle direttive nelle controversie tra singoli è la seguente. La Corte resta contraria al riconoscimento di un effetto diretto orizzontale delle direttive e sembra considerare che i due palliativi principali costituiti dall’obbligo di interpretazione conforme e dalla responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario sono, nella maggior parte dei casi, adeguati sia per garantire la piena efficacia delle direttive sia per tutelare i singoli che si ritengono lesi dal comportamento illegittimo degli Stati membri.

66.      La soluzione da proporre al giudice del rinvio potrebbe, quindi, consistere, in maniera classica, nel ricordare la giurisprudenza appena esposta, indicando al giudice nazionale il suo dovere di impiegare tutti i mezzi di cui dispone per interpretare il diritto nazionale in modo conforme alla finalità perseguita dalla direttiva 2000/78 e, nel caso non possa attuare una tale interpretazione, invitare la sig.ra Kücükdeveci ad avviare un’azione di responsabilità civile nei confronti della Repubblica federale di Germania a causa della trasposizione incompleta di tale direttiva.

67.      Non è tuttavia questa la strada che proporrò alla Corte, per i seguenti motivi.

68.      In primo luogo, come rileva giustamente il Landesarbeitsgericht Düsseldorf, il dovere di interpretazione conforme vale solo nei limiti in cui la normativa nazionale di cui trattasi possa essere interpretata. Orbene, tale giudice considera che non sia così nel caso dell’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB. La Corte è quindi interpellata da un giudice che le indica che il tenore di tale disposizione è inequivocabile e che, pur facendo tutto quanto rientri nella propria competenza per conseguire l’obiettivo perseguito dalla direttiva 2000/78, egli non potrà interpretare tale disposizione in modo conforme con la finalità di tale direttiva. Di conseguenza, ritengo che non sia sufficiente invitare il giudice del rinvio ad eseguire una procedura che, allo stato del suo diritto nazionale, egli non ritiene possibile.

69.      In secondo luogo, una soluzione che indirizzi la sig.ra Kücükdeveci verso un’azione di responsabilità civile nei confronti della Repubblica federale di Germania avrebbe come inconveniente principale quello di farla dichiarare soccombente nel suo processo, con le conseguenze pecuniarie che ne conseguono e questo anche qualora venisse accertata la sussistenza di una discriminazione fondata sull’età contraria alla direttiva 2000/78, e ad obbligarla ad avviare una nuova azione giudiziaria. Una tale soluzione, a mio parere, sarebbe contraria al diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva di cui devono godere, in forza dell’art. 9 della direttiva 2000/78, le persone che si ritengono lese dall’inosservanza del principio della parità di trattamento. In tale prospettiva, una lotta efficace contro le discriminazioni contrarie al diritto comunitario comporta che il giudice nazionale competente possa concedere alle persone appartenenti alla categoria sfavorita, immediatamente e senza essere costretto ad invitare le vittime ad iniziare una procedura per danni contro lo Stato, gli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata (25). Per tale ragione ritengo che la Corte non debba limitarsi ad una soluzione basata sull’esistenza di un’azione di responsabilità civile nei confronti dello Stato per trasposizione incompleta di tale direttiva.

70.      Invito la Corte a seguire un percorso più ambizioso in termini di lotta contro le discriminazioni contrarie al diritto comunitario, percorso che, del resto, non è assolutamente in conflitto con la sua giurisprudenza classica relativa all’assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive. Tale posizione, che si fonda in gran parte sulla specificità delle direttive che combattono le discriminazioni e sulla gerarchia delle norme dell’ordinamento giuridico comunitario, consiste nel considerare che una direttiva adottata al fine di agevolare l’attuazione del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione non può diminuirne la portata. La Corte dovrebbe, quindi, come ha fatto a proposito del principio generale del diritto comunitario medesimo, riconoscere che una direttiva volta a combattere le discriminazioni possa essere invocata nell’ambito di una controversia tra singoli al fine di disapplicare una normativa nazionale con essa incompatibile.

71.      Detta posizione è d’altronde, a mio parere, l’unica che possa conciliarsi con quanto deciso dalla Corte nella citata sentenza Mangold. In tale sentenza, la Corte ha dichiarato che una normativa nazionale la quale autorizza, senza restrizioni, salvo che esista uno stretto collegamento con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato stipulato con lo stesso datore di lavoro, la stipula di contratti di lavoro a tempo determinato qualora il lavoratore abbia raggiunto l’età di 52 anni non poteva essere giustificata ai sensi dell’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78. La principale difficoltà che la Corte doveva affrontare era stabilire quali conseguenze dovesse trarre il giudice nazionale da tale interpretazione in una situazione in cui, da un lato, la controversia riguardava due privati e, dall’altro, non era ancora scaduto il termine di trasposizione di tale direttiva alla data della stipula del contratto di lavoro controverso.

72.      Superando tali due ostacoli, la Corte ha considerato, ai sensi della giurisprudenza resa nella citata sentenza Simmenthal, che era compito del giudice nazionale, investito di una controversia che metteva in discussione il principio di non discriminazione fondata sull’età, assicurare, nell’ambito di sua competenza, la tutela giuridica che il diritto comunitario attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale (26). La Corte ha, quindi, riconosciuto che tale principio poteva essere invocato nell’ambito di una controversia tra singoli al fine di disapplicare una normativa nazionale discriminatoria.

73.      Per giungere a tale conclusione, la Corte ha considerato che la circostanza che, alla data della stipula del contratto, il termine di trasposizione della direttiva 2000/78 non fosse ancora scaduto, non era tale da rimettere in discussione la constatazione di incompatibilità tra la normativa nazionale di cui trattasi e l’art. 6, n. 1, della direttiva 2000/78. Essa si è fondata, in primo luogo, sulla giurisprudenza resa nella sentenza 18 dicembre 1997, Inter‑Environnement Wallonie (27), da cui risulta che, in pendenza del termine per il recepimento di una direttiva, gli Stati membri devono astenersi dall’adottare disposizioni che possano compromettere gravemente il conseguimento del risultato prescritto dalla direttiva stessa (28).

74.      In secondo luogo, la Corte ha rilevato che la direttiva 2000/78 non sancisce essa stessa il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro. Infatti tale direttiva, ai sensi del suo art. 1, ha la sola finalità di «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali», dal momento che il principio stesso del divieto di siffatte forme di discriminazione, come risulta dal primo e dal quarto ‘considerando’ della detta direttiva, trova la sua fonte in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (29). La Corte ne ha dedotto che il principio di non discriminazione fondata sull’età deve pertanto essere considerato un principio generale del diritto comunitario (30).

75.      La Corte ha, poi, applicato la sua giurisprudenza ai sensi della quale, quando una normativa nazionale rientra nella sfera di applicazione del diritto comunitario, la Corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità della detta normativa con tale principio. Ebbene, la disposizione nazionale in esame rientrava nella sfera di applicazione del diritto comunitario in quanto provvedimento di attuazione della direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (31). La Corte ha, pertanto, dichiarato che il rispetto del principio generale della parità di trattamento, in particolare in ragione dell’età, non dipendeva, come tale, dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per trasporre una direttiva intesa a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sull’età (32).

76.      Nessuno ignora che la citata sentenza Mangold è stata oggetto di numerose critiche. Se ci teniamo al contributo principale di tale sentenza, vale a dire che il rispetto del principio generale del diritto comunitario costituito dal principio di non discriminazione fondata sull’età non può dipendere dalla scadenza del termine concesso agli Stati membri per trasporre la direttiva 2000/78 e che, pertanto, spetta al giudice nazionale assicurare la piena efficacia di tale principio disapplicando ogni contraria disposizione di legge nazionale, anche nell’ambito di una controversia tra singoli, ritengo che tali critiche vadano attenuate.

77.      Infatti, per quanto riguarda, anzitutto, l’esistenza medesima del principio di non discriminazione fondata sull’età in quanto principio generale del diritto comunitario, sono incline a pensare che l’evidenziazione di un tale principio da parte della Corte corrisponda all’evoluzione di tale diritto quale risulta, da una parte, dall’iscrizione dell’età come criterio di discriminazione vietato ai sensi dell’art. 13, n. 1, CE e, dall’altra, dall’aver sancito il divieto di discriminazioni fondate sull’età come un diritto fondamentale, come risulta dall’art. 21, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (33). Effettivamente, il ragionamento della Corte sarebbe stato sicuramente più convincente se si fosse basato su tali elementi, al di là dei soli strumenti internazionali e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri i quali, nella maggior parte dei casi, non identificano uno specifico divieto di discriminazione in ragione dell’età. Tuttavia, sembra importante evidenziare che, rilevando l’esistenza di un tale principio generale del diritto comunitario, la Corte è allineata con la volontà espressa dagli Stati membri e dalle istituzioni comunitarie di combattere in modo efficace le discriminazioni collegate all’età. In tale ottica, non sorprende che il principio di non discriminazione fondata sull’età, in quanto espressione specifica del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione e in quanto diritto fondamentale, benefici dello status eminente di principio generale del diritto comunitario.

78.      Riguardo, poi, alle conseguenze tratte dalla Corte, nella citata sentenza Mangold, dall’esistenza di un tale principio, esse mi paiono coerenti con la giurisprudenza da essa progressivamente formulata a proposito del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione.

79.      La Corte, infatti, considera da lungo tempo che il principio generale di uguaglianza fa parte dei principi fondamentali del diritto comunitario (34). Detto principio impone di non trattare in modo diverso situazioni analoghe, salvo che una differenza di trattamento non sia obiettivamente giustificata (35). Esso figura nel novero dei diritti fondamentali di cui la Corte garantisce il rispetto (36).

80.      In qualità di principio generale del diritto comunitario, tale principio adempie a diverse funzioni. Esso consente al giudice comunitario di colmare le lacune che potrebbero presentare disposizioni del diritto primario o derivato. È, inoltre, uno strumento interpretativo che può chiarire il senso e la portata di disposizioni del diritto comunitario (37) nonché uno strumento di controllo della validità degli atti comunitari (38).

81.      Del resto, il rispetto del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione vincola parimenti gli Stati membri quando danno esecuzione alle discipline comunitarie. Ne consegue che questi ultimi sono tenuti, per quanto possibile, ad applicare tali discipline nel rispetto degli obblighi inerenti alla tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico comunitario (39). A tale proposito, come ho indicato in precedenza, la Corte considera che, quando una normativa nazionale rientra nella sfera di applicazione del diritto comunitario, essa deve, allorché sia adita in via pregiudiziale, fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari alla valutazione, da parte del giudice nazionale, della conformità di detta normativa con i diritti fondamentali di cui la Corte garantisce il rispetto (40). Qualora, rispetto a tale interpretazione, risulti che una normativa nazionale sia contraria al diritto comunitario, il giudice nazionale dovrà disapplicarla in conformità del principio di preminenza del diritto comunitario.

82.      Il ragionamento formulato dalla Corte nella citata sentenza Mangold, prende in considerazione tali diversi elementi risultanti dalla sua giurisprudenza al fine di assicurare l’efficacia del principio generale di uguaglianza, indipendentemente dallo scadere del termine di trasposizione della direttiva 2000/78. Un tale ragionamento è, a mio parere, conforme alla gerarchia delle norme dell’ordinamento giuridico comunitario.

83.      Per illustrare il modo in cui la Corte ipotizza il rapporto tra una norma di diritto comunitario primario e una norma di diritto comunitario derivato, è interessante fare un accostamento con il modo in cui essa ha inteso il rapporto tra l’art. 119 del Trattato CEE [divenuto art. 119 del Trattato CE (gli artt. 117‑120 del Trattato CE sono stati sostituiti dagli artt. 136 CE‑143 CE)], che fonda il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, e la direttiva 75/117/CEE (41).

84.      Infatti, nella sentenza 8 aprile 1976, Defrenne (42), la Corte ha rilevato che la direttiva 75/117 precisa sotto determinati aspetti la portata dell’art. 119 del Trattato e contiene varie disposizioni miranti essenzialmente a rafforzare la tutela giurisdizionale dei lavoratori che fossero eventualmente lesi dalla mancata applicazione del principio della parità di retribuzione stabilito da tale articolo (43). Essa ha considerato che tale direttiva si propone di favorire, mediante un complesso di provvedimenti da adottarsi nell’ambito nazionale, la corretta applicazione dell’art. 119 del Trattato, senza poter, tuttavia, diminuire l’efficacia di detto articolo (44). Nella sentenza 31 marzo 1981, Jenkins (45), la Corte ha precisato, nello stesso senso, che l’art. 1 della detta direttiva, inteso essenzialmente a facilitare l’applicazione pratica del principio della parità di retribuzione di cui all’art. 119 del Trattato, lascia assolutamente impregiudicati sia il contenuto che la portata di detto principio, come sancito da tale articolo (46). La Corte ha recentemente ricordato tale giurisprudenza nella sentenza 3 ottobre 2006, Cadman (47).

85.      Alla luce di tale giurisprudenza, sembra assolutamente logico che la Corte abbia dichiarato, nella citata sentenza Mangold, che la pendenza del termine di trasposizione della direttiva 2000/78 non poteva compromettere l’efficacia del principio di non discriminazione fondata sull’età e che, per garantire tale efficacia, il giudice nazionale doveva disapplicare ogni contraria disposizione di legge nazionale. Del resto, la circostanza che la causa principale riguardasse due privati non poteva assolutamente ostare a che tale principio generale del diritto comunitario beneficiasse di una invocabilità di esclusione, in quanto la Corte, in varie occasioni, ha già fatto un passo più importante riconoscendo l’effetto orizzontale di disposizioni del Trattato contenenti espressioni specifiche del principio generale di uguaglianza e di non discriminazione (48).

86.      La Corte deve ormai decidere se essa desidera mantenere la stessa tesi per le situazioni verificatesi dopo la scadenza del termine di trasposizione della direttiva 2000/78. A mio parere, la risposta deve essere affermativa, in quanto adottare una posizione diversa porterebbe a rompere la logica su cui si basa la citata sentenza Mangold.

87.      Infatti, dato che la direttiva 2000/78 costituisce uno strumento volto ad agevolare la concreta applicazione del principio di non discriminazione fondata sull’età e, in particolare, a migliorare la tutela giurisdizionale dei lavoratori eventualmente lesi dalla violazione di tale principio, essa non potrebbe, anche – e a fortiori – dopo la scadenza del termine concesso agli Stati membri per la sua trasposizione, pregiudicare la portata di tale principio. Sarebbe, al riguardo, difficile concepire che le conseguenze della preminenza del diritto comunitario siano indebolite dopo la scadenza del termine di trasposizione della direttiva 2000/78. Ma soprattutto, non si può ammettere che la tutela dei cittadini contro le discriminazioni contrastanti con il diritto comunitario sia meno intensa dopo la scadenza di un tale termine, allorché si tratta di una norma finalizzata a tutelarli maggiormente. La direttiva 2000/78 deve quindi, a mio parere, poter essere invocata in una controversia tra singoli al fine di escludere l’applicazione di una norma nazionale contrastante con il diritto comunitario.

88.      Accogliere una tale tesi non porta la Corte a ritornare sulla sua giurisprudenza relativa all’assenza di effetto diretto orizzontale delle direttive. Infatti, la presente causa ha come oggetto solo l’esclusione di una disposizione nazionale incompatibile con la direttiva 2000/78, in questo caso l’art. 622, n. 2, ultima frase, del BGB, per consentire al giudice nazionale di applicare le restanti disposizioni di tale articolo, nella fattispecie i termini di preavviso determinati sulla base della durata del rapporto di lavoro. Non si tratta quindi, in questo caso, di applicare direttamente la direttiva 2000/78 ad un comportamento privato autonomo che non segue alcuna particolare normativa statale come, ad esempio, la decisione che adotti un datore di lavoro di non assumere i lavoratori con più di 45 anni di età o con meno di 35 anni di età. Solo tale situazione porterebbe ad interrogarsi sull’opportunità di riconoscere a tale direttiva un vero effetto diretto orizzontale (49).

89.      Del resto, se la Corte persiste nella sua intenzione di non riconoscere in modo generale la scissione tra l’effetto diretto cosiddetto «di sostituzione» e l’invocabilità di esclusione, la particolarità delle direttive di combattere la discriminazione le consente, a mio parere, di adottare una soluzione con una portata più ridotta, la quale, allo stesso tempo, ha il merito di essere coerente con la giurisprudenza da essa formulata in merito al principio generale di uguaglianza e di non discriminazione. In tale ottica, è in quanto essa applica tale principio, nella sua dimensione che vieta le discriminazioni in ragione dell’età, che la direttiva 2000/78 si vede attribuire una invocabilità rafforzata nelle controversie tra singoli.

90.      Per concludere, desidero fare osservare che, riguardo all’intromissione sempre maggiore del diritto comunitario nei rapporti tra privati, la Corte sarà, a mio parere, inevitabilmente confrontata ad altre ipotesi che sollevano il problema dell’invocabilità di direttive che contribuiscono a garantire i diritti fondamentali nell’ambito di controversie tra singoli. Tali ipotesi aumenteranno verosimilmente se la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea acquisirà in futuro una forza giuridica vincolante, poiché tra i diritti fondamentali ripresi in tale Carta, un determinato numero compare nell’esperienza comunitaria sotto forma di direttive (50). In tale prospettiva, la Corte deve, a mio avviso, riflettere fin da oggi se l’identificazione di diritti garantiti da direttive come costituenti dei diritti fondamentali permetta o meno di rafforzare l’invocabilità di questi nell’ambito di controversie tra singoli. La presente causa offre alla Corte l’occasione per precisare la risposta che essa desidera apportare a tale importante questione.

IV – Conclusione

91.      Alla luce di tutte le considerazioni che precedono, suggerisco alla Corte di dichiarare:

«1)      L’art. 6, n. 1, della direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nella causa principale, che prevede, in modo generale, che il periodo di attività lavorativa subordinata maturato prima del compimento del venticinquesimo anno di età non va preso in considerazione ai fini del calcolo dei termini di preavviso di licenziamento.

2)      Spetta al giudice nazionale disapplicare tale normativa nazionale, anche nell’ambito di una controversia tra singoli».


1 – Lingua originale: il francese.


2 – Causa C‑144/04 (Racc. pag. I‑9981).


3 – GU L 303, pag. 16.


4 – Tale ultima frase compariva già, in sostanza, all’art. 2, n. 1, della legge sui termini di preavviso per il licenziamento degli impiegati (Gesetz über die Fristen für die Kündigung von Angestellten) del 9 luglio 1926.


5 – BGBl. 2006 I, pag. 1897.


6 – Sentenze 5 ottobre 2004, cause riunite da C‑397/01 a C‑403/01, Pfeiffer e a. (Racc. pag. I‑8835, punto 119), nonché 4 luglio 2006, causa C‑212/04, Adeneler e a. (Racc. pag. I‑6057, punto 124).


7 – Il giudice del rinvio fa, al riguardo, menzione di una sentenza del Bundesverfassungsgericht 7 giugno 2005 e della sentenza della Corte 7 dicembre 2006, causa C‑306/05, SGAE (Racc. pag. I‑11519, punto 34).


8 – Sentenza Mangold, cit. (punto 75).


9 – Sentenza 16 ottobre 2007, causa C‑411/05, Palacios de la Villa (Racc. pag. I‑8531, punto 42).


10 – Sentenza 5 marzo 2009, causa C‑388/07, Age Concern England (Racc. pag. I‑1569, punto 46).


11 – Punto 46.


12 – Sentenza Palacios de la Villa, cit. (punto 68).


13 – Sentenza Age Concern England, cit. (punto 51).


14 – Causa 106/77 (Racc. pag. 629).


15 – Sentenza 7 giugno 2007, causa C‑80/06, Carp (Racc. pag. I‑4473, punto 20 e giurisprudenza ivi citata).


16 – Sentenza 14 luglio 1994, causa C‑91/92, Faccini Dori (Racc. pag. I‑3325, punto 24).


17 – V. D.  Simon, La directive européenne, Dalloz, 1997, pag. 73.


18 – V., segnatamente, sentenze Pfeiffer e a., cit. (punto 113 e giurisprudenza ivi citata), nonché 23 aprile 2009, cause riunite da C‑378/07 a C‑380/07, Angelidaki e a. (Racc. pag. I‑3071, punto 197).


19 – Sentenza Angelidaki e a., cit. (punto 200).


20 – Sentenza Pfeiffer e a., cit. (punto 116).


21 – Sentenza Angelidaki e a., cit. (punto 199 e giurisprudenza ivi citata).


22 – Ibidem (punto 202 e giurisprudenza ivi citata).


23 – Per una illustrazione generale della distinzione tra tali due effetti del diritto comunitario, v., segnatamente, i paragrafi 24‑90 delle conclusioni dell’avvocato generale Léger nella causa Linster (sentenza 19 settembre 2000, causa C‑287/98, Racc. pag. I‑6917), nonché D. Simon, «Synthèse générale», Les principes communs d’une justice des États de l’Union européenne, Actes du colloque des 4 et 5 décembre 2000, La Documentation française, Paris, 2001, pag. 321, secondo il quale «se la Corte non attribuisce effetto diretto a talune disposizioni del diritto comunitario, è semplicemente perché tali disposizioni non possono essere applicate dai giudici nazionali senza obbligarli ad oltrepassare il loro compito giurisdizionale ed a sostituirsi al legislatore nazionale, il quale dispone all’occorrenza di un margine di discrezionalità che non può essere usato da un giudice senza violare i principi fondamentali della separazione dei poteri» (pag. 332). Con l’invocabilità di esclusione, non si viola assolutamente l’esercizio di tale margine di discrezionalità. Si tratta solo di controllare se, in tale esercizio, lo Stato membro sia restato nei limiti di detto margine di discrezionalità.


24 – Le sentenze 30 aprile 1996, causa C‑194/94, CIA Security International (Racc. pag. I‑2201), nonché 26 settembre 2000, causa C‑443/98, Unilever (Racc. pag. I‑7535), sono spesso citate in quanto riconoscono l’invocabilità di esclusione delle direttive nell’ambito di una controversia tra singoli. La Corte ha, infatti, considerato che una regola tecnica che non è stata notificata conformemente a quanto dispone la direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche (GU L 109, pag. 8), – che secondo la Corte costituisce «un vizio procedurale sostanziale» – dev’essere disapplicata dal giudice nazionale, anche nell’ambito di una controversia tra singoli (citate sentenze CIA Security International, punto 48, e Unilever, punto 50). Essa ha giustificato lo scostamento rispetto alla sua giurisprudenza classica con il fatto che la «direttiva 83/189 non definisce in alcun modo il contenuto sostanziale della norma giuridica sulla base della quale il giudice nazionale deve risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente. Essa non crea né diritti né obblighi per i singoli» (sentenza Unilever, cit., punto 51).


25 – V., segnatamente, sentenza 17 gennaio 2008, causa C‑246/06, Velasco Navarro (Racc. pag. I‑105, punto 38).


26 – Sentenza Mangold, cit. (punti 77 e 78).


27 – Causa C‑129/96 (Racc. pag. I‑7411).


28 – Punto 45. V., altresì, sentenza Mangold, cit. (punto 67).


29 – Sentenza Mangold, cit. (punto 74).


30 – Ibidem (punto 75).


31 – GU L 175, pag. 43. V. sentenza Mangold, cit. (punto 75 e giurisprudenza ivi citata).


32 – Sentenza Mangold, cit. (punto 76).


33 – Tale Carta è stata proclamata solennemente una prima volta, il 7 dicembre 2000 a Nizza (GU C 364, pag. 1) poi una seconda volta, il 12 dicembre 2007 a Strasburgo (GU C 303, pag. 1).


34 – Sentenza 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 e 16/77, Ruckdeschel e a. (Racc. pag. 1753, punto 7).


35 – V., segnatamente, sentenze 25 novembre 1986, cause riunite 201/85 e 202/85, Klensch e a. (Racc. pag. 3477, punto 9), nonché 12 dicembre 2002, causa C‑442/00, Rodríguez Caballero (Racc. pag. I‑11915, punto 32 e giurisprudenza ivi citata).


36 – Sentenza Rodríguez Caballero, cit. (punto 32).


37 – V., segnatamente, l’influenza che ha potuto avere il principio di uguaglianza sulla determinazione della sfera di applicazione della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40), nella sentenza 30 aprile 1996, causa C‑13/94, P./S. (Racc. pag. I‑2143, punti 18‑20).


38 – V., segnatamente, sentenza 10 marzo 1998, causa C‑122/95, Germania/Consiglio (Racc. pag. I‑973, punti 54‑72).


39 – Sentenza Rodríguez Caballero, cit. (punto 30 e giurisprudenza ivi citata).


40 – Ibidem (punto 31 e giurisprudenza ivi citata).


41 – Direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità di retribuzione tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (GU L 45, pag. 19).


42 – Causa 43/75 (Racc. pag. 455).


43 – Punto 54.


44 – Punto 60.


45 – Causa 96/80 (Racc. pag. 911).


46 – Punto 22.


47 – Causa C‑17/05 (Racc. pag. I‑9583, punto 29).


48 – V., segnatamente, sentenze 12 dicembre 1974, causa 36/74, Walrave e Koch (Racc. pag. 1405); Defrenne, cit., nonché 6 giugno 2000, causa C‑281/98, Angonese (Racc. pag. I‑4139). V., inoltre, per una recente conferma dell’effetto diretto orizzontale delle disposizioni del Trattato relative alle libertà fondamentali, quali l’art. 43 CE, sentenza 11 dicembre 2007, causa C‑438/05, International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union (Racc. pag. I‑10779, punti 57‑59 e giurisprudenza ivi citata).


49 – Il problema sarebbe allora più difficile da risolvere, in quanto, oltre all’ostacolo maggiore legato alla natura dell’atto di diritto comunitario derivato costituito dalla direttiva, la Corte sarebbe confrontata alla questione più generale di sapere se il divieto di discriminazioni possa regolare tutti i tipi di rapporti tra privati. Osservo, al riguardo, che il carattere imperativo del divieto di talune forme di discriminazione enunciate nelle disposizioni del diritto primario ha già condotto la Corte a riconoscer loro la maggiore applicabilità possibile, segnatamente nell’ambito dei rapporti tra privati [v., segnatamente, citate sentenze Defrenne (punto 39), e Angonese (punti 34‑36)]. Per di più, l’art. 3, n. 1, della direttiva 2000/78, il quale prevede che essa «si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato» dimostra che il legislatore comunitario concepisce il divieto di discriminazioni come esteso ai rapporti di lavoro disciplinati dal diritto privato. V., inoltre, per superare l’ambito comunitario Corte eur. D.U., sentenza del 13 luglio 2004, Pla e Puncernau c. Andorra, (Recueil des arrêts et décisions 2004‑VIII), nella quale la Corte europea dei diritti dell’uomo sembra ammettere che il diritto alla non discriminazione previsto dall’art. 14 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmato a Roma il 4 novembre 1950, si applica nell’ambito di rapporti tra privati, aprendo così la strada ad un controllo della compatibilità degli atti strettamente privati nei confronti di tale articolo (v., su tale punto, F. Sudre., Droit européen et international des droits de l’homme, 9ª ed., PUF, Parigi, 2008, pag. 264).


50 – V., in proposito, O. De Schutter, «Les droits fondamentaux dans l’Union européenne: une typologie de l’acquis», Classer les droits de l’homme, 2004, pag. 315. L’autore cita come esempi il diritto all’informazione e alla consultazione dei lavoratori nell’ambito dell’impresa (art. 27), la tutela del lavoratore in caso di licenziamento ingiustificato (art. 30), il diritto a condizioni di lavoro giuste ed eque (art. 31), il divieto del lavoro infantile e la tutela dei giovani lavoratori (art. 32), la garanzia di poter conciliare la vita familiare e la vita professionale (art. 33), nonché il diritto alla sicurezza sociale dei lavoratori migranti (art. 34, n. 2) (pagg. 346 e 347).