Language of document : ECLI:EU:C:1998:380

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

ANTONIO LA PERGOLA

presentate il 16 luglio 1998 (1)

Causa C-212/97

Centros Limited

contro

Erhvervs- og Selskabsstyrelsen

(domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dallo Højesteret)

«Libertà di stabilimento — Stabilimento di una succursale — Elusione della legge dello Stato di stabilimento»

I — Oggetto dell'odierna questione pregiudiziale e contesto fattuale e normativo della causa principale

1.
    Lo Højesterets Anke- og Kæremålsudvalg (in prosieguo: lo «Højesteret») ha richiesto alla Corte, ai sensi e per gli effetti dell'art. 177 del trattato CE (in prosieguo: il «Trattato»), di interpretare le norme comunitarie concernenti il diritto di stabilimento, con riguardo ad un caso di asserita elusione delle norme interne di uno Stato membro che prescrivono un capitale minimo per le imprese costituite in una data forma societaria. La questione pregiudiziale rivolta alla Corte dal giudice a quo è la seguente:

«E' compatibile con l'art. 52 del Trattato CE, in combinato disposto con gli artt. 58 e 56 del medesimo, il diniego di registrazione di una succursale di una società con sede in un altro Stato membro e che, con un capitale sociale di 100 UKL (circa 1 000 DKR), è legittimamente costituita ed esistente conformemente alla normativa di tale Stato membro, qualora la società stessa non svolga attività economiche, ma si intenda costituire la succursale per l'esercizio del complesso delle attività nel Paese di costituzione della succursale e sia accertato che tale modo di agire viene utilizzato per evitare la costituzione di una società nel citato Stato membro ed eludere così il requisito di un capitale sociale minimo di 200 000 DKR, attualmente 125 000 DKR?».

2.
    Richiamerò, prima di ogni altra cosa, i fatti all'origine della causa principale. Nell'estate del 1992, la signora Bryde, socia ed amministratrice unica di Centros Ltd., una private limited company costituita nel precedente mese di maggio secondo il diritto dell'Inghilterra e del Galles, ha richiesto all'Erhvervs- og Selskabsstyrelsen (in prosieguo: il «registro delle società») l'omologazione dell'atto costitutivo di Centros ai fini della registrazione di una succursale. Risulta dall'ordinanza di rinvio che Centros, a norma del suo atto costitutivo, ha come oggetto sociale l'esercizio di attività in numerosi settori commerciali, incluso quello creditizio. Tuttavia, nelle intenzioni dei soci, Centros dovrebbe svolgere solo un'attività di import/export di vini. La società non ha mai operato dal giorno della sua costituzione. L'unico altro socio di Centros è il marito della signora Bryde. Entrambi cittadini danesi residenti in Danimarca, i coniugi Bryde hanno acquisito la società poco tempo dopo la sua costituzione e ad essi sono intestate le uniche due azioni emesse. Il capitale sociale di Centros, di ammontare pari a quello minimo legale di 100 UKL, non è stato effettivamente versato, e si trova conservato in una scatola presso il domicilio di M. Bryde. La sede di Centros si trova presso il domicilio di un amico dei coniugi Bryde, nel Regno Unito.

3.
    La registrazione in Danimarca di succursali di società a responsabilità limitata straniere è regolata dalle norme sulle società a responsabilità limitata, che, all'epoca dei fatti dedotti in giudizio, erano quelle previste dal lovbekendtgørelse 25 settembre 1991, n. 660 (v. artt. 117-122). In base alla citata normativa, una società a responsabilità limitata stabilita in uno Stato membro può operare in

Danimarca per il tramite di succursali stabilite nel territorio nazionale, gestite da uno o più amministratori titolari del potere di agire in suo nome. Affinché la succursale possa validamente operare, deve esserne richiesta la registrazione presso il registro delle società; se la registrazione è rifiutata, alla succursale è vietato proseguire le sue attività. Per ciò che attiene allo svolgimento delle sue operazioni in Danimarca, la succursale è soggetta alla legge danese ed alla giurisdizione dei giudici nazionali. Ai fini delle presenti conclusioni, va, parimenti, richiamata la circostanza — del resto, espressamente menzionata nella questione pregiudiziale — che all'epoca dei fatti le società a responsabilità limitata costituite in Danimarca dovevano disporre di un capitale iniziale minimo di 200 000 DKR (2). Nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, che sarebbe poi stato adottato come legge 21 dicembre 1991, n. 886, l'aumento del capitale minimo richiesto per la costituzione delle società del tipo in questione (nonché per la costituzione di società per azioni) (3), rispetto agli importi rispettivi previgenti, è stato giustificato con riferimento all'obiettivo di rafforzare la solidità finanziaria di tali società, a tutela delle ragioni dello Stato e degli altri creditori pubblici, i quali, diversamente da quelli privati, non hanno la possibilità di esigere garanzie o cauzioni per il soddisfacimento dei propri diritti di credito. Altro obiettivo delle nuove disposizioni era quello di prevenire il rischio di bancarotta fraudolenta dovuta all'insolvenza di società con insufficiente capitalizzazione iniziale. La legge danese non prevede che la società straniera comunitaria che richiede la costituzione di una succursale nel territorio nazionale debba essere dotata di un capitale minimo. Peraltro, la pratica seguita in tali casi dal registro delle società sembra essere quella di verificare se la costituzione all'estero della società istante costituisca lo strumento per l'elusione delle norme danesi sul conferimento del capitale minimo iniziale. Nel caso di specie, non avendo ottenuto dalla signora Bryde i chiarimenti richiesti sull'attività di Centros in Inghilterra e nel Galles, il registro delle società ne ha respinto la domanda di registrazione. Tale decisione è stata confermata dall'Østre Landsret, che, con sentenza 8 settembre 1995, ha escluso che il ricorso alle norme del Trattato sulla libertà di stabilimento consenta a società di un altro Stato membro,

la cui attività è interamente diretta verso il territorio di un altro Stato membro, di eludere norme imperative di quest'ultimo. Nel corso del giudizio di primo grado, il signor Bryde, sentito come testimone, ha dichiarato di ignorare se l'acquisizione di Centros e la successiva costituzione di una succursale in Danimarca rappresentassero un disegno diretto all'elusione della legge danese, pur ammettendo che «è senz'altro più facile trovare 100 UKL che non 200 000 DKR» (traduzione libera). E' questo il contesto nel quale lo Højesteret, dinanzi al quale è pendente il giudizio di impugnazione della sentenza di primo grado, ha richiesto l'ausilio interpretativo di codesto Collegio, nei termini sopra richiamati.

II — Argomenti delle parti, dei governi nazionali «intervenuti» e della Commissione

4.
    Centros ritiene che nella specie risultano soddisfatte tutte le condizioni stabilite dal diritto societario danese per la registrazione di una succursale. La decisione di rifiuto del registro delle società sarebbe, dunque, contraria alla libertà di stabilirsi nel territorio di uno Stato membro diverso da quello dello stabilimento principale, riconosciuta a Centros dagli artt. 52 e 58 del Trattato. Secondo la ricorrente, dalla sentenza della Corte nella causa Segers (4) risulta che il diritto di una società di fondare uno stabilimento secondario nel territorio comunitario è subordinato solamente alle condizioni stabilite dall'art. 58 del Trattato, e non anche al requisito dell'effettivo esercizio dell'attività sociale nello Stato di costituzione. Sarebbe, perciò, del tutto irrilevante il fatto che la società svolga attività commerciali — per il tramite di agenzie, succursali o filiali — esclusivamente in uno o più Stati membri diversi da quello dello stabilimento principale.

5.
    Analoghe osservazioni sono dedotte dal governo britannico, secondo cui il rifiuto di registrazione della succursale equivale a negare a Centros un diritto che è l'essenza stessa della libertà di stabilimento ed offende il principio del mutuo riconoscimento delle imprese sociali. Il legittimo interesse alla protezione dei creditori di società di capitali può essere adeguatamente perseguito con mezzi meno restrittivi della misura dedotta in giudizio, del resto già previsti dal diritto comunitario. Le autorità britanniche richiamano, per esempio, il sistema coordinato di pubblicità di numerosi atti e dati relativi alle succursali create in uno Stato membro da società soggette al diritto di un altro Paese membro, istituito dall'undicesima direttiva del Consiglio in materia societaria (in prosieguo: l'«undicesima direttiva») (5). Grazie a tale sistema, i terzi che, per il tramite della succursale, entrano in relazione contrattuale con la società madre sono informati del fatto che quest'ultima è stata costituita in altro Stato membro in conformità dei requisiti ivi prescritti, anche con riguardo al capitale iniziale, mentre i relativi dati

sono accessibili presso il registro nazionale nel quale è iscritta la succursale. Il governo britannico riconosce che, in base alla giurisprudenza della Corte, occorre distinguere il legittimo esercizio del diritto di stabilimento dal ricorso puramente strumentale a condotte regolate dal diritto comunitario. Esso conclude, tuttavia, che non può in alcun caso qualificarsi come tale la costituzione, da parte dei cittadini di uno Stato membro, di una società secondo la legge di un altro Paese membro. In ogni caso, la restrizione del diritto di stabilimento risultante dalla decisione del registro delle società non può essere giustificata sulla base di scopi di carattere puramente economico, non contemplati dall'art. 56 del Trattato.

6.
    Il registro delle società ribatte che ai coniugi Bryde non è consentito, sulla base della costituzione di una società «pro forma» nel Regno Unito, di invocare gli artt. 52 e 58 del Trattato per sottrarsi al conferimento del capitale minimo legale. Nelle circostanze descritte, la succursale di cui Centros, mediante la signora Bryde, ha richiesto la registrazione in Danimarca costituisce in realtà la società madre. Quanto alla nozione comunitaria di «succursale», la parte resistente propone, in assenza di definizioni ricavabili da fonti normative, di fare ricorso alla nozione utilizzata dalla Corte nelle pronunce interpretative della convenzione concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, firmata a Bruxelles il 27 settembre 1968 (in prosieguo: la «Convenzione») (6). Da tale giurisprudenza (7) risulterebbe, appunto, che se non esiste una casa madre con effettivi poteri di direzione e controllo delle attività della succursale, sarà quest'ultima a costituire il centro di operazioni dell'impresa. Essa dovrà, allora, secondo il registro delle società, coerentemente soddisfare i requisiti per la costituzione dello stabilimento principale, e non di quello secondario. Il carattere necessario dello svolgimento effettivo di un'attività economica da parte della casa madre, ai fini dell'esercizio della libertà di stabilimento secondario, si dedurrebbe, del resto, mutatis mutandis, dalla giurisprudenza in materia di libera circolazione dei lavoratori (8). Tale requisito potrebbe, del resto, essere legittimamente prescritto da uno Stato membro, dato che, nell'attuale fase di evoluzione del diritto comunitario, sarebbero pur sempre le normative nazionali a

regolare la costituzione ed il funzionamento degli enti societari. D'altra parte, come la Corte ha pure affermato, lo Stato di accoglienza può ben pretendere l'osservanza da parte delle persone straniere comunitarie dei requisiti per l'esercizio dell'attività, applicabili ai cittadini o alle società nazionali, sempre che non ne risulti impedito l'effettivo esercizio del diritto di stabilimento da parte delle prime (9). Il registro delle società sostiene che la pretesa di Centros costituisce un esercizio abusivo del diritto di stabilimento e suggerisce di applicare per analogia al caso di specie la vostra dottrina Binsbergen (10), elaborata in sede di interpretazione dell'art. 59 del Trattato: secondo i principi stabiliti in tale giudizio dalla Corte, ad uno Stato membro è consentito di adottare misure dirette ad impedire che la libertà di prestazione di servizi sia invocata da un operatore di altro Stato membro, la cui attività è interamente o principalmente diretta verso il territorio del primo Stato, al fine di sottrarsi all'applicazione delle regole professionali vigenti in tale Stato, alle quali egli sarebbe soggetto se vi fosse stabilito. Infine — conclude il registro delle società —, quand'anche a Centros fosse consentito di invocare il diritto al libero stabilimento nel territorio comunitario, rimarrebbe il fatto che il requisito del capitale iniziale minimo delle società a responsabilità limitata, previsto dal diritto danese a tutela degli interessi dei soci e degli eventuali dipendenti e creditori, costituisce una misura del tutto legittima, nonostante l'assenza di armonizzazione a livello comunitario in materia. Il rafforzamento della base finanziaria delle società appartenenti al tipo in questione costituirebbe una esigenza imperativa di interesse generale. Tale esigenza non potrebbe essere perseguita con mezzi meno restrittivi del rifiuto di registrazione, ma, semmai, con misure più drastiche, quali l'estensione della responsabilità dei soci al rispettivo patrimonio personale o l'introduzione di un obbligo di prestare cauzione all'atto della costituzione di una società, a garanzia dei suoi debiti futuri nei confronti dell'amministrazione fiscale o previdenziale, o di altri creditori pubblici. Richiamando la vostra costante giurisprudenza in materia di esercizio abusivo di diritti derivanti da norme comunitarie, il registro delle società osserva, in particolare, come nella decisione Segers, qui invocata da Centros, la Corte abbia stabilito che l'art. 56 del Trattato consente in linea di principio, entro certi limiti, l'applicazione di un altro regime speciale per le società costituite conformemente al diritto di un altro Stato membro, se tale regime apparegiustificato da esigenze di lotta contro le pratiche fraudolente. E' vero che la normativa olandese controversa in quel procedimento è stata, infine, ritenuta non giustificata ai sensi della disposizione citata, non potendo costituire misura adeguata, sotto l'aspetto indicato, il rifiuto di corrispondere una prestazione di malattia all'amministratore della succursale di una società «di pura forma» regolarmente costituita secondo il diritto di un altro Stato membro. Tuttavia, la soluzione adottata nel caso concreto nulla toglierebbe alla validità del principio generale posto dalla Corte. Oltretutto, la protezione degli interessi finanziari dei

creditori non costituirebbe un obiettivo economico — come tale non coperto dal citato art. 56 —, ma sarebbe diretta alla conservazione di un sistema giuridico fondato sulla lealtà dei rapporti contrattuali.

7.
    Gli argomenti del registro delle società risultano condivisi, oltre che dal governo danese, dalle autorità francesi e svedesi. Peraltro, il governo danese eccepisce addirittura, in via preliminare, che versiamo in una situazione puramente interna alla Danimarca sicché le norme comunitarie invocate da Centros sono inapplicabili al caso di specie. In effetti, la ricorrente tenterebbe di aggirare le norme nazionali mediante la costituzione di una casa madre «travestita» da succursale. Tuttavia, in assenza di un legame di natura commerciale effettivo e continuo tra Centros e la vita economica britannica, nonché tra la società e la succursale danese, non risulterebbe qui soddisfatto il requisito enunciato dalla Corte nelle cause Levin e Gebhard (11). In ogni caso, secondo il governo danese, è escluso che la vostra sentenza Segers sia applicabile alla causa principale, nella quale non sussistono profili di discriminazione in base alla nazionalità.

8.
    Il governo francese sostiene, dal canto suo, che il principio dell'irrilevanza, ai fini del diritto di stabilimento, del mancato svolgimento di attività commerciali nel Paese di costituzione della società straniera — affermato da codesto Collegio in Segers, e qui invocato da Centros (v. supra, paragrafo 4) — è applicabile solo se l'operazione di montage appare giustificata da ragioni legittime e non ricorre alcuna intenzione abusiva o fraudolenta. Diverso è il caso in cui, come avverrebbe nella specie, unico obiettivo dell'operazione è l'elusione delle norme societarie dello Stato di stabilimento secondario. Quest'ultimo potrà, allora, rifiutare la registrazione della succursale, dovendosi ritenere provato il carattere abusivo o fraudolento della condotta in questione. Per tale ragione, in Francia la competente autorità può essere indotta a verificare l'eventuale esistenza di un esercizio abusivo del diritto di stabilimento da parte dell'interessato qualora l'attività della succursale della società straniera sia «regolamentata», cioè soggetta a controllo, autorizzazione o diploma.

9.
    Il governo olandese, dal canto suo, riconosce che la decisione del registro delle società è contraria all'art. 52 del Trattato e si sofferma, piuttosto, sui limiti cui è soggetta l'applicabilità della norma in questione al caso di specie. In particolare, mentre rileva l'esigenza di un'interpretazione coerente dell'insieme delle regole comunitarie sulle libertà fondamentali, esso richiama il principio — stabilito dalla

Corte nella sentenza Rutili (12), relativa alla libera circolazione dei lavoratori — secondo cui l'esistenza di una minaccia reale e sufficientemente grave per l'ordine pubblico è suscettibile di giustificare eventuali misure nazionali restrittive, basate sulla condotta personale della persona interessata. E' alla luce di queste precisazioni che andrebbero interpretate le affermazioni fatte dalla Corte in Segers, secondo cui le esigenze di lotta contro le pratiche fraudolente possono giustificare l'applicazione di un regime differenziato alle società costituite conformemente al diritto di un altro Stato membro; anche tale eccezione, infatti, è fondata sulla nozione di ordine pubblico di cui all'art. 56 del Trattato.

10.
    La Commissione, infine, propone un'altra e più articolata veduta del caso in esame. Per un verso, essa afferma che Centros ha semplicemente esercitato il diritto di stabilirsi nello Stato membro che le offriva, quanto al capitale sociale iniziale prescritto, le condizioni più vantaggiose: ciò che — come dovrebbe desumersi dalla sentenza Segers — è precisamente uno degli obiettivi della libertà di stabilimento. La possibilità di giovarsi di forme societarie straniere e delle differenze esistenti al riguardo fra le normative degli Stati membri non costituisce in sé un aggiramento delle norme nazionali illegittimo. Nelle circostanze della causa principale, la descritta pratica amministrativa di indagine seguita dal registro delle società (v. supra, paragrafo 3), nonché il conseguente rifiuto di registrazione di una succursale di una società che soddisfa i requisiti posti dall'art. 58 del Trattato, darebbero quindi luogo — la Commissione sostiene — a discriminazioni fondate sulla nazionalità, vietate ai sensi dell'art. 52. Allo Stato dello stabilimento secondario non è consentito subordinare la registrazione della succursale alla condizione che la società madre soddisfi tutti i requisiti per la costituzione delle società, posti dalla sua legge nazionale. Per altro verso, qualora — come accade nella materia che ci concerne — non sussista coordinamento a livello comunitario, sarebbe legittimo, secondo la Commissione, che lo Stato membro dello stabilimento secondario possa fissare condizioni per la registrazione della succursale, fondate sulle norme interne e dirette ad assicurare, alle persone che nel proprio territorio instaurino un rapporto con la società straniera, una protezione più ampia di quella risultante dagli atti costitutivi dell'ente straniero. Con riguardo alla specie, appare, se non certo, quanto meno verosimile che le regole danesi sul conferimento di capitale iniziale realizzino l'obiettivo dichiarato di tutela dei creditori pubblici. Rispetto a tale obiettivo, però, sarebbe sproporzionato il puro e semplice diniego dello stabilimento secondario in ragione di un presunto intento di elusione delle norme di legge vigenti. A tale rifiuto non può applicarsi alcuna delle ragioni giustificative previste dall'art. 56 del Trattato, il quale non si applica ad obiettivi di carattere economico e, in ogni caso, presupporrebbe che l'intento fraudolento della società straniera nei confronti dei creditori in Danimarca sia provato come esistente. Secondo la Commissione, nel contesto fattuale e normativo della causa principale, un mezzo adeguato e meno restrittivo per proteggere i creditori sarebbe quello di

subordinare la registrazione della succursale alla condizione che la società madre straniera abbia un capitale conferito corrispondente a quello prescritto dalle pertinenti disposizioni nazionali per la costituzione in Danimarca di società dello stesso tipo.

III — Analisi giuridica della questione sottoposta alla Corte

11.
    L'ordinanza di rinvio ha chiaramente circoscritto l'oggetto della odierna questione pregiudiziale nei termini seguenti: nella causa principale non è contestato il diritto delle private companies limited by shares, regolarmente costituite ed aventi la loro sede sociale in Inghilterra o nel Galles, di stabilirsi nel territorio danese per il tramite di succursali, nonostante il capitale iniziale minimo prescritto dalle leggi britanniche per questo tipo societario sia notevolmente inferiore a quello richiesto dal diritto danese per le società dello stesso tipo stabilite in Danimarca. Del resto, stando alle affermazioni fatte all'udienza dal rappresentante dell'amministrazione danese, le società a responsabilità limitata comunitarie, britanniche in particolare, si avvalgono largamente nella pratica del diritto di stabilimento in Danimarca, senza che ciò le esponga all'adozione da parte dal registro delle società di misure di divieto analoghe a quella qui contestata. Il punto in questione è, perciò, quest'altro: esercita legittimamente il diritto di stabilimento secondario la società che intenda svolgere le proprie attività commerciali esclusivamente nel Paese di registrazione della succursale, quando risulta che la stessa scelta iniziale di costituire la società in altro Stato membro, diverso da quello nel quale essa è destinata ad operare, è stata motivata unicamente dall'obiettivo di sottrarsi ai più severi requisiti legali sul capitale sociale minimo previsti dalla legge dello Stato membro dello stabilimento secondario? Secondo l'amministrazione danese la risposta, viste le circostanze della specie, deve essere negativa (e la misura dedotta nella questione pregiudiziale va, di conseguenza, dichiarata compatibile con le norme del Trattato). Più precisamente, le circostanze del caso in esame vengono utilizzate dalle autorità danesi per avanzare un duplice ordine di argomenti: il diniego di registrazione della succursale di Centros non restringerebbe la libertà di stabilimento contraria all'art. 52 del Trattato; e, in subordine, se restrizione vi fosse, questa rientrerebbe comunque nel regime particolare per le società straniere, che l'art. 56 del Trattato consente agli Stati membri di dettare, fra l'altro, per ragioni di ordine pubblico. Analizzerò prima l'una, poi l'altra linea argomentativa della resistente. Mi sia consentito, però, premettere a tale indagine qualche rapido rilievo sulla vostra giurisprudenza in materia e sulla funzione della sede secondaria estera nella struttura organizzativa dell'impresa.

12.
    La norma contenuta nell'art. 52 del Trattato, direttamente efficace dalla fine del periodo transitorio, mira a garantire il trattamento nazionale a qualsiasi cittadino di uno Stato membro che si stabilisca, anche solo in via secondaria, in altro Stato membro per esercitarvi un'attività non subordinata. Nell'oggetto del diritto di stabilimento rientrano anche la costituzione e gestione di imprese, conformemente alle disposizioni che la legge del Paese di accoglienza stabilisce per i suoi cittadini, nonché la costituzione di agenzie, succursali o affiliate da parte dei

cittadini comunitari stabiliti a titolo principale nel territorio di un altro Stato membro. A norma dell'art. 58 del Trattato, il diritto di stabilimento comprende, poi, per le imprese sociali costituite secondo il diritto di un uno Stato membro ed aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale nel territorio comunitario, il diritto di operare in altro Stato membro mediante uno stabilimento secondario. Da questa libertà fondamentale ne discendono, come corollari, altre tre: l'attività d'impresa può essere esercitata in forma societaria in uno Stato membro mediante una società nazionale di quello Stato o di un altro Paese membro; la società ha il diritto di scegliere, ai fini dello stabilimento secondario, fra la creazione di una filiale o di una succursale; e la società straniera è titolare, nello Stato dello stabilimento secondario, degli stessi diritti di cui quivi godono le società nazionali (13).

Poiché la disposizione liberale del citato art. 58 poteva essere interpretata nel senso dell'ammissione al beneficio della libertà di stabilimento secondario anche delle persone giuridiche aventi nel territorio comunitario la sede statutaria, ma non anche la sede sociale «reale», vale a dire l'amministrazione centrale, né il centro di attività principale, è presto emersa la necessità di precisare a quali condizioni tale libertà sia soggetta con riguardo alle società stabilite a titolo principale al di fuori della Comunità (14). Come ha chiarito il programma generale per la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento, stabilito dal Consiglio il 18 dicembre 1961 (15), a tal fine dovrà essere soddisfatto un criterio di collegamento ulteriore, di natura economica: quello del legame «effettivo e continuato» con

l'economia di uno Stato membro (16). Ma — è appena il caso di aggiungere — si tratta di un criterio che vale con esclusivo riguardo alle società extracomunitarie.

13.
    Quanto al contenuto del richiamato diritto di stabilimento secondario, la giurisprudenza della Corte ha messo in luce che la sede delle società interessate, nel senso della triplice alternativa summenzionata (v. paragrafo 12), «serve per determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all'ordinamento giuridico di uno Stato. Ammettere che lo Stato membro di stabilimento possa liberamente riservare un trattamento diverso per il solo fatto che la sede di una società si trova in un altro Stato membro svuoterebbe quindi di contenuto [la disposizione dell'art. 52 del Trattato]» (17). E pertanto, qualora risultino soddisfatte le due condizioni, di legittimità e di appartenenza ad uno dei Paesi membri, alle quali il citato art. 58 subordina il riconoscimento della nazionalità comunitaria di una società, quest'ultima avrà diritto al trattamento nazionale anche se svolge interamente le proprie attività commerciali in uno Stato membro diverso da quello dello stabilimento principale, mediante un'agenzia, una succursale o un'affiliata (18). Dalla vostra giurisprudenza si desume, poi, «che le norme sulla parità di trattamento vietano non solo le discriminazioni palesi a motivo della cittadinanza, o della sede nel caso delle società, ma anche ogni forma dissimulata di discriminazione che, applicando altri criteri distintivi, porti in pratica allo stesso risultato» (19). Analogamente, la Corte ha dichiarato incompatibili con il Trattato misure statali non discriminatorie, e tuttavia suscettibili di ostacolare o

scoraggiare l'esercizio da parte dei cittadini (o delle società) comunitari delle libertà fondamentali garantite dal diritto comunitario (20).

14.
    Ai sensi dell'art. 56 del Trattato, gli Stati membri possono, peraltro, derogare al divieto di misure restrittive dello stabilimento nel loro territorio, ed applicare un regime particolare alle persone (fisiche e giuridiche) straniere beneficiarie del diritto riconosciuto dall'ordinamento comunitario, quando ricorrono appropriati motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza o sanità pubblica. In quanto comporta una deroga ad un principio fondamentale del Trattato, il citato art. 56 deve essere interpretato in maniera restrittiva. Per la sua applicabilità è, dunque, richiesta una minaccia effettiva e sufficientemente grave per uno degliinteressi fondamentali della collettività, ivi incluse la prevenzione di eventuali abusi e la salvaguardia dell'interesse all'adeguata attuazione della normativa nazionale in materia previdenziale (21). Resta, così, escluso che la norma possa essere invocata al fine di perseguire obiettivi di natura economica (22); inoltre, le misure adottate per la salvaguardia degli interessi avuti di mira devono essere solo quelle strettamente necessarie e devono rispettare il canone di proporzionalità (23).

Allorché, poi, la misura restrittiva dedotta in giudizio sia priva di carattere discriminatorio — e cioè, per quanto rileva in questa sede, sia indistintamente applicabile alle società nazionali e a quelle straniere comunitarie —, essa potrà essere giustificata anche in base ad esigenze imperative connesse all'interesse generale (24), purché: i) tali esigenze non risultino già salvaguardate dalle norme alle

quali la società straniera è soggetta nello Stato di stabilimento, e ii) la misura sia necessaria e proporzionata (25).

15.
    Esaminiamo, ciò detto, le nozioni di «succursale» e di «filiale» (recte, «affiliata») (26), alle quali fa riferimento la disposizione dell'art. 52, richiamata dal successivo art. 58 del Trattato (tralascio la figura dell'agenzia, che qui non rileva). Qual è il criterio distintivo fra queste due figure di articolazione territoriale permanente che un'impresa può costituire, eventualmente nel territorio di Stati membri diversi da quello d'origine, generalmente destinandole ad operare nei confronti dei terzi? Tale criterio viene rinvenuto essenzialmente nell'assenza di autonoma personalità giuridica della succursale, definita come un'universalità di fatto, ovvero come un semplice smembramento dell'impresa, che consente di realizzare una certa decentralizzazione (27). La società affiliata, invece, è giuridicamente indipendente dalla società madre da cui è controllata (28). Come è

stato osservato in dottrina (29), la rilevanza della contrapposizione fra queste due tecniche giuridiche di stabilimento transfrontaliero delle società si manifesta sotto molteplici profili. Anzitutto, poiché la nazionalità costituisce un attributo della personalità, la succursale, la cui attività si identifica con quella della società da cui dipende, non può avere nazionalità distinta da quella di quest'ultima; e la sua situazione giuridica è regolata dall'ordinamento di appartenenza della società straniera, della quale essa costituisce una semplice diramazione. Il principio opposto si applica alle società affiliate. Inoltre, nonostante la succursale sia provvista di una certa autonomia di gestione, è pur sempre alla società madre che va ricondotta l'attività negoziale svolta per suo conto dal soggetto preposto all'esercizio della dipendenza. La società affiliata, invece, può validamente concludere contratti, salvo l'eventuale intervento della società madre nell'operazione in qualità di contraente. Infine, in base al principio dell'unità del patrimonio, i debiti (e, correlativamente, i crediti) contratti nell'esercizio delle attività della succursale vanno imputati alla società (mentre non è il caso di parlare di debiti della succursale); e ciò per quanto, per ragioni di comodità pratica, al creditore sia in tal caso normalmente consentito di convenire la società dinanzi alla giurisdizione del luogo in cui ha sede la succursale (v. infra, paragrafo 18). La società affiliata, invece, è dotata di un proprio patrimonio, che risponde dei debiti da essa contratti; tra la società madre ed i creditori, perciò, si interpone lo «schermo» dell'affiliata dotata di distinta personalità giuridica.

IV — Soluzione dell'odierna questione pregiudiziale

Analisi della compatibilità del rifiuto di registrazione della succursale danese di Centros con la libertà fondamentale di stabilimento

16.
    A mio avviso, la misura adottata dall'amministrazione danese offende le disposizioni del Trattato in materia di libero stabilimento. Come meglio spiegherò, essa non restringe semplicemente l'esercizio del diritto di stabilimento secondario riconosciuto alle società straniere comunitarie, ma lo preclude radicalmente. Nella specie, si è invero impedito che i coniugi Bryde svolgessero in Danimarca un'attività imprenditoriale attraverso una società regolarmente costituita e con sede sociale in altro Stato membro della Comunità. Il registro delle società sembra dedurre, in sostanza, che gli interessati, poiché intendono operare unicamente nel mercato nazionale, devono a tal fine osservare il regime disposto dal diritto danese con riguardo al tipo di società commerciale del quale si sono giovati. Il che comporta, a mio avviso, la violazione dell'art. 52 del Trattato. Il caso di specie va valutato anche sulla base dell'art. 58. Sotto tale profilo, risulta che Centros è discriminata

rispetto alle società costituite in conformità della legislazione danese, non soggette ad analoghi impedimenti quando esse stabiliscono succursali in Danimarca. La misura dedotta in giudizio lede, inoltre, indirettamente il diritto della società ricorrente di scegliere fra aprire in Danimarca una succursale o una società affiliata. Le autorità danesi non avrebbero mosso a Centros alcuna censura — ciò mi pare evidente — se la società costituita nel Regno Unito avesse preferito, ai fini dello stabilimento transfrontaliero, in luogo di una semplice succursale, una società affiliata, la quale ultima deve per definizione soddisfare, in quanto distinta dalla società madre, i requisiti stabiliti dalla legge nazionale applicabile, anche in materia di capitale sociale minimo. La libertà di scegliere la forma giuridica più idonea per lo svolgimento dell'attività commerciale in altro Stato membro è, però, espressamente garantita agli operatori economici dall'art. 52, primo comma, seconda frase, del Trattato e non può essere limitata, come invece accade nella specie, da disposizioni discriminatorie (30).

17.
    Vediamo più da vicino quali argomenti l'amministrazione danese oppone alle considerazioni che ho ritenuto di dover prospettare. Essa contesta che Centros possa legittimamente invocare il diritto di libero stabilimento ai sensi del Trattato. Per il fatto di non svolgere attività economica nel Regno Unito, la società ivi costituita dai coniugi Bryde non avrebbe un effettivo e continuo collegamento con la vita economica di quel Paese, versando così in una situazione puramente interna, come tale estranea al diritto comunitario; ovvero saremmo di fronte ad un caso, parimenti privo di tutela, di esercizio abusivo e fraudolento del diritto di stabilimento, quale il Trattato lo configura (31). Tali argomenti non mi lasciano persuaso per le ragioni che spiego qui di seguito, e questo anche a voler prescindere dal rilievo che il criterio di esigere lo svolgimento di un'attività effettiva da parte della società madre sarebbe, prima ancora che discutibile nella sostanza, di problematica applicazione, a causa del suo carattere indeterminato. Di quale natura, durata e dimensione dovrebbe essere l'operato della società madre perché questa possa liberamente esercitare il diritto di stabilimento secondario?

18.
    Avverto, per precisare le conclusioni sopra formulate, che l'applicabilità delle norme in materia di libero stabilimento deve ritenersi esclusa, come vorrebbe il governo danese nella specie, solo se la situazione dei soggetti interessati, siano essi cittadini o società aventi la nazionalità di uno degli Stati membri, difetta di qualsiasi elemento di collegamento con le disposizioni del diritto comunitario e, perciò, non può essere ad esso riferita (32). Non ritengo, per parte mia, che così accada nella causa principale. Centros è stata costituita in base alla legge

dell'Inghilterra e del Galles, ed ha sede nel Regno Unito. Basta tale circostanza perché la sua situazione sia attratta entro l'ambito di applicazione degli artt. 52 e 58 del Trattato. Non occorrono, a me pare, ulteriori accertamenti, relativi alla cittadinanza dei soci ed amministratori o all'ambito territoriale al quale le attività della società sono rivolte (33). E d'altra parte, secondo la giurisprudenza di codesto Collegio, il richiamo, nell'art. 52, ai «cittadini di uno Stato membro» che vogliano stabilirsi «nel territorio di un altro Stato membro» non può interpretarsi in modo da escludere dai vantaggi del Trattato i cittadini comunitari che — essendosi avvalsi delle possibilità offerte in materia di circolazione e di stabilimento — si trovino, rispetto al proprio Stato d'origine, in una situazione analoga a quella di quanti altri soggetti fruiscano dei diritti e delle libertà garantite dal Trattato stesso (34). L'amministrazione danese insiste sulla necessità che lo stabilimento principale svolga realmente le attività indicate come oggetto sociale. Così ragionando, tuttavia, essa finisce con il leggere nel testo dell'art. 58 del Trattato un ulteriore requisito, al quale il diritto di stabilimento secondario sarebbe subordinato. I requisiti formali posti dall'art. 58, al fine di individuare le società beneficiarie del diritto in questione, sono però, a mio avviso, tassativi. Il dato giuridico-formale assume rilevanza decisiva. Ecco il punto: non vi è spazio per indagini sulla natura e sul contenuto dell'attività che l'entità societaria svolge o si propone di svolgere (35). In merito alla libertà di stabilimento delle persone fisiche, la Corte ha, del resto, già avuto modo di pronunciarsi sulla pretesa di uno Stato membro di condizionare l'esercizio del diritto in questione ad un requisito ulteriore (in casu, quello della residenza effettiva nel territorio nazionale) rispetto a quello dell'esser cittadino di uno Stato membro, che è l'unico presupposto soggettivo prescritto dall'art. 52 del

Trattato. Siffatta pretesa — la Corte ha sancito — è contraria al diritto comunitario (36). E, perciò, l'accostamento — proposto dal registro delle società — fra il caso dedotto nell'odierno giudizio e quello oggetto della richiamata sentenza Levin (37) è, a mio avviso, impraticabile, attesa la diversa formulazione dell'art. 52, che garantisce in termini astratti la semplice opportunità d'intrapresa economica (v. infra, paragrafo 19), rispetto a quella dell'art. 48, n. 3, del Trattato, che tipizza con precisione il contenuto delle attività con le quali è realizzato il diritto di circolazione garantito ai lavoratori subordinati (38).

19.
    A sostegno della posizione da essa assunta nella presente causa, l'amministrazione danese fa, poi, riferimento ad altra giurisprudenza, dettata dalla Corte nel contesto della Convenzione (v. supra, paragrafo 6). Il richiamo di tali decisioni è, però, privo di pregio ai fini dell'odierno giudizio. Si tratta, come è noto, di sentenze interpretative concernenti l'applicabilità, nei singoli casi di specie, dello speciale criterio di competenza giurisdizionale sancito dall'art. 5, n. 5, della

Convenzione (39). In quei giudizi, la Corte si è limitata a considerare le caratteristiche del concetto di stabilimento secondario di volta in volta rilevanti per la soluzione delle questioni pregiudiziali sottoposte al suo esame. Essa era chiamata a garantire la piena efficacia della Convenzione, ed ha così dovuto ricorrere ad un'interpretazione autonoma delle nozioni di filiale e succursale. Tali nozioni convenzionali hanno carattere restrittivo perché tengono soprattutto in conto l'esigenza di evitare la moltiplicazione dei fori competenti ed i conseguenti fenomeni di forum shopping, prestando attenzione alle motivazioni «protezionistiche», a scapito dei convenuti stranieri, della originaria previsione di criteri speciali di giurisdizione negli ordinamenti degli Stati contraenti (40). E' una

giurisprudenza elaborata a tutt'altri effetti che quelli qui considerati, e dalla quale non può certo farsi discendere la conclusione che lo stabilimento è secondario, anziché primario, solo se esso concerne attività commerciali intraprese come estensione di una sede principale effettivamente operante, alla cui direzione ed al cui sindacato la sede secondaria debba andar soggetta.

20.
    Riflettiamo, d'altra parte, sull'altra tesi avanzata dal registro delle società e dal governo danese: l'interesse dei coniugi Bryde allo svolgimento in Danimarca di attività d'impresa in forma societaria, con limitazione della relativa responsabilità, non sarebbe meritevole della protezione offerta dagli artt. 52 e seguenti del Trattato in quanto lo schema societario per lo stabilimento in Gran Bretagna sarebbe stato da loro prescelto con intenti fraudolenti. Il fine sarebbe quello di eludere le norme sul capitale sociale minimo iniziale dello Stato dello stabilimento secondario (che, secondo una tale prospettazione, risulterebbero applicabili a quello che, in realtà, è uno stabilimento «primario»). Certo, il principio secondo cui «gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario» è costante nella giurisprudenza di codesto Collegio (41) e figura fra i principi generali dell'ordinamento comunitario. Precisarne gli esatti contorni è, però, tutt'altro che agevole. Secondo la recente

pronuncia Kefalas, abusa del diritto chi ne è titolare quando lo esercita in maniera irragionevole, per ottenere, con danno altrui, «vantaggi illeciti e palesemente estranei all'obiettivo» perseguito dal legislatore con il conferire all'individuo quella determinata situazione soggettiva (42). Sotto questo profilo dell'abuso del diritto, traspare una certa affinità fra il principio generale che lo consacra e quello che ha riguardo al criterio di proporzionalità come limite all'esercizio del potere (43). A parte ciò, come è stato rilevato in dottrina, resta sempre attuale la celebre definizione formulata dal civilista francese Planiol, secondo cui «le droit cesse là oùl'abus commence»; affermazione, questa, che pone in chiara evidenza come la tematica dell'abuso si risolva, in ultima analisi, nel definire il contenuto sostanziale della situazione soggettiva, e dunque l'ambito delle facoltà riconosciute al soggetto che ne è titolare. In altri termini, il valutare se il concreto esercizio di un diritto sia abusivo, oppur no, altro non significa che delimitare, sul piano sostantivo, la portata del diritto stesso (44). Se così è, mi sia consentito di richiamare i concetti già esposti (v. supra, paragrafi 13 e 16) in tema di libertà di stabilimento. Tale libertà comprende sicuramente, per quel che qui interessa, il diritto di costituire società in conformità della legislazione di uno Stato membro per operare in quello stesso Stato ovvero, ad egual titolo, in qualsiasi altro Stato membro. Altrimenti detto: la società di nuova costituzione ha il diritto di stabilirsi — in via principale ed, eventualmente, anche secondaria — dovunque essa preferisca nell'ambito comunitario.

Il diritto di stabilimento è essenziale per l'attuazione degli obiettivi prefigurati dal Trattato, che intende garantire, indistintamente a tutti i cittadini comunitari, la libertà di intrapresa economica, attraverso gli strumenti apprestati dal diritto nazionale, assicurando loro la chance di inserimento nel mercato, quali che siano gli intenti da cui il beneficiario possa esser mosso in concreto. Altrimenti detto, è l'opportunità di iniziativa economica ad essere tutelata, ed insieme con essa la libertà negoziale di giovarsi degli strumenti a tal fine predisposti negli ordinamenti degli Stati membri. Nel nostro caso, l'esercizio del diritto di stabilimento si è

concretato nel costituire la società alle condizioni previste dalla legge del Paese di ricezione. I motivi, i calcoli, gli interessi individuali dell'interessato sottostanti a tale scelta non vengono in considerazione nel momento in cui la libertà è esercitata in conformità del Trattato, e non sono pertanto sindacabili (45). Quel che rileva è, semmai, la compatibilità dell'attività svolta (quando la si svolge) con le norme interne di ordine pubblico dello Stato dello stabilimento (primario o secondario), che possono giustificare eventuali misure restrittive dell'esercizio della libertà in questione. Il diritto di stabilimento è riconosciuto in questi termini proprio in ragione della costruzione del mercato unico. Tanto ciò è vero che diverso è il trattamento riservato dal Trattato alle persone giuridiche extracomunitarie, che, per poter approdare nella cerchia della Comunità, devono soddisfare il criterio del legame effettivo e continuato con l'economia di uno Stato membro (v. supra, paragrafo 12).

A conferma di quanto appena osservato, mi sia consentito richiamare il più volte citato caso Segers: in questo procedimento, un cittadino olandese aveva trasformato la propria società unipersonale, con sede sociale nei Paesi Bassi, in una società a responsabilità limitata affiliata di una società di diritto inglese, da lui contestualmente acquisita, la quale ultima non svolgeva attività commerciali ed operava solamente attraverso la sede secondaria. Di fatto, come risulta dagli atti processuali, il ricorso a tale schema societario era stato motivato dal semplice intento di avvalersi della dicitura «Ltd», ritenuta più attraente del suo equivalente olandese «BV», nonché di sottrarsi al termine legale prescritto per tale trasformazione dalla legge olandese (46). Ciò non ha impedito alla Corte di affermare che la situazione della società e del signor Segers, suo amministratore, rientrava nell'ambito della libertà di stabilimento e di concludere che il ricorrente aveva perciò diritto al trattamento nazionale (47). Non si vede, allora, perché

all'opposta conclusione dovrebbe giungersi nel caso in cui la costituzione della società nel Regno Unito sia motivata — come accade nel caso di specie — dal desiderio di avvalersi della possibilità di operare con un capitale sociale di importo adeguato alle disponibilità finanziarie dei fondatori, più esiguo di quello prescritto dalla legge danese. Siffatta situazione, ci piaccia oppur no, è la conseguenza logica dei diritti garantiti dal Trattato. Del resto essa contribuisce allo scopo per il quale è stata sancita la libertà comunitaria di stabilimento: favorire la libera circolazione delle persone (e dei capitali) e, con ciò, la realizzazione di un mercato comune. «In questo senso, rientra nell'ordine logico [— nella logica, cioè, dell'ordinamento comunitario —] che il cittadino di uno Stato membro tragga vantaggio dall'elasticità del diritto britannico delle società (...)» (48). In assenza di armonizzazione, insomma, è la concorrenza tra sistemi normativi («competition among rules») a dover avere libero gioco, anche in materia societaria (49). Come nel caso Segers, così nel nostro, le libertà sopra richiamate fanno parte del contenuto sostanziale del diritto controverso; deve, perciò, escludersi che i coniugi Bryde abbiano tratto «vantaggi

illeciti e palesemente estranei all'obiettivo» degli artt. 52 e seguenti del Trattato, sottraendosi abusivamente all'applicazione di norme imperative dello Stato di stabilimento secondario. La giurisprudenza invocata dall'amministrazione danese (50), lungi dal contraddire la conclusione alla quale pervengo, finisce, a mio avviso, per avvalorarla. Da tali pronunce risulta, infatti, che la frode alla legge può prospettarsi solo quando la norma che si assume elusa è inequivocamente applicabile alla situazione giuridica controversa. Se la prospettata elusione riguarda una norma di diritto nazionale, occorre, allora, aver assodato che la regola interna, come la si vorrebbe applicare alla specie, possa essere utilizzata dal giudice in quanto conforme al diritto comunitario. Ed è proprio su questo punto che l'argomentazione del registro delle società appare viziata, si direbbe, da una petizione di principio: affermando la necessaria applicabilità delle norme interne sul capitale minimo di cui devono essere dotate le società a responsabilità limitata al momento della costituzione, le autorità danesi escludono che l'opposto risultato possa derivare — come, in effetti, avviene nella specie — dall'esercizio della libertà di scelta, garantita agli interessati dal Trattato, circa lo strumento societario più adeguato ai loro fini, fra tutti quelli offerti dai vari ordinamenti nazionali degli Stati membri. La misura controversa del registro delle società contraddice il diritto comunitario proprio perché adottata nell'implicito ma chiaro presupposto che lo svolgimento da parte di cittadini danesi di un'attività d'impresa, rivolta essenzialmente al mercato danese, debba inevitabilmente avvenire mediante il loro stabilimento a titolo principale nel territorio nazionale. E' una tesi, però, non sostenibile nella fase attuale dell'integrazione europea, caratterizzata dalla realizzazione pressoché compiuta di un mercato interno grazie all'eliminazione degli ostacoli nazionali alla libera circolazione delle persone e dei capitali [v. art. 3, lett. c), del Trattato]. L'interprete deve trarre le dovute conseguenze dall'evoluzione già intervenuta nell'ordinamento comunitario; alla Corte spetta di fare prevalere lo spirito del Trattato, dando applicazione in maniera coerente, anche con riguardo

alla mobilità societaria, alla dottrina «Cassis de Dijon» sul mutuo riconoscimento (51). Con ciò non intendo sostenere, lo ribadisco, che la società straniera non operativa nel Paese di costituzione non sia soggetta, per l'esercizio delle attività della succursale aperta in altro Stato membro, a norme imperative di tale Stato applicabili alle società nazionali dello stesso tipo. Lo stabilimento secondario, in effetti, è tale da istituire un adeguato collegamento fra la società straniera e l'ordinamento del Paese membro di ricezione. La possibilità di applicare le norme imperative locali, però, non può in alcun caso comportare che alla società comunitaria venga impedito di esercitare il diritto di stabilimento. Ne consegue, a mio avviso, con riferimento al caso di specie, che la pretesa del registro delle società di applicare allo stabilimento secondario il trattamento previsto dal diritto nazionale per quello primario, in particolare per quanto concerne il capitale sociale minimo, può ritenersi fondata solo in presenza di appropriate giustificazioni.

Analisi dell'esistenza di eventuali giustificazioni della misura controversa

21.
    E' questo l'aspetto della questione che, giunti a questo punto, rimane da esaminare. Potrebbe la misura restrittiva dedotta nell'odierno giudizio essere giustificata, ai sensi del diritto comunitario, perché genuinamente fondata su ragioni di ordine pubblico e perché proporzionata rispetto agli obiettivi che essa persegue? Il registro delle società invoca l'esigenza di avversare le pratiche fraudolente e, più precisamente, quella di tutelare i futuri creditori di Centros in relazione all'esercizio della succursale danese: in ragione della «sottocapitalizzazione» della società, almeno sulla base dei parametri danesi, e della limitazione della responsabilità dei soci, consentire la registrazione della succursale in Danimarca esporrebbe gli operatori economici ed i creditori pubblici danesi, in caso di successiva incapienza di Centros, al rischio di perdite finanziarie. Tale rischio esiste, non si può negarlo, dovunque vi sia una società a responsabilità limitata; ma mi sembra ben lungi dal costituire «una minaccia effettiva e sufficientemente grave per uno degli interessi fondamentali della collettività», come richiesto dall'art. 56 del Trattato: norma derogatoria, questa, che a mio avviso meglio si attaglia al caso in cui siano proprio l'oggetto sociale o l'attività svolta dalla società straniera a mettere in pericolo l'ordine pubblico.

A parte ciò, sebbene la lealtà delle operazioni commerciali costituisca un'esigenza imperativa di interesse generale, che può in astratto giustificare misure nazionali

(indistintamente applicabili) restrittive del diritto di stabilimento, non credo che essa rilevi per il caso di specie. Varie considerazioni depongono in tal senso. E' dubbio, anzitutto, che dove il tipo societario è quello della responsabilità limitata, l'affidarsi esclusivamente al criterio della presunta adeguatezza del capitale sociale minimo prescritto valga a costituire un mezzo efficace di protezione o (come recita il quarto considerando della seconda direttiva, con riguardo alle società per azioni) «una garanzia» per i creditori. Non a caso, gli ordinamenti giuridici del Regno Unito non adottano tale criterio, come hanno sottolineato le autorità britanniche (52). Poiché il capitale sociale minimo prescritto può rapidamente assottigliarsi, in pratica è più prudente per i creditori della società basarsi sulle informazioni più aggiornate disponibili, desumibili dai bilanci sociali, ed eventualmente pretendere la costituzione di idonee garanzie da parte degli amministratori. Ma, anche senza volere rovesciare l'idolum theatri del capitale nominale (53), in un caso come quello di specie va escluso che la misura controversa sia indispensabile a fini di tutela dei creditori privati di Centros, per le operazioni svolte dalla sua ipotetica succursale danese. In effetti, l'esigenza richiamata risulta soddisfatta, senza bisogno dell'adozione di misure quale quella dedotta in giudizio, grazie ai risultati acquisiti al processo comunitario di coordinamento del diritto societario degli Stati membri. Come ha correttamente osservato il governo inglese, i coniugi Bryde si presentano per quello che sono: non una società danese, bensì la succursale danese di una società di diritto inglese; le limitazioni di responsabilità con riguardo a tale società, che chiunque in Danimarca entri in rapporto con la sua succursale è pienamente abilitato a conoscere, sono quelle che risultano dalla prescrizione di un capitale sociale minimo in quell'ordinamento. La protezione delle persone che per il tramite di una succursale instaurano un rapporto con una società straniera comunitaria è assicurata, nel sistema del Trattato, mediante le misure di pubblicità coordinate, prescritte dallo Stato membro in cui la succursale

è situata (54); ai terzi viene, così, assicurata la possibilità di proteggere adeguatamente i propri interessi mediante la costituzione di garanzie specifiche (tipicamente: una fideiussione dei soci) o cause di prelazione.

22.
    Vi è, poi, l'esigenza imperativa di protezione dei creditori pubblici non contrattuali, quali l'amministrazione previdenziale e quella fiscale. In tal caso, il creditore non può scegliere liberamente se contrarre oppur no con la succursale di una società straniera, e inoltre — come afferma l'ordinanza di rinvio dello Højesteret — non ha la possibilità di esigere garanzie o cauzioni da parte dei suoi amministratori. Tuttavia, ritengo che il rifiuto di registrazione della succursale, motivato essenzialmente dall'assenza di un effettivo stabilimento principale, sia privo di pertinenza rispetto alle prospettate esigenze imperative di tutela dei creditori pubblici: l'asserito legame causale fra tali esigenze e la misura controversa appare, cioè, troppo tenue ed indiretto perché lo si possa ritenere dotato di rilevanza ai fini del diritto comunitario. Deduco ciò dalla circostanza che, come le autorità danesi hanno ammesso durante la procedura orale, l'apertura di succursali in Danimarca da parte di Centros non incontrerebbe alcun ostacolo se la società fosse effettivamente operante nel Regno Unito; anche in tale ipotesi, tuttavia, il suo capitale sociale iniziale ammonterebbe a 100 UKL. Resta, perciò, da spiegare in che modo lo svolgimento effettivo di attività d'impresa da parte di Centros nel Paese di origine avrebbe potuto influire sulle effettive possibilità di tutela delle ragioni creditorie dell'amministrazione fiscale e previdenziale danese.

A prescindere dal rilievo precedente, l'esigenza invocata dalle autorità danesi dovrebbe in ogni caso poter essere realizzata con misure meno restrittive di quella

dedotta nell'odierno giudizio, che ha come risultato la negazione stessa del diritto di stabilimento secondario. Il punto mi pare così chiaro da non meritare che io mi dilunghi in spiegazioni; e, tuttavia, un chiarimento si impone. Fra le misure che — in quanto giustificate dall'esigenza imperativa sopra richiamata e conformi ai criteridi necessità e proporzionalità — potrebbero ritenersi consentite non rientra, a mio avviso, quella prospettata dalla Commissione (v. supra, paragrafo 10), consistente nel subordinare la registrazione della succursale in Danimarca alla condizione che la società madre straniera abbia un capitale di ammontare non inferiore a quello prescritto dalla pertinente normativa interna per la costituzione di società dello stesso tipo in Danimarca. Non diversamente dalla misura dedotta nell'odierno giudizio, siffatta condizione equivarrebbe, in sostanza, all'indiretta applicazione del trattamento previsto dal diritto nazionale per lo stabilimento primario ad un atto di esercizio del diritto di stabilimento secondario. Essa, perciò, condurrebbe pur sempre al risultato di precludere ai coniugi Bryde di avvalersi «dell'elasticità del diritto britannico delle società», così da poter liberamente operare, in qualsiasi parte del territorio comunitario, con un capitale iniziale conforme ai requisiti dell'ordinamento di costituzione della società, pur se questo è inferiore a quello prescritto dalla legge di altri Stati membri (in particolare, dello Stato membro in cui si intenda aprire una sede secondaria). Neanche l'obiettivo di protezione dei creditori pubblici, perciò, vale, a mio avviso, a sottrarre il diniego assoluto di registrazione della succursale al novero delle misure incompatibili con le regole comunitarie sul libero stabilimento. Concludo, pertanto, che — ferma restando l'applicabilità alla succursale danese di Centros, una volta rimosso l'ostacolo amministrativo alla sua registrazione, delle norme nazionali sull'esercizio dell'attività commerciale, cui sono soggette le società del tipo in questione stabilite in Danimarca — al quesito sollevato dal giudice a quo debba fornirsi, in assenza di valide giustificazioni della misura controversa, una risposta negativa.

Conclusioni

    Per le considerazioni sopra svolte, propongo alla Corte di risolvere nei termini seguenti l'odierna questione pregiudiziale dello Højesterets Anke- og Kæremålsudvalg:

«Gli artt. 52 e seguenti del Trattato CE vietano alle autorità competenti di uno Stato membro di rifiutare la registrazione di una succursale di una società a responsabilità limitata, costituita conformemente alla legislazione di un altro Stato membro e avente la sua sede sociale nel territorio di quest'ultimo Stato, se tale rifiuto è motivato in base alle circostanze che: i) la società stessa non svolge attività economiche, ii) si intende costituire la succursale per l'esercizio della totalità delle attività societarie nello Stato di costituzione della succursale, e iii) tale struttura dell'operazione consente ai soci fondatori di sottrarsi al requisito di un capitale sociale minimo più elevato, che sarebbe stato applicabile qualora la società fosse stata costituita nello Stato membro nel quale si intende aprire la succursale».


1: Lingua originale: l'italiano.


2: —     Con la successiva legge 22 maggio 1996, n. 378, l'importo rilevante è stato ridotto a 125 000 DKR. Contestualmente, però, sono state inasprite altre disposizioni di salvaguardia del capitale sociale, ed in particolare: i) il divieto di acquisto di quote proprie o della società madre; ii) le condizioni per l'acquisto della società da parte di soci nei primi due anni successivi alla registrazione, qualora l'operazione abbia un valore di almeno 50 000 DKR e riguardi almeno il 10% del capitale, nonché iii) gli obblighi facenti carico agli amministratori in caso di perdite pari almeno al 40% del capitale sociale.


3: —     La legge 21 dicembre 1991, n. 886, ha fissato il capitale iniziale minimo richiesto per le società per azioni a 500 000 DKR [vale a dire, ad un importo ben superiore a quello minimo, equivalente a 25 000 ECU, imposto dalla seconda direttiva 77/91/CEE del Consiglio, del 13 dicembre 1976, intesa a coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste, negli Stati membri, alle società di cui all'articolo 58, secondo comma, del Trattato, per tutelare gli interessi dei soci e dei terzi per quanto riguarda la costituzione della società per azioni, nonché la salvaguardia e le modificazioni del capitale sociale della stessa (in prosieguo: la «seconda direttiva»; GU 1977, L 26, pag. 1), come successivamente modificata].


4: —     V. sentenza 10 luglio 1986, causa 79/85 (Racc. pag. 2375).


5: —     V. undicesima direttiva 89/666/CEE del Consiglio, 21 dicembre 1989, relativa alla pubblicità delle succursali create in uno Stato membro da taluni tipi di società soggette al diritto di un altro Stato (GU L 395, pag. 36).


6: —     GU 1972, L 299, pag. 32. La versione consolidata della Convenzione, come modificata dalle successive convenzioni di adesione (l'ultima delle quali è la convenzione del 29 novembre 1996 relativa all'adesione della Repubblica d'Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia alla Convenzione), è stata pubblicata in GU 1998, C 27, pag. 1.


7: —     V. sentenze 6 ottobre 1976, causa 14/76, De Bloos (Racc. pag. 1497, punto 20), 22 novembre 1978, causa 33/78, Somafer/Saar-Ferngas (Racc. pag. 2183, punto 12), e 18 marzo 1981, causa 139/80, Blanckaert & Willems/Trost (Racc. pag. 819, punto 12).


8: —     V. sentenza 23 marzo 1982, causa 53/81, Levin/Segretario di Stato per la giustizia (Racc. pag. 1035, punto 21), secondo cui possono avvalersi dei vantaggi conferiti dal diritto comunitario in base al principio della libera circolazione dei lavoratori solo coloro che svolgono realmente, o intendono effettivamente svolgere, un'attività subordinata in uno Stato membro diverso da quello d'origine.


9: —     V. sentenza 12 luglio 1984, causa 107/83, Ordine degli avvocati del foro di Parigi/Klopp (Racc. pag. 2971, punti 18 e 20).


10: —     V. sentenza 3 dicembre 1974, causa 33/74 (Racc. pag. 1299, punto 13).


11: —     V. sentenze 23 marzo 1982 (citata supra, nota 7), e 30 novembre 1995, causa C-55/94 (Racc. pag. I-4165, punti 25 e 26), secondo la quale la libertà di stabilimento — diversamente dalla libertà di prestazione dei servizi, caratterizzata dalla natura temporanea delle attività svolte in altro Stato membro — è diretta a consentire ai cittadini comunitari di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio, favorendo così l'interpenetrazione economica e sociale nell'ambito della Comunità nel settore delle attività indipendenti.


12: —     V. sentenza 28 ottobre 1975, causa 36/75 (Racc. pag. 1219, punto 28), relativa all'interpretazione degli artt. 7 (ora 6) e 48 del Trattato.


13: —     V. E. Werlauff, EC Company Law, Copenhagen, 1993, pagg. 17-22.


14: —     V. S. Poillot-Peruzzetto-M. Luby, Le droit communautaire appliqué à l'entreprise, Parigi, 1998, pag. 141. Y. Loussouarn osserva, con riguardo alla genesi del criterio di collegamento indicato infra nel testo, come le autorità comunitarie ed i delegati degli Stati membri siano partiti dalla constatazione che l'art. 52 condiziona il diritto di stabilimento secondario delle persone fisiche allo stabilimento (primario) nel territorio di uno Stato membro: dunque, al requisito — aggiuntivo rispetto a quello della cittadinanza — del domicilio all'interno della Comunità. Tuttavia, la trasposizione pura e semplice di tale esigenza alle società, mediante la sovrapposizione della condizione della sede reale a quella della sede statutaria, sarebbe stata in flagrante ed insanabile contrasto con il disposto dell'art. 58 (v. Le rattachement des sociétés et la Communauté économique européenne, in Études de droit des Communautés européennes. Mélanges offerts à Pierre Teitgen, Parigi, 1984, pag. 239, in particolare pagg. 245 e 246, e Le droit d'établissement des sociétés, in Rev. trim. dr. europ., 1990, pag. 229, in particolare pag. 236).


15: —     GU 1962, n. 2, pag. 36.


16: —     Tale legame potrà essere costituito proprio dalla presenza di una dipendenza della società extracomunitaria nel territorio di un Paese membro, purché l'attività dell'articolazione territoriale abbia carattere permanente, effettivo e rilevante (con esclusione, ad esempio, dei semplici uffici di rappresentanza o di dipendenze che non operino sul mercato o impieghino un esiguo numero di dipendenti). Priva di rilevanza, sotto il profilo considerato, è invece la cittadinanza delle persone fisiche dei soci o dei membri degli organi di gestione e controllo della società.


17: —     V., ex multis, sentenza 28 gennaio 1986, causa 270/83, Commissione/Francia (Racc. pag. 273, punti 13, 14 e 18, in particolare punto 18). V. anche sentenze 17 giugno 1997, causa C-70/95, Sodemare e a. (Racc. pag. I-3395, punti 25 e 26), e 16 luglio 1998, causa C-264/96, Imperial Chemical Industries (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20).


18: —     V. sentenza 10 luglio 1986 (citata supra, nota 3), punti 14 e 16. Con la richiamata pronuncia, la Corte ha dichiarato incompatibile con gli artt. 52 e 58 del Trattato l'esclusione dell'amministratore di una società da un regime nazionale di assicurazione-malattia, decisa dalle competenti autorità dello Stato membro dello stabilimento secondario (società affiliata) per l'unica ragione che la società madre è stata costituita conformemente alla legge di un altro Stato membro ed ha la sua sede sociale nel territorio di esso, pur non svolgendo attività commerciali in quello Stato ed operando esclusivamente nel Paese membro dello stabilimento secondario.


19: —     V. sentenze 13 luglio 1993, causa C-330/91, Commerzbank (Racc. pag. I-4017, punto 14), e 12 aprile 1994, causa C-1/93, Halliburton Services (Racc. pag. I-1137, punto 15).


20: —     V., ex multis, sentenza 31 marzo 1993, causa C-19/92, Kraus (Racc. pag. I-1663, punto 32).


21: —     V., ex multis, sentenze 27 ottobre 1977, causa 30/77, Bouchereau (Racc. pag. 1999, punto 35), e 10 luglio 1986 (citata supra, nota 3), punto 17.


22: —     V., ex multis, sentenza 25 luglio 1991, causa C-288/89, Collectieve Antennevoorziening Gouda (Racc. pag. I-4007, punto 11).


23: —     V., ex multis, sentenze 18 maggio 1982, cause riunite 115/81 e 116/81, Adoui e Cornouaille (Racc. pag. 1665, punto 9), e 26 aprile 1988, causa 352/85, Bond van Adverteerders (Racc. pag. 2085, punto 36).


24: —     Quali: la tutela dei destinatari di un servizio, garantita dalle norme professionali, la tutela della proprietà intellettuale, la tutela dei lavoratori, la protezione dei consumatori, la conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico nazionale, la migliore divulgazione possibile delle conoscenze sul patrimonio artistico e culturale di un Paese, e ragioni di politica culturale (v., ex multis, sentenza 25 luglio 1991, citata supra, nota 21, punti 14 e 27); la tutela dei destinatari di servizi di sorveglianza e rinnovo di brevetti (v. sentenza 25 luglio 1991, causa C-76/90, Säger, Racc. pag. I-4221, punto 17); la conservazione della coerenza del regime fiscale (v. sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, Racc. pag. I-249); la prevenzione delle frodi e la tutela dell'ordine sociale, a fronte delle conseguenze nocive di una domanda eccessiva nel settore dei giochi d'azzardo (v. sentenza 24 marzo 1994, causa C-275/92, Schindler, Racc. pag. I-1039, punti 58 e 59); la salvaguardia della buona reputazione del settore finanziario nazionale (v. sentenza 10 maggio 1995, causa C-384/93, Alpine Investments, Racc. pag. I-1141,

punto 44); l'efficacia dei controlli fiscali (v. sentenza 15 maggio 1997, causa C-250/95, Futura Participations e Singer, Racc. pag. I-2471, punto 31); e la lealtà dei negozi commerciali (v. sentenza 9 luglio 1997, cause riunite C-34/95, C-35/95 e C-36/95, De Agostini e TV-Shop, Racc. pag. I-3843, punto 53).


25: —     V., ex multis, sentenza 25 luglio 1991 (citata supra, nota 21), punti 13 e 15.


26: —     «[È] questa e non il termine ”filiali” di cui all'articolo 52 del trattato l'espressione che, nel linguaggio giuridico italiano, corrisponde al francese ”filiales”, all'inglese ”subsidiaries”, al tedesco ”Tochtergesellschaften” e all'olandese ”dochterondernemingen”» (v. conclusioni presentate dall'avvocato generale Mancini il 16 ottobre 1985 nella causa 270/83, citata supra, nota 16, Racc. pag. 275, paragrafo 2). V. anche G.M. Ruggiero - M. De Dominicis, Art. 52, in R. Quadri - R. Monaco - A. Trabucchi (diretto da), Trattato istitutivo della Comunità economica europea. Commentario, Milano, 1965, vol. I, pag. 399, in particolare pagg. 412 e 413. Ma v. infra, nota 27.


27: —     V. M. Cabrillac, Unité ou pluralité de la notion de succursale en droit privé, in Mélanges en l'honneur du Doyen Joseph Hamel, Parigi, 1981, pag. 119, e Y. Loussouarn, La succursale, technique juridique du commerce international, in D.P.C.I., 1985, pag. 359, in particolare pag. 362.


28: —     Ma v. A. Pietrobon, L'interpretazione della nozione comunitaria di filiale, Padova, 1990. Secondo l'autrice, l'utilizzazione del metodo giuridico-formale — basato su «concetti e metodi propri dei diritti interni, quasi che questi ultimi, considerati singolarmente oppure in un'indagine comparatistica, dovessero necessariamente fornire il modello perl'interpretazione del Trattato» — nell'interpretazione delle nozioni di agenzia, succursale e filiale appare inopportuna, non consentendo di ricomprendere alcuni tipi di dipendenze, senza che tale esclusione venga in alcun modo giustificata. Inoltre, l'interpretazione funzionale del concetto di «stabilimento secondario» rivela che le sue caratteristiche essenziali (subordinazione della dipendenza alle scelte organizzative della casa madre, alla quale compete ogni decisione circa la stessa esistenza, le attribuzioni e le modalità fondamentali dell'attività dell'articolazione territoriale) sono tali da imporre la conclusione che un'impresa autonoma, con un'organizzazione ed un'azienda proprie, non può essere la sede secondaria di un'altra impresa. «Dubbia appare allora la riconducibilità alla nozione delineata delle società affiliate che, come si è visto, non risultano menzionate dalla versione italiana dell'articolo 52. (...) La creazione, da parte di un'impresa costituita in uno Stato membro, di una società affiliata in un altro Stato membro è operazione che dovrebbe

riguardarsi più propriamente come stabilimento primario (appunto della società affiliata). La questione non assume peraltro rilevanza sul piano pratico, dal momento che la possibilità di istituire società affiliate risulta riconosciuta secondo entrambe le interpretazioni» (v. id, pagg. 101-115, in particolare pagg. 103, 114 e 115; note omesse).


29: —     V. Loussouarn (op. cit. supra, nota 26), pagg. 363-368.


30: —     V. sentenza 28 gennaio 1986 (citata supra, nota 16), punto 22.


31: —     V. C. Timmermans, Methods and Tools for Integration. Report, in R.M. Buxbaum - G. Hertig - A. Hirsch - K.J. Hopt (a cura di), European Business Law. Legal and Economic Analyses on Integration and Harmonization, Berlino-New York, 1991, pag. 129, in particolare pagg. 136 e 137.


32: —     V., ex multis, sentenza 19 marzo 1992, causa C-60/91, Batista Morais (Racc. pag. I-2085).


33: —     V. sentenza 10 luglio 1986 (citata supra, nota 3), punto 14; v. supra, nota 17, e infra, note 45 e 46 e relative parti del testo). V. anche sentenza 5 maggio 1994, causa C-23/93, TV10 (Racc. pag. I-4795, punto 15), secondo cui la circostanza che un ente radiotelevisivo si sia stabilito in altro Stato membro allo scopo di eludere la normativa dello Stato membro di ricezione dei programmi da esso diffusi non esclude che le sue trasmissioni siano considerate "servizi" ai sensi e per gli effetti dell'art. 59 del Trattato. La situazione di Centros va, perciò, distinta, ad esempio, da quella — esaminata dalla Corte nella causa Esso Española — riguardante unicamente lo sviluppo, all'interno del territorio di uno Stato membro, dell'attività di una società avente sede in questo stesso Stato ed ivi operante (v. sentenza 30 novembre 1995, causa C-134/94, Racc. pag. I-4223, punti 12-17).


34: —     V. sentenza 7 febbraio 1979, causa 115/78, Knoors (Racc. pag. 399, punti 20 e 24).


35: —     V. I.G.F. Cath, Freedom of Establishment of Companies: a New Step Towards Completion of the Internal Market, in F.G. Jacobs (a cura di), 1986 Yearbook of European Law, Oxford, 1987, pag. 247, in particolare pagg. 259 e 261. V. anche, mutatis mutandis, sentenza 12 marzo 1996, causa C-441/93, Pafitis e a. (Racc. pag. I-1347, punti 18 e 19), secondo cui «[d]al titolo della seconda direttiva [in materia societaria] e dal suo art. 1 risulta che essa si applica alle società di cui all'art. 58, secondo comma, del Trattato CE, costituite sotto forma di società per azioni. Il criterio adottato dal legislatore comunitario per definire il campo di applicazione della seconda direttiva è pertanto quello della forma giuridica della società, indipendentemente dalla sua attività».


36: —     Secondo la Corte, non spetta «alla legislazione di uno Stato membro limitare gli effetti dell'attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell'esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato. Non è pertanto ammissibile un'interpretazione dell'art. 52 del Trattato secondo la quale, allorché il cittadino di uno Stato membro è simultaneamente in possesso della cittadinanza di uno Stato terzo, gli altri Stati membri possono subordinare il riconoscimento dello status di cittadino comunitario ad una condizione come la residenza abituale dell'interessato sul territorio del primo Stato» (v. sentenza 7 luglio 1992, causa C-369/90, Micheletti, Racc. pag. I-4239, punti 11 e 12). V. anche sentenza 7 febbraio 1979, causa 136/78, Auer (Racc. pag. 437, punto 28), secondo cui «nessuna disposizione del Trattato consente, nella sfera d'applicazione dello stesso, di trattare diversamente i cittadini di uno Stato membro, a seconda del momento o del modo in cui hanno acquistato la cittadinanza dello Stato stesso, se — al momento in cui invocano il diritto comunitario — essi hanno la cittadinanza di uno degli Stati membri e se, d'altro canto, sussistono gli altri presupposti per l'applicazione della norma che invocano».


37: —     V. sentenza 23 marzo 1982 (citata supra, nota 7).


38: —     «A norma dell'art. 48, n. 3, del Trattato, [— ha osservato la Corte —] il diritto di spostarsi liberamente sul territorio degli Stati membri è conferito ai lavoratori al ”fine” di rispondere ad offerte di lavoro effettive. I lavoratori fruiscono del diritto di soggiornare in uno degli Stati membri, in forza della stessa disposizione, ”al fine” di esercitarvi un'attività lavorativa. Inoltre, il regolamento n. 1612/68 precisa, nel preambolo, che la libera circolazione implica il diritto, per i lavoratori, di spostarsi liberamente all'interno della Comunità ”per” svolgervi un'attività subordinata, mentre la direttiva n. 68/360, all'art. 2, obbliga gli Stati membri a consentire ai lavoratori di lasciare il loro territorio ”per” accedere ad un'attività subordinata o per esercitarla nel territorio di un altro Stato membro. Queste formule (...) esprimono (...) l'esigenza, insita nello stesso principio della libera circolazione dei lavoratori, che i vantaggi conferiti dal diritto comunitario in base a detto principio possano esser pretesi solo da coloro che svolgono realmente o intendono effettivamente svolgere un'attività subordinata» (v. id., punti 20 e 21).


39: —     In deroga alla norma generale di cui all'art. 2 della Convenzione, tale criterio consente all'attore di citare il convenuto, domiciliato nel territorio di uno Stato contraente, in altro Stato contraente, dinanzi al giudice del luogo territorialmente competente, in caso di controversia concernente l'esercizio di una succursale, di un'agenzia o di qualsiasi altra filiale. «[Q]uesta nozione di esercizio riguarda, in primo luogo, le controversie vertenti sui diritti e sugli obblighi contrattuali o extracontrattuali relativi alla gestione propriamente detta dell[e dipendenze] considerate in sé stesse, come quelli relativi alla locazione dell'immobile in cui dette entità hanno sede, ovvero all'assunzione in loco del personale che vi lavora; in secondo luogo, essa riguarda le controversie relative agli impegni assunti dal centro operativo sopra descritto in nome della casa madre e che devono essere adempiuti nello Stato contraente in cui è stabilito detto centro operativo, nonché le controversie relative agli obblighi extracontrattuali che traggono origine dalle attività che la [dipendenza] ha assunto nel luogo in cui è stabilita per conto della casa madre» (v. sentenza 22 novembre 1978, citata supra, nota 6, punto 13). Si ricordi, inoltre, che ex art. 8 della Convenzione, l'assicuratore che non sia domiciliato in uno Stato contraente, ma vi abbia una propria succursale, agenzia o filiale, è considerato, in deroga alla regola dell'art. 4, come domiciliato in quello Stato per le controversie relative all'esercizio della dipendenza; la stessa regola si applica, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione, qualora la controparte del consumatore non abbia il proprio domicilio in uno Stato contraente.


40: —     V. Pietrobon (op. cit. supra, nota 27), pagg. 162-164. Così, nella giurisprudenza richiamata, l'affermazione della Corte secondo cui «[u]no degli elementi essenziali peculiari delle nozioni di succursale e di agenzia, è la subordinazione alla direzione ed al sindacato della casa madre» appare funzionale alla conclusione che dalle nozioni di dipendenza contemplate dall'art. 5, n. 5, della Convenzione va tenuta distinta la situazione tanto del concessionario esclusivo di vendita, il quale non sia soggetto al sindacato e alla direzione del concedente (v. sentenza 6 ottobre 1976, citata supra, nota 6, punti 20-23), quanto del rappresentante di commercio (intermediario), allorché questo è un collaboratore indipendente dell'impresa preponente, che si limita a trasmetterle gli ordinativi della clientela e non partecipa alla stipulazione né all'esecuzione dei relativi contratti, e alla quale l'impresa rappresentata non può vietare di rappresentare contemporaneamente imprese concorrenti (v. sentenza 18 marzo 1981, citata supra, nota 6, punti 12 e 13). Ed ancora, è soltanto per consentire al giudice tedesco del rinvio di decidere sulla propria competenza a conoscere di un'azione promossa da un'impresa tedesca contro un'impresa francese, che aveva la sede sociale in Francia ma possedeva in Germania un ufficio o recapito indicato sulla sua carta da lettere come «rappresentanza per la Germania», che la Corte ha stabilito nella causa Somafer il criterio secondo cui una succursale, agenzia o filiale deve essere facilmente riconoscibile agli occhi dei terzi come un'estensione della casa madre (implicando «un centro operativo che si manifesti in modo duraturo verso l'esterno

come un'estensione della casa madre, provvisto di direzione e materialmente attrezzato in modo da poter trattare affari con terzi, di guisa che questi, pur sapendo che un eventuale rapporto giuridico si stabilirà con la casa madre la cui sede trovasi all'estero, sono dispensati dal rivolgersi direttamente a questa, e possono concludere affari nel centro operativo che ne costituisce l'estensione»; v. sentenza 22 novembre 1978, citata supra, nota 6, punto 12). La prova migliore del fatto che la nozione di «agenzia, succursale e filiale» assume nel contesto della Convenzione un contenuto normativo diverso che nel contesto del Trattato, con connotazioni in alcuni casi anche contraddittorie (v. Pietrobon, op. cit. supra, pag. 94), è fornita dall'orientamento adottato dalla Corte con riguardo alla situazione nella quale una società operi, sostanzialmente, come se fosse la succursale o filiale di una diversa società «madre», dalla quale è invece giuridicamente autonoma (addirittura detenendone interamente il capitale sociale, come accadeva nella causa Rotschild). Anche in questo caso, a tutela dell'affidamento dei terzi, sarà applicabile per analogia il criterio di competenza speciale ex citato art. 5, n. 5, poiché la situazione di apparenza creata dal «modo in cui tali due imprese si comportano nella vita sociale e si presentano nei confronti dei terzi nei loro rapporti commerciali» è tale da determinare uno stretto collegamento fra le successive controversie ed il giudice che ne è investito. Si ricorderà che, secondo la pronuncia Rotschild, la norma richiamata si applica allorché una persona giuridica, «pur non avendo una succursale, un'agenzia o una filiale priva di autonomia in un altro Stato contraente, vi svolga tuttavia le sue attività tramite un'autonoma società, avente lo stesso nome e la stessa direzione, che agisce e conclude affari a suo nome e di cui essa si serve come di un'estensione» (v. sentenza 9 dicembre 1987, causa 218/86, SAR Schotte/Parfums Rotschild, Racc. pag. 4905, punto 17).


41: —     V. sentenza 12 maggio 1998, causa C-367/96, Kefalas e a. (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 20), e i precedenti ivi richiamati. E perciò, secondo la Corte, «il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro di adottare, in mancanza di armonizzazione, misure atte ad evitare che le possibilità offerte dal Trattato siano utilizzate in maniera abusiva e contraria al legittimo interesse di questo Stato» (v. sentenza 31 marzo 1993, citata supra, nota 19, punto 34).


42: —     V. sentenza 12 maggio 1998 (citata supra, nota 40), punto 28 (con riferimento alla proposizione, da parte di alcuni azionisti, di un'azione di dichiarazione di invalidità dell'aumento del capitale di una società per azioni in stato di dissesto finanziario). Osservo come la formulazione del principio dell'abuso di diritto adottata dalla Corte appaia sostanzialmente ispirata al diritto comune degli Stati membri i cui ordinamenti sono di Civil Law [v. L.N. Brown, Is there a General Principle of Abuse of Rights in European Community Law?, in Institutional Dynamics of European Integration: Essays in Honour of Henry G. Schermers, Dordrecht, 1994, vol. II (a cura di D. Curtin - T. Heukels), pag. 511, in particolare pag. 515].


43: —     V. Brown (op. cit. supra, nota 41), pagg. 521 e 522, e W. Van Gerven, Principe de proportionalité, abus de droit et droits fondamentaux, in Journ. Trib., 1992, pag. 305, in particolare pagg. 307 e 308.


44: —     V. C. Nizzo, L'abuso dei «diritti comunitari»: un quesito non risolto, in Dir. comm. internaz., 1997, pag. 766, in particolare pag. 770.


45: —     V., mutatis mutandis, sentenza 23 marzo 1982 (citata supra, nota 7), punti 20-22, secondo cui, se un lavoratore esercita o intende esercitare un'attività subordinata reale ed effettiva in un altro Stato membro, e come tale rientra nel novero dei beneficiari dei diritti garantiti dall'art. 48, n. 3, del Trattato e della pertinente normativa derivata (v. supra, paragrafo 18), sono irrilevanti e non vanno presi in considerazione, ai fini del godimento del diritto di accesso e di soggiorno in altro Stato membro, i motivi concreti che possano averlo spinto a cercare lavoro nel territorio di esso.


46: —    V. conclusioni presentate dall'avvocato generale Darmon il 10 giugno 1986 nella causa 79/85 (citata supra, nota 3, Racc. pag. 2376), paragrafo 1.


47: —     V. supra, nota 16 e relativa parte del testo. Analogamente, la Corte sembra avere (almeno implicitamente) riconosciuto che l'iscrizione nel registro dei pescherecci britannici di navi originariamente immatricolate in Spagna e battenti bandiera spagnola, e l'acquisto di navi britanniche e battenti bandiera britannica, da parte di società di diritto britannico proprietarie od esercenti di tali navi, i cui amministratori ed azionisti erano per lo più cittadini spagnoli, non costituivano «abuso del diritto di stabilimento», nonostante che il massiccio ricorso a tali immatricolazioni nel registro navale del Regno Unito fosse risultato strumentale alla pratica del cosidetto «quota hopping», vale a dire del «saccheggio» dei contingenti di cattura attribuiti a tale Stato nell'ambito della politica comune della pesca, risolvendosi in sostanza in un'«elusione» del regime dei contingenti nazionali, rivolto alla

conservazione delle risorse alieutiche e alla garanzia di un tenore di vita ragionevole per le popolazioni dipendenti dalla pesca [v. sentenza 25 luglio 1991, causa C-221/89, Factortame e a. (Racc. pag. I-3905), che ha dichiarato contraria all'art. 52 del Trattato una disciplina normativa dell'immatricolazione dei pescherecci nel registro di uno Stato membro, contenente condizioni restrittive relative alla cittadinanza, alla residenza ed al domicilio dei proprietari, dei noleggiatori e degli esercenti della nave (inclusi, nel caso di una società, gli azionisti e gli amministratori), quale quella adottata nel 1988 dal Regno Unito allo scopo di porre termine al quota hopping da parte di navi battenti bandiera britannica, ma non effettivamente tali (v. id., punto 4). La Corte ha, peraltro, aggiunto che il libero stabilimento transfrontaliero poteva essere legittimamente soggetto alla condizione che la nave da immatricolarsi sia esercita, e le sue operazioni siano dirette e controllate, dal territorio dello Stato membro interessato (la quale condizione, secondo la Corte, abbraccia in sostanza la nozione stessa di stabilimento di cui agli artt. 52 e seguenti del Trattato; v. id., punto 34); v. anche Brown, op. cit. supra, nota 41, pagg. 523-525].


48: —     V. conclusioni presentate dall'avvocato generale Darmon il 10 giugno 1986 nella causa 79/85 (citate supra, nota 44), paragrafo 6.


49: —     V. C.D. Ehlermnann, Compétition entre systèmes réglementaires, in Rev. Marché commun Union europ., 1995, pag. 220, secondo cui va escluso che la «libera concorrenza» fra gli ordinamenti societari degli Stati membri possa degenerare in una sorta di «effetto Delaware» (Delaware effect) — cioé un processo di attrazione delle società di nuova costituzione negli ordinamenti nei quali più debole sia il livello di protezione assicurata ai soci-investitori ed ai creditori, analogamente a quanto a suo tempo avvenuto negli Stati Uniti d'America a favore dei diritti societari del New Jersey e, più recentemente, del Delaware —, potendo gli Stati membri fare ricorso al meccanismo dell'armonizzazione del diritto societario, ai sensi dell'art. 54, n. 3, lett. g), del Trattato (v. id., pag. 223). Secondo D. Charny, l'armonizzazione normativa del diritto societario degli Stati membri può apparire, dal punto di vista della corporate theory americana, «un processo in cerca di una giustificazione», dal momento che un analogo impatto armonizzatore dei sistemi nazionali può indirettamente risultare dalla concorrenza fra gli stessi (v. Competition among Jurisdictions in Formulating Corporate Law Rules: An American Perspective on the "Race to the Bottom" in the European Communities, in Harv. Int'l L. Journ., 1991, pag. 423, in particolare pagg. 424 e 425).


50: —     E ciò sia che si tratti delle norme nazionali che regolano l'accesso alla professione o l'esercizio di essa da parte dell'interessato nel territorio nazionale (relative all'organizzazione e qualificazione, alla deontologia, ai controlli e alla responsabilità), come nella causa Binsbergen, ovvero la sua stessa preparazione professionale, come nella causa Knoors (citate supra, note 9 e 33 e relative parti del testo); sia che si tratti, ancora, di norme nazionali che impongono obblighi di condotta nel contesto della disciplina dello specifico settore di commerciale, quali la fissazione dei prezzi di vendita al dettaglio dei libri da parte degli editori o importatori (v. sentenza 10 gennaio 1985, causa 229/83, Leclerc/Au blé vert, Racc. pag. 1, punto 27), ovvero obblighi relativi al contenuto pluralistico e non commerciale dei programmi trasmessi nel territorio nazionale (v. sentenza 5 maggio 1994, citata supra, nota 32, punto 21).


51: —     V. T. Mortimer, The Removal of Barriers to Corporate Mobility: An Analysis of Cases Pertinent to Articles 52 and 58, in A. Caiger - D.A. Floudas (a cura di), 1996 Onwards: Lowering the Barriers Further, Chichester, 1996, pag. 135, in particolare pagg. 150 e 154. Ai sensi della citata sentenza «Cassis de Dijon» (v. sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, Rewe, Racc. pag. 649, punti 14 e 15), in assenza di uno scopo di interesse generale atto a prevalere sulle esigenze della libera circolazione delle merci, ogni Stato membro è tenuto ad ammettere l'introduzione nel proprio territorio dei beni legalmente fabbricati o posti in vendita in altri Stati membri, anche se prodotti secondo prescrizioni tecniche o qualitative differenti da quelle vigenti nello Stato d'importazione.


52: —     Secondo il governo britannico, la prescrizione di un capitale sociale minimo per le società a responsabilità limitata può anche avere effetti disincentivanti delle attività imprenditoriali e dell'innovazione ed appare, oltretutto, contraria alla sua politica di incoraggiamento delle piccole e medie imprese.


53: —     V., ex multis, G. La Villa, Introduzione al diritto europeo delle società, Torino, 1996, pag. 55 (secondo cui l'impostazione alla base dei sistemi normativi di tutela dell'integrità del capitale sociale nominale, «da tempo oggetto di critiche, si può dire in via di superamento negli ordinamenti economici più evoluti, che tendono a rivedere una normativa fondata sui concetti di capitale nominale e valore nominale, in favore di criteri più vicini al mercato e alla reale consistenza dei valori attivi e passivi di una società in un dato momento»; nota omessa), e G.B. Portale - C. Costa, Capitale sociale e società per azioni sottocapitalizzate: le nuove tendenze nei paesi europei, in P. Abbadessa - A. Rojo (a cura di), Il diritto delle società per azioni: problemi, esperienze, progetti, Milano, 1993, pag. 133, in particolare pagg. 144 e 145 (secondo cui «[l]a fissazione di un capitale sociale ”minimo”, in realtà, svolge dei ruoli del tutto diversi da quello [di fissare un capitale «non manifestamente inadeguato» all'oggetto sociale]: il ruolo di creare uno strumento di selezione tra i vari tipi di società (...) da un canto, quello di garantire una ”soglia di serietà” a determinate iniziative economiche collettive dall'altro»; note omesse).


54: —     L'undicesima direttiva (citata supra, nota 4 e relativa parte del testo, sub artt. 1-6) prevede l'obbligo per la succursale di pubblicare, conformemente alla legge dello Stato membro in cui è situata, le informazioni necessarie alla protezione del pubblico, quali: i) la denominazione, l'indirizzo e le attività della succursale; ii) la denominazione della società di cui fa parte, iii) i nomi ed indirizzi dei dipendenti di essa che rappresentano stabilmente la società per quanto concerne l'attività della succursale, o comunque possono impegnare la società nei confronti dei terzi e rappresentarla in giudizio, iv) i conti annuali e la relazione annuale, relativi alla società o al gruppo di società di appartenenza, redatti conformemente alla quarta e alla settima direttiva in materia societaria (eventualmente tradotti nella lingua dello Stato di registrazione della succursale), v) la chiusura della succursale, vi) lo scioglimento della società o la sua ammissione ad una procedura di insolvenza, vii) i dettagli relativi al registro nel quale è iscritta la società, incluso il numero di iscrizione, e viii) l'esistenza di altre succursali nello stesso Stato membro. Inoltre, lo Stato membro in cui è stata creata la succursale può imporre ad essa l'obbligo di fornire certe ulteriori informazioni sulla società da cui dipende, e in particolare su: i) l'atto costitutivo e gli statuti (eventualmente tradotti nella lingua dello Stato interessato), ii) l'esistenza di essa (mediante un attestato del relativo registro di iscrizione), e iii) la validità delle garanzie eventualmente costituite sui beni della società situati nello Stato membro in questione. Infine, i registri presso i quali sono iscritte la succursale e la società ed i relativi numeri di iscrizione, nonché il tipo e la sede della società (ed eventualmente il relativo capitale sottoscritto e versato), devono essere indicati nelle lettere e negli ordinativi utilizzati dalla succursale.