Language of document : ECLI:EU:C:2008:11

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

M. POIARES MADURO

presentate il 16 gennaio 2008 1(1)

Causa C‑402/05 P

Yassin Abdullah Kadi

contro

Consiglio dell’Unione europea

e

Commissione delle Comunità europee






1.        Il ricorrente nella presente causa è stato designato dal comitato per le sanzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite quale persona sospettata di sostenere il terrorismo, i cui capitali ed altre risorse finanziarie devono essere congelati. Il ricorrente ha impugnato dinanzi al Tribunale di primo grado la legittimità del regolamento con il quale il Consiglio ha dato esecuzione all’ordine di congelamento nella Comunità. Egli ha sostenuto, senza successo, che la Comunità era incompetente ad adottare tale regolamento ed inoltre che il regolamento violava diversi suoi diritti fondamentali. In base, essenzialmente, alle stesse ragioni, egli chiede ora che la Corte di giustizia annulli la sentenza del Tribunale di primo grado. Il Consiglio e la Commissione contestano entrambi i motivi del ricorrente. Anzitutto, comunque, essi sostengono che il regolamento è necessario per l’esecuzione di risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza e, conseguentemente, che il giudice comunitario non dovrebbero giudicare la conformità di queste ultime ai diritti fondamentali. Essi affermano sostanzialmente che una volta che il Consiglio di Sicurezza si è pronunciato, la Corte deve tacere.

I –    I fatti su cui si fonda il ricorso

2.        Il sig. Kadi (in prosieguo: il «ricorrente») risiede in Arabia saudita. Il 19 ottobre 2001 egli è stato incluso nell’elenco di cui all’allegato I del regolamento n. 467/2001 quale persona sospettata di sostenere il terrorismo (2). Di conseguenza, tutti i suoi capitali e le sue altre risorse finanziarie nella Comunità dovevano essere congelati. Il 27 maggio 2002 tale regolamento è stato abrogato e sostituito dal regolamento (CE) del Consiglio n. 881 (in prosieguo: il «regolamento impugnato»)(3). Tuttavia il ricorrente è rimasto citato nell’elenco di cui all’allegato I del regolamento impugnato quale persona sospettata di sostenere il terrorismo, i cui capitali dovevano essere congelati.

3.        Il regolamento impugnato era stato adottato in base agli artt. 60 CE, 301 CE e 308 CE al fine di conferire efficacia, all’interno della Comunità, alla posizione comune del Consiglio 2002/402/PESC (4). Questa posizione comune, a sua volta, rifletteva le risoluzioni 1267 (1999) (5), 1333 (2000) (6) e 1390 (2002) (7) del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (in prosieguo: il «Consiglio di Sicurezza»). Considerando la repressione del terrorismo internazionale essenziale per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il Consiglio di Sicurezza ha adottato tali risoluzioni in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite.

4.        Le risoluzioni stabiliscono, tra l’altro, che tutti gli Stati devono adottare misure per congelare i capitali e le altre risorse finanziarie di persone ed entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al‑Qaeda e ai talibani, quali designate da un comitato del Consiglio di Sicurezza composto da tutti i suoi membri (in prosieguo: il «comitato per le sanzioni»). L’8 marzo 2001 il comitato per le sanzioni ha pubblicato un primo elenco consolidato degli individui ed entità che dovevano essere sottoposti alla misura del congelamento dei capitali. Da allora tale elenco è stato più volte modificato e integrato. Il 19 ottobre 2001 il comitato per le sanzioni ha aggiunto all’elenco il nome del ricorrente.

5.        Il 20 dicembre 2002 il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1452 (2002), intesa a facilitare l’attuazione delle misure antiterrorismo. Tale risoluzione stabilisce diverse deroghe al congelamento dei capitali imposto dalle risoluzioni 1267 (1999), 1333 (2000) e 1390 (2002), che possono essere concesse dagli Stati per ragioni umanitarie, a condizione di previa notifica al comitato per le sanzioni, il quale non si sia opposto, o in alcuni casi abbia dato il suo consenso. Inoltre, il 17 gennaio 2003 il Consiglio di Sicurezza ha adottato la risoluzione 1455 (2003), intesa a migliorare l’attuazione delle misure di congelamento di capitali.

6.        Alla luce di tali risoluzioni il Consiglio ha adottato la posizione comune 2003/140/PESC (8), per introdurre le deroghe consentite dal Consiglio di Sicurezza. Inoltre, il 27 marzo 2003 il Consiglio ha modificato il regolamento impugnato relativamente alle deroghe al congelamento di capitali e risorse economiche (9).

7.        Il regolamento impugnato, come modificato, stabilisce nell’art. 2 che «tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti a, o in possesso di, una persona fisica o giuridica, gruppo o entità designato dal comitato per le sanzioni ed elencato nell’allegato I sono congelati». L’art. 2 bis prevede alcune deroghe, riguardanti ad esempio pagamenti relativi a generi alimentari, spese mediche e onorari ragionevoli per prestazioni legali, a condizione di previa notifica al comitato per le sanzioni il quale non si sia opposto.

8.        Con atto 18 dicembre 2001, il ricorrente ha presentato un ricorso dinanzi al Tribunale di primo grado contro il Consiglio e la Commissione, nel quale ha chiesto che detto Tribunale annullasse i regolamenti nn. 2062/2001 e 476/2001 nelle parti che lo riguardavano. Il Regno Unito è stato autorizzato ad intervenire a sostegno dei convenuti. A seguito dell’abrogazione del regolamento n. 467/2001 il Tribunale di primo grado ha deciso di trattare la causa quale azione di annullamento del regolamento impugnato diretta soltanto contro il Consiglio, sostenuto dalla Commissione e dal Regno Unito.

9.        Dinanzi al Tribunale di primo grado il ricorrente ha sostenuto l’incompetenza del Consiglio a adottare il regolamento impugnato. Soprattutto, il ricorrente ha asserito che tale regolamento violava diversi suoi diritti fondamentali, in particolare il diritto di proprietà e il diritto ad un equo contraddittorio. Con sentenza 21 settembre 2005, causa T‑315/01, Kadi/Consiglio e Commissione (in prosieguo: la «sentenza impugnata») (10), il Tribunale di primo grado ha confermato la validità del regolamento impugnato e ha respinto tutti i motivi del ricorrente. Il 17 novembre 2005 il ricorrente ha proposto il presente ricorso avverso la sentenza del Tribunale di primo grado. Oltre al ricorrente, sono parti del presente procedimento d’impugnazione il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito, nonché la Spagna, la Francia e i Paesi Bassi in qualità di intervenienti nel procedimento d’impugnazione. Per ragioni di brevità mi riferirò, all’occasione, al Consiglio, alla Commissione ed al Regno Unito come ai «convenuti».

10.      La mia analisi del ricorso procederà come segue. In primo luogo, discuterò i motivi relativi al fondamento normativo del regolamento impugnato. In seguito, mi dedicherò ai motivi riguardanti la competenza del giudice comunitario a valutare se il regolamento impugnato violi diritti fondamentali. Infine, discuterò la questione riguardante il grado adeguato di controllo e valuterò se il regolamento impugnato violi o meno i diritti fondamentali invocati dal ricorrente.

II – Il fondamento normativo del regolamento impugnato

11.      Il primo motivo del ricorrente si riferisce al fondamento normativo del regolamento impugnato. La sentenza impugnata dedica a tale argomento un’attenzione considerevole. Dopo aver considerato diverse alternative, il Tribunale di primo grado ha stabilito che il combinato disposto degli artt. 60 CE, 301 CE e 308 CE ha conferito alla Comunità il potere di adottare il regolamento impugnato (11). Il ricorrente sostiene che tale constatazione è errata in diritto, ed asserisce che la Comunità era del tutto incompetente ad adottare il regolamento impugnato. Anche se in base ad argomenti leggermente diversi, sia il Consiglio sia il Regno Unito concordano con il Tribunale di primo grado nel ritenere che il regolamento impugnato trovi il suo fondamento normativo negli artt. 60 CE, 301 CE e 308 CE. La Commissione, tuttavia, esprimendo un diverso punto di vista, sostiene che gli artt. 60 CE e 301 CE avrebbero da soli fornito un fondamento normativo sufficiente.

12.      Concordo con tale argomentazione. Il Tribunale di primo grado ha considerato che i poteri di imporre sanzioni economiche e finanziarie previsti dagli artt. 60 CE e 301 CE, vale a dire l’interruzione o la riduzione di relazioni economiche con uno o più paesi terzi, non includono l’interruzione o la riduzione di relazioni economiche con individui all’interno di tali paesi, ma si riferiscono soltanto ai loro regimi governativi. Tale tesi è difficilmente conciliabile con il testo e la finalità di tali disposizioni. L’art. 301 CE autorizza il Consiglio a «interrompere o ridurre (…) relazioni economiche con uno o più paesi terzi» attraverso «misure urgenti», non specificate, necessarie ad attuare la politica estera e di sicurezza comune della Comunità (in prosieguo: la «PESC»). L’art. 301 CE ha pertanto sostanzialmente ad oggetto gli obiettivi di tali misure, vale a dire gli obiettivi della PESC, da realizzare agendo sulle relazioni economiche della Comunità con paesi terzi. L’art. 60, n. 1, CE autorizza il Consiglio ad adottare tali misure «nei confronti dei paesi terzi interessati (…) in materia di movimenti di capitali e di pagamenti». Esso indica quindi gli strumenti per realizzare gli obiettivi precedentemente stabiliti; tali strumenti includono la limitazione del flusso di capitali all’interno e al di fuori della Comunità. Al di là di tali due disposizioni, il Trattato CE non stabilisce quale forma le misure debbano assumere, chi esse debbano colpire o su chi esse debbano gravare. Esso si limita piuttosto a richiedere misure dirette ad «interrompere o ridurre» relazioni economiche con paesi terzi in materia di movimento di capitali o di pagamenti.

13.      Le sanzioni finanziarie nel regolamento impugnato rispondono a tale requisito: esse sono prevalentemente dirette ad individui e gruppi all’interno di paesi terzi. Incidendo su relazioni economiche con entità site all’interno di un determinato Stato, le sanzioni necessariamente incidono sul complesso delle relazioni economiche tra la Comunità e tale Stato. Le relazioni economiche con individui e gruppi siti all’interno di un paese terzo costituiscono parte delle relazioni economiche con tale paese; colpendo le prime necessariamente si va ad incidere sulle seconde. Escludere le relazioni economiche con individui o gruppi dall’ambito delle «relazioni economiche con (…) paesi terzi» significherebbe ignorare una realtà basilare della vita economica internazionale: che i governi di molti paesi non fungono da custodi delle attività e relazioni economiche di ogni specifica entità all’interno dei loro confini.

14.      Inoltre, l’interpretazione restrittiva che il Tribunale di primo grado ha dato dell’art. 301 CE priva tale disposizione di gran parte della sua utilità pratica. Nell’ambito della PESC l’Unione può decidere, per ragioni relative al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, di imporre sanzioni economiche e finanziarie nei confronti di attori non governativi situati in paesi terzi. Non comprendo perché l’art. 301 CE dovrebbe essere interpretato in modo più restrittivo. Come lo stesso Tribunale di primo grado riconosce, «non si può impedire all’Unione e al suo pilastro comunitario (…) di adeguarsi a queste (…) minacce [alla pace e alla sicurezza internazionale] tramite l’imposizione di sanzioni economiche e finanziarie non solo nei confronti dei paesi terzi, ma anche di persone, gruppi, imprese o entità associate che sviluppano un’attività terroristica internazionale o pregiudicano altrimenti la pace e la sicurezza internazionale» (12).

15.      Il Tribunale di primo grado ritiene che si debba far riferimento all’art. 308 CE al fine di imporre sanzioni finanziarie a individui che non esercitino funzioni di controllo governativo. Tuttavia, il fatto che Tribunale di primo grado si basi sul concetto di controllo governativo quale fattore distintivo, evidenzia l’esistenza, nel suo ragionamento, di una sottostante incongruenza. Il Tribunale di primo grado ha raffigurato l’art. 308 CE come un «ponte» tra la PESC e il pilastro comunitario. Tuttavia, mentre l’art. 301 CE può essere considerato come un ponte tra due pilastri, l’art. 308 CE non può certamente assolvere tale funzione. L’art. 308 CE, come l’art. 60, n. 1, CE costituisce una disposizione autorizzatoria in senso stretto: essa prevede i mezzi, ma non il fine. Pur riferendosi la stessa agli «scopi della Comunità», tali scopi restano esogeni all’art. 308 CE e non possono essere individuati da questo stesso articolo. Pertanto, una volta esclusa l’interruzione di relazioni economiche con attori non governativi dall’ambito dei mezzi accettabili per il conseguimento degli scopi consentiti dall’art. 301 CE, non si può ricorrere all’art. 308 CE per reintrodurla. O una misura diretta contro attori non governativi soddisfa gli obiettivi della PESC che la Comunità può perseguire ai sensi dell’art. 301 CE, o, in caso contrario, nessun aiuto può essere fornito dall’art. 308 CE.

16.      La mia conclusione, di conseguenza, è che la sentenza del Tribunale di primo grado sia viziata da un errore in diritto. Se la Corte seguisse la mia analisi riguardante il fondamento normativo della sentenza impugnata, essa avrebbe motivazione sufficiente per annullarla. Ritengo nondimeno che, laddove vengano addotti motivi riguardanti asserite violazioni di diritti fondamentali, sia preferibile che la Corte utilizzi la possibilità di esaminare anche questi, sia per ragioni di certezza del diritto, sia al fine di evitare la sussistenza nell’ordinamento giuridico comunitario di una possibile violazione di diritti fondamentali, seppure in virtù di una misura che presenti una mera differenza di forma o di fondamento normativo. Procederò pertanto ad esaminare i rimanenti motivi in diritto del ricorrente.

III – La competenza dei giudici comunitari a stabilire se il regolamento contestato violi diritti fondamentali

17.      Nel procedimento dinanzi al Tribunale di primo grado il ricorrente ha sostenuto che il regolamento impugnato violava il diritto a un equo contraddittorio, il diritto al rispetto della proprietà ed il principio di proporzionalità, nonché il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva (13). Tuttavia, prima di esaminare nel merito tali motivi, il Tribunale di primo grado ha esaminato la portata della propria competenza a valutare la conformità del regolamento impugnato ai diritti fondamentali (14). Al fine di accertare l’adeguata estensione del controllo giurisdizionale, il Tribunale di primo grado ha considerato la relazione tra l’ordinamento giuridico comunitario e l’ordinamento giuridico creato attraverso la Carta delle Nazioni Unite. Il ragionamento del Tribunale di primo grado è esteso e analitico, ma può essere riassunto come segue.

18.      In primo luogo, il Tribunale di primo grado ha stabilito la portata sostanziale di una regola di prevalenza, derivante dal Trattato CE, secondo la quale le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza adottate in base al capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite prevalgono sulle disposizioni di diritto comunitario. Il Tribunale di primo grado ha stabilito in sostanza che il diritto comunitario riconosce e accetta che, in conformità all’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza prevalgano sul Trattato (15). In secondo luogo, il Tribunale di primo grado ha sostenuto che, conseguentemente, esso non aveva il potere di esaminare, nemmeno incidentalmente, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza al fine di valutare la loro conformità ai diritti fondamentali quali tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario. Il Tribunale di primo grado ha osservato che le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza controverse non lasciavano alcun margine di discrezionalità e che, pertanto, esso non poteva esaminare il regolamento impugnato senza dar luogo a tale controllo iincidentale. Tuttavia, il Tribunale di primo grado ha confermato, in terzo luogo, la propria competenza ad esaminare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza controverse, al fine di valutare la loro conformità alla tutela dei diritti fondamentali, nei limiti in cui tali diritti costituiscono parte integrante dello ius cogens.

19.      Il ricorrente si oppone a tale parte della sentenza impugnata con una combinazione di argomenti basati sul diritto internazionale e sul diritto comunitario. Nel suo atto di impugnazione egli sostiene, tra l’altro, che il ragionamento del Tribunale di primo grado relativamente all’effetto vincolante e all’interpretazione delle rilevanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza è viziato dalla prospettiva del diritto internazionale. Il ricorrente afferma che né l’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite né tali risoluzioni possono produrre l’effetto di precludere ai giudici il controllo di misure di esecuzione interne al fine di valutare la loro conformità ai diritti fondamentali. Nella sua replica e in udienza il ricorrente affina i propri argomenti e li connette più strettamente al diritto comunitario e alla giurisprudenza di questa Corte. Il ricorrente sostiene che, fin quando le Nazioni Unite non prevedano un meccanismo di controllo, da parte di un organo giurisdizionale indipendente, della conformità ai diritti umani delle decisioni adottate dal Consiglio di Sicurezza e dal comitato per le sanzioni, i giudici comunitari dovrebbero verificare la conformità ai diritti fondamentali, quali riconosciuti nell’ordinamento giuridico comunitario, di misure adottate dalle istituzioni comunitarie in esecuzione di tali decisioni. Il ricorrente cita quale precedente la sentenza di questa Corte nella causa Bosphorus (16).

20.      Il Regno Unito ha sollevato un’eccezione di inammissibilità riguardo al profilo argomentativo espressamente basato sul diritto comunitario per il motivo che esso costituirebbe un nuovo motivo in diritto. Non condivido questo punto di vista. Il ragionamento del Tribunale di primo grado ingenera legittima confusione riguardo a come la prevalenza delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza possa essere basata sul diritto comunitario in virtù di una condizione derivante dal diritto internazionale. A questo riguardo, gli argomenti fondati sul diritto internazionale e quelli basati sul diritto comunitario costituiscono, in sostanza, due facce della stessa medaglia. Vero è che il ricorrente avrebbe potuto più saggiamente sostenere fin dal principio il proprio motivo secondo entrambi i profili. Tuttavia, pur avendo egli inizialmente diretto gran parte dei suoi slanci argomentativi dalla prospettiva del diritto internazionale, non vi è mai stata incertezza tra le parti riguardo al merito della sua censura, vale a dire che il Tribunale di primo grado abbia erroneamente rappresentato la natura degli obblighi comunitari in base al diritto internazionale e la relazione di tali obblighi con i doveri dei giudici comunitari in base al Trattato. In realtà, in tutte le loro allegazioni scritte e orali presentate a questa Corte, il Consiglio e la Commissione, così come il Regno Unito, hanno dato ampia considerazione alla questione fondamentale sollevata dal ricorrente: la relazione tra l’ordinamento giuridico internazionale e l’ordinamento giuridico comunitario. Non vedo quindi perché la Corte dovrebbe qualificare parte degli argomenti del ricorrente come nuovo motivo in diritto. Al contrario, credo che la Corte debba considerare il suo motivo interamente ammissibile.

21.      Ciò ci conduce alla questione di come debba essere rappresentata la relazione tra l’ordinamento giuridico internazionale e l’ordinamento giuridico comunitario. Il punto di partenza logico del nostro dibattito dovrebbe naturalmente essere costituito dalla storica sentenza nella causa Van Gend en Loos, nella quale la Corte ha affermato l’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario (17). La Corte ha sostenuto che il Trattato non è soltanto un accordo tra Stati, ma un accordo tra i popoli d’Europa. Essa ha considerato che il Trattato ha istituito un «ordinamento giuridico di nuovo genere», strettamente connesso all’esistente ordinamento giuridico di diritto internazionale pubblico, ma da esso distinto. In altre parole, il Trattato ha creato un ordinamento giuridico interno di dimensioni transnazionali del quale esso costituisce la «carta costituzionale di base» (18).

22.      Ciò non significa, comunque, che l’ordinamento giuridico interno della Comunità e l’ordinamento giuridico internazionale si passino accanto ignorandosi come navi nella notte. Al contrario, la Comunità ha tradizionalmente detenuto un ruolo attivo e costruttivo sulla scena internazionale. L’applicazione e l’interpretazione del diritto comunitario sono conseguentemente fondate sulla presunzione che la Comunità intenda onorare i suoi impegni internazionali (19). I giudici comunitari esaminano pertanto scrupolosamente gli obblighi che vincolano la Comunità sul piano internazionale e ne tengono conto nel loro apprezzamento(20).

23.      Tuttavia, in ultima analisi, i giudici comunitari determinano l’effetto di obblighi internazionali all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario con riferimento alle condizioni stabilite dal diritto comunitario. La giurisprudenza fornisce diversi esempi. Ci sono casi nei quali la Corte ha escluso che un accordo internazionale avesse effetto all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario per la ragione che l’accordo era stato concluso in base ad un fondamento normativo errato. La Corte ha così giudicato, recentemente, nella causa Parlamento/Consiglio e Commissione (21). L’approccio della Corte è facilmente comprensibile, quando ci si renda conto che, qualora un accordo adottato in assenza di corretto fondamento normativo, o secondo un errato procedimento decisionale, dovesse produrre effetti all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario, ciò comporterebbe «implicazioni istituzionali (…) fondamentali sia per la Comunità sia per gli Stati membri» (22). Una preoccupazione simile caratterizza casi in cui la Corte ha sostenuto che, nel momento in cui contraggono impegni di carattere internazionale, gli Stati membri e le istituzioni comunitarie sono sottoposti a un obbligo di leale cooperazione (23). Se un accordo internazionale è concluso in violazione di tale obbligo, può essergli negata efficacia all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario. Ancor più pertinente al contesto della presente causa è il fatto che la Corte abbia verificato, all’occasione, se atti adottati dalla Comunità al fine di conferire efficacia interna ad impegni internazionali fossero conformi a principi generali di diritto comunitario. Ad esempio, nella causa Germania/Consiglio, la Corte ha annullato la decisione del Consiglio relativa alla conclusione dell’accordo OMC in quanto, nell’ambito di esso, il Consiglio aveva approvato l’accordo quadro sulle banane (24). La Corte ha considerato che alcune disposizioni di tale accordo quadro violavano un principio generale di diritto comunitario: il principio di non discriminazione.

24.      Tutti questi casi hanno in comune il fatto che, anche se la Corte dedica estrema attenzione al rispetto degli obblighi che incombono sulla Comunità in virtù del diritto internazionale, essa tende prima di tutto a salvaguardare la struttura costituzionale creata dal Trattato (25). Sarebbe quindi errato concludere che, una volta che la Comunità sia vincolata da una disposizione di diritto internazionale, i giudici comunitari debbano piegarsi di fronte a tale disposizione in atto di completa sottomissione ed applicarla incondizionatamente nell’ordinamento giuridico comunitario. La relazione tra il diritto internazionale e l’ordinamento giuridico comunitario è disciplinata dall’ordinamento giuridico comunitario stesso, e il diritto internazionale può esplicarvi effetti soltanto rispettando le condizioni stabilite dai principi costituzionali della Comunità.

25.      Ne consegue che il presente ricorso si svolge in sostanza intorno alla seguente questione: esiste nel Trattato un qualsiasi fondamento per sostenere che il regolamento impugnato sia sciolto dai vincoli costituzionali normalmente imposti dal diritto comunitario per la sola ragione che esso pone in esecuzione un regime sanzionatorio imposto da risoluzioni del Consiglio di Sicurezza? Oppure, con diversa formulazione: l’ordinamento giuridico comunitario conferisce uno statuto sovracostituzionale a misure necessarie all’esecuzione di risoluzioni adottate dal Consiglio di Sicurezza?

26.      Il ricorrente sostiene che la risposta a tale domanda può essere desunta dalla pronuncia di questa Corte nella causa Bosphorus (26). In tale decisione la Corte ha esaminato se un regolamento adottato per attuare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che imponeva un embargo commerciale sulla Repubblica federale di Jugoslavia violasse diritti fondamentali e il principio di proporzionalità. La Corte ha sostenuto che l’interesse a «porre fine allo stato di guerra nella regione e alle massicce violazioni dei diritti dell’uomo e del diritto umanitario internazionale nella Repubblica di Bosnia-Erzegovina» superava l’interesse di un soggetto del tutto incolpevole a poter esercitare le sue attività economiche utilizzando beni noleggiati da una società avente sede nella Repubblica federale di Jugoslavia (27). La Corte non ha minimamente accennato ad un suo eventuale difetto di competenza giurisdizionale per la ragione che il regolamento era necessario all’esecuzione di un regime sanzionatorio istituito dal Consiglio di Sicurezza (28).

27.      Ciò nonostante il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito sostengono che la sentenza Bosphorus non ha l’autorità che il ricorrente cerca di ascriverle. Essi affermano che la sentenza tace sul punto della portata della competenza giurisdizionale della Corte, poiché, in ogni caso, il regolamento non viola diritti fondamentali. Non considero questo argomento molto persuasivo. Vero è che, mentre l’avvocato generale ha incidentalmente respinto l’idea, la Corte non ha specificamente esaminato se il fatto che il regolamento attuasse una risoluzione del Consiglio di Sicurezza potesse impedirle di esercitare il proprio sindacato giurisdizionale. Nondimeno, suppongo che la Corte, più che scegliere deliberatamente di non decidere sul punto, abbia ritenuto di per sé evidente ciò che l’avvocato generale aveva creduto utile indicare specificamente, vale a dire che «il rispetto dei diritti fondamentali costituisce (…) un requisito di legittimità degli atti comunitari» (29).

28.      In ogni caso, anche se si accettasse il suggerimento che la Corte abbia accantonato il problema della sua giurisdizione nella sentenza Bosphorus, resta il fatto che il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito non hanno individuato nel Trattato alcun fondamento da cui poter logicamente evincere che misure adottate per dare esecuzione a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza hanno uno statuto sovracostituzionale ed è loro pertanto concesso di sottrarsi al controllo giurisdizionale.

29.      Il Regno Unito indica che tale esenzione dal controllo giurisdizionale può essere fatta discendere dall’art 307 CE. Il primo comma di tale articolo prevede: «Le disposizioni del presente Trattato non pregiudicano i diritti e gli obblighi derivanti da convenzioni concluse, anteriormente al 1° gennaio 1958 o, per gli Stati aderenti, anteriormente alla data della loro adesione, tra uno o più Stati membri da una parte e uno o più Stati terzi dall’altra». Dal punto di vista del Regno Unito tale disposizione, letta in combinato con l’art. 10 CE, imporrebbe alla Comunità l’obbligo di non ostacolare l’osservanza delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza da parte degli Stati membri. Di conseguenza la Corte dovrebbe astenersi dall’esercitare il suo controllo giurisdizionale sul regolamento impugnato. Devo fin dall’inizio dichiarare che questo argomento non mi convince, ma ritengo comunque utile esaminare il punto in modo piuttosto circostanziato, in particolare per la ragione che l’art. 307 CE ha assunto considerevole rilievo nel ragionamento del Tribunale di primo grado (30).

30.      A prima vista, può non risultare del tutto chiaro come si potrebbe impedire agli Stati membri di ottemperare alle proprie obbligazioni derivanti dalla Carta delle Nazioni Unite nel caso in cui la Corte dovesse annullare il regolamento impugnato. Effettivamente, in mancanza di un provvedimento comunitario, gli Stati membri sarebbero in linea di principio liberi di adottare le loro proprie misure di esecuzione, poiché ad essi è consentito, in base al Trattato, adottare misure che, pur incidendo sul funzionamento del mercato comune, si possono rendere necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (31). Tuttavia i poteri conservati dagli Stati membri nell’ambito della politica di sicurezza devono essere esercitati nel rispetto del diritto comunitario (32). Alla luce della pronuncia della Corte nella causa ERT (33), si può ritenere che, nella misura in cui le loro azioni rientrano nell’ambito del diritto comunitario, gli Stati membri devono rispettare le stesse norme comunitarie per la tutela di diritti fondamentali cui sono sottoposte le istituzioni comunitarie stesse. In base a tale assunto, se la Corte dovesse annullare il regolamento impugnato per il motivo che esso avrebbe violato le disposizioni comunitarie dirette alla tutela di diritti fondamentali, allora, implicitamente, gli Stati membri non potrebbero adottare le stesse misure senza agire, in quanto tali misure rientrino nell’ambito del diritto comunitario, in violazione dei diritti fondamentali quali tutelati dalla Corte. Così, l’argomento basato sull’art. 307 CE ha una rilevanza soltanto indiretta.

31.      Il problema cruciale, posto dall’argomento sollevato dal Regno Unito, è costituito tuttavia dal fatto che l’art. 307 CE è presentato quale fonte di una possibile deroga all’art. 6, n. 1, UE, ai sensi del quale «[l]’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dello stato di diritto». Non vedo il fondamento di una siffatta interpretazione dell’art. 307 CE. Per di più essa sarebbe inconciliabile con l’art. 49 UE, che rende l’accesso all’Unione condizionato al rispetto dei principi sanciti nell’art. 6, n. 1, UE. Inoltre essa potrebbe autorizzare autorità nazionali a servirsi della Comunità per eludere i diritti fondamentali garantiti nei loro ordinamenti giuridici nazionali persino riguardo ad atti esecutivi di obblighi internazionali (34). Ciò si porrebbe chiaramente in contrasto con la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale la Comunità garantisce un sistema completo di tutela giurisdizionale nel quale i diritti fondamentali vengono salvaguardati in armonia con le tradizioni costituzionali degli Stati membri. Come la Corte ha dichiarato nella sentenza Les Verts, «la Comunità (…) europea è una comunità di diritto nel senso che né gli Stati che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal Trattato» (35). In modo più diretto, nella sentenza Schmidberger, la Corte ha riaffermato che «nella Comunità non possono essere consentite misure incompatibili con il rispetto dei diritti dell’uomo» (36). In breve, l’interpretazione dell’art. 307 CE fornita dal Regno Unito comporterebbe una rottura con gli stessi principi su cui l’Unione si fonda, sebbene nulla nel Trattato suggerisca che l’art. 307 CE abbia uno statuto speciale, tanto meno di cotanta rilevanza, nella struttura costituzionale della Comunità.

32.      Inoltre, le obbligazioni di cui all’art. 307 CE e il relativo dovere di leale cooperazione si dirigono in entrambi i sensi: esse sono applicabili alla Comunità così come agli Stati membri (37). Il secondo comma dell’art. 307 CE stabilisce che «lo Stato o gli Stati membri interessati ricorrono a tutti i mezzi atti ad eliminare (…) incompatibilità» tra i loro obblighi anteriori al Trattato e i loro obblighi di diritto comunitario. A tal fine gli Stati membri «si forniranno reciproca assistenza (…) assumendo eventualmente una comune linea di condotta». Tale dovere di leale cooperazione esige che gli Stati membri esercitino i loro poteri e le loro responsabilità nell’ambito di un’organizzazione internazionale quale le Nazioni Unite in modo compatibile con le condizioni stabilite dalle disposizioni primarie e dai principi generali di diritto comunitario (38). Quali membri delle Nazioni Unite, gli Stati membri, in particolare, nel contesto del caso di specie, quelli appartenenti al Consiglio di Sicurezza, devono agire modo da evitare, nei limiti del possibile, l’adozione di decisioni da parte di organi delle Nazioni Unite che possano entrare in conflitto con i principi essenziali dell’ordinamento giuridico comunitario. Agli stessi Stati membri, pertanto, incombe la responsabilità di ridurre al minimo il rischio di conflitti tra l’ordinamento giuridico comunitario e il diritto internazionale.

33.      Se l’art. 307 CE non può esimere il regolamento contestato dal controllo giurisdizionale, esiste forse una qualsiasi altra disposizione di diritto comunitario che lo renda possibile? Il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito sostengono che, in linea di principio, la Corte non può porre in dubbio provvedimenti comunitari di esecuzione di risoluzioni che il Consiglio di Sicurezza ha considerato necessarie per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. In tale contesto la Commissione evoca la nozione di «questioni politiche» (39). In breve, si potrebbe dire che la Commissione, il Consiglio e il Regno Unito affermano che la specifica questione controversa nel caso di specie non si presta a controllo giurisdizionale. Essi sostengono che analoga posizione è assunta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

34.      L’assunto che il caso di specie riguardi una «questione politica», rispetto alla quale anche la minima interferenza giurisdizionale sarebbe inadeguata, è dal mio punto di vista insostenibile. L’affermazione che una misura sia necessaria per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale non può operare in modo da ridurre al silenzio i principi generali del diritto comunitario e privare i singoli dei loro diritti fondamentali. Questo non scredita l’importanza dell’interesse al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale; significa semplicemente che spetta ai giudici valutare la legittimità di misure che possono entrare in conflitto con altri interessi di altrettanto grande valore e la cui tutela è ad essi affidata. Come il giudice Murphy giustamente ha dichiarato, nel suo parere dissenziente, nella causa Korematsu, giudicata dalla Corte suprema degli Stati Uniti:

«Come altre pretese in conflitto con gli affermati diritti costituzionali dell’individuo, [tale] pretesa dev’essere essa stessa oggetto di controllo giurisdizionale per accertarne la ragionevolezza e risolverne il conflitto con altri interessi. Gli interrogativi relativi a quali siano i limiti [di discrezionalità] consentiti, e se essi siano stati o meno oltrepassati in un caso specifico, rappresentano questioni oggetto del controllo del giudice» (40).

35.      Certamente, circostanze straordinarie possono giustificare limitazioni delle libertà individuali che sarebbero inaccettabili in condizioni normali. Tuttavia questo non dovrebbe indurci ad affermare che «vi sono casi in cui bisogna mettere, per un istante, un velo sulla libertà, così come si coprono le statue degli Dei» (41). Né ciò significa, come sostiene il Regno Unito, che il sindacato giurisdizionale in tali casi dovrebbe avere soltanto «carattere estremamente marginale». Al contrario, quando i rischi per la pubblica sicurezza sono ritenuti eccezionalmente elevati, particolarmente forte si rivela la spinta ad adottare provvedimenti inosservanti dei diritti individuali, soprattutto nei confronti di persone che hanno un accesso limitato o nessun accesso al processo politico. Pertanto, in tali situazioni, i giudici dovrebbero ottemperare con accresciuta attenzione al loro dovere di tutelare lo Stato di diritto. Così, le stesse circostanze che possono giustificare limitazioni eccezionali di diritti fondamentali richiedono altresì che i giudici accertino scrupolosamente se tali limitazioni si spingano oltre quanto necessario. Come discuterò in seguito, la Corte deve verificare se l’asserzione dell’esistenza di rischi per la sicurezza eccezionalmente elevati sia fondata e garantire che i provvedimenti adottati riflettano un’adeguata ponderazione della natura del rischio per la sicurezza e dell’entità dell’incidenza di tali provvedimenti sui diritti fondamentali degli individui.

36.      Secondo il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito, la Corte europea dei diritti dell’uomo rinuncia ai suoi poteri di controllo giurisdizionale quando un provvedimento impugnato è necessario ad attuare una risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Dubito tuttavia seriamente che la Corte europea dei diritti dell’uomo limiti la propria giurisdizione in tal modo (42). Inoltre, anche in tal caso, non penso vi siano conseguenze nel caso di specie.

37.      È certamente corretto asserire che, nell’assicurare il rispetto dei diritti fondamentali all’interno della Comunità, la Corte di giustizia trae ispirazione dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (43). Restano nondimeno notevoli differenze tra le due Corti. Il compito della Corte europea dei diritti dell’uomo è di garantire il rispetto degli obblighi assunti dagli Stati contraenti in base alla Convenzione. Sebbene lo scopo della Convenzione sia la salvaguardia e lo sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, essa è volta ad operare principalmente quale accordo interstatale, che crea obbligazioni tra le parti contraenti a livello internazionale (44). Ciò è illustrato dal meccanismo di esecuzione intergovernativo della Convenzione (45). Il Trattato CE, diversamente, ha istituito un ordinamento giuridico autonomo all’interno del quale sia gli Stati sia gli individui godono di diritti e sono soggetti ad obbligazioni di carattere immediato. Il compito della Corte di giustizia consiste nell’agire alla stregua di giudice costituzionale dell’ordinamento giuridico interno costituito dalla Comunità. La Corte europea dei diritti dell’uomo e la Corte di giustizia non possono pertanto essere comparate riguardo alla loro giurisdizione ratione personae e riguardo alla relazione del loro sistema giuridico con il diritto internazionale pubblico. Il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito tentano quindi di instaurare un parallelo precisamente dove l’analogia tra le due Corti viene meno.

38.      Il Consiglio ha affermato in udienza che la Corte, nell’esercitare le sue competenze giurisdizionali rispetto ad atti delle istituzioni comunitarie che trovano la loro fonte in risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, esorbiterebbe dalla sua peculiare funzione e «parlerebbe in nome della comunità internazionale». Tuttavia, tale affermazione si spinge chiaramente troppo lontano. È chiaro che una pronuncia della Corte nel senso di ritenere la risoluzione impugnata non applicabile nell’ordinamento giuridico comunitario avrebbe probabilmente ripercussioni sulla scena internazionale. Si dovrebbe comunque rilevare che siffatte ripercussioni non dovrebbero essere necessariamente negative. Esse costituirebbero la conseguenza immediata del fatto che, poiché il sistema che governa il funzionamento delle Nazioni Unite è in merito attualmente lacunoso, l’unica possibilità rimasta agli individui che intendano adire un organo giurisdizionale indipendente al fine di ottenere adeguata tutela dei loro diritti fondamentali consiste nell’impugnare provvedimenti di esecuzione interni dinanzi ad un organo giurisdizionale interno (46). Invero, la possibilità di un ricorso vittorioso non può giungere del tutto inaspettata al Consiglio di Sicurezza, tenuto conto che essa è stata espressamente contemplata dall’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team (Gruppo di sostegno analitico e di sorveglianza delle sanzioni) del comitato per le sanzioni (47).

39.      Inoltre, gli effetti giuridici delle pronunce di questa Corte restano confinati nell’ordinamento giuridico interno della Comunità. Laddove una tale sentenza impedisse alla Comunità ed ai suoi Stati membri di dare esecuzione a risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, le conseguenze giuridiche all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale continuerebbero a dover essere stabilite dalle norme di diritto pubblico internazionale. Se, da un lato, è vero che le limitazioni che i principi generali del diritto comunitario impongono alle azioni delle istituzioni possono creare inconvenienti alla Comunità e ai suoi Stati membri nelle loro relazioni sul piano internazionale, l’applicazione di questi principi da parte della Corte di giustizia non pregiudica l’applicazione di norme internazionali sulla responsabilità degli Stati o della norma enunciata nell’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite. L’assunto del Consiglio secondo il quale la Corte, giudicando il regolamento impugnato, assumerebbe giurisdizione oltre i limiti dell’ordinamento giuridico comunitario, è pertanto errato.

40.      Concludo di conseguenza che il Tribunale di primo grado ha commesso un errore in diritto nel sostenere di non essere competente a giudicare il regolamento impugnato alla luce dei diritti fondamentali che rientrano tra i principi generali del diritto comunitario. Pertanto la Corte dovrebbe considerare fondato il secondo motivo del ricorrente ed annullare la sentenza impugnata.

IV – Le asserite violazioni di diritti fondamentali

41.      Suggerisco che la Corte, nel caso di specie, invece di rinviare la causa al Tribunale di primo grado, utilizzi la possibilità di statuire definitivamente sul caso di specie (48). Per ragioni di opportunità ritengo utile, al riguardo, concentrarsi sul tema principale della controversia, vale a dire sulla questione se il regolamento contestato violi i diritti fondamentali del ricorrente.

42.      Il ricorrente allega diverse violazioni dei suoi diritti fondamentali e, per tali ragioni, chiede l’annullamento del regolamento impugnato nella parte in cui esso lo riguarda. I convenuti – in particolare la Commissione e il Regno Unito – sostengono che, per quanto il regolamento contestato possa interferire con i diritti fondamentali del ricorrente, ciò si giustifica con ragioni relative alla repressione del terrorismo internazionale. A questo proposito essi affermano altresì che la Corte non dovrebbe utilizzare un normale metro di giudizio, bensì, alla luce degli interessi di sicurezza internazionale in gioco, applicare criteri meno rigorosi per la protezione di diritti fondamentali.

43.      Dissento dai convenuti. Essi invocano un tipo di esame giurisdizionale in sostanza molto simile all’approccio tenuto dal Tribunale di primo grado sotto l’intitolazione jus cogens. In un certo senso il loro argomento è ancora un’altra espressione della convinzione che il caso di specie riguardi una «questione politica» e che la Corte, diversamente dalle altre istituzioni, non si trova in una posizione che le consenta di trattare adeguatamente tali questioni. La ragione consisterebbe nel fatto che le questioni controverse hanno rilevanza internazionale e qualsiasi intervento della Corte potrebbe compromettere gli sforzi globalmente coordinati per combattere il terrorismo. L’argomento è quindi in stretta relazione con l’opinione che gli organi giurisdizionali non siano dotati di strumenti idonei per determinare quali misure siano adeguate ad ostacolare il terrorismo internazionale. Il Consiglio di Sicurezza, al contrario, possiede presumibilmente la perizia necessaria a tale determinazione. Per tali ragioni i convenuti concludono che la Corte dovrebbe considerare con la massima deferenza le valutazioni operate dal Consiglio di Sicurezza e, semmai, limitarsi ad un esame minimo degli atti comunitari basati su tali valutazioni.

44.      Vero è che gli organi giurisdizionali non dovrebbero essere istituzionalmente ciechi. Pertanto la Corte dovrebbe tener presente il contesto internazionale nel quale opera ed essere conscia dei propri limiti. Essa dovrebbe essere consapevole dell’impatto che le sue sentenze possono avere al di fuori dei confini della Comunità. In un mondo di crescente interdipendenza, ordinamenti giuridici diversi dovranno cercare di armonizzare i reciproci mezzi di ricorso. Ne consegue che la Corte non può sempre imporre un monopolio nel determinare come determinati interessi fondamentali debbano essere riconciliati. Essa deve, quando possibile, riconoscere l’autorità di istituzioni, come il Consiglio di Sicurezza, istituite nell’ambito di un ordinamento giuridico diverso dal suo e che a volte si trovano in una posizione migliore per poter ponderare questi interessi fondamentali. In ogni caso la Corte non può, riguardo alle valutazioni di tali istituzioni, voltare le spalle ai valori fondamentali sui quali si fonda l’ordinamento giuridico comunitario e che essa ha il dovere di tutelare. Il rispetto per altre istituzioni ha pieno significato soltanto se può essere costruito sulla comprensione condivisa di tali valori e sull’obbligo reciproco di proteggerli. Di conseguenza, in situazioni in cui si trovino in gioco i valori fondamentali della Comunità, può essere chiesto alla Corte di riesaminare, e in caso annullare, provvedimenti adottati dalle istituzioni comunitarie, anche se tali provvedimenti riflettono i voleri del Consiglio di Sicurezza.

45.      Il fatto che i provvedimenti in parola siano diretti a reprimere il terrorismo internazionale non dovrebbe impedire alla Corte di adempiere il suo dovere di difesa dello Stato di diritto. Nell’agire in tal modo, anziché sconfinare nel dominio della politica, la Corte riafferma i limiti che il diritto impone a determinate decisioni politiche. Non si tratta mai di un compito semplice, e per un organo giurisdizionale costituisce infatti una grande sfida valutare con saggezza questioni relative alla minaccia del terrorismo. Tuttavia lo stesso è valido per le istituzioni politiche. Soprattutto in materia di pubblica sicurezza, la politica ha la tendenza a divenire eccessivamente sensibile alle immediate preoccupazioni del popolo, portando le autorità a sedare le ansietà di molti a discapito dei diritti di pochi. Questo è precisamente il momento in cui gli organi giurisdizionali dovrebbero essere coinvolti, al fine di garantire che le necessità politiche dell’oggi non divengano le realtà giuridiche del domani. La loro responsabilità consiste nell’assicurare che ciò che possa essere politicamente vantaggioso in un particolare momento storico rispetti altresì lo Stato di diritto, principio senza il quale, a lungo termine, nessuna società democratica può davvero prosperare. Secondo le parole di Aharon Barak, ex presidente della Corte Suprema di Israele:

«È quando i cannoni rombano che abbiamo più bisogno delle leggi (...) Ogni battaglia dello Stato – contro il terrorismo o qualsiasi altro nemico – dev’essere condotta in base alla legge. Vi è sempre una legge cui lo Stato si deve conformare. Non esistono “buchi neri”. (…) La ragione di fondo di tale approccio non è soltanto la concreta conseguenza della realtà politica e normativa. Le sue radici sono molto più profonde. Essa costituisce l’espressione della differenza tra la lotta che uno Stato democratico affronta per la sua sopravvivenza e la lotta di terroristi che insorgono contro di esso. Lo Stato combatte in nome della legge e quale suo fautore. I terroristi combattono contro la legge, violandola. La guerra contro il terrorismo è quindi una guerra di diritto contro coloro che avverso il diritto si ergono» (49).

46.      La Corte non ha quindi ragioni per discostarsi, nel caso di specie, dalla sua usuale interpretazione dei diritti fondamentali invocata dal ricorrente. La sola nuova questione è se le concrete necessità derivanti dalla lotta al terrorismo internazionale giustifichino limitazioni dei diritti fondamentali del ricorrente altrimenti non accettabili. Ciò non richiede una diversa concezione di tali diritti fondamentali e del grado di controllo applicabile, semplicemente significa che l’importanza da attribuire ai diversi interessi, che nell’applicazione dei diritti fondamentali in parola devono sempre essere ponderati, può essere diversa in conseguenza delle particolari necessità insorgenti dalla lotta al terrorismo internazionale. Ma ciò deve costituire oggetto della valutazione di questa Corte nel normale esercizio del suo sindacato giurisdizionale. Le presenti circostanze possono comportare una diversa ponderazione dei valori coinvolti nella tutela di diritti fondamentali, ma il grado di protezione da questi ultimi richiesto dovrebbe restare immutato.

47.      Il problema del ricorrente è costituito dal fatto che tutti i suoi interessi finanziari all’interno della Comunità sono stati congelati da diversi anni, a tempo indeterminato e in condizioni in cui sembra non esservi per lui alcun mezzo idoneo a contestare l’affermazione che egli sia colpevole di aver commesso illeciti. Il ricorrente ha invocato il diritto alla proprietà, il diritto al contraddittorio e il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva. Nel contesto del caso di specie tali diritti sono strettamente connessi. È chiaro che il congelamento dei beni di una persona a tempo indeterminato costituisce una profonda ingerenza nel diritto al pacifico godimento della proprietà. Le conseguenze per la persona interessata sono potenzialmente devastanti, anche qualora si adottino accorgimenti per il soddisfacimento di bisogni elementari e per provvedere alle spese necessarie. Naturalmente ciò spiega perché la misura abbia un affetto coercitivo così forte e perché «sanzioni intelligenti» di questo tipo possano essere considerate strumenti opportuni o addirittura necessari a prevenire atti terroristici. Tuttavia ciò sottolinea altresì la necessità di procedure di salvaguardia che impongano alle autorità di giustificare siffatte misure e dimostrare la loro proporzionalità, non soltanto in astratto, ma in base alle concrete circostanze del caso di specie. La Commissione giustamente rileva che la repressione del terrorismo internazionale può giustificare limitazioni al diritto di proprietà. Tuttavia ciò non esime ipso facto le autorità dall’esigenza di dimostrare che tali limitazioni siano giustificate rispetto alla persona interessata. Procedure di salvaguardia sono necessarie proprio per garantire che tale sia effettivamente il caso. In loro assenza, il congelamento dei beni di una persona a tempo indeterminato viola il diritto di proprietà.

48.      Il ricorrente afferma che, rispetto alle sanzioni in parola, tali procedure di salvaguardia non esistono. Egli sostiene che non gli è stata data alcuna opportunità di essere sentito sui fatti e sulle circostanze allegate, nonché sulle prove addotte contro di lui. Egli afferma che si sarebbe trovato in una posizione migliore se fossero state addotte contro di lui imputazioni penali, in quanto almeno egli avrebbe goduto delle garanzie previste in un procedimento penale. In tale contesto egli intende far valere il diritto al contraddittorio con le autorità amministrative, nonché il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva apprestata da un organo giurisdizionale indipendente.

49.      Sia il diritto al contraddittorio, sia il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, costituiscono diritti fondamentali appartenenti ai principi generali del diritto comunitario. Secondo giurisprudenza costante, «il rispetto dei diritti della difesa in qualsiasi procedimento promosso nei confronti di una persona e che possa sfociare in un atto per essa lesivo costituisce un principio fondamentale del diritto comunitario e dev’essere garantito anche in mancanza di qualsiasi norma riguardante il procedimento di cui trattasi (…). Tale principio impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il proprio punto di vista» (50). Rispetto al diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, la Corte ha dichiarato: «La Comunità europea è una comunità di diritto nella quale le relative istituzioni sono soggette al controllo della conformità dei loro atti al Trattato e ai principi generali del diritto di cui fanno parte i diritti fondamentali. (…) [I] singoli devono poter beneficiare di una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti riconosciuti loro dall’ordinamento giuridico comunitario, poiché il diritto a detta tutela fa parte dei principi giuridici generali che derivano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» (51).

50.      I convenuti asseriscono, tuttavia, che, laddove vi siano state limitazioni del diritto al contraddittorio e del diritto ad un‘effettiva tutela giurisdizionale, tali limitazioni sono giustificate. Essi affermano che ogni tentativo, da parte della Comunità o dei suoi Stati membri, di stabilire procedure amministrative e giudiziarie per impugnare la legittimità delle sanzioni imposte dal regolamento impugnato contravverrebbe alle sottostanti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e comprometterebbe pertanto la lotta contro il terrorismo internazionale. Coerentemente con tale tesi, essi non hanno addotto alcun elemento che abiliterebbe questa Corte ad esercitare il suo sindacato rispetto alla situazione specifica del ricorrente.

51.      Non mi soffermerò a lungo sull’asserita violazione del diritto al contraddittorio. È sufficiente dire che, sebbene determinate limitazioni di tale diritto possano essere previste per ragioni di pubblica sicurezza, nel caso di specie le istituzioni comunitarie non hanno concesso alla ricorrente alcuna possibilità di far conoscere il proprio punto di vista sulla questione se le sanzioni contro lo stesso siano giustificate e se esse debbano essere mantenute in vigore. L’esistenza di un procedimento di cancellazione dall’elenco nell’ambito delle Nazioni Unite non è, al riguardo, di conforto. Questo procedimento consente ai richiedenti di presentare una domanda di rimozione dall’elenco al comitato per le sanzioni o al loro governo (52). Il procedimento relativo a tale domanda si svolge però soltanto in forma di consultazione intergovernativa. Attualmente non vi è alcun obbligo per il comitato per le sanzioni di tener conto delle considerazioni del richiedente. Inoltre il procedimento di cancellazione dall’elenco non prevede neppure un diritto di accesso minimo alle informazioni sulle quali è stata basata la decisione di includere il richiedente nell’elenco. In realtà, l’accesso a tale informazione è negato a prescindere da qualsiasi fondato reclamo riguardo alla necessità di proteggere la sua riservatezza. Una delle ragioni essenziali per le quali il diritto al contraddittorio dev’essere rispettato è quella di consentire alle parti interessate di difendere i propri diritti in maniera effettiva, particolarmente in procedimenti legali che possono essere promossi a seguito della definizione del procedimento di controllo amministrativo. In tal senso, il rispetto del diritto al contraddittorio ha diretta rilevanza per assicurare il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva. Procedure di salvaguardia di carattere amministrativo non possono mai rendere superfluo un successivo controllo giurisdizionale. Nondimeno, l’assenza di tali procedure amministrative di salvaguardia ha significativi effetti negativi sul diritto del ricorrente ad una tutela giurisdizionale effettiva.

52.      Il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva occupa un posto di rilievo nel complesso dei diritti fondamentali. Mentre alcune limitazioni di tale diritto possono essere consentite in presenza di altri interessi imperativi, è inaccettabile nell’ambito di una società democratica menomarne la sua vera essenza. Come dichiara la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza Klass e a.:«[i]l ruolo della legge comporta, tra l’altro, che un’ingerenza delle autorità amministrative nei diritti di un individuo sia sottoposta a un controllo efficace, che dovrebbe essere normalmente assicurato, almeno in ultima analisi, dall’autorità giudiziaria, offrendo così le migliori garanzie di indipendenza, imparzialità e regolarità delle procedure» (53).

53.      Il ricorrente, da diversi anni, risulta inserito nell’elenco di cui all’allegato I del regolamento impugnato e le istituzioni comunitarie tuttora rifiutano di concedergli la possibilità di discutere i motivi della sua permanenza sull’elenco. Esse hanno in realtà lanciato accuse estremamente gravi contro di lui, assoggettandolo di conseguenza a severe sanzioni. Dette istituzioni, tuttavia, respingono del tutto la concezione di un organo giurisdizionale indipendente che valuti la fondatezza di tali cause e la ragionevolezza di tali sanzioni. A causa di tale diniego, sussiste la possibilità effettiva che le sanzioni adottate nei confronti del ricorrente all’interno della Comunità possano essere sproporzionate o addirittura erroneamente indirizzate, e ciò nonostante restare in vigore indefinitamente. La Corte non può in alcun modo sapere se questo sia in realtà il caso, ma la mera esistenza di tale possibilità costituisce un anatema in una società che rispetta lo Stato di diritto.

54.      Qualora fosse esistito un autentico ed efficace meccanismo di controllo giudiziario esercitato da un organo giurisdizionale indipendente nell’ambito delle Nazioni Unite, la Comunità avrebbe potuto essere dispensata dall’obbligo di prevedere un controllo giurisdizionale di provvedimenti attuativi applicabili all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario. Tuttavia, attualmente, un siffatto meccanismo non esiste. Come la Commissione e il Consiglio stessi hanno sottolineato nelle loro difese, la decisione di cancellare o meno il nome di una persona da un elenco delle Nazioni Unite di soggetti da sottoporre a sanzioni resta nella totale discrezionalità del comitato per le sanzioni, un organo diplomatico. In tali circostanze si deve ritenere che il diritto ad un controllo giudiziario esercitato da un organo giurisdizionale indipendente non sia stato garantito nell’ambito delle Nazioni Unite. Conseguentemente le istituzioni comunitarie, nel dare esecuzione alle misure esecutive di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza in questione all’interno dell’ordinamento giuridico comunitario, non possono sottrarsi ad un adeguato procedimento di controllo giurisdizionale.

55.      Ne consegue che la domanda del ricorrente diretta a far riconoscere che il regolamento impugnato viola il diritto al contraddittorio, il diritto alla tutela giurisdizionale e il diritto di proprietà risulta fondata. La Corte dovrebbe annullare il regolamento impugnato nella parte che riguarda il ricorrente.

V –    Conclusione

56.      Propongo pertanto alla Corte:

1)         di annullare la sentenza del Tribunale di primo grado 21 settembre 2005, causa T‑315/01, Kadi/Consiglio e Commissione;

2)         di annullare, nella parte che riguarda il ricorrente, il regolamento (CE) del Consiglio 27 maggio 2002, n. 881, che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone ed entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al‑Qaeda e ai talibani e abroga il regolamento (CE) n. 467/2001 che vieta l’esportazione di talune merci e servizi in Afghanistan, inasprisce il divieto dei voli e estende il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie nei confronti dei talibani dell’Afghanistan.


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – Regolamento (CE) del Consiglio n. 467/2001, che vieta l’esportazione di talune merci e servizi in Afghanistan, inasprisce il divieto dei voli e estende il congelamento dei capitali e delle altre risorse finanziarie nei confronti dei talibani dell’Afghanistan, e abroga il regolamento (CE) n. 337/2000 (GU L 67, pag. 1). Il nome del ricorrente è stato aggiunto con il regolamento (CE) della Commissione 19 ottobre 2001, n. 2062, che modifica per la terza volta il regolamento (CE) n. 467/2001 (GU L 277, pag. 25).


3 – Regolamento che impone specifiche misure restrittive nei confronti di determinate persone ed entità associate a Osama bin Laden, alla rete Al‑Qaeda e ai talibani e abroga il regolamento (CE) n. 467/2001 (GU L 139, pag. 9).


4 – Posizione comune concernente misure restrittive nei confronti di Osama bin Laden, dei membri dell’organizzazione Al-Qaida e dei talibani e di altri individui, gruppi, imprese ed entità ad essi associate e che abroga le posizioni comuni 96/746/PESC, 1999/727/PESC, 2001/154/PESC e 2001/771/PESC (GU L 139, pag. 4). V., in particolare, l’art. 3 e il nono ‘considerando’ del preambolo.


5 – Risoluzione S/RES/1267 del 15 ottobre 1999.


6 – Risoluzione S/RES/1333 del 19 dicembre 2000.


7 – Risoluzione S/RES/1390 del 16 gennaio 2002.


8 – Posizione comune concernente deroghe alle misure restrittive imposte dalla posizione comune 2002/402/PESC (GU L 53, pag. 62).


9 – Regolamento (CE) del Consiglio n. 561/2003 che modifica, per quanto riguarda le deroghe al congelamento dei capitali e delle risorse economiche, il regolamento (CE) n. 881/2002 (GU L 82, pag. 1).


10 – Racc. pag. II‑3649.


11 – Punti 87-135 della sentenza impugnata.


12 – Punto 133 della sentenza impugnata.


13 – Punto 59 della sentenza impugnata.


14 – Punti 181-232 della sentenza impugnata.


15 – L’art. 103 della Carta delle Nazioni Unite prevede: «In caso di contrasto tra gli obblighi contratti dai Membri delle Nazioni Unite in base alla presente Carta e gli obblighi da essi assunti in base a qualsiasi altro accordo internazionale, prevarranno gli obblighi derivanti dalla presente Carta». È generalmente riconosciuto che tale obbligazione si estenda alle decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza. V. Corte internazionale di giustizia, ordinanza 14 aprile 1992 (misure provvisorie), in «Questioni d’interpretazione e applicazione della Convenzione di Montreal del 1971 sorte in seguito all’incidente aereo di Lockerbie» (Jamahiriya araba libica/Regno Unito), I.C.J. Reports 1992, pag. 3, punto 39.


16 – Sentenza 30 luglio 1996, causa C‑84/95 (Racc. pag. I‑3953).


17 – Sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62 (Racc. pag. 3).


18 – V. sentenza 23 aprile 1986, causa 294/83, Les Verts/Parlamento (Racc. pag. 1339, punto 23).


19 – V., ad esempio, sentenze 4 dicembre 1974, causa 41/74, Van Duyn (Racc. pag. 1337, punto 22), e 24 novembre 1992, causa C‑286/90, Poulsen e Diva Navigation (Racc. pag. I‑6019, punti 9‑11).


20 – V., ad esempio, sentenze 11 settembre 2007, causa C‑431/05, Merck Genéricos‑Produtos Farmacêuticos (Racc. pag. I‑7001); 14 dicembre 2000, causa C‑300/98, Dior e a. (Racc. pag. I‑11307, punto 33); 16 luglio 1998, causa C‑162/96, Racke (Racc. pag. I‑3655); 12 dicembre 1972, cause riunite 21/72‑24/72, International Fruit Company e a. (Racc. pag. 1219), e Poulsen e Diva Navigation, citata nella nota 19.


21 – Sentenza 30 maggio 2006, cause riunite C‑317/04 e C‑318/04 (Racc. pag. I‑4721). V. anche sentenza 9 agosto 1994, causa C‑327/91, Francia/Commissione (Racc. pag. I‑3641).


22 – Parere della Corte 28 marzo 1996, 2/94 (Racc. pag. I‑1759, punto 35).


23 – V., ad esempio, deliberazione della Corte 14 novembre 1978, 1/78 (Racc. pag. 2151, punto 33); parere della Corte 19 marzo 1993, 2/91 (Racc. pag. I‑1061, punti 36‑38), e sentenza 19 marzo 1996, causa C‑25/94, Commissione/Consiglio (Racc. pag. I‑1469, punti 40-51).


24 – Sentenza 10 marzo 1998 (Racc. pag. I‑973).


25 – V., ad esempio, parere 2/94 (citato nella nota 22), punti 30, 34 e 35.


26 – Citata nella nota 16.


27 – Sentenza Bosphorus (citata nella nota 16), punto 26.


28 – Il sequestro dell’aereo della Bosphorus Airways è avvenuto in conformità alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza 820 (1993). Il comitato per le sanzioni delle Nazioni Unite ha deciso che il mancato sequestro dell’aereo da parte delle autorità avrebbe costituito una violazione della risoluzione.


29 – Conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa Bosphorus (citata nella nota 16), paragrafo 53. V. anche il punto 34 del parere 2/94, citato nella nota 22.


30 – Punti 185-191 e 196 della sentenza impugnata.


31 – Artt. 297 CE e 60, n. 2, CE. V. anche sentenze 17 ottobre 1995, causa C‑70/94, Werner (Racc. pag. I‑3189), e 17 ottobre 1995, causa C‑83/94, Leifer e a. (Racc. pag. I‑3231), nonché conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa C‑120/94, Commissione/Grecia (Racc. pag. I‑1513).


32 – Sentenza 14 gennaio 1997, causa C‑124/95, Centro-Com (Racc. pag. I‑81, punto 25).


33 – Sentenza 18 giugno 1991, causa C‑260/89 (Racc. pag. I‑2925). V. anche sentenza 26 giugno 1997, causa C‑368/95, Familiapress (Racc. pag. I‑3689), e sentenza 11 luglio 2002, causa C‑60/00, Carpenter (Racc. pag. I‑6279).


34 – In alcuni ordinamenti giuridici appare estremamente improbabile che provvedimenti nazionali di esecuzione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza si possano sottrarre al controllo giurisdizionale (il che incidentalmente mostra che una decisione di questa Corte di escludere dal controllo giurisdizionale provvedimenti quali il regolamento impugnato può creare difficoltà per l’attuazione del diritto comunitario in alcuni ordinamenti giuridici nazionali). V., ad esempio, le seguenti fonti: Germania: Bundesverfassungsgericht, ordinanza 14 ottobre 2004 (Görgülü) 2 BvR 1481/04, pubblicata in NJW 2004, pagg. 3407‑3412; Repubblica Ceca: Ústavní soud, 15 aprile 2003 (I. ÚS 752/02); Ústavní soud, 21 febbraio 2007 (I. ÚS 604/04); Italia: Corte Costituzionale, sentenza 19 marzo 2001, n. 73. Ungheria: 4/1997 (I. 22.) AB határozat; Polonia: Orzecznictwo Trybunału Konstytucyjnego (zbiór urzędowy), 27 aprile 2005, P 1/05, pkt 5.5, serie A, 2005 n. 4, poz. 42, e Orzecznictwo Trybunału Konstytucyjnego (zbiór urzędowy), 2 luglio 2007, K 41/05, serie A, 2007 n. 7, poz. 72.


35 – Sentenza Les Verts (citata nella nota 18), punto 23.


36 – Sentenza 12 giugno 2003, causa C‑112/00, Schmidberger (Racc. pag. I‑5659, punto 73).


37 – Per un esempio recente di un caso riguardante gli obblighi degli Stati membri ai sensi dell’art. 307 CE, v. sentenza 1° febbraio 2005, causa C‑203/03, Commissione/Austria (Racc. pag. I‑935, punto 59).


38 – V., in modo simile, sull’esigenza di un’unità d’azione nella rappresentanza internazionale della Comunità, parere della Corte 15 novembre 1994, 1/94 (Racc. pag. I‑5267, punti 106-109), e sentenza Commissione/Consiglio (citata nella nota 23), punti 40-51.


39 – Il termine «questioni politiche» è stato coniato dal presidente della Suprema Corte degli Stati Uniti Taney nella causa Luther v. Borden, 48 U.S. 1 (1849), 46‑47. Il preciso significato di tale nozione in ambito comunitario è lungi dall’essere chiaro. La Commissione non si è soffermata sull’argomento, che ha sollevato in udienza, ma sembra venga suggerito che la Corte dovrebbe astenersi dall’esercizio di sindacato giurisdizionale poiché non vi sono criteri giurisdizionali per valutare le questioni attualmente considerate.


40 –      Corte Suprema degli Stati Uniti, Korematsu v. United States, 323 U.S. 214, 233‑234 (1944) (Murphy, J., dissenziente) (virgolette interne omesse).


41 – Montesquieu, De l’Esprit des Lois (Lo Spirito delle Leggi), Libro XII (traduzione libera dall’originale: «Il y a des cas où il faut mettre, pour un moment, un voile sur la liberté, comme l’on cache les statues des dieux»).


42 – La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sostenuto che «gli Stati contraenti non possono, in nome della lotta al (…) terrorismo, adottare qualsiasi misura ritengano adeguata» (v. Corte eur. D.U., sentenza Klass e a. del 6 settembre 1978, serie A, n. 28, punto 49). Inoltre, nella sua sentenza Bosphorus Airways, la stessa Corte ha discusso esaurientemente la questione della sua giurisdizione, senza neppure accennare alla possibilità di un suo eventuale difetto di giurisdizione dovuto al fatto che i provvedimenti impugnati davano esecuzione ad una risoluzione del Consiglio di Sicurezza [v. Corte eur. D.U., sentenza Bosphorus Hava Yolları Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi (Bosphorus Airways) c. Irlanda del 30 giugno 2005, Recueil des arrêts et décisions 2005-VI (n. 45036/98)]. La sentenza Bosphorus Airways sembra quindi rafforzare l’argomento a favore del sindacato giurisdizionale. Tuttavia, secondo il Consiglio, la Commissione e il Regno Unito, dalla decisione di ammissibilità nella causa Behrami conseguirebbe che i provvedimenti necessari all’esecuzione di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ricadono automaticamente al di fuori dell’ambito della Convenzione [v. Corte eur. D.U., decisioni del 2 maggio 2007, Behrami e Behrami c. Francia (n. 71412/01) e Saramati c. Francia, Germania e Norvegia (n. 78166/01)]; v. anche Corte eur. D.U., decisioni di ammissibilità del 5 luglio 2007, Kasumaj c. Grecia (n. 6974/05), e del 28 agosto 2007, Gajic c. Germania (n. 31446/02). Una siffatta interpretazione della decisione della Corte appare tuttavia eccessivamente estensiva. Il caso Behrami riguarda un’asserita violazione di diritti umani da parte di una forza di sicurezza operante in Kosovo sotto protezione delle Nazioni Unite. A tale forza di sicurezza lo Stato convenuto aveva fornito truppe. Tuttavia la Corte europea dei diritti dell’uomo ha declinato la propria giurisdizione ratione personae principalmente in quanto l’autorità ultima e il controllo sulla missione di sicurezza rimaneva in capo al Consiglio di Sicurezza e, di conseguenza, le azioni e le negligenze impugnate avrebbero dovuto essere attribuite alle Nazioni Unite e non allo Stato convenuto (v. punti 121 e 133-135 della decisione). Effettivamente, al riguardo la Corte distingue in modo preciso tale caso dal caso Bosphorus Airways (v., in particolare, punto 151 della decisione). La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo sembra quindi indirizzata nel senso che, laddove, in base alle norme del diritto pubblico internazionale, gli atti impugnati siano attribuibili alle Nazioni Unite, la Corte non abbia giurisdizione ratione personae, poiché le Nazioni Unite non sono parte contraente della Convenzione. Al contrario, qualora le autorità di uno Stato contraente abbiano avviato procedure dirette ad eseguire una risoluzione del Consiglio di Sicurezza nell’ordinamento giuridico interno, i provvedimenti così adottati sarebbero attribuibili allo Stato e quindi sottoponibili a sindacato giurisdizionale in base alla Convenzione (v. anche Corte eur. D.U., decisione di ammissibilità del 16 ottobre 2007, nella causa Beric e a. c. Bosnia‑Erzegovina, punti 27‑29).


43 – V., ad esempio, sentenza della Corte 14 ottobre 2004, causa C‑36/02, Omega Spielhallen (Racc. pag. I‑9609, punto 33).


44 – V. il preambolo, nonché gli artt. 19 e 46, n. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (in prosieguo: la «CEDU»).


45 – V. art. 46, n. 2, della CEDU.


46 – V. paragrafo 39 del rapporto 16 agosto 2006 del Relatore Speciale dell’ONU sulla promozione e tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali nella lotta contro il terrorismo (A/61/267): «Tenuto conto del fatto che l’iscrizione [sull’elenco] comporta il congelamento di capitali, è indispensabile che sia riconosciuto il diritto ad impugnarla. A livello internazionale non esistono attualmente procedure che consentano di esercitare tale diritto. Esse sono presenti tuttavia in alcuni ordinamenti giuridici nazionali. Il Relatore Speciale ritiene che, qualora a livello internazionale non sia disponibile alcuna procedura di ricorso adeguata, diventino necessarie – anche per gli elenchi internazionali – procedure di ricorso nazionali, e che gli Stati che applicano le sanzioni debbano prevederle».


47 – V., in particolare, il Secondo Rapporto dell'Analytical Support and Sanctions Monitoring Team (S/2005/83), nel quale si rileva, nel paragrafo 54, che «il modo in cui entità o individui vengono inseriti nell'elenco dei terroristi gestito dal Consiglio e l’assenza di procedure di riesame e di ricorso per coloro il cui nome figura sull'elenco fanno sorgere seri problemi di responsabilità e di possibile violazione di norme e convenzioni in materia di diritti fondamentali» e, nel paragrafo 58, che «modifiche alla procedura [di cancellazione dagli elenchi] potrebbero contribuire a ridurre la possibilità di una o più decisioni giudiziarie potenzialmente negative». In relazione a ciò il rapporto menziona specificamente la Corte di giustizia delle Comunità europee. V. anche l’allegato I al Sesto Rapporto dell'Analitycal Support and Sanctions Monitoring Team (S/2007/132) per una panoramica di procedimenti giudiziari in cui sono contestati aspetti del regime sanzionatorio.


48 – Ai sensi dell’art. 54 dello Statuto della Corte.


49 –      Sentenza della Corte Suprema di Israele 13 dicembre 2006, nella causa HCJ 769/02 (2006), The Public Committee Against Torture in Israel e a. c. The Government of Israel e a., punti 61 e 62 (virgolette interne omesse).


50 – Sentenza della Corte 24 ottobre 1996, causa C‑32/95 P, Lisrestal e a. (Racc. pag. I‑5373, punto 21). V. anche art. 41, n. 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, GU C 364, pag. 1).


51 – Sentenza 25 luglio 2002, causa C‑50/00 P, Unión de Pequeños Agricultores/Consiglio (Racc. pag. I‑6677, punti 38 e 39). V. anche art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e artt. 6 e 13 della CEDU.


52 – Il procedimento di cancellazione dall’elenco è stato più volte modificato dal momento dell’iniziale adozione delle misure contro il ricorrente. In base al regime iniziale, la persona interessata poteva presentare una domanda di cancellazione dall'elenco al proprio Stato di cittadinanza o di residenza. Secondo la procedura attuale, coloro che intendono presentare una domanda di cancellazione dall'elenco possono farlo sia attraverso un «punto focale» delle Nazioni Unite sia attraverso il loro Stato di residenza o di cittadinanza. Tuttavia, la natura sostanzialmente intergovernativa del procedimento di cancellazione dall'elenco non è mutata. V. la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 19 dicembre 2006, n. 1730, e Sanction Committee’s Guidelines for the Conduct of its Work (orientamenti del comitato per le sanzioni per l’organizzazione dei suoi lavori), disponibile in Internet sul sito http://www.un.org/sc/committees/1267/index.shtml.


53 – V. Corte eur. D.U., sentenza Klass e a. (citata nella nota 42), punto 55.