CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
ELEANOR SHARPSTON
presentate il 18 maggio 2017 (1)
Causa C‑225/16
Mossa Ouhrami
[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dallo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi)]
«Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare – Direttiva 2008/115/CE – Articolo 11, paragrafo 2 – Divieto di ingresso “storico” – Dies a quo – Deroga per motivi di ordine pubblico alla durata massima di cinque anni del divieto di ingresso»
1. Nella presente domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dallo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi), il giudice del rinvio chiede chiarimenti in ordine all’interpretazione della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (2) (in prosieguo: la «direttiva rimpatrio») e in particolare del suo articolo 11.
2. La domanda è stata presentata nell’ambito di un ricorso proposto da un cittadino di un paese terzo contro la condanna e la carcerazione subite per il reato di presenza nel territorio dello Stato membro interessato (i Paesi Bassi), pur sapendo di essere un cittadino di un paese terzo dichiarato persona non grata, contro il quale era stata adottata una decisione in cui gli era richiesto di lasciare il territorio nazionale e gli era imposto un divieto d’ingresso di dieci anni. La conferma o l’annullamento della condanna dipende dalla questione se il «divieto d’ingresso storico» (ossia, un divieto d’ingresso imposto prima dell’entrata in vigore della direttiva rimpatrio) (3) fosse ancora in vigore quando il cittadino di un paese terzo è stato perseguito. La risposta a tale questione dipende dal momento in cui si ritiene che un divieto d’ingresso inizi a essere applicabile e dall’(eventuale) effetto della direttiva rimpatrio sulla durata di un divieto d’ingresso «storico» nelle particolari circostanze del caso di specie.
Diritto dell’Unione
L’acquis di Schengen
3. Lo spazio Schengen (4) si fonda sull’Accordo di Schengen del 1985 (5), mediante il quale gli Stati firmatari hanno accettato di abolire tutte le frontiere interne e di istituire un’unica frontiera esterna. All’interno dello spazio Schengen, si applicano norme e procedure comuni per quanto riguarda, in particolare, i controlli di frontiera.
4. Il Sistema d’informazione Schengen (in prosieguo: il «SIS») è stato istituito ai sensi dell’articolo 92 della Convenzione di applicazione dell’Accordo di Schengen (in prosieguo: la «CAAS») (6). Tale sistema è stato nel frattempo sostituito dal SIS II che consente agli Stati membri di ottenere informazioni relative a segnalazioni ai fini del rifiuto d’ingresso o di soggiorno a cittadini di paesi terzi (7).
5. L’articolo 24 del regolamento n. 1987/2006 riguarda le condizioni per la segnalazione ai fini del rifiuto d’ingresso o di soggiorno. Esso prevede quanto segue:
«1. I dati relativi ai cittadini di paesi terzi per i quali è stata effettuata una segnalazione al fine di rifiutare l’ingresso o il soggiorno sono inseriti sulla base di una segnalazione nazionale risultante da una decisione presa dalle autorità amministrative o giudiziarie competenti (…).
2. Una segnalazione è inserita quando la decisione di cui al paragrafo 1 è fondata su una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o la sicurezza nazionale che la presenza del cittadino di un paese terzo in questione può costituire nel territorio di uno Stato membro. (…)
(…)
3. Una segnalazione può inoltre essere inserita quando la decisione di cui al paragrafo 1 è fondata sul fatto che il cittadino di un paese terzo è stato oggetto di una misura di allontanamento, rifiuto di ingresso o espulsione non revocata né sospesa che comporti o sia accompagnata da un divieto d’ingresso o eventualmente di soggiorno, basata sull’inosservanza delle regolamentazioni nazionali in materia di ingresso e di soggiorno dei cittadini di un paese terzo».
(…)
6. La direttiva 2001/40/CE del Consiglio, del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi si fonda sull’acquis di Schengen ed è finalizzata ad assicurare una maggiore efficacia nell’esecuzione delle decisioni di allontanamento (8). Il considerando 5 osserva che una cooperazione tra Stati membri in materia di rimpatrio dei cittadini di paesi terzi, non può essere sufficientemente realizzata a livello di Stati membri. La direttiva mira quindi a consentire il riconoscimento di decisioni di allontanamento adottate da uno Stato membro nei confronti di un cittadino di un paese terzo che si trovi nel territorio di un altro Stato membro (9).
La direttiva rimpatrio
7. La direttiva rimpatrio trova origine in due Consigli europei. Il primo, tenutosi a Tampere il 15 e 16 ottobre 1999, ha istituito un approccio coerente in materia di migrazione e asilo (10). Il secondo, il Consiglio europeo di Bruxelles del 4 e 5 novembre 2004, ha sollecitato l’istituzione di un’efficace politica in materia di allontanamento e rimpatrio basata su norme comuni affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali e della loro dignità (11). La direttiva rimpatrio, emanata in esito a tali politiche, stabilisce un corpus orizzontale di norme, applicabile a tutti i cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza in uno Stato membro (12). Le norme e le procedure comuni introdotte dalla direttiva rimpatrio devono essere applicate nel rispetto, in particolare, dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto dell’Unione (13).
8. Uno degli obiettivi fondamentali della direttiva rimpatrio consiste nell’introdurre norme chiare, trasparenti ed eque necessarie «per definire una politica di rimpatrio efficace quale elemento necessario di una politica d’immigrazione correttamente gestita». L’espulsione di un cittadino di un paese terzo il cui soggiorno è irregolare dal territorio di uno Stato membro dovrebbe essere effettuata mediante una procedura equa e trasparente (14). Conformemente ai principi generali del diritto dell’Unione, le decisioni adottate ai sensi della direttiva rimpatrio dovrebbero essere adottate caso per caso e tenendo conto di criteri obiettivi, non limitandosi quindi a prendere in considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare (15). È tuttavia legittimo che gli Stati membri procedano al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, purché esistano regimi in materia di asilo equi ed efficienti che rispettino pienamente il principio di non‑refoulement (16).
9. Il considerando 14 è particolarmente importante. Vi si afferma che:
«Occorre conferire una dimensione europea agli effetti delle misure nazionali di rimpatrio istituendo un divieto d’ingresso che proibisca l’ingresso e il soggiorno nel territorio di tutti gli Stati membri. La durata del divieto d’ingresso dovrebbe essere determinata alla luce di tutte le circostanze pertinenti per ciascun caso e, di norma, non dovrebbe superare i cinque anni. In tale contesto, si dovrebbe tenere conto in modo particolare del fatto che il cittadino di un paese terzo interessato sia già stato destinatario di più di una decisione di rimpatrio o provvedimento di allontanamento o sia entrato nel territorio di uno Stato membro quando era soggetto a un divieto d’ingresso».
10. Ai fini della presente fattispecie rilevano le seguenti definizioni di cui all’articolo 3:
«(…)
1. “cittadino di un paese terzo”[:] chiunque non sia cittadino dell’Unione ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 1, del trattato né un beneficiario del diritto [dell’Unione] alla libera circolazione, quale definito all’articolo 2, paragrafo 5, del codice frontiere Schengen;
2. “soggiorno irregolare”[:] la presenza nel territorio di uno Stato membro di un cittadino di un paese terzo che non soddisfi o non soddisfi più le condizioni d’ingresso di cui all’articolo 5 del codice frontiere Schengen o altre condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza in tale Stato membro;
3. “rimpatrio”[:] il processo di ritorno di un cittadino di un paese terzo, sia in adempimento volontario di un obbligo di rimpatrio sia forzatamente:
– nel proprio paese di origine, o
– in un paese di transito in conformità di accordi [dell’Unione] o bilaterali di riammissione o di altre intese, o
– in un altro paese terzo, in cui il cittadino del paese terzo in questione decide volontariamente di ritornare e in cui sarà accettato;
4. “decisione di rimpatrio”[:] decisione o atto amministrativo o giudiziario che attesti o dichiari l’irregolarità del soggiorno di un cittadino di paesi terzi e imponga o attesti l’obbligo di rimpatrio;
5. “allontanamento”[:] l’esecuzione dell’obbligo di rimpatrio, vale a dire il trasporto fisico fuori dallo Stato membro;
6. “divieto d’ingresso”[:] decisione o atto amministrativo o giudiziario che vieti l’ingresso e il soggiorno nel territorio degli Stati membri per un periodo determinato e che accompagni una decisione di rimpatrio;
(…)»
11. Gli Stati membri conservano il diritto di adottare disposizioni più favorevoli purché queste ultime siano compatibili con la direttiva rimpatrio (17).
12. L’articolo 6, paragrafo 1, impone agli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare (18). L’articolo 6, paragrafo 6, riconosce agli Stati membri la possibilità di decidere di porre fine al soggiorno regolare e di disporre contestualmente il rimpatrio e/o l’allontanamento e/o il divieto d’ingresso in un’unica decisione o atto amministrativo o giudiziario in conformità della legislazione nazionale (19).
13. L’articolo 11 così dispone:
«1. Le decisioni di rimpatrio sono corredate di un divieto d’ingresso:
a) qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria, oppure
b) qualora non sia stato ottemperato all’obbligo di rimpatrio.
In altri casi le decisioni di rimpatrio possono essere corredate di un divieto d’ingresso.
2. La durata del divieto d’ingresso è determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera di norma i cinque anni. Può comunque superare i cinque anni se il cittadino di un paese terzo costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.
3. Gli Stati membri valutano la possibilità di revocare o sospendere un divieto d’ingresso qualora un cittadino di un paese terzo colpito da un divieto d’ingresso disposto in conformità del paragrafo 1, secondo comma, possa dimostrare di aver lasciato il territorio di uno Stato membro in piena ottemperanza di una decisione di rimpatrio.
(…)»
Diritto nazionale
14. Ai sensi dell’articolo 67, paragrafo 1, della Vreemdelingenwet 2000 (Legge sugli stranieri; in prosieguo: la «Vw») un cittadino di un paese terzo (20) può essere dichiarato indesiderabile, per quanto rilevante nella fattispecie: i) se non soggiorna regolarmente nei Paesi Bassi e abbia ripetutamente commesso atti punibili a norma della Vw; ii) se è stato condannato, con sentenza passata in giudicato, per un reato punibile con una pena detentiva pari o superiore a tre anni;; o iii) se costituisce un pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale. Tali condizioni sono alternative.
15. Ai sensi dell’articolo 68 della Vw, la dichiarazione di indesiderabilità è revocata su richiesta del cittadino di un paese terzo se quest’ultimo ha soggiornato al di fuori dei Paesi Bassi per 10 anni consecutivi durante i quali non si è configurato alcuno degli impedimenti di cui all’articolo 67, paragrafo 1, della Vw.
16. La Vw è stata modificata al fine di dare attuazione alla direttiva rimpatrio nell’ordinamento giuridico nazionale. L’articolo 61, paragrafo 1, della Vw prevede che il cittadino di un paese terzo che non si trovi, o non si trovi più, in una situazione di soggiorno regolare debba lasciare i Paesi Bassi di propria iniziativa entro il termine stabilito all’articolo 62 o all’articolo 62c della Vw. L’articolo 62, paragrafo 1, della Vw prevede inoltre che il cittadino di un paese terzo, dopo che nei suoi confronti sia stata emessa la decisione di rimpatrio, debba lasciare i Paesi Bassi di propria iniziativa entro quattro settimane.
17. Gli articoli 66a, paragrafo 1, della Vw e 6.5a, paragrafo 5, del Vreemdelingenbesluit 2000 (decreto del 2000 sugli stranieri; in prosieguo: il «Vb»), sono stati adottati proprio al fine di dare attuazione all’articolo 11 della direttiva rimpatrio nel diritto nazionale.
18. Ai sensi dell’articolo 66a, paragrafo 1, della Vw, un divieto d’ingresso viene emesso nei confronti di un cittadino di un paese terzo che non ha lasciato i Paesi Bassi di propria iniziativa entro il termine a tal fine previsto. Ai sensi dell’articolo 66a, paragrafo 4, della Vw, il divieto d’ingresso è emesso con durata determinata, con un massimo di cinque anni, salvo il caso in cui il cittadino del paese terzo costituisca una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale. La durata deve essere calcolata con decorrenza dalla data in cui il cittadino del paese terzo ha effettivamente lasciato i Paesi Bassi.
19. Ai sensi dell’articolo 66a, paragrafo 7, della Vw, il soggiorno di un cittadino di un paese terzo nei cui confronti si applica un divieto d’ingresso non è regolare, in particolare: i) se egli è stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato punibile con una pena detentiva pari o superiore a tre anni; ii) se costituisce un pericolo per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale; o (iii) se costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale.
20. Ai sensi dell’articolo 197 del Wetboek van Strafrecht (Codice penale; in prosieguo: lo «Sr»), nella versione applicabile all’epoca dei fatti, un cittadino di un paese terzo che soggiorna nei Paesi Bassi, mentre sa o ha serie ragioni per ragionevolmente di ritenere di essere stato dichiarato indesiderabile in forza di una disposizione di legge, può essere punito, tra l’altro, con una pena detentiva massima di sei mesi. Ai sensi della versione vigente del medesimo articolo, un cittadino di un paese terzo che resta nei Paesi Bassi, pur sapendo o avendo gravi ragioni per ritenere di essere stato dichiarato indesiderabile in forza di una disposizione di legge o che nei suoi confronti sia stato imposto un divieto d’ingresso a norma dell’articolo 66a, paragrafo 7, della Vw, può essere ugualmente punito, tra l’altro, con una pena detentiva massima di sei mesi.
21. A norma dell’articolo 6.6, paragrafo 1, del Vb, nella versione applicabile all’epoca dei fatti, la domanda di revoca della dichiarazione di indesiderabilità è accolta purché il cittadino di un paese terzo non sia sottoposto a procedimento penale e non sia dichiarato indesiderabile, in particolare, in relazione a delitti violenti o collegati agli stupefacenti e purché, successivamente alla dichiarazione di indesiderabilità, egli abbia lasciato i Paesi Bassi e abbia soggiornato al di fuori di tale paese per dieci anni consecutivi.
Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali
22. Il sig. Ouhrami è probabilmente un cittadino algerino. È entrato nei Paesi Bassi nel 1999, ma non è mai stato titolare di un permesso di soggiorno. Nel periodo dal 2000 al 2002 è stato condannato cinque volte ad una pena detentiva complessiva di circa tredici mesi per furto aggravato, ricettazione e possesso di droghe pesanti.
23. Con decisione del 22 ottobre 2002 (in prosieguo: la «decisione del Ministro») il Minister voor Vreemdelingenzaken en Immigratie (Ministro per l’Immigrazione e l’Integrazione), ha deciso, per tali motivi, che il sig. Ouhrami costituiva un pericolo per l’ordine pubblico e lo ha dichiarato indesiderabile. La decisione del Ministro è redatta nei seguenti termini:
«L’interessato è stato condannato in totale ad una pena detentiva superiore a 6 mesi senza condizionale. In considerazione di ciò si ritiene che l’interessato, che non soggiorna regolarmente nei Paesi Bassi ai sensi dell’articolo 8, lettere da a) a e), o paragrafo 1, della Vw, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico.
(…)
Effetti giuridici di tale decisione
(…)
In considerazione del disposto dell’articolo 6.6, paragrafo 1, del Vb, l’interessato, essendo stato dichiarato indesiderabile ai sensi dell’articolo 67 della Vw, in particolare, per un reato in materia di stupefacenti, dovrebbe soggiornare al di fuori dei Paesi Bassi per dieci anni consecutivi con decorrenza dal momento in cui è stato dichiarato indesiderabile e ha lasciato i Paesi Bassi».
24. La decisione del Ministro è stata notificata al sig. Ouhrami il 17 aprile 2003 ed essa non è stata contestata dall’interessato. La decisione del Ministro è divenuta definitiva il 15 maggio 2003.
25. Sebbene sapesse di essere stato dichiarato indesiderabile, il sig. Ouhrami è rimasto ad Amsterdam nel 2011 e nel 2012 in violazione della decisione del Ministro (21). Ciò configura un reato punibile ai sensi dell’articolo 197 dello Sr e il sig. Ouhrami è stato condannato a una pena detentiva di otto mesi.
26. In appello il sig. Ouhrami ha sostenuto, dinanzi al Gerechtshof Amsterdam (Corte d’appello di Amsterdam, Paesi Bassi), che la procedura di rimpatrio, prevista nella direttiva rimpatrio, non si era conclusa.
27. Detta corte ha esaminato la procedura di rimpatrio seguita nel caso del sig. Ouhrami. Essa ha rilevato che: i) il Dienst Terugkeer en Vertrek (Ufficio per il rimpatrio e la partenza) aveva avuto con il sig. Ouhrami 26 colloqui vertenti sulla partenza; ii) questi era stato ripetutamente segnalato alle autorità di Algeria, Marocco e Tunisia, ma nessuno di questi paesi aveva risposto positivamente; iii) tramite l’Interpol erano state condotte varie indagini, segnatamente per quanto riguarda le impronte digitali; iv) erano stati effettuati nei suoi confronti tentativi di analisi linguistica; v) le procedure di rimpatrio dell’Ufficio per il rimpatrio e la partenza si erano concluse; ma vi) tutto ciò non aveva comportato il rimpatrio del sig. Ouhrami in quanto quest’ultimo non aveva collaborato in alcun modo. Sulla base di tali elementi, il Gerechtshof Amsterdam (Corte d’appello di Amsterdam), nella sentenza del 22 novembre 2013, aveva dichiarato che la procedura di rimpatrio si era conclusa e che la pena detentiva inflitta al sig. Ouhrami non era quindi contraria alla direttiva rimpatrio. Detto giudice ha tuttavia ridotto la pena detentiva a due mesi.
28. Il sig. Ouhrami ha proposto ricorso su una questione di diritto dinanzi al giudice del rinvio. Senza contestare la decisione secondo la quale la procedura di rimpatrio si era conclusa, egli ha sostenuto che la decisione del Ministro adottata nel 2002, che lo dichiarava indesiderabile, avrebbe dovuto essere considerata un divieto d’ingresso che entrava in vigore al momento della sua emissione o, al più tardi, al momento in cui egli ne fosse venuto a conoscenza. Poiché l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio prevede che la durata di un divieto d’ingresso non debba superare, di norma, i cinque anni, ne sarebbe conseguito che il divieto d’ingresso non era più in vigore nel 2011/2012.
29. Il giudice del rinvio osserva che, secondo la giurisprudenza della Corte, una decisione di indesiderabilità, adottata prima dell’entrata in vigore della direttiva rimpatrio, deve essere considerata equivalente a un divieto d’ingresso come definito all’articolo 3, paragrafo 6, di tale direttiva, e che, ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 2, della medesima direttiva, la sua durata massima non può superare, di norma, i cinque anni (22). Sorge quindi la questione del momento in cui detto termine inizia a decorrere. Ai sensi dell’articolo 66a, paragrafo 4, della Vw, la durata di un divieto d’ingresso deve essere calcolata con decorrenza dalla data in cui il cittadino di un paese terzo ha effettivamente lasciato i Paesi Bassi.
30. In tale contesto, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio disciplini non solo la durata di un divieto d’ingresso, ma anche il momento in cui il divieto inizia a essere applicabile. A parere del giudice, un divieto d’ingresso, per sua natura, ha rilevanza solo dopo che il cittadino di un paese terzo ha lasciato il paese.
31. Il giudice del rinvio osserva che, se il dies a quo del divieto d’ingresso è diverso dal momento della partenza dal territorio nazionale, sorge la questione se la decisione del Ministro fosse ancora giuridicamente efficace quando al sig. Ouhrami è stata inflitta la pena detentiva.
32. In tali circostanze, lo Hoge Raad (Corte suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di chiedere chiarimenti sulle seguenti questioni:
«1) Se l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio debba essere interpretato nel senso che il termine di cinque anni in esso previsto viene calcolato:
a) dal momento in cui è stato emesso il divieto d’ingresso (o con efficacia retroattiva, la dichiarazione di indesiderabilità ad esso assimilata), oppure
b) con decorrenza dalla data in cui l’interessato è effettivamente uscito dal territorio – in sintesi – degli Stati membri dell’Unione europea, oppure
c) da un momento diverso.
2) Se, ai fini dell’applicazione delle disposizioni transitorie pertinenti, l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio debba essere interpretato nel senso che da esso discende che decisioni adottate prima dell’entrata in vigore della direttiva, il cui effetto giuridico è che il destinatario deve soggiornare al di fuori dei Paesi Bassi per dieci anni consecutivi, mentre il divieto d’ingresso è stato fissato tenendo conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e contro le decisioni era disponibile un mezzo di ricorso, non possono avere più effetto se, nel momento in cui la direttiva doveva essere attuata o nel momento in cui è stato accertato che il destinatario della decisione soggiornava nei Paesi Bassi, la durata di tale divieto d’ingresso superava la durata stabilita in detta disposizione».
33. Hanno presentato osservazioni scritte il sig. Ouhrami, la Danimarca, i Paesi Bassi, la Svizzera e la Commissione europea. Fatta eccezione per la Svizzera, essi hanno presentato tutti osservazioni orali all’udienza del 16 marzo 2017.
Valutazione
Osservazioni preliminari
34. La direttiva rimpatrio costituisce uno sviluppo dell’acquis di Schengen per quanto riguarda i cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfano più le condizioni d’ingresso ai sensi del codice frontiere Schengen (23). Tale direttiva sostituisce gli articoli 23 e 24 della CAAS relativi al rimpatrio di cittadini di paesi terzi che non soddisfano o non soddisfanno più le condizioni di soggiorno di breve durata applicabili nel territorio delle parti dell’Accordo di Schengen (24).
35. In tale contesto, la direttiva rimpatrio stabilisce norme, procedure e garanzie giuridiche comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare e affinché le persone siano rimpatriate in maniera umana e nel pieno rispetto dei loro diritti fondamentali, della loro dignità (25). La «europeizzazione» degli effetti delle misure nazionali di rimpatrio dovrebbe conferire maggiore credibilità a una politica di rimpatrio veramente europea (26).
36. Dalla definizione della nozione di «soggiorno irregolare» di cui all’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio deriva che «qualunque cittadino di un paese terzo che sia presente sul territorio di uno Stato membro senza ivi soddisfare le condizioni d’ingresso, di soggiorno o di residenza soggiorna, per effetto di detta sola circostanza, in modo irregolare senza che tale presenza sia subordinata alla condizione di una durata minima o dell’intenzione di restare in tale territorio» (27). Spetta inizialmente agli Stati membri stabilire, conformemente al loro diritto nazionale, quali siano tali condizioni e quindi se il soggiorno, nel loro territorio, di una persona in particolare sia regolare o irregolare (28). L’interazione tra la direttiva rimpatrio e l’acquis di Schengen nonché lo schema di tale direttiva evidenziano la dimensione europea delle decisioni di rimpatrio e dei divieti d’ingresso adottati al fine di garantire una politica di rimpatrio efficace.
37. Le decisioni di rimpatrio impongono ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio degli Stati membri è irregolare (29) l’obbligo di «rimpatrio», ossia di ritornare al proprio paese di origine, in un paese di transito o in un altro paese terzo (30). Ne deriva che il cittadino di un paese terzo non può restare nel territorio dello Stato membro che adotta la decisione di rimpatrio. Gli altri Stati membri possono riconoscere le decisioni di rimpatrio e dare esecuzione alle conformemente alla direttiva 2001/40.
38. Il divieto d’ingresso non può essere emesso in modo indipendente ma può solo corredare una decisione di rimpatrio (31). Risulta chiaramente dalla formulazione del considerando 14 e dell’articolo 3, paragrafo 6, della direttiva rimpatrio che un divieto d’ingresso, anche se emesso da un singolo Stato membro, è destinato a vietare l’ingresso e il soggiorno nel territorio di tutti gli Stati membri. Tale divieto conferisce quindi una dimensione europea agli effetti delle misure nazionali di rimpatrio (32). La dimensione europea dei divieti d’ingresso risulta chiaramente anche dalla circostanza che, quando lo Stato membro prevede di rilasciare un permesso di soggiorno o un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare ad un cittadino di un paese terzo colpito da un divieto d’ingresso disposto da un altro Stato membro, è tenuto preliminarmente a consultare lo Stato membro che lo ha disposto e a tener conto degli interessi di quest’ultimo (33). In tale contesto, è importante che gli Stati membri dispongano di un accesso rapido alle informazioni riguardanti i divieti d’ingresso di altri Stati membri attraverso il SIS II (34).
39. Dalle suesposte considerazioni risulta che dalla data di entrata in vigore della direttiva rimpatrio, i divieti d’ingresso adottati dalle autorità nazionali hanno acquisito una dimensione europea e devono essere quindi conformi alle norme stabilite da tale direttiva.
40. La causa in esame riguarda un divieto d’ingresso «storico», vale a dire una misura nazionale equivalente a un divieto d’ingresso adottata da uno Stato membro prima dell’attuazione della direttiva rimpatrio.
41. La giurisprudenza della Corte ha già affrontato la questione degli effetti nel tempo della direttiva rimpatrio. Nella sentenza Filev e Osmani la Corte ha considerato una costante giurisprudenza secondo la quale una nuova norma si applica immediatamente, in mancanza di deroghe espresse, agli effetti futuri delle situazioni sorte sotto l’impero della vecchia legge (35). Ne deriva che la direttiva rimpatrio «si applica agli effetti successivi alla sua data di applicazione nello Stato membro interessato d[i] decisioni di divieto d’ingresso adottate in forza di norme interne applicabili prima di tale data» (36). Per valutare «la conformità della conservazione degli effetti di simili decisioni all’articolo 11, paragrafo 2, della [direttiva rimpatrio] per quanto riguarda, in particolare, la durata massima di norma di cinque anni prevista da tale disposizione per un divieto d’ingresso, occorre tener conto anche del periodo durante il quale tale divieto era in vigore prima che la [direttiva rimpatrio] fosse applicabile» (37).
42. Pertanto, nel caso di un divieto d’ingresso storico di durata illimitata, come nella controversia Filev e Osmani, la Corte ha dichiarato che la direttiva rimpatrio osta alla conservazione degli effetti di tale divieto oltre la durata massima di cinque anni specificata dall’articolo 11, paragrafo 2, di tale direttiva, a meno che tale divieto d’ingresso sia stato adottato nei confronti di cittadini di paesi terzi che costituiscono una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale (38).
43. Tale giurisprudenza costituisce l’ovvio punto di partenza per procedere all’analisi delle questioni che si presentano nella causa in esame, ossia il momento in cui il divieto d’ingresso inizia a essere applicabile e le condizioni alle quali un divieto d’ingresso «storico» può essere superiore a cinque anni. Essa non risolve tuttavia, di per sé, le questioni sollevate dal giudice del rinvio.
Sulla prima questione
44. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, chiarimenti quanto all’interpretazione dell’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio riguardo al momento in cui i divieti d’ingresso iniziano ad essere applicabili.
45. Il testo di tale disposizione precisa che i divieti d’ingresso non dovrebbero superare di norma i cinque anni. Tuttavia, detto testo non individua specificamente il termine iniziale di tale periodo. Il governo danese sostiene che spetta quindi agli Stati membri definire tale questione in base al diritto nazionale.
46. Non condivido tale analisi.
47. Dalla dimensione europea della politica di rimpatrio (39), nonché dagli obiettivi della direttiva rimpatrio, ossia «stabilire norme comuni in materia di rimpatrio, allontanamento (…) e divieti d’ingresso» (40), deriva che, nell’attuazione di tale direttiva, è necessario un approccio coerente a livello dell’Unione.
48. La coerenza di tale approccio è particolarmente rilevante nell’ambito dello spazio Schengen che istituisce un’unica frontiera esterna. Ne consegue che, nel qualificare un atto come rientrante nell’acquis di Schengen o come costitutivo di uno sviluppo di quest’ultimo, occorre tener conto della necessaria coerenza di tale acquis e dell’esigenza di preservare tale coerenza nella sua possibile evoluzione (41). Lo scambio di informazioni tra gli Stati membri sulle decisioni di rimpatrio e sui divieti d’ingresso risulta, al momento, incompleto (42). Invero, la Commissione europea ha spiegato in udienza che esistono varie proposte di miglioramento (43), in particolare rendendo obbligatorio per gli Stati membri inserire una segnalazione nel SIS II in tutti i casi in cui è stato emanato un divieto d’ingresso (44). Siffatto scambio di informazioni è fondamentale per la gestione della frontiera esterna unica e deve basarsi su dati precisi e affidabili. In caso di divieti d’ingresso, tali informazioni dovrebbero includere logicamente tanto la durata del divieto quanto il suo dies a quo.
49. In tale contesto, dall’espressa formulazione della direttiva rimpatrio risulta altresì chiaramente che essa è diretta ad armonizzare la durata dei divieti d’ingresso. Pertanto, viene fissata una durata massima di cinque anni, salvo casi in cui il cittadino di un paese terzo costituisca una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale. Un’incoerenza in tale settore pregiudicherebbe gli obiettivi dichiarati della direttiva rimpatrio, gli effetti a livello dell’Unione dei divieti d’ingresso e la gestione dello spazio Schengen. Ammettere che un divieto d’ingresso, la cui base giuridica è costituita da un insieme di norme armonizzate a livello europeo, inizi a produrre i suoi effetti in un momento diverso a seconda delle diverse scelte operate dagli Stati membri attraverso la loro normativa nazionale comprometterebbe l’efficiente funzionamento dello spazio Schengen.
50. Sottolineo, a questo punto, che gli articoli 3, paragrafo 6, e 11 della direttiva rimpatrio, che definiscono la nozione di «divieto d’ingresso», non fanno alcun riferimento al diritto degli Stati membri. Il divieto d’ingresso è quindi, chiaramente, una nozione autonoma del diritto dell’Unione. Dalla necessità dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione e dal principio di uguaglianza discende «che i termini di una disposizione di (…) diritto [dell’Unione], la quale non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del suo senso e della sua portata, devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione, di un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità perseguita dalla normativa in questione» (45).
51. Tale principio si applica anche agli elementi costitutivi del divieto d’ingresso, ossia la dimensione temporale (termine iniziale e durata), la dimensione territoriale (territorio degli Stati membri) e la dimensione giuridica (divieto di entrare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri).
52. Non considero quindi il silenzio del legislatore dell’Unione al riguardo come una scelta intenzionale ed esplicita. Si tratta piuttosto di una lacuna che la Corte può colmare tenendo conto del tenore letterale, della sistematica e dell’obiettivo della direttiva rimpatrio. Il legislatore dell’Unione rimane naturalmente libero di modificare la soluzione della Corte qualora dovesse ritenere ciò opportuno – ad esempio, al fine di potenziare l’efficienza del SIS II e, quindi, di rafforzare l’acquis di Schengen.
53. Sono state prospettate dinanzi alla Corte diverse possibili soluzioni riguardo ai termini iniziali. Il sig. Ouhrami sostiene che il termine iniziale di un divieto d’ingresso dovrebbe essere il momento in cui quest’ultimo viene notificato alla persona interessata. I Paesi Bassi, la Svizzera e la Commissione sostengono che detto termine dovrebbe essere costituito dal momento in cui il cittadino di un paese terzo lascia effettivamente il territorio degli Stati membri. La Danimarca ha chiarito in udienza che, ai sensi del diritto danese, un divieto d’ingresso diviene effettivo quando il cittadino di un paese terzo lascia concretamente il paese, ma che il termine iniziale per il calcolo della sua durata è costituito dal primo giorno del primo mese successivo alla partenza dal paese del cittadino di un paese terzo. Le variazioni potrebbero moltiplicarsi quasi all’infinito: la data in cui la decisione è stata adottata, la data in cui la decisione è divenuta definitiva, il giorno successivo all’effettiva partenza del cittadino di un paese terzo, la data in cui viene trattenuto a fini di allontanamento, la data in cui viene dimostrato che ha raggiunto un paese terzo e così via. Un’ulteriore possibilità potrebbe essere la data in cui è stata inserita una segnalazione nel SIS II (46).
54. Da mie ricerche informali risulta, come confermato in udienza dalla Commissione, che sussiste una significativa disparità tra le soluzioni adottate al riguardo dagli Stati membri. Sembra che nella normativa degli Stati membri ricorrano tre scelte, ossia i) la data in cui il divieto d’ingresso è stato notificato; ii) la data in cui il divieto d’ingresso è divenuto definitivo e iii) la data in cui il cittadino di un paese terzo ha lasciato effettivamente il territorio dello Stato membro in questione.
55. Esse hanno tutte il vantaggio di indicare un momento preciso in cui il divieto d’ingresso inizia a produrre i suoi effetti. Ritengo che utilizzare la data di notifica presenti lo svantaggio di collegare gli effetti giuridici del divieto d’ingresso a un momento in cui tale misura non è ancora definitiva (e potrebbe essere, almeno in teoria, modificata o addirittura annullata). Utilizzare la data in cui il divieto d’ingresso è divenuto definitivo collega gli effetti giuridici di una misura avente una dimensione (o più dimensioni) a livello dell’Unione e riguardante il territorio di tutti gli Stati membri, a un momento dipendente da norme procedurali nazionali. Tali norme possono variare in modo sostanziale da un ordinamento giuridico all’altro.
56. Inoltre, entrambe le soluzioni non tengono conto del fatto che i divieti d’ingresso non si configurano come misure indipendenti, ma accompagnano sempre una decisione di rimpatrio, come risulta dalla formulazione degli articoli 3, paragrafo 6, e 11, paragrafo 1, della direttiva rimpatrio. Ne consegue che la prima fase della procedura è l’adozione di una decisione di rimpatrio il cui effetto giuridico è di imporre al cittadino di un paese terzo di «rimpatriare». La seconda fase, l’adozione di un divieto d’ingresso, è facoltativa. Tale fase può essere contestuale alla prima ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 6, della direttiva rimpatrio. Il divieto d’ingresso produce un duplice effetto giuridico: i) il divieto di entrare e ii) il divieto di soggiornare dopo un secondo ingresso irregolare nel territorio degli Stati membri. Gli effetti giuridici del divieto d’ingresso possono avere inizio solo quando si sia ottemperato alla decisione di rimpatrio. Fino a quel momento, il soggiorno irregolare del cittadino di un paese terzo è disciplinato dagli effetti della decisione di rimpatrio.
57. Di conseguenza, prevedere che un divieto d’ingresso inizi ad essere applicato al momento della sua notifica o quando è divenuto definitivo invertirebbe la logica della politica di rimpatrio dell’Unione. Ciò comprometterebbe anche la sua efficacia, in quanto il cittadino di un paese terzo che sia presente irregolarmente nel territorio degli Stati membri potrebbe sottrarsi agli effetti giuridici di un divieto d’ingresso evitando semplicemente di conformarsi alla decisione di rimpatrio per la durata di tale divieto. Ciò tenderebbe a indurre i cittadini di paesi terzi a non ottemperare alle decisioni di rimpatrio, mentre uno degli obiettivi dichiarati della direttiva rimpatrio è di dare la priorità alla partenza volontaria (47).
58. La terza soluzione è di considerate il momento in cui il cittadino di un paese terzo ha lasciato effettivamente il territorio degli Stati membri come termine iniziale del divieto d’ingresso. Nei paragrafi successivi partirò dal presupposto che la decisione di rimpatrio e il divieto d’ingresso che la accompagna siano stati debitamente notificati al cittadino di un paese terzo e siano divenuti definitivi ai sensi del diritto nazionale.
59. Tale approccio trova conferma nell’obiettivo, nella sistematica e nel tenore letterale della direttiva rimpatrio nonché nella natura giuridica dei divieti d’ingresso. Come ho chiarito, i divieti d’ingresso non sono misure autonome, ma accompagnano sempre una decisione di rimpatrio (48). Considerato unitamente all’uso del termine «ingresso», ciò implica che il cittadino di un paese terzo debba prima lasciare il territorio degli Stati membri. Solo allora il divieto d’ingresso (che è, in realtà, un divieto di reingresso) ha concretamente effetto.
60. La genesi della direttiva rimpatrio rafforza tale punto di vista. In inglese, francese, tedesco e in alcune altre versioni linguistiche la proposta della Commissione (49), la proposta del Consiglio (50) e la relazione del Parlamento europeo (51) utilizzano l’espressione «divieto di reingresso». L’espressione «divieto d’ingresso» compare effettivamente solo in una fase successiva (52). Tale espressione è stata mantenuta nella versione definitiva del testo. Sembra, tuttavia, che l’espressione iniziale («divieto di reingresso») sia tuttora riprodotta nella normativa di attuazione di alcuni Stati membri (53).
61. I testi adottati successivamente alla direttiva rimpatrio, relativi alla politica di rimpatrio dell’Unione, confermano il fatto che il legislatore europeo intendeva definire il dies a quo dei divieti d’ingresso come il momento in cui il cittadino di un paese terzo lascia effettivamente il territorio degli Stati membri. La raccomandazione più recente conferma che gli Stati membri dovrebbero avvalersi pienamente dei divieti d’ingresso e garantire che questi abbiano inizio «nel giorno in cui i cittadini di paesi terzi lasciano l’Unione europea, in modo che la loro durata effettiva non venga indebitamente ridotta» (54). Il manuale sul rimpatrio della Commissione adotta un approccio simile: «Occorre stabilire in anticipo il momento in cui il termine inizia a decorrere (…): di norma il termine dovrebbe iniziare a decorrere dal momento della partenza o dell’allontanamento verso un paese terzo e non dalla data di emissione del divieto d’ingresso, poiché il divieto d’ingresso nell’Unione europea non può [ancora] cominciare ad avere effetto in una situazione in cui la persona non ha ancora lasciato il territorio dell’Unione europea». Tale manuale prende anche in considerazione «[i] casi in cui non è concretamente possibile stabilire in anticipo una data effettiva per la partenza». In tali casi, «gli Stati membri possono fare riferimento a un’altra data (ad esempio quella di emissione)» (55). All’udienza, la Commissione ha dichiarato che il manuale sul rimpatrio non dovrebbe essere interpretato nel senso che esso implica che il dies a quo di un divieto d’ingresso dovrebbe essere, di norma, diverso dal momento della partenza del cittadino di un paese terzo. Solo in casi eccezionali, quando è impossibile stabilire il momento in cui il cittadino di un paese terzo ha lasciato effettivamente il territorio degli Stati membri, dovrebbe essere utilizzata quale dies a quo del divieto d’ingresso una data diversa (56).
62. L’obiettivo della direttiva rimpatrio è definire una politica di rimpatrio efficace basata su norme uniformi, chiare ed eque e dare ai provvedimenti di rimpatrio una dimensione a livello dell’Unione, stabilendo un divieto d’ingresso che preclude la possibilità di entrare e soggiornare nel territorio di tutti gli Stati membri. Ciò implica inoltre che il dies a quo del divieto d’ingresso dovrebbe essere il momento in cui il cittadino di un paese terzo lascia il territorio degli Stati membri. Siffatto approccio utilizza un momento dipendente da un elemento di fatto obiettivo (la partenza) e non dalle norme procedurali di ciascuno Stato membro (57). Tale approccio può altresì indurre i cittadini di paesi terzi a conformarsi alle decisioni di rimpatrio.
63. Concludo pertanto che il dies a quo del periodo di validità di un divieto d’ingresso quale previsto dall’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio dovrebbe essere il momento in cui il cittadino di un paese terzo lascia effettivamente il territorio degli Stati membri.
Sulla seconda questione
64. La seconda questione sollevata dal giudice del rinvio è rilevante soltanto nel caso in cui la Corte dovesse dichiarare che il dies a quo del divieto d’ingresso è diverso dal momento in cui il cittadino di un paese terzo lascia il territorio degli Stati membri. Ho appena precisato che ritengo che così non sia. Nonostante ciò, esaminerò la seconda questione a fini di completezza.
65. Con la seconda questione si chiede in sostanza se un divieto d’ingresso «storico» possa superare il periodo massimo di cinque anni previsto all’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio, quando abbia una durata fissa, sia divenuto definitivo e sia stato adottato per il fatto che il cittadino di un paese terzo costituiva un pericolo per l’ordine pubblico.
66. L’articolo 11, paragrafo 2, ultima frase, della direttiva rimpatrio ammette la possibilità che un divieto d’ingresso superi i cinque anni se il cittadino di un paese terzo costituisce una «grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale».
67. Nella sentenza Filev e Osmani la Corte ha esteso tale norma ai divieti d’ingresso storici. Essa ha dichiarato che l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio osta alla conservazione degli effetti di divieti d’ingresso storici di durata eccedente la durata massima del divieto previsto in tale disposizione, a meno che siffatto divieto d’ingresso sia stato imposto al cittadino di un paese terzo che costituisce una «grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale» (58).
68. Risulta quindi chiaramente sia dalla formulazione dell’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio sia dalla giurisprudenza che un divieto d’ingresso «storico» può superare la durata massima di cinque anni, stabilita in via di principio da tale disposizione. È tuttavia necessario esaminare le condizioni in base alle quali ciò è possibile.
69. Lo Stato membro può avvalersi di tale possibilità quando il cittadino di un paese terzo costituisce una «grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale». Nella fattispecie, ciò che rileva è la nozione di «ordine pubblico» («public policy» o, più esattamente, «public order») (59) Tale nozione deve essere interpretata nello specifico contesto della direttiva rimpatrio, con riferimento alla sua formulazione, al suo scopo, alla sua sistematica e al suo contesto (60).
70. Sostanzialmente gli Stati membri restano liberi di determinare le esigenze di ordine pubblico, conformemente alle loro necessità nazionali, che possono variare da uno Stato membro all’altro e da un’epoca all’altra (61). Tuttavia, ritengo che una deroga, quale l’articolo 11, paragrafo 2, ultima frase, della direttiva rimpatrio, non vada interpretata in senso ampio, anziché restrittivamente, per il solo fatto che essa riguarda individui che non sono titolari di diritti di soggiorno nell’Unione europea. Inoltre, i cittadini di paesi terzi (compresi quelli il cui soggiorno nel territorio degli Stati membri è irregolare), ai quali si applica il diritto dell’Unione, rientrano, per tale ragione, nell’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. I diritti fondamentali garantiti dalla Carta devono essere rispettati nello stesso modo nei confronti di tutti coloro che rientrano nel suo ambito di applicazione. Ciò che costituisce un’esigenza di ordine pubblico non può essere quindi determinato unilateralmente da ciascuno Stato membro senza controlli da parte delle istituzioni dell’Unione europea (62).
71. Le norme di diritto penale sono tutte di ordine pubblico nel senso che sono norme imperative. La violazione di tali norme comporta quindi una turbativa dell’ordine pubblico degli Stati membri. L’entità di tale turbativa sarà più o meno grave in funzione della natura dell’atto commesso. La severità della pena prevista dal legislatore nazionale per sanzionare il comportamento vietato riflette solitamente la percezione dell’impatto di tale turbativa. La violazione di norme di diritto penale di uno Stato membro equivale, quindi, ad un atto contrario all’ordine pubblico (63).
72. Tuttavia, la mera circostanza che tale atto sia, per definizione, contrario all’ordine pubblico non è sufficiente per giustificare l’imposizione di un divieto d’ingresso che superi i cinque anni. Sono necessari due ulteriori elementi. In primo luogo, dovrebbe sussistere una «grave minaccia» per l’ordine pubblico. In secondo luogo, come chiarito dal considerando 14 della direttiva rimpatrio, la durata del divieto d’ingresso dovrebbe essere determinata alla luce di tutte le circostanze pertinenti per ciascun caso.
73. Interpreto l’espressione «minaccia per l’ordine pubblico» come indicativa del fatto che l’ordine pubblico può essere messo in pericolo da un atto futuro del cittadino di un paese terzo (64). Utilizzando l’aggettivo «grave», il legislatore ha indicato implicitamente che la soglia che giustifica un divieto d’ingresso di durata superiore a cinque anni è più elevata della soglia prevista per ridurre il periodo per la partenza volontaria ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 4, della stessa direttiva (65). Non tutte le (passate) violazioni di norme di diritto penale costituiscono una (futura) «grave minaccia per l’ordine pubblico» ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 2 (66). Le autorità nazionali devono effettuare una valutazione dell’ipotizzato futuro rischio per la società, risultante dall’individuo in questione. Incombe allo Stato membro che si avvale della deroga dimostrare le ragioni per cui gli interessi di ordine pubblico sarebbero gravemente minacciati qualora non fosse imposto un divieto d’ingresso di maggior durata. La procedura deve svolgersi «nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto comunitario e del diritto internazionale» (67).
74. La valutazione deve essere effettuata in concreto, «alla luce di tutte le circostanze pertinenti per ciascun caso», «caso per caso e tenendo conto di criteri obiettivi, non limitandosi quindi a prendere in considerazione il semplice fatto del soggiorno irregolare» (68). Pertanto, uno Stato membro non può fondarsi sulla sua prassi generale o semplici presunzioni per stabilire che esiste una «grave minaccia per l’ordine pubblico». Il requisito dell’esame individuale e il principio di proporzionalità obbligano lo Stato membro a tenere debitamente conto del comportamento personale del cittadino di un paese terzo e dell’ipotizzato futuro rischio che tale comportamento rappresenta per l’ordine pubblico. Ne risulta che la circostanza che un cittadino di un paese terzo sia sospettato di aver commesso un fatto punibile come reato nel diritto nazionale o abbia subito una condanna penale per un fatto del genere non può, di per sé, giustificare che tale persona sia considerata una «grave minaccia per l’ordine pubblico» ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio (69). La presenza di diverse precedenti condanne per reati può essere tuttavia sufficiente per far valere la deroga di cui all’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio, nei limiti in cui tali reati dimostrino un modello comportamentale ben definito da parte dell’interessato.
75. Un ulteriore aspetto è se sussista una qualche limitazione alla durata del divieto d’ingresso superiore a cinque anni, imposto a causa di una «grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale».
76. L’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio tace al riguardo. La giurisprudenza di questa Corte sembra ammettere la possibilità di imporre un divieto d’ingresso di durata illimitata. Nella sentenza Filev e Osmani la Corte ha dichiarato che «l’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/115 osta alla conservazione degli effetti di divieti d’ingresso di durata illimitata[,] imposti prima della data di applicabilità della direttiva 2008/115, (…) eccedente la durata massima del divieto previsto in tale disposizione, a meno che tali divieti d’ingresso siano stati emessi nei confronti di cittadini di paesi terzi che costituiscono una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale» (70) A contrario, ciò indicherebbe che, almeno per i divieti d’ingresso storici, quando il cittadino di un paese terzo costituisce una minaccia del genere, la conservazione degli effetti di un divieto d’ingresso di durata illimitata è possibile.
77. Non condivido tale approccio. L’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio dovrebbe essere interpretato alla luce dell’articolo 3, paragrafo 6, di tale direttiva che definisce i divieti d’ingresso come decisioni amministrative o giudiziarie adottate per un «periodo determinato». Ciò esclude, a mio avviso, la possibilità di adottare divieti d’ingresso di durata illimitata (71). In caso di divieti d’ingresso storici di durata illimitata, può essere necessario, per le autorità nazionali, riesaminare il fascicolo alla luce dell’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio e sostituire una durata fissa adeguata per il divieto d’ingresso. Tuttavia, dinanzi alla Corte non sono stati esposti argomenti riguardo alle possibili varianti della durata dei divieti d’ingresso e, quindi, non esprimo pareri su tale questione.
78. Concludo che spetta al giudice nazionale accertare, in base alle norme procedurali nazionali, se, allorché il divieto d’ingresso «storico» è stato adottato, le autorità nazionali abbiano valutato il comportamento personale del cittadino di un paese terzo interessato e abbiano concluso su tale base che quest’ultimo costituiva una grave minaccia per l’ordine pubblico. In tale contesto, la presenza di molteplici condanne precedenti per reati può essere sufficiente per applicare la deroga di cui all’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva rimpatrio, nei limiti in cui tali reati dimostrino un modello comportamentale costante da parte dell’interessato. Spetta al giudice nazionale accertare che la procedura di imposizione del divieto d’ingresso sia stata conforme ai diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto dell’Unione europea.
Conclusione
79. Alla luce delle suesposte considerazioni, ritengo che la Corte debba rispondere alle questioni pregiudiziali sottoposte dallo Hoge Raad der Nederlanden (Corte suprema dei Paesi Bassi) nei seguenti termini:
– il momento d’inizio della durata del divieto d’ingresso previsto all’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, dovrebbe essere il momento in cui il cittadino di un paese terzo lascia effettivamente il territorio degli Stati membri.
– l’articolo 11, paragrafo 2, ultima frase, della direttiva 2008/115 dovrebbe essere interpretato nel senso che un divieto d’ingresso «storico» può superare il limite di cinque anni se sono soddisfatte le condizioni in esso previste. Spetta al giudice nazionale accertare, in base alle norme procedurali nazionali, se, allorché il divieto d’ingresso «storico» è stato adottato, le autorità nazionali abbiano valutato il comportamento personale del cittadino di un paese terzo interessato e abbiano concluso che quest’ultimo costituiva una grave minaccia per l’ordine pubblico. In tale contesto, molteplici condanne penali precedenti possono essere sufficienti per applicare la deroga di cui all’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva 2008/115, nei limiti in cui esse dimostrino un modello comportamentale costante da parte dell’interessato. Spetta al giudice nazionale accertare che la procedura sia stata conforme ai diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto dell’Unione europea.