Language of document : ECLI:EU:C:2008:155

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

M. POIARES MADURO

presentate il 12 marzo 2008 1(1)

Causa C‑54/07

Centrum voor Gelijkheid van Kansen en voor Racismebestrijding

contro

Firma Feryn NV

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Arbeidshof te Brussel (Belgio)]






1.        Contrariamente al senso comune, le parole possono far male. Ma possono costituire una discriminazione? È questa, in sostanza, la principale questione sollevata dal caso di specie. L’Arbeidshof te Brussel (Belgio) ha chiesto alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (2). Esso chiede chiarimenti in ordine a varie questioni sorte nell’ambito di una causa tra un ente per la promozione della parità di trattamento e un datore di lavoro, che avrebbe dichiarato di non volere assumere persone di origine marocchina.

I –    Fatti e questione pregiudiziale

2.        La NV Firma Feryn (in prosieguo: la «Feryn») è un’impresa specializzata nella vendita e nell’installazione di porte basculanti e sezionali. All’inizio del 2005 la Feryn cercava operai per l’installazione di porte basculanti presso la clientela. A tale scopo, essa collocava sul terreno aziendale lungo l’autostrada Bruxelles‑Anversa un grande cartellone per la ricerca di personale.

3.        Il 28 aprile 2005, il quotidiano De Standaard pubblicava un’intervista con il sig. Pascal Feryn, uno degli amministratori dell’impresa, con il titolo «I clienti non vogliono marocchini», in cui si riportava che il sig. Feryn aveva dichiarato che la sua impresa non avrebbe assunto persone di origine marocchina:

«A parte quei marocchini, in quattordici giorni nessun altro ha risposto alla nostra offerta di lavoro (…). Ma noi non cerchiamo marocchini, i nostri clienti non li vogliono. Gli operai devono collocare porte basculanti in abitazioni private, spesso ville, e quei clienti non vogliono vederseli in giro per casa».

Articoli analoghi apparivano sui quotidiani Het Nieuwsblad e Het Volk.

Il sig. Feryn contesta i resoconti apparsi sui quotidiani.

4.        La sera del 28 aprile 2005, il sig. Feryn partecipava ad un colloquio su un canale televisivo belga, durante il quale dichiarava:

«[N]oi abbiamo molti rappresentanti che vanno dai clienti (…) Tutti ormai installano sistemi di allarme e evidentemente al giorno d’oggi tutti hanno paura. Non sono solo immigrati quelli che si introducono illecitamente nelle case, non dico questo, non sono razzista. Ci sono anche belgi che lo fanno. Ma è evidente che la gente ha paura, quindi spesso dice: “niente immigrati”. (…) Devo soddisfare le condizioni poste dai miei clienti. Se lei dice: “Voglio quel tale prodotto o lo voglio così e così”, e io dico: “Non lo faccio, faccio venire lo stesso quelle persone”, allora lei dice: “Non voglio più comprare quella porta”. Così io devo chiudere il mio negozio. Dobbiamo venire incontro alle esigenze dei nostri clienti. E questo problema non è mio, non ho creato io il problema del comportamento dei belgi. Io voglio solo che la società vada avanti e che alla fine dell’anno raggiungiamo il nostro fatturato. Come lo raggiungiamo... devo raggiungerlo come vuole il cliente!».

5.        Il Centrum voor gelijkheid van kansen en voor racismebestrijding (Centro per le pari opportunità e per la lotta contro il razzismo; in prosieguo: il «CGKR») è un ente per la promozione della parità di trattamento, istituito con legge 15 febbraio 1993. Tale legge è stata modificata dalla legge 25 febbraio 2003 (in prosieguo: la «legge contro le discriminazioni»). La legge contro le discriminazioni ha recepito nell’ordinamento giuridico belga la direttiva 2000/43.

6.        Il 31 marzo 2006, dopo uno scambio di comunicazioni con la Feryn, il CGKR presentava un’istanza al presidente dell’Arbeidsrechtbank Brussels chiedendogli, inter alia, di dichiarare che la Feryn aveva violato la legge contro le discriminazioni e di ingiungerle di porre fine alla sua politica di assunzione discriminatoria. Tuttavia, il presidente dell’Arbeidsrechtbank statuiva che le dichiarazioni pubbliche in questione non costituivano atti discriminatori; esse potevano tutt’al più dare luogo ad una discriminazione potenziale, in quanto dalle stesse risultava che le persone di una certa origine etnica non sarebbero state assunte dalla Feryn nel caso in cui si fossero presentate. Il CGKR non aveva né sostenuto né dimostrato che la Feryn avesse mai effettivamente rifiutato di assumere qualcuno in ragione della sua origine etnica. Per tali motivi, l’istanza del CGKR veniva respinta con ordinanza 26 giugno 2006. Il CGKR ha interposto appello dinanzi all’Arbeidshof te Brussel, che ha effettuato il presente rinvio pregiudiziale alla Corte.

7.        L’Arbeidshof te Brussel pone varie questioni precise relative alla direttiva e alle specifiche circostanze in discussione nella causa principale (3). Tali questioni vertono sostanzialmente sul concetto di discriminazione diretta (questioni prima e seconda), sull’onere della prova (questioni terza, quarta e quinta) e sul problema dei rimedi appropriati (sesta questione). Esaminerò tali questioni tenendo presente che, ai sensi dell’art. 234 CE, la Corte non è competente ad applicare le norme comunitarie ad una fattispecie concreta, ma solo a fornire indicazioni al giudice nazionale in merito all’interpretazione del diritto comunitario che possano essergli utili per valutare gli effetti di una disposizione di diritto nazionale.

II – Analisi

 Sulla nozione di discriminazione diretta

8.        La direttiva mira a «stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l’origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento» (4). La direttiva si applica sia nel settore pubblico sia in quello privato, per quanto attiene, inter alia, «alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro (…) compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione, indipendentemente dal ramo d’attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale (…) (5). Ai sensi dell’art. 2, n. 1, della direttiva, «il principio della parità di trattamento comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica». L’art. 2, n. 2, lett. a), dispone che «sussiste discriminazione diretta quando, a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga».

9.        La prima questione che la Corte deve risolvere è in sostanza la seguente: se costituisca discriminazione diretta ai sensi della direttiva il fatto che un datore di lavoro dichiari pubblicamente, nell’ambito di una campagna di assunzione, che non saranno accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica.

10.      Secondo il giudice nazionale adito in primo grado, fintantoché il datore di lavoro non abbia dato seguito alle proprie dichiarazioni discriminatorie, la discriminazione è solo ipotetica e non ricade nell’ambito di applicazione della direttiva. Il Regno Unito e l’Irlanda hanno concluso nello stesso senso. Essi sostengono che la direttiva non sia applicabile in mancanza di un denunciante identificabile che sia stato vittima di una discriminazione. Di conseguenza, enti come il CGKR non possono, in tali circostanze, adire i giudici nazionali lamentando una discriminazione diretta ai sensi della direttiva.

11.      Il CGKR sostiene il contrario e afferma che il divieto di discriminazione diretta riguarda sia la procedura di assunzione sia l’eventuale decisione sull’assunzione. Secondo il CGKR, l’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva va determinato a prescindere dalla questione dei soggetti legittimati ad agire in giudizio. In altre parole, la questione della legittimazione ad agire del CGKR non avrebbe nulla a che vedere con la questione se vi sia stata una discriminazione diretta. La Commissione e il governo belga concordano con il CGKR.

12.      Esiste un certo grado di confusione sul rapporto tra la nozione di discriminazione diretta e la questione se un ente d’interesse pubblico sia legittimato ad agire in giudizio in caso di violazione del principio della parità di trattamento. Come hanno sottolineato il Regno Unito e l’Irlanda, la direttiva non era intesa a rendere possibile per gli enti d’interesse pubblico, ai sensi delle leggi degli Stati membri, esercitare un’azione avente natura di actio popularis. In proposito, essi fanno riferimento all’art. 7 della direttiva. Tale disposizione impone agli Stati membri di garantire che le procedure giurisdizionali siano accessibili a «tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento» (6) e agli enti d’interesse pubblico che agiscano «per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa» (7).

13.      Tuttavia, da tale disposizione non discende che gli Stati membri non possano concedere ulteriori mezzi giuridici di esecuzione o di ricorso. Anzi, la direttiva prevede espressamente che «[g]li Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle fissate nella presente direttiva» (8) e che «[l]’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva» (9). Pertanto, in linea di principio, la questione se un ente per la promozione della parità di trattamento, quale il CGKR, possa proporre ricorso nel caso in cui non agisca per conto di uno specifico denunciante va risolta in base al diritto nazionale. La direttiva consente agli Stati membri di scegliere fra diversi metodi di esecuzione, purché le persone che si ritengono discriminate e gli enti d’interesse pubblico che le rappresentano possano accedere alle appropriate procedure giurisdizionali o amministrative. A tale riguardo, concordo con il Regno Unito e l’Irlanda che la direttiva non obbliga gli Stati membri a garantire il riconoscimento della legittimazione ad agire agli enti d’interesse pubblico in mancanza di un denunciante che lamenti di essere stato vittima di discriminazione.

14.      Ciò non significa però che la direttiva si applichi solo nei casi in cui vi siano vittime‑denuncianti identificabili. Le forme di discriminazione coperte dalla direttiva vanno desunte, in via principale, dal tenore letterale e dallo scopo della stessa, e non dai rimedi minimi che gli Stati membri sono tenuti a garantire. L’ambito del comportamento discriminatorio vietato dalla direttiva è una cosa; altra cosa è la portata dei meccanismi di esecuzione e dei rimedi specificamente prescritti dalla direttiva. Infatti, la direttiva va interpretata nel contesto di una politica più ampia, volta a «promuovere le condizioni per una partecipazione più attiva sul mercato del lavoro» (10) e ad «assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le persone a prescindere dalla razza o dall’origine etnica» (11). Inoltre, come ho sostenuto nelle mie recenti conclusioni nella causa Coleman, una direttiva, quando viene adottata sulla base dell’art. 13 CE, dev’essere interpretata alla luce dei più ampi valori sottesi a tale disposizione (12). È vero che la direttiva prevede misure minime, ma non vi è ragione di attribuirle una portata inferiore a quella che emerge dalla lettura alla luce dei suddetti valori. Uno standard minimo di protezione non equivale a uno standard di protezione minima. Le norme comunitarie in materia di tutela contro le discriminazioni possono lasciare un margine agli Stati membri per garantire una protezione ancora maggiore, ma ciò non autorizza a concludere che il livello di protezione offerto dalla normativa comunitaria sia il minore possibile (13).

15.      In tale contesto, ritengo che un’interpretazione che limiti la portata della direttiva ai casi di denuncianti identificabili, che si siano candidati a un determinato posto lavoro, rischi di compromettere l’effettività del principio della parità di trattamento in materia di lavoro. In tutte le procedure di assunzione, la principale «selezione» ha luogo tra coloro che si presentano e coloro che non lo fanno. Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un posto di lavoro se sa in anticipo che, a causa della sua origine razziale o etnica, non ha alcuna possibilità di essere assunto. Pertanto, la dichiarazione pubblica di un datore di lavoro, secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non devono presentarsi, ha un effetto tutt’altro che ipotetico. Ignorare che ciò costituisce un atto discriminatorio significherebbe ignorare la realtà sociale, in cui siffatte dichiarazioni hanno inevitabilmente un impatto umiliante e demoralizzante sulle persone aventi quell’origine che intendano accedere al mercato del lavoro e, in particolare, su quelle che sarebbero state interessate ad essere assunte presso il datore di lavoro in questione.

16.      Tuttavia, in casi come questi può essere molto difficile individuare le singole vittime, dato che, in primo luogo, gli interessati potrebbero non candidarsi neppure a un posto presso tale datore di lavoro. In udienza, il Regno Unito e l’Irlanda hanno ammesso che dovrebbero rientrare nella nozione di vittima le persone che siano interessate a candidarsi e siano qualificate per il posto lavoro in questione. Questo però non risolve il problema, viste la difficoltà di individuare singolarmente tali persone e la circostanza che esse sono scarsamente incentivate a presentarsi. Infatti, il datore di lavoro, manifestando pubblicamente la propria intenzione di non assumere persone di una determinata origine razziale o etnica, esclude tali persone dalla procedura di assunzione e dall’occupazione presso la propria azienda. Egli non si limita a parlare di discriminazione, bensì discrimina. Non si limita a pronunciare parole, bensì compie un «atto linguistico» («speech act») (14). L’annuncio secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non sono bene accette come candidati a un posto di lavoro costituisce quindi di per sé una forma di discriminazione.

17.      Si perverrebbe a risultati imbarazzanti se, per qualche motivo, una discriminazione di questo tipo fosse del tutto esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva, in quanto gli Stati membri sarebbero implicitamente autorizzati, in forza della stessa, a consentire ai datori di lavoro di distinguere effettivamente i candidati in ragione dell’origine razziale o etnica, semplicemente rendendo pubblico in anticipo, nel modo più chiaro possibile, il carattere discriminatorio della loro politica di assunzione. In tal modo, la più impudente strategia di assunzione discriminatoria potrebbe anche trasformarsi nella più «premiante». È evidente che ciò comprometterebbe – anziché promuoverle – le condizioni per un mercato del lavoro favorevole all’integrazione sociale. In breve, verrebbe vanificato lo scopo stesso della direttiva se le dichiarazioni rese pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non sarebbero accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica, esulassero dalla nozione di discriminazione diretta.

18.      L’affermazione del sig. Feryn secondo cui i clienti sarebbero maldisposti nei confronti dei lavoratori di una determinata origine etnica è del tutto irrilevante rispetto alla questione dell’applicabilità della direttiva. Quand’anche tale affermazione corrispondesse al vero, essa dimostrerebbe solo che «i mercati non cureranno la discriminazione» (15) e che l’intervento del legislatore è essenziale. Inoltre, l’adozione di misure normative a livello comunitario contribuisce a risolvere il problema dell’azione collettiva dei lavoratori, impedendo la distorsione di concorrenza che potrebbe verificarsi, proprio a causa di tale incapacità del mercato, qualora esistessero norme diverse di tutela contro le discriminazioni a livello nazionale.

19.      Pertanto, suggerisco alla Corte di risolvere come segue la seconda e la terza questione poste dal giudice nazionale: la dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature delle persone di una determinata origine etnica, costituisce una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva.

 Sull’onere della prova

20.      Il giudice a quo chiede chiarimenti anche in merito all’onere della prova. Tali questioni sono pertinenti in relazione alla tesi dedotta dal CGKR dinanzi al giudice nazionale, secondo cui la Feryn continua ad applicare una politica di assunzione discriminatoria.

21.      La disposizione pertinente è l’art. 8 della direttiva. Discende da tale disposizione che, allorché siano stati esposti fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incombe alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento. Pertanto, quando sussista una situazione evidente di discriminazione, incombe al datore di lavoro dimostrare che tale principio non è stato leso.

22.      Tale inversione dell’onere della prova è coerente con la normativa comunitaria e con la giurisprudenza della Corte in materia di discriminazione fondata sul sesso. La Corte ha infatti dichiarato: «di fronte ad una situazione di discriminazione evidente, è il datore di lavoro che deve provare l’esistenza di motivi obiettivi che giustifichino l’accertata differenza di retribuzione [tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile]. I lavoratori, infatti, non avrebbero modo di far rispettare il principio della parità delle retribuzioni dinanzi al giudice nazionale, se il fornire elementi che consentono di presumere una discriminazione non avesse la conseguenza d’imporre al datore di lavoro l’onere di provare che la disparità salariale non è in realtà discriminatoria» (16). Sotto questo aspetto, ciò che vale per i casi di discriminazione basata sul sesso vale anche per quelli di discriminazione in base all’origine etnica. Infatti, l’art. 8 della direttiva riproduce parola per parola il testo dell’art. 4 della direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (17).

23.      Spetta al giudice nazionale applicare tali regole in materia di onere della prova alle specifiche circostanze del caso di specie. Nondimeno, come osserva giustamente la Commissione, qualora si accerti che un datore di lavoro ha reso pubblicamente dichiarazioni in merito alla propria politica di assunzione come quelle in discussione nella causa principale e, inoltre, la prassi concretamente adottata dal datore di lavoro in materia di assunzioni rimanga poco chiara e non sia stata assunta nessuna persona avente l’origine etnica in questione, si presume che sussista una discriminazione ai sensi dell’art. 8 della direttiva. Incombe al datore di lavoro confutare tale presunzione.

24.      Per quanto riguarda le modalità con cui il giudice nazionale dovrebbe valutare le prove a discarico prodotte dal datore di lavoro, si deve ritenere che detto giudice debba applicare le pertinenti modalità procedurali nazionali, purché tali modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall’altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività) (18).

25.      Propongo quindi alla Corte di risolvere come segue la terza, quarta e quinta questione poste dal giudice nazionale: qualora si accerti una situazione di discriminazione evidente basata sull’origine razziale o etnica, incombe alla parte convenuta dimostrare di non avere violato il principio della parità di trattamento.

 Sui rimedi appropriati

26.      Infine, il giudice nazionale chiede quali siano i rimedi appropriati nel caso in cui sia stata accertata una discriminazione basata sulla razza o sull’origine etnica. Più specificamente, il giudice a quo chiede se la sentenza dichiarativa di tale discriminazione costituisca un rimedio appropriato oppure se, in circostanze come quelle del caso di specie, il giudice nazionale debba intimare al datore di lavoro di cessare la sua politica di assunzione discriminatoria.

27.      Per quanto riguarda le sanzioni, l’art. 15 della direttiva dispone che «[g]li Stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni che possono prevedere un risarcimento dei danni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive (…)». Inoltre, la Corte ha dichiarato nella sentenza Von Colson e Kamann che i giudici nazionali devono adottare tutti i provvedimenti atti a garantire l’adempimento dell’obbligo degli Stati membri di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva (19).

28.      Spetta al giudice del rinvio stabilire, in base alle disposizioni pertinenti di diritto interno, quale sia il rimedio appropriato nelle circostanze del caso di specie. Tuttavia, generalmente le sanzioni meramente simboliche non sono dotate di un’efficacia dissuasiva sufficiente a garantire il rispetto del divieto di discriminazione (20). Ritengo pertanto che un ordine con cui l’autorità giudiziaria vieti tale comportamento costituisca un rimedio più appropriato.

29.      Riassumendo, il giudice nazionale, qualora accerti una violazione del principio della parità di trattamento, deve concedere rimedi effettivi, proporzionati e dissuasivi.

III – Conclusione

30.      Per i motivi sopra indicati, ritengo che le questioni sollevate dall’Arbeidshof te Brussel debbano essere risolte come segue:

1)         La dichiarazione resa pubblicamente da un datore di lavoro nell’ambito di una campagna di assunzione, secondo cui non saranno accettate le candidature delle persone di una determinata origine razziale o etnica, costituisce una discriminazione diretta ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

2)         Qualora si accerti una situazione di discriminazione evidente basata sull’origine razziale o etnica, incombe alla parte convenuta dimostrare di non avere violato il principio della parità di trattamento.

3)         Il giudice nazionale, qualora accerti una violazione del principio della parità di trattamento, deve concedere rimedi efficaci, proporzionati e dissuasivi.


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – GU L 180, pag. 22.


3 – GU 2007, C 82, pag. 21.


4 – Art. 1 della direttiva.


5 – Art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva.


6 – Art. 7, n. 1, della direttiva (il corsivo è mio).


7 – Art. 7, n. 2, della direttiva (il corsivo è mio).


8 – Art. 6, n. 1, della direttiva.


9 – Art. 6, n. 2, della direttiva.


10 – Ottavo ‘considerando’ della direttiva.


11 – Dodicesimo ‘considerando’ della direttiva.


12 – V. le mie conclusioni nella causa C‑303/06, Coleman, ancora pendente dinanzi alla Corte, paragrafi 7 e segg.. Tale causa verte sulla direttiva 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU L 303, pag. 16).


13 – Ibid. (paragrafo 24).


14 – Searle, J., Speech Acts, Cambridge University Press 1969; Austin, J.L., How to Do Things With Words, Cambridge (Mass.) 1962.


15 – Sunstein, C., «Why markets don’t stop discrimination», in Free markets and social justice, Oxford University Press, Oxford, 1997, pag. 165.


16 – Sentenze 30 marzo 2000, causa C‑236/98, JämO (Racc. pag. I‑2189, punto 53), e 10 marzo 2005, causa C‑196/02, Nikoloudi (Racc. pag. I‑1789, punto 74).


17 – GU 1998, L 14, pag. 6, modificata con direttiva del Consiglio 13 luglio 1998, 98/52/CE (GU L 205, pag. 66). V. anche art. 10, n. 1, della direttiva 2000/78.


18 – V, in tal senso, sentenze 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe (Racc. pag. 1989); 14 dicembre 1995, cause riunite C‑430/93 e C‑431/93, Van Schijndel e van Veen (Racc. pag. I‑4705, punto 17), e 7 giugno 2007, cause riunite da C‑222/05 a C‑225/05, Van der Weerd e a. (Racc. pag. 4233, punto 28).


19 – Sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83 (Racc. pag. 1891, punto 26), e causa 79/83, Harz (Racc. pag. 1921, punto 26).


20 – V. per analogia, sentenza Von Colson e Kamann, cit. (punti 23 e 24).