Language of document : ECLI:EU:C:2010:784

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

NIILO JÄÄSKINEN

presentate il 16 dicembre 2010 (1)

Causa C‑391/09

Malgožata Runevič‑Vardyn,

Łukasz Wardyn

contro

Vilniaus miesto savivaldybės administracija,

Lietuvos Respublikos teisingumo ministerija,

Valstybinė lietuvių kalbos komisija,

Vilniaus miesto savivaldybės administracijos Teisės departamento Civilinės metrikacijos skyrius

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Vilniaus miesto 1 apylinkės teismas (Lituania)]

«Cittadinanza dell’Unione − Principio di non discriminazione in base alla nazionalità − Libertà di circolazione e di soggiorno − Artt. 12 CE e 18 CE − Principio di parità di trattamento tra le persone senza distinzione di razza o di origine etnica − Direttiva 2000/43 − Normativa di uno Stato membro che impone la trascrizione dei nomi e dei cognomi delle persone con utilizzazione esclusiva dei caratteri della lingua ufficiale di detto Stato negli atti di stato civile redatti da quest’ultimo − Trascrizione dei nomi e dei cognomi di persone originarie di un altro Stato membro»






I –    Introduzione

1.        La domanda di pronuncia pregiudiziale di cui la Corte è investita è stata proposta nell’ambito di una controversia che vede contrapposti una cittadina lituana di origine etnica polacca (2), la sig.ra Malgožata Runevič‑Vardyn, e il marito, un cittadino polacco, il sig. Łukasz Paweł Wardyn, da una parte, e il servizio di stato civile del dipartimento giuridico dell’amministrazione comunale di Vilnius (Lituania), dall’altra, a seguito di un rifiuto, espresso da quest’ultimo, di modificare i nomi e i cognomi degli interessati quali figurano sui certificati di nascita e di matrimonio rilasciati loro da tale servizio.

2.        La legge lituana applicabile prevede che i nomi ed i cognomi delle persone fisiche devono essere trascritti (3) negli atti di stato civile in una forma che rispetti le regole di grafia proprie della lingua ufficiale nazionale. Ne consegue che solo l’utilizzazione dei caratteri latini è autorizzata, ad esclusione dei segni diacritici (4), delle legature (5), o di tutte le altre modificazioni grafiche apportate alle lettere dell’alfabeto latino, che sono usate in altre lingue ma che non esistono nella lingua lituana.

3.        Il giudice del rinvio, il Vilniaus miesto 1 apylinkės teismas (primo Tribunale del distretto del comune di Vilnius), si chiede se le disposizioni dell’art. 2, n. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (6), che non hanno ancora mai formato oggetto di un’interpretazione pregiudiziale, o le disposizioni degli artt. 12 CE e 18 CE, ostino a una siffatta normativa nazionale.

4.        Alla Corte sono già state sottoposte svariate questioni pregiudiziali relative allo stato civile dei cittadini dell’Unione europea, e in particolare al loro cognome (7). Nella sua giurisprudenza recente, essa ha optato per una posizione abbastanza favorevole nei confronti di singoli che hanno contestato gli usi amministrativi relativi all’iscrizione dei cognomi negli atti di stato civile. Nella fattispecie, la Corte è chiamata principalmente a determinare se una persona appartenente ad una minoranza etnica o un cittadino di un altro Stato membro possa far valere il diritto dell’Unione al fine di imporre l’uso della propria lingua materna alle autorità di uno Stato membro, e ciò in contrasto con i principi costituzionali in vigore nel detto Stato che tutelano la lingua ufficiale nazionale.

5.        Questa domanda di pronuncia pregiudiziale rivela che le problematiche qui sollevate suscitano emozioni abbastanza intense, sia in capo alle parti nella causa principale sia in capo agli Stati membri interessati (8). Ed in effetti la presente causa comporta delicati aspetti storici e geopolitici. La regione di Vilnius è stata difatti sede di un conflitto politico difficile nell’Europa del periodo tra la prima e la seconda guerra mondiale e la sorte della popolazione di origine polacca presente in tale regione non ha cessato di provocare tensioni politiche tra la Repubblica di Lituania e la Repubblica di Polonia, due Stati membri legati da una lunga storia comune, dal 1386 al 1918, nel seno tanto dell’Unione Polonia‑Lituania quanto dell’impero russo.

6.        I nomi e i cognomi hanno un’importanza notevole, dal punto di vista dei singoli come da quello degli Stati. Per una persona il nome e la sua grafia possono costituire un fattore essenziale di identità psicologica o etnica, o addirittura nazionale (9). A titolo di esempio di tale fenomeno faccio menzione delle modifiche volontarie dei cognomi di origine «straniera» che si sono verificati in maniera massiccia in Finlandia all’inizio del XX secolo. Nella storia, motivazioni più o meno nazionaliste hanno altresì ispirato le modifiche forzate, e non più spontanee, dei cognomi di minoranze nazionali o etniche avvenute in parecchi paesi europei, nonché le normative che hanno imposto di iscrivere i nomi secondo una variante nazionale, escludendo le consonanze straniere, negli atti di stato civile. La libertà individuale esistente in materia è pure limitata in diversi paesi in riferimento a considerazioni attinenti all’ordine pubblico (10). La tensione tra gli interessi degli individui e quelli degli Stati in materia di nomi e cognomi è percettibile nella giurisprudenza della Corte, così come in quella della Corte europea dei diritti dell’uomo (11).

II – Contesto normativo

A –    Il diritto internazionale

1.      La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

7.        L’art. 8 della summenzionata convenzione, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU») è formulato come segue:

«1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.

2. Non può esservi ingerenza di un’autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».

2.      La convenzione CIEC n. 14 relativa all’indicazione dei nomi e dei cognomi nei registri dello stato civile

8.        La convenzione firmata a Berna il 13 settembre 1973 sotto l’egida della Commissione internazionale dello stato civile (in prosieguo: la «convenzione CIEC n. 14») relativa all’indicazione dei nomi e dei cognomi nei registri dello stato civile è entrata in vigore il 16 febbraio 1977 (12).

9.        Ai sensi dell’art. 2 della detta convenzione:

«Allorché un atto dev’essere iscritto in un registro dello stato civile da un’autorità di uno Stato contraente e a tal fine viene presentata una copia o un estratto di un atto dello stato civile o un altro documento che riporti i cognomi e i nomi scritti negli stessi caratteri della lingua in cui l’atto dev’essere redatto, tali cognomi e nomi saranno riprodotti letteralmente, senza modifica né traduzione.

Saranno egualmente riprodotti i segni diacritici riportati da tali cognomi e nomi, anche se detti segni non esistono nella lingua in cui l’atto dev’essere redatto».

B –    Il diritto dell’Unione

1.      Il Trattato UE

10.      L’art. 4, n. 2, del Trattato UE europea così dispone:

«L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale (…)».

2.      La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

11.      L’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (13) è del seguente tenore:

«Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni».

3.      Il Trattato CE (14)

12.      L’art. 12, primo comma, CE così recita:

«Nel campo di applicazione del presente trattato, e senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità».

13.      L’art. 18, n. 1, CE (divenuto art. 21, n. 1, TFUE) prevede quanto segue:

«Ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso».

4.      La direttiva 2000/43

14.      La direttiva 2000/43, adottata sul fondamento dell’art. 13 CE, è relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

15.      L’art. 2, n. 2, lett. b), di tale direttiva dispone che:

«sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».

16.      L’art. 3 della direttiva 2000/43 definisce il suo campo di applicazione nei seguenti termini:

«1. Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva si applica a tutte le persone sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

(…)

h) all’accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio.

2. La presente direttiva non riguarda le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e non pregiudica le disposizioni e le condizioni relative all’ingresso e alla residenza di cittadini di paesi terzi e di apolidi nel territorio degli Stati membri, né qualsiasi trattamento derivante dalla condizione giuridica dei cittadini dei paesi terzi o degli apolidi interessati».

C –    La legge lituana

1.      La Costituzione

17.      L’art. 14 della Costituzione lituana dispone che la lingua ufficiale è il lituano.

2.      Il codice civile

18.      L’art. 2.20, n. 1, del codice civile lituano (in prosieguo: il «codice civile») stabilisce che: «ogni persona gode di un diritto al nome. Tale diritto al nome comprende il diritto ad un cognome, ad uno o più nomi e ad uno pseudonimo».

19.      L’art. 3.31 del codice civile così dispone:

«Ciascuno dei coniugi ha il diritto di conservare il cognome che aveva prima del suo matrimonio, di scegliere il cognome del proprio coniuge come cognome comune o di scegliere di portare un doppio cognome formato dall’aggiunta del cognome del coniuge al proprio».

20.      L’art. 3.281 del codice civile prevede che gli atti di stato civile sono registrati, ricostituiti, modificati, integrati o corretti secondo le norme che disciplinano lo stato civile promulgate dal Ministro della Giustizia.

21.      L’art. 3.282 del codice civile dispone che «le menzioni figuranti sugli atti di stato civile devono essere effettuate in lituano. Il nome, il cognome e i toponimi sono redatti in conformità alle regole della lingua lituana».

3.      Le norme che disciplinano lo stato civile

22.      Il punto 11 del decreto n. IR‑294 del Ministro lituano della Giustizia, in data 22 luglio 2008, relativo alla conferma delle norme che disciplinano lo stato civile (15), stabilisce che le menzioni degli atti di stato civile sono redatte in lituano.

III – La causa principale, le questioni pregiudiziali e il procedimento dinanzi alla Corte

23.      La sig.ra Malgožata Runevič‑Vardyn, nata il 20 marzo 1977 a Vilnius, è una cittadina lituana di origine etnica polacca. Ella dichiara che i suoi genitori le hanno dato il nome polacco «Małgorzata» e il cognome di suo padre, «Runiewicz».

24.      Secondo la decisione di rinvio, nel certificato di nascita consegnatole il 14 giugno 1977, il suo nome e il suo cognome sono stati registrati nella loro forma lituana, e cioè «Malgožata Runevič». Gli stessi nome e cognome figurano su un nuovo certificato di nascita rilasciato il 9 settembre 2003 dal servizio dello stato civile del comune di Vilnius, nonché sul passaporto lituano rilasciatole dalle autorità competenti il 7 agosto 2002.

25.      Per contro, dalle osservazioni dei ricorrenti nella causa principale risulta che il certificato di nascita emesso nel 1977 era redatto in caratteri cirillici (16), e il nome e il cognome figuravano sotto la forma «Malgožata Runevič» solo nella versione di detto certificato rilasciata nel 2003, nonché nel passaporto ricevuto nel 2002. L’interessata fa valere di aver ottenuto, su sua domanda, che la sua «nazionalità» polacca fosse indicata nel detto passaporto (17). Ella aggiunge che, in base alla legge polacca, un certificato di nascita nel quale il suo nome e il suo cognome figuravano come «Małgorzata Runiewicz» le è stato rilasciato il 31 luglio 2006 dal servizio di stato civile del comune di Varsavia (Polonia).

26.      Il 7 luglio 2007, dopo aver risieduto e lavorato in Polonia per un certo periodo di tempo, la ricorrente nella causa principale ha sposato a Vilnius il sig. Łukasz Paweł Wardyn, cittadino polacco. Sul certificato di matrimonio rilasciato dal servizio di stato civile del comune di Vilnius, «Łukasz Paweł Wardyn» è stato trascritto sotto la forma «LUKASZ PAWEL WARDYN» in lettere maiuscole, ossia utilizzando l’alfabeto latino senza segni diacritici, mentre il cognome della moglie compare sotto la forma «MALGOŽATA RUNEVIČ‑VARDYN», e cioè utilizzando solo i caratteri lituani, tra i quali non figura la lettera «W». I ricorrenti della causa principale precisano di aver ricevuto, nel 2008, un certificato di matrimonio polacco in cui i loro nomi e cognomi compaiono nella forma polacca (18). Attualmente, gli interessati risiedono in Belgio con il figlio nato dalla loro unione.

27.      Il 16 agosto 2007 la ricorrente nella causa principale ha presentato al servizio di stato civile del comune di Vilnius una domanda diretta, da un lato, a vedere il suo nome e il suo cognome, quali figurano sul suo certificato di nascita, ossia «Malgožata Runevič», modificati in «Małgorzata Runiewicz», e, dall’altro, a che il suo nome e il suo cognome, quali figurano sul suo certificato di matrimonio, ossia «Malgožata Runevič‑Vardyn», siano modificati in «Małgorzata Runiewicz‑Wardyn».

28.      Con risposta in data 19 settembre 2007 detto servizio ha informato la sig.ra Runevič‑Vardyn che, ai sensi della normativa in vigore in Lituania, era impossibile modificare le menzioni figuranti sugli atti di stato civile.

29.      Dalla decisione di rinvio risulta altresì che la sig.ra Runevič‑Vardyn e il sig. Wardyn hanno proposto un ricorso diretto ad ottenere che il servizio di stato civile del comune di Vilnius sia obbligato a rilasciare un nuovo certificato di nascita, oltre ad un nuovo certificato di matrimonio, conformemente alle domande che la sig.ra Runevič‑Vardyn aveva presentato al servizio in parola.

30.      Ritenendo di non essere in grado di fornire una soluzione chiara alle questioni di interpretazione e di applicazione del diritto comunitario sollevate nell’ambito della controversia di cui è stato investito, il Vilniaus miesto 1 apylinkės teismas ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se, alla luce di quanto disposto dalla direttiva 2000/43 (…), l’art. 2, n. 2, lett. b), di tale direttiva debba essere interpretato nel senso che vieta agli Stati membri di discriminare indirettamente singoli in base alla loro origine etnica quando vi sia una normativa nazionale che stabilisce che i nomi e i cognomi delle persone possono essere scritti in documenti attestanti lo stato civile utilizzando unicamente le lettere della lingua ufficiale.

2)      Se, alla luce di quanto disposto dalla direttiva 2000/43 (…), l’art. 2, n. 2, lett. b), di tale direttiva debba essere interpretato nel senso che vieta agli Stati membri di discriminare indirettamente singoli in base alla loro origine etnica quando vi sia una normativa nazionale che stabilisce che i nomi e i cognomi di singoli di diversa origine o di diversa nazionalità devono essere scritti, in documenti attestanti lo stato civile, utilizzando le lettere dell’alfabeto latino ma non i segni diacritici, le legature o altre modificazioni relative alle lettere di tale alfabeto che sono usate in altre lingue.

3)      Se, alla luce dell’art. 18, n. 1, CE, il quale stabilisce che ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e alla luce dell’art. 12, primo comma, CE, il quale vieta la discriminazione in base alla nazionalità, tali disposizioni devono essere interpretate nel senso che vietano agli Stati membri di disporre in una normativa nazionale che i nomi e i cognomi possono essere scritti in documenti attestanti lo stato civile unicamente utilizzando i caratteri della lingua ufficiale.

4)      Se, alla luce dell’art. 18, n. 1, CE, il quale stabilisce che ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, e alla luce dell’art. 12, primo comma, CE, il quale vieta la discriminazione in base alla nazionalità, tali disposizioni devono essere interpretate nel senso che vietano agli Stati membri di disporre di una normativa nazionale che i nomi e i cognomi delle persone di diversa origine o diversa nazionalità devono essere scritti, in documenti attestanti lo stato civile, utilizzando le lettere dell’alfabeto latino ma non i segni diacritici, le legature o altre modificazioni relative alle lettere di siffatto alfabeto che sono usate in altre lingue».

31.      Nell’ambito della presente controversia hanno presentato osservazioni, sia scritte che orali, la sig.ra Runevič‑Vardyn e il sig. Wardyn, i governi lituano, estone, lettone e polacco, nonché la Commissione europea. I governi ceco, portoghese e slovacco hanno unicamente depositato osservazioni scritte.

IV – Analisi

A –    Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali

32.      Il governo lituano ha sollevato un’eccezione di irricevibilità riguardante una parte delle questioni pregiudiziali. Esso ne ha dedotto che la Corte sarebbe manifestamente incompetente a risolvere queste ultime. A sostegno delle sue affermazioni, esso ha fatto valere due categorie di obiezioni.

33.      In ordine alla seconda e alla quarta questione pregiudiziale, detto governo sostiene che esse sarebbero irricevibili perché senza rapporto con l’effettività o con l’oggetto della controversia nella causa principale per quanto riguarda il sig. Wardyn.

34.      In ordine all’insieme delle questioni pregiudiziali, il governo lituano, seguito al riguardo dal governo ceco, ritiene che esse siano irricevibili in quanto relative alle norme nazionali che disciplinano la grafia del nome e del cognome da nubile della sig.ra Runevič‑Vardyn, per il motivo che tali norme di grafia verterebbero su una situazione puramente interna, non riguardante quindi altri Stati membri.

35.      Per quanto riguarda la prima obiezione, relativa alla situazione procedurale del sig. Wardyn, rilevo che risulta dalla giurisprudenza che con l’espressione «parti in causa», l’art. 23, primo comma, dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea considera quelle che hanno tale qualità nella controversia pendente dinanzi al giudice nazionale da cui emana la domanda di pronuncia pregiudiziale, e nessun’altra persona (19).

36.      Relativamente alla ricevibilità di una questione pregiudiziale qualora essa sia senza rapporto con l’oggetto della controversia o ipoetica, ricordo che, secondo una giurisprudenza costante (20), nell’ambito del procedimento di rinvio pregiudiziale, il giudice nazionale, alla luce delle particolarità della causa, è quello che si trova nelle migliori condizioni per valutare sia la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di emettere la propria sentenza, sia la rilevanza delle questioni che esso sottopone alla Corte. Di conseguenza, qualora queste ultime vertano sull’interpretazione del diritto dell’Unione, la Corte è, in linea di principio, tenuta a statuire.

37.      Nella fattispecie il giudice nazionale asserisce, nella sua decisione di rinvio pregiudiziale, di essere stato adito congiuntamente dalla sig.ra Runevič‑Vardyn e dal sig. Wardyn, che sono qualificati da tale giudice come «parti ricorrenti». Poiché il sig. Wardyn è parte nella causa principale, egli è, di conseguenza, parte anche nel procedimento pendente dinanzi alla Corte. Le questioni pregiudiziali non sono dunque irricevibili per quanto lo riguarda, e ciò anche se l’oggetto del ricorso sottoposto al giudice del rinvio si rivela limitato alla situazione della sig.ra Runevič‑Vardyn. 

38.      Il tribunale ha ritenuto necessario, per emettere la sua decisione, e, al contempo, giuridicamente pertinente includere gli elementi di fatto e di diritto riguardanti il sig. Wardyn nelle sue questioni pregiudiziali. Dalla summenzionata giurisprudenza risulta che la Corte può rifiutare di pronunciarsi su una domanda di pronuncia pregiudiziale solo se risulta in maniera manifesta che la richiesta interpretazione del diritto dell’Unione non ha alcun rapporto con l’effettività o con l’oggetto della causa principale, o qualora il problema sottoposto sia di natura ipotetica. Ritengo che ciò non si verifichi nel caso di specie.

39.      Per quanto riguarda la seconda obiezione, che attiene all’asserito carattere puramente interno dell’oggetto delle questioni pregiudiziali in quanto relative al nome e al cognome da nubile della sig.ra Runevič‑Vardyn, ricordo che, alla luce della giurisprudenza della Corte (21), tale problematica rientra non in un’eccezione di irricevibilità ma in una questione di merito, che sarà esaminata successivamente.

40.      Di conseguenza, dev’essere fornita una soluzione a tutte le questioni pregiudiziali, anche nella misura in cui esse vertono sullo stato civile della sig.ra Runevič‑Vardyn anteriormente al suo matrimonio.

B –    Sul merito

1.      Osservazioni preliminari

a)            Sulla ripartizione delle competenze

41.      Il diritto dell’Unione non pregiudica la competenza degli Stati membri a disciplinare i loro sistemi di indicazione dei nomi e dei cognomi negli atti di stato civile (22). In mancanza di un’armonizzazione della nozione di stato civile sul piano dell’Unione (23), spetta alla legge di ciascuno Stato membro determinare le condizioni di attribuzione, di modifica o di trascrizione di tali elementi nei registri interessati.

42.      Cionondimeno, nell’esercizio della competenza loro riservata, gli Stati membri devono rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, nella fattispecie, le disposizioni relative al principio di non discriminazione, alla cittadinanza europea o alla libera circolazione delle persone (24).

b)            Sugli aspetti temporali della controversia nella causa principale

43.      Due fattori temporali possono porre problemi in ordine al certificato di nascita della sig.ra Runevič‑Vardyn, che è stato in un primo momento redatto in caratteri cirillici, nel 1977, dalle autorità della Lituania sovietica (25) e che poi ha subito una nuova versione, in lingua lituana, rilasciata nel 2003. La Repubblica di Lituania, dopo aver ristabilito la sua indipendenza nel 1990, ha aderito all’Unione europea solo il 1° maggio 2004. Correlativamente, la sig.ra Runevič‑Vardyn ha esercitato le prerogative garantite dal diritto dell’Unione, in particolare i diritti di circolazione e di soggiorno connessi con la cittadinanza europea, solo parecchi anni dopo la registrazione del suo nome e del suo cognome.

44.      Si pone dunque la questione dell’ambito di applicazione nel tempo delle disposizioni del diritto dell’Unione considerate dalla decisione di rinvio, e ciò sotto questi due profili, uno generale, l’altro individuale.

45.      Quanto al primo profilo, si può ricordare che, aderendo all’Unione europea, lo Stato membro interessato si ritiene abbia inglobato «l’acquis» comunitario, quale risultava in particolare dalla direttiva 2000/43 e dalle disposizioni del Trattato CE considerate dalla decisione di rinvio pregiudiziale, e che, a partire dalla sua adesione, la Repubblica di Lituania è stata tenuta a rispettare e a far rispettare dette norme. Tuttavia, a mio parere, da tale dovere non risulta un obbligo retroattivo di modificare il contenuto degli atti amministrativi che esistevano prima che lo Stato interessato divenisse membro dell’Unione e che riguardano fatti accaduti prima di tale data.

46.      Sotto il secondo profilo si deve considerare che, sebbene la situazione transfrontaliera della sig.ra Runevič‑Vardyn sia venuta in essere ben dopo la constatazione della sua identità nell’atto di stato civile controverso, quanto viene chiesto però è l’applicazione del diritto dell’Unione al fine di trarne le conseguenze pertinenti nei confronti di tale situazione, come nei confronti di ogni altra situazione già in corso che rientri ormai nell’ambito di applicazione di tale diritto, e ciò a decorrere dall’entrata in vigore delle disposizioni di cui trattasi nel detto Stato membro.

47.      Orbene, a mio parere, il diritto dell’Unione non può richiedere che un certificato di nascita redatto prima dell’adesione all’Unione sia modificato retroattivamente. Per contro, non è escluso che esso possa creare il diritto, per un singolo, di chiedere che uno Stato membro gli rilasci un atto di stato civile che attesti dati inclusi nel suo certificato di nascita ma utilizzando una grafia diversa nell’identificazione del suo nome e del suo cognome, come le autorità lituane hanno fatto nei confronti della sig.ra Runevič‑Vardyn nel 2003.

c)            Sugli aspetti transfrontalieri della controversia nella causa principale

48.      Il governo lituano fa valere la concentrazione sul suo solo territorio dell’insieme dei dati di taluni aspetti della controversia nella causa principale. Esso ritiene che le domande della sig.ra Runevič‑Vardyn riguardanti la modifica del suo nome e del suo cognome nel suo certificato di nascita non rientrino nell’ambito di applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione, dato che tale atto è stato redatto in Lituania ed è relativo ad una cittadina lituana. Ricordo che questa è una questione attinente al merito e non una questione rientrante in un’eccezione di irricevibilità.

49.      Per contro, il collegamento col diritto dell’Unione è indubbio per quanto concerne gli altri aspetti della controversia, e cioè quelli riguardanti la registrazione dei nomi dei due ricorrenti nella causa principale nel loro certificato di matrimonio, poiché si tratta di coniugi di nazionalità diverse, ciascuno dei quali ha esercitato il proprio diritto di libera circolazione in seno all’Unione.

50.      Per quanto riguarda la direttiva 2000/43, si deve rilevare che essa attua il principio del divieto di discriminazione fondata sull’origine razziale o etnica che è sancito all’art. 13, n. 1, CE. L’ambito di applicazione di tale principio è ristretto non dal carattere interno o meno della situazione interessata, ma, sul piano generale, dalla limitazione delle competenze concesse alla Comunità (o all’Unione) e, sul piano specifico, dal campo di applicazione della direttiva 2000/43 quale definito da questa stessa direttiva, con l’osservazione che, a mio parere, essa colpisce anche le situazioni totalmente interne (26).

51.      Quanto all’applicabilità degli artt. 12 CE e 18 CE, essa dipende dal fatto che la situazione si collochi o meno nell’ambito di applicazione del Trattato CE. Come ho già precisato, le questioni connesse al certificato di matrimonio possono chiaramente rientrare nell’ambito di applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione relative alle libertà fondamentali. Per quanto riguarda il certificato di nascita rilasciato alla sig.ra Runevič‑Vardyn nel 2003, ricordo che ella ha menzionato una serie di asserite difficoltà pratiche incontrate in Polonia e in Belgio a causa delle differenze di grafia del suo cognome esistenti tra gli atti di stato civile lituani e gli atti di stato civile polacchi che sono relativi alla sua famiglia e a lei stessa. A mio parere, la situazione di un cittadino dell’Unione che ha esercitato la sua libertà di circolazione e ha sposato un cittadino di un altro Stato membro, con riferimento agli atti di stato civile rilasciati nel suo paese d’origine, non può essere qualificata come puramente interna se la legge di tale paese fa sì che il nome che è comune ai due coniugi non possa essere scritto in maniera uniforme negli atti di stato civile che li riguardano entrambi. Una situazione del genere rientra nell’ambito di applicazione del Trattato CE.

52.      Nella fattispecie, è vero che esistono elementi della controversia nella causa principale che sono ristretti al territorio della Repubblica di Lituania. Tuttavia, conformemente ad una giurisprudenza costante, la Corte non può astenersi dallo statuire alla luce di questa sola considerazione (27). Il criterio determinante è quello di sapere se l’interpretazione richiesta sia o meno priva di rapporti con la controversia nella causa principale. Orbene, si può osservare che, in pratica, il tenore del certificato di nascita della sig.ra Runevič‑Vardyn può servire come base per le menzioni figuranti in altri atti, quali il passaporto o il certificato di matrimonio dell’interessata, che formano anch’essi oggetto della detta controversia. Così, malgrado la concentrazione di taluni fatti entro i limiti del territorio nazionale, una soluzione può tuttavia essere utile al giudice del rinvio.

53.      Di conseguenza, ritengo che la Corte sia tenuta a risolvere le questioni pregiudiziali ad essa sottoposte.

2.            Sull’applicabilità della direttiva 2000/43

54.      Se le domande proposte nell’ambito della controversia nella causa principale, attinenti all’esistenza di una discriminazione indiretta fondata sull’origine etnica (28) ai sensi della direttiva 2000/43, non rientrano nell’ambito di applicazione delle disposizioni di quest’ultima, la Corte non è competente ratione materiae a risolvere la prima e la seconda questione pregiudiziale sollevate dal giudice del rinvio.

55.      La stragrande maggioranza delle parti che hanno presentato osservazioni ritiene che la direttiva 2000/43 non sia destinata ad applicarsi nel caso di specie. Fanno eccezioni solo i ricorrenti nella causa principale e il governo portoghese (29).

56.      I ricorrenti nella causa principale fanno valere che l’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva in parola è molto ampio e comprende numerosi aspetti della vita sociale. Infatti, a differenza di altre direttive relative all’attuazione del principio della parità di trattamento, la direttiva 2000/43 si estende al di là dell’ambito dell’occupazione e della formazione professionale, come prevedeva il legislatore (30).

57.      Vero è che, contrariamente alla direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (31), la direttiva 2000/43 non esclude espressamente le questioni di stato civile dal suo ambito di applicazione. Tuttavia, la proposta che ha condotto all’adozione della direttiva 2000/43 precisa che i settori coperti da quest’ultima lo sono soltanto nella misura in cui rientrano nei limiti delle competenze attribuite alla Comunità dal Trattato CE (32). L’art. 3 della citata direttiva ricorda che essa è stata adottata tenendo conto di tali limiti. Orbene, come ho rilevato, l’indicazione dei nomi e dei cognomi nei registri dello stato civile non fa parte delle competenze dell’Unione.

58.      Inoltre l’art. 3, n. 1 (33), della direttiva 2000/43, che fissa l’ambito di applicazione ratione materiae di quest’ultima in maniera esauriente, non include, a mio parere, alcun elemento che si avvicini ai settori specifici che sono lo stato civile e la redazione dei documenti ad esso relativi. Tra i settori nei quali una discriminazione fondata sulla razza o sull’origine etnica è vietata, figura al punto h) di detto numero, l’«accesso a beni e servizi e alla loro fornitura, incluso l’alloggio». Questa è la sola rubrica che potrebbe essere pertinente nel caso di specie, dato che le altre rinviano ad aspetti professionali, sociali o di formazione senza alcun rapporto con l’oggetto della controversia nella causa principale. Orbene, non si può ritenere che la normativa relativa alla grafia dei nomi o dei cognomi da utilizzare negli atti di stato civile rientri direttamente nella nozione di «servizio» ai sensi di tale direttiva (34).

59.      I ricorrenti nella causa principale sostengono che la loro situazione rientra nell’ambito di applicazione di tale disposizione in quanto è necessario presentare un documento di identità e diversi tipi di documenti, attestazioni o diplomi per poter beneficiare di taluni diritti, come pure per avere la possibilità di utilizzare i beni e servizi cui si riferisce l’art. 3, n. 1, della direttiva 2000/43.

60.      Tuttavia, tale ragionamento non mi convince. Dai lavori preparatori riguardanti tale direttiva (35) risulta che l’art. 3, n. 1, lett. h), della stessa richiede che «le decisioni» vertenti sull’accesso ai beni e servizi o sulla fornitura di beni e servizi non siano fondate sulla razza o sull’origine etnica. Per illustrare a cosa possa rinviare la discriminazione nell’accesso ai beni e ai servizi, che limita l’integrazione economica e sociale, la Commissione ha dato l’esempio dell’accesso ai mezzi di finanziamento che risulterebbe da decisioni adottate in materia di prestiti alle piccole imprese o di prestiti ipotecari (36). Nell’esempio in parola il nesso tra la decisione adottata e l’accesso al servizio richiesto è diretto ed evidente. Per contro, i provvedimenti interessati dalla controversia nella causa principale non mi sembrano poter rientrare in un rapporto di causalità del genere.

61.      L’orientamento seguito dai ricorrenti nella causa principale potrebbe essere ammesso solo ove siano presi in considerazione gli effetti indiretti della normativa relativa alla grafia dei nomi e dei cognomi, in quanto quest’ultima potrebbe avere non l’obiettivo, dichiarato o soggiacente, bensì la conseguenza pratica di restringere l’accesso degli interessati a taluni beni o servizi, quali l’acquisto di biglietti d’aereo, l’apertura di un conto bancario o il disbrigo di una qualunque pratica amministrativa, mentre altri coniugi che si trovano in una situazione equivalente non dovrebbero affrontare siffatti ostacoli potenzialmente dissuasivi (37).

62.      Non condivido tale argomentazione. Ove esistesse una qualsiasi discriminazione nelle situazioni sopra descritte, essa discenderebbe non direttamente dalla normativa interessata stessa, ma piuttosto dalle reazioni dei fornitori di beni e servizi di fronte ai documenti di stato civile loro presentati. Tali comportamenti di persone private vanno distinti dai provvedimenti adottati dalle autorità pubbliche.

63.      Per giunta, non è possibile decidere a priori se la discriminazione in base all’origine etnica provocata dai fornitori di beni e servizi potrebbe risultare dall’indicazione di una siffatta origine, vuoi in maniera diretta (in quanto tale), vuoi in maniera indiretta (attraverso la grafia dei nomi e cognomi), negli atti di stato civile, o risultare invece dall’omissione di tale indicazione. Nelle circostanze della controversia nella causa principale, la sig.ra Runevič-Vardyn fa valere le difficoltà incontrate per il fatto che i caratteri dell’alfabeto polacco non sono ammessi negli atti di stato civile riguardanti i cittadini lituani. In un altro contesto una persona potrebbe subire una discriminazione quando la sua origine etnica minoritaria fosse rivelata dagli atti di stato civile (38). Ricordo che la discriminazione indiretta consiste nell’applicazione di un criterio apparentemente neutro che può comportare uno svantaggio particolare per un gruppo di persone determinato rispetto ad altre persone. È vietato ad uno Stato membro applicare un criterio del genere, a meno che esso sia in grado di fornire giustificazioni adeguate. L’interpretazione data del diritto dell’Unione non deve avere come risultato che le due fattispecie qui accennate, che sono alternative e si escludono reciprocamente, possano essere prese in considerazione contro uno Stato membro come ipotesi discriminatorie.

64.      I problemi concreti menzionati dalla sig.ra Runevič‑Vardyn e dal sig. Wardyn sono il risultato delle differenze di grafia dei loro nomi e cognomi presenti tra gli atti di stato civile lituani e polacchi, e non della grafia utilizzata in sé. Infatti, nessun dubbio può sussistere quanto all’esistenza dell’unione tra «MALGOŽATA RUNEVIČ-VARDYN» e «LUKASZ PAWEL WARDYN», menzioni scritte in lettere maiuscole nell’atto, alla luce del certificato di matrimonio lituano che li riguarda. La problematica sollevata è priva di ogni rapporto con i fattori di discriminazione previsti dalla direttiva 2000/43.

65.      A mio parere, nell’epoca attuale, la Corte non può ammettere che, nei casi in cui l’esistenza del matrimonio abbia rilevanza riguardo all’accesso a beni o servizi, tale fatto possa essere dedotto da una identità tra i nomi dei coniugi o essere escluso in mancanza di una siffatta identità. Nella fattispecie, come in ogni situazione equivalente, solo il certificato di matrimonio o un atto di stato civile dello stesso tipo può provare senza ombra di dubbio il carattere effettivo del vincolo matrimoniale.

66.      Ad abundantiam, sottolineo che, se la Corte prendesse in considerazione una concezione estensiva della portata dell’art. 3, n. 1, lett. h), della direttiva 2000/43 nel senso che essa includerebbe gli effetti indiretti che la normativa relativa alla grafia dei nomi o cognomi da utilizzare negli atti di stato civile può avere nei confronti dell’accesso ai beni e servizi, ciò porrebbe problemi di applicazione di tale direttiva riguardo ad imprese che rientrano chiaramente nel suo ambito di applicazione. Ad esempio, se la qualificazione come discriminazione indiretta in base all’origine etnica fosse inerente alle restrizioni concernenti l’uso di caratteri negli atti di stato civile, una siffatta interpretazione aprirebbe la prospettiva di pretese di discriminazione nei confronti di tutti i fornitori di servizi che, in ragione di vincoli tecnici o di normalizzazione, sono tenuti ad utilizzare solo una selezione abbastanza limitata di grafemi e di segni nei documenti e nelle comunicazioni relative ai loro clienti che essi emettono (39). Il fatto di qualificare pratiche del genere come pratiche aventi un effetto discriminatorio, anche solo in maniera potenziale, mi sembra eccessivo e ingiustificato.

67.      Tenuto conto di quanto precede, ritengo che una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale non rientri nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 2000/43.

3.            Sulle questioni riguardanti la discriminazione in base alla nazionalità e la cittadinanza europea

68.      In forza dell’art.17 CE, ogni persona in possesso della cittadinanza di uno Stato membro ha lo status di cittadino dell’Unione, da cui discendono i diritti e gli obblighi previsti dal Trattato CE, tra i quali figurano il diritto di far valere il divieto di discriminazione in base alla nazionalità previsto dall’art. 12, primo comma, CE, nonché la libertà di circolare e di soggiornare negli Stati membri prevista dall’art. 18, n. 1, CE, e ciò in tutte le situazioni rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae del diritto dell’Unione (40).

a)            Sull’interpretazione dell’art. 12 CE alla luce delle diverse domande di modifica degli atti di stato civile

69.      Alla luce dei dati della controversia nella causa principale, ritengo che, per risolvere la terza e la quarta questione pregiudiziale, occorra distinguere fra le tre categorie di domande sottoposte dai ricorrenti nella causa principale, e cioè: da una parte, la domanda della sig.ra Runevič‑Vardyn diretta alla modifica del suo certificato di nascita, dall’altra, quella proveniente dal sig. Wardyn in ordine al suo certificato di matrimonio, e, infine, quella concernente il cognome da sposata della sig.ra Runevič‑Vardyn menzionato in quest’ultimo certificato.

70.      Per quanto riguarda il nome e il cognome da nubile figurante nel certificato di nascita della sig.ra Runevič‑Vardyn, redatto dal servizio di stato civile del comune di Vilnius conformemente alla legge lituana, sono del parere che tale situazione non rientri nell’ambito di applicazione delle disposizioni dell’art. 12 CE. Infatti, non può configurarsi una discriminazione in base alla nazionalità dato che la sig.ra Runevič‑Vardyn è cittadina dello Stato membro la cui normativa è messa in discussione. Inoltre, osservo che la formulazione del detto articolo in lingua tedesca (41), che non è cambiata dall’entrata in vigore del trattato di Roma del 1957, mostra che la discriminazione in base alla nazionalità rinvia alla discriminazione tra i cittadini di Stati membri diversi, e non alla discriminazione in base all’appartenenza ad una minoranza etnica.

71.      Per quanto riguarda la domanda di modifica del certificato di matrimonio presentata dal sig. Wardyn, preciso che essa non verte sul suo proprio cognome, che è stato iscritto senza cambiamenti rispetto alla sua forma originaria, ma sui suoi nomi, che sono stati trascritti sotto una forma lituana («Lukasz Pawel») vale a dire senza i segni diacritici («Łukasz Paweł»), presenti invece nella lingua dello Stato in cui egli è nato e di cui è cittadino, e cioè la Repubblica di Polonia. Inoltre, il sig. Wardyn ritiene di aver subito, a titolo personale, una discriminazione in base alla sua nazionalità polacca in quanto, contrariamente ai cittadini lituani che si sposano, non gli è stata accordata la possibilità di trasmettere alla moglie il suo nome autentico, e cioè «Wardyn», dato che quest’ultimo è stato trascritto sotto la forma lituana «Vardyn» per quanto riguarda la moglie.

72.      Alla luce di questa situazione, l’applicabilità dell’art. 12 CE è ampiamente ammessa dalle parti che hanno presentato osservazioni alla Corte, posizione alla quale mi associo. Infatti, il sig. Wardyn, cittadino polacco, ha contratto un matrimonio transfrontaliero unendosi in Lituania con una cittadina di tale altro Stato membro. Inoltre, egli risiede attualmente, con la moglie e con il figlio nato dalla loro unione, fuori dai territori lituano e polacco, ossia in Belgio, ove sostiene di aver incontrato difficoltà alla luce della divergenza esistente tra il suo cognome e quello attribuito alla moglie dalle autorità lituane.

73.      Quanto all’interpretazione degli obblighi imposti dall’art. 12 CE, solo la Repubblica di Lituania e la Repubblica ceca ritengono che il detto articolo non osti ad una normativa come quella controversa nella causa principale. Io sono del parere contrario, per i motivi che esporrò successivamente. Innanzi tutto, preciso che una discriminazione indiretta in base alla nazionalità, che viola quindi l’art. 12 CE, mi sembra che sia stata operata nei confronti di un cittadino dell’Unione che ha deciso di sposarsi in uno Stato membro diverso da quello di cui è cittadino e che, per questo solo fatto, ha subito una modifica dei suoi nomi originari nel suo certificato di matrimonio.

74.      Per contro, a mio parere, non sussiste una discriminazione che possa risultare dalla circostanza che un cittadino di uno Stato membro sia stato privato della possibilità di trasmettere alla moglie il proprio cognome nella sua forma originaria, poiché tale preteso «diritto» mi pare incompatibile con il principio della parità tra i sessi sancito in particolare dal diritto dell’Unione (42). Qualsiasi persona, uomo o donna, sposandosi, deve avere la scelta tra diverse possibilità, e dunque conservare il proprio cognome, adottare il cognome del coniuge (43), o adottare un nome composto qualora tale possibilità sia concessa dalla legge applicabile a tale matrimonio. Se è vero che la sig.ra Runevič‑Vardyn disponeva di un’opzione del genere (44), per contro, il sig. Wardyn non può esigere la facoltà di darle il proprio cognome.

75.      Ritengo che esista nella fattispecie una violazione del principio generale di parità di trattamento, poiché i cittadini nazionali, che portano in linea generale un nome e un cognome la cui grafia è conforme alla lingua lituana, sono trattati meglio dei cittadini di altri Stati membri che portano nomi con lettere o segni diacritici non conosciuti nella detta lingua (45). Si pone allora la questione di stabilire se una siffatta violazione, che può costituire una discriminazione indiretta in base alla nazionalità, sia nondimeno obiettivamente giustificata da una finalità legittima nonché da motivi proporzionati per raggiungere lo scopo così perseguito.

76.      L’obiettivo legittimo che può utilmente essere fatto valere a sostegno della normativa contestata è quello di garantire la tutela della lingua ufficiale, al fine di salvaguardare l’unità nazionale e di preservare la coesione sociale.

77.      A questo proposito, occorre menzionare la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia, che deve necessariamente essere presa in considerazione (46), e ciò tanto più in quanto risulta dalle spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (47) che i diritti garantiti dall’art. 7 di quest’ultima corrispondono a quelli previsti dall’art. 8 della CEDU e che le limitazioni che possono essere legittimamente apportate sono le stesse che vengono tollerate nell’ambito dell’art. 8, n. 2, della stessa convenzione (48).

78.      Vero è che la CEDU non contiene alcuna disposizione che affermi espressamente il diritto di una persona alla tutela del suo nome e della sua identità personale. Tuttavia, adottando un’interpretazione estensiva dell’art. 8 della CEDU, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che il cognome di un individuo riguarda la sua vita privata e familiare, dato che costituisce un mezzo di identificazione personale e un legame nei confronti di una famiglia (49).

79.      Sottolineo che la Corte europea dei diritti dell’uomo è stata investita di una causa analoga alla presente controversia principale, nell’ambito della quale la ricorrente contestava la «lettonizzazione forzata» del suo cognome. Essa ha respinto tale ricorso in quanto manifestamente infondato, dichiarando che, se la pratica controversa, consistente in una traslitterazione dei cognomi, poteva causare un’ingerenza nella vita privata e familiare della persona interessata, essa non violava però gli obblighi della CEDU, posto che tale pratica, in primo luogo, era prevista dalla legge, in secondo luogo, perseguiva uno o più scopi legittimi alla luce dell’art. 8, n. 2, della CEDU e, in terzo luogo, era necessaria in una società democratica per conseguirli (50). Detta Corte ha recentemente ricordato che, in questo ambito, occorreva situarsi essenzialmente con riferimento alla giustificazione data dalle autorità e accolta dai giudici nazionali, per valutare se la «necessità» della restrizione imposta al diritto al rispetto della vita privata e familiare fosse provata in maniera convincente (51).

80.      Sempre a mio parere, non è di per sé vietato agli Stati membri dal diritto dell’Unione imporre regole di grafia dei nomi e dei cognomi dirette a far rispettare la lingua nazionale. Sottolineo che, ai sensi dell’art. 4, n. 2, del Trattato UE, l’Unione rispetta l’identità nazionale degli Stati membri.

81.      La questione essenziale è tuttavia determinare se la normativa lituana osservi il principio di proporzionalità rispetto all’obiettivo di tutela della lingua ufficiale che è perseguito (52).

82.      Il governo estone ritiene che le esigenze relative a mezzi tanto appropriati quanto necessari sarebbero soddisfatte da un sistema che comporti misure che garantiscano, in pratica e senza gravi inconvenienti, la messa in relazione delle forme del cognome nonché la possibilità di ritrovarne la forma iniziale.

83.      Inoltre, il governo lituano segnala di aver presentato al Parlamento lituano un progetto di legge tendente a dare la possibilità di scrivere i nomi e i cognomi di talune categorie di persone utilizzando non soltanto i caratteri della lingua ufficiale, ma anche di altre lettere dell’alfabeto latino (con o senza segni diacritici) (53).

84.      Questi elementi dimostrano che è possibile seguire una via più moderata di quella adottata nel contesto della normativa controversa nella causa principale e che i mezzi attualmente utilizzati per conseguire l’obiettivo perseguito dalla Repubblica di Lituania sono sproporzionati.

85.      A questo proposito, la convenzione CIEC n. 14 (54) potrebbe, a mio parere, essere utilizzata come fonte di ispirazione utile nell’interpretazione del Trattato CE, nella misura in cui detta convenzione esprime un livello avanzato del diritto internazionale per quanto riguarda l’indicazione dei nomi e dei cognomi degli stranieri nei registri di stato civile (55).

86.      In particolare, l’art. 2 della detta convenzione CIEC n. 14 prevede che, qualora un atto di stato civile debba essere redatto da un’autorità di uno Stato contraente e sia presentato a tal fine un atto di stato civile o qualsiasi altro documento che fissi i nomi e i cognomi scritti negli stessi caratteri della lingua nella quale l’atto dev’essere redatto, tali elementi di identità devono essere riprodotti letteralmente, senza modifiche né traduzione, includendo anche i segni diacritici, e ciò anche se tali segni non esistono nella detta lingua. La relazione esplicativa allegata a tale convenzione precisa, in ordine a tale articolo, che «la regola della riproduzione letterale si applica anche ai segni diacritici», che questi ultimi «dovranno essere riprodotti anche se essi non esistono nella lingua nella quale l’atto dev’essere redatto» e che «[s]e l’atto è redatto a macchina da scrivere, i segni diacritici saranno eventualmente aggiunti a mano».

87.      Alla luce di quanto precede, ritengo che, in forza dell’art. 12, primo comma, CE, l’iscrizione da parte delle autorità di uno Stato membro degli elementi di identità dei cittadini degli altri Stati membri dovrebbe essere letterale, anche utilizzando i segni diacritici che sono ammessi nei detti Stati.

b)            Sull’interpretazione dell’art. 18 CE alla luce delle varie domande di modifica degli atti di stato civile

88.      L’art. 18, n. 1, CE garantisce, con effetto diretto (56), ad ogni cittadino dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

89.      La giurisprudenza anteriore della Corte riguardante la disciplina dell’indicazione dei nomi e dei cognomi negli atti di stato civile può essere succintamente riassunta come segue (57). Fermo restando che la competenza degli Stati membri è riservata in materia, un ostacolo alla libera circolazione previsto dall’art. 18 CE si configura solo se è dimostrata l’esistenza di seri inconvenienti. L’eventuale giustificazione di un ostacolo del genere presuppone, da una parte, l’esistenza di motivi legittimi attinenti a considerazioni d’ordine pubblico e non a semplici facilitazioni amministrative e, dall’altra, mezzi proporzionati all’obiettivo così perseguito (58).

90.      Nella fattispecie, relativamente alla situazione della sig.ra Runevič‑Vardyn per quanto riguarda il suo nome e il suo cognome nel suo certificato di nascita, ritengo, così come la maggioranza delle parti che hanno presentato osservazioni, che essa rientri nell’ambito di applicazione delle disposizioni dell’art.18 CE, in quanto l’interessata ha appunto esercitato i diritti previsti da tale norma andando a stabilirsi e a lavorare in Stati membri diversi da quello di cui ella è originaria.

91.      La sig.ra Runevič‑Vardyn sostiene che risulterebbe chiaramente dalle citate sentenze Garcia Avello nonché Grunkin e Paul che la normativa lituana lede in maniera sproporzionata la sua libertà di circolazione in qualità di cittadina dell’Unione. Ella fa valere la circostanza che, trascrivendo il nome e il cognome d’origine non lituana con caratteri lituani, si sarebbe creata una nuova identità personale, il che impedirebbe alle persone residenti in altri paesi dell’Unione, come lei stessa, di essere identificabili attraverso i loro nomi e cognomi autentici e li porterebbe ad affrontare gravi difficoltà nella loro vita privata e professionale.

92.      Ritengo, al contrario, che, per quanto riguarda il certificato di nascita della sig.ra Runevič‑Vardyn, gli inconvenienti da lei lamentati non siano fondati, dato che il suo nome e cognome da nubile le sono stati attribuiti nello Stato membro in cui ella è nata, non sono cambiati dalla sua nascita in poi e figurano sotto questa forma precisa in particolare sul suo passaporto. Inoltre, le disposizioni della normativa controversa non sono meno favorevoli a taluni cittadini nazionali per il solo fatto che, successivamente, essi hanno esercitato la loro libertà di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro.

93.      In ordine alla situazione del sig. Wardyn, per quanto riguarda i suoi nomi nel certificato di matrimonio, le parti che hanno presentato osservazioni sono unanimi nel considerare, come me, che l’art. 18 CE è applicabile.

94.      Mi associo al punto di vista della Commissione quando essa mette in rilievo, riferendosi alla citata sentenza Konstantinidis, che dev’essere fatto ogni sforzo per garantire che i nomi e cognomi di tutti i cittadini dell’Unione siano stabilmente e durevolmente fissati, in maniera tale da consentire a questi ultimi di esercitare senza ostacoli i loro diritti inerenti alla cittadinanza dell’Unione.

95.      Il governo lituano precisa che, nei documenti come autorizzazioni di residenza o atti di stato civile (atti di nascita, di matrimonio, certificati di decesso) che sono rilasciati in Lituania a cittadini di altri Stati membri, i nomi e cognomi di questi ultimi sono scritti utilizzando le lettere dell’alfabeto latino pur rispettando la grafia adottata nello Stato d’origine, comprese le lettere «w», «x» e «q» assenti nell’alfabeto lituano, senza, tuttavia, utilizzare i segni diacritici.

96.      Ritengo che una siffatta normativa pregiudichi solo parzialmente il diritto del sig. Wardyn di circolare e di soggiornare liberamente in un altro Stato membro. Nella vita quotidiana degli scambi internazionali i segni diacritici sono spesso omessi, soprattutto perché i sistemi informatici permettono solo l’utilizzazione dell’alfabeto inglese, come ho già detto. Ciò vale non solo per i biglietti d’aereo, ma spesso anche per i formulari numerici o per le carte di credito. Per una persona che non conosce bene una lingua straniera, il significato dei segni diacritici è spesso sconosciuto e non vengono neppure notati. A mio modo di vedere è poco probabile – e parlo qui sulla base di esperienza personale – che l’omissione di segni diacritici possa da sola condurre a dover rendere conto dei motivi per i quali una persona ha una doppia identità. La possibilità di un reale e grave inconveniente che risulti da una siffatta omissione mi sembra dunque esclusa.

97.      Per contro, penso che il rifiuto di utilizzare, negli atti di stato civile riguardanti i cittadini di altri Stati membri, lettere dell’alfabeto latino che non esistono nell’alfabeto nazionale potrebbe causare un inconveniente sufficientemente serio a questi ultimi tale da dissuaderli dal far uso della loro libertà di circolazione. Tuttavia, ciò non mi sembra verificarsi nel caso della Lituania, poiché, secondo le informazioni fornite dal governo lituano, i cognomi dei cittadini degli altri Stati membri possono essere trascritti con lettere del genere, come è avvenuto nel caso di specie, dato che il cognome del sig. Wardyn è stato scritto con la lettera «W» nel certificato di matrimonio lituano.

98.      In ordine alla situazione della sig.ra Runevič‑Vardyn per quanto riguarda il suo cognome da sposata figurante nel suo certificato di matrimonio, l’art. 18 CE è a mio avviso applicabile e può ostare ad una normativa come quella controversa nella causa principale, così come ritengono anche, in maggioranza, le parti che hanno presentato osservazioni.

99.      Il governo polacco mette in rilievo che la modifica della trascrizione di un nome o di un cognome pregiudicherebbe gravemente i diritti delle persone in cui nomi o cognomi sono modificati. Gli atti di stato civile e i documenti sarebbero utilizzati non soltanto nel territorio dello Stato che li ha modificati secondo le regole della sua lingua, ma anche nel territorio di tutti gli altri Stati membri dell’Unione e fuori dall’Unione. Esso ritiene che il cittadino di un altro Stato membro che non conosce né le lettere di una lingua né le regole della loro lettura potrebbe non essere in grado di accertare se due nomi che figurano su due documenti distinti costituiscano in realtà un solo e unico nome. Tuttavia, come ho già detto, mi sembra che la Corte non possa basarsi sulla premessa secondo cui il vincolo familiare esistente tra due coniugi sarebbe o presunto o escluso per il solo fatto che essi portano cognomi identici o diversi.

100. Per giustificare un siffatto ostacolo il governo lituano fa valere gli interessi e le tradizioni della lingua lituana. Vero è che la protezione della lingua nazionale può costituire una considerazione obiettiva di interesse generale ai sensi del diritto dell’Unione. Tuttavia, come ha sottolineato l’avvocato generale Jacobs facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (59), l’ampio margine discrezionale di cui gli Stati membri dispongono in materia di grafia dei nomi e dei cognomi non può avere l’effetto di limitare in maniera sproporzionata il diritto dei cittadini dell’Unione di circolare e di soggiornare liberamente in tutti gli Stati membri. Infatti, questi ultimi, indipendentemente dello Stato membro di cui sono originari, non debbono trovarsi lesi per il solo fatto che essi si avvalgono di tale diritto (60). Nella fattispecie, la sig.ra Runevič‑Vardyn si trova privata del diritto, riconosciuto agli altri cittadini lituani, di portare il nome del coniuge in una forma fedele alla grafia originaria, e ciò per il fatto di avere sposato un cittadino di uno Stato membro che ella ha incontrato avvalendosi del suo diritto di libera circolazione.

101. A mio parere, le disposizioni lituane non costituiscono il mezzo adeguato e necessario per conseguire l’obiettivo di protezione della lingua nazionale. Altre soluzioni meno restrittive nei confronti dei diritti della persona interessata sono concepibili. Infatti, basta constatare che la legge lituana ammette già che lettere non esistenti nella lingua nazionale siano utilizzate negli atti di stato civile riguardanti un cittadino di un altro Stato membro, come il sig. Wardyn, per dedurre che la salvaguardia di tale lingua non sarebbe gravemente messa a repentaglio dall’uso della lettera «W» anche nella menzione del cognome portato dalla moglie di quest’ultimo.

V –    Conclusione

102. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di risolvere nei seguenti termini le questioni pregiudiziali sottoposte dal Vilniaus miesto 1 apylinkės teismas:

      «L’art. 2, n. 2, lett. b), della direttiva del Consiglio 22 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento per le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dev’essere interpretato nel senso che non è applicabile a disposizioni nazionali come quelle controverse nella causa principale.

      Nel contesto della causa principale, l’art. 12, primo comma, CE, che vieta l’esercizio di discriminazioni in base alla nazionalità, dev’essere interpretato nel senso che non vieta ad uno Stato membro di prevedere nella propria legge che il nome o cognome di uno dei suoi cittadini possa essere redatto negli atti di stato civile solo utilizzando i caratteri della lingua nazionale e senza utilizzare segni diacritici, legature, o altre modificazioni grafiche apportate alle lettere dell’alfabeto latino, impiegati in altre lingue. Per contro, detto articolo vieta di seguire una pratica del genere nei confronti di un cittadino di un altro Stato membro.

Nel contesto della causa principale, l’art. 18, n. 1, CE, che prevede che ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, dev’essere interpretato nel senso che vieta ad uno Stato membro di prevedere nella sua normativa che il nome o cognome di un cittadino di un altro Stato membro o che il nome da coniugato/coniugata che ha scelto di portare uno dei suoi cittadini coniugato con un cittadino di un altro Stato membro possano essere redatti negli atti di stato civile solo utilizzando i caratteri della lingua nazionale. Per contro, detto articolo non impone che uno Stato membro utilizzi segni diacritici, legature, o altre modificazioni grafiche apportate alle lettere dell’alfabeto latino, impiegati invece in altre lingue».


1 – Lingua originale: il francese.


2 – La sig.ra Runevič‑Vardyn rivendica un’appartenenza alla comunità polacca che vive in Lituania, che rappresenta il 7% circa della popolazione e risiede principalmente nel comune e nella contea di Vilnius. Infatti, i suoi genitori sono di origine polacca ed ella ha presentato documenti risalenti a svariate generazioni che testimoniano di forti legami culturali, linguistici ed affettivi nei confronti della popolazione di stirpe polacca residente nella regione di Vilnius.


3 – La presente causa verte sulla trascrizione di nomi e cognomi scritti in lettere derivanti dall’alfabeto latino, e non sulla traslitterazione a partire dagli altri due alfabeti esistenti nelle lingue ufficiali dell’Unione europea, e cioè gli alfabeti cirillico e greco. Su quest’ultima questione, v. sentenza 30 marzo 1993, causa C‑168/91, Konstantinidis (Racc. pag. I‑1191).


4 – Un segno diacritico è un elemento grafico impiegato in numerose lingue che utilizzano l’alfabeto latino, che può essere messo sopra, sotto una lettera, a fianco o attraverso di essa, il che ne modifica la pronuncia o addirittura crea una lettera ulteriore. Ad esempio, nella lingua tedesca, la dieresi: «¨», detta Umlaut, che è aggiunta su una lettera come la «A» indica una modifica della pronuncia di tale lettera, mentre nella lingua finnica, la «Ä» è una lettera a sé stante.


5 – Una legatura consiste nella fusione di due grafemi di una scrittura per formarne uno solo nuovo, considerato o meno come un carattere a sé stante (ad esempio «OE» che diventa «Œ»).


6 – GU L 180, pag. 22.


7 – V. sentenze Konstandinis (cit.), 2 ottobre 2003, causa C‑148/02, Garcia Avello (Racc. pag. I‑11613), nonché 14 ottobre 2008, causa C‑353/06, Grunkin e Paul (Racc. pag. I‑7639). Altre cause vertevano sulla trascrizione di una data di nascita in un atto di stato civile, come quella decisa con la sentenza 2 dicembre 1997, causa C‑336/94, Dafeki (Racc. pag. I‑6761).


8 – V., tra l’altro, l’articolo della rivista britannica The Economist del 23 ottobre 2010 e quello del quotidiano finlandese Helsingin Sanomat del 19 novembre 2010, che riferiscono sul deterioramento delle relazioni tra la Repubblica di Lituania e la Repubblica di Polonia in connessione con la trascrizione dei nomi e dei cognomi di origine polacca negli atti di stato civile lituani.


9 – La Corte europea dei diritti dell’uomo ha così qualificato il cognome come «elemento di individuazione principale di una persona in seno alla società» (v. Corte eur. D.U., sentenza 9 novembre 2010, Losonci Rose e Rose c. Svizzera, ricorso n. 664/06, § 51).


10 – V. Kangas, U., Ihmisen nimi [Il nome di una persona], Lakimiesliiton kustannus, Helsinki, 1991, pagg. 5‑6 e pag. 12.


11 – La sig.ra Nina Holst‑Christensen rileva che le decisioni come la sentenza Grunkin e Paul, cit., possono essere considerate come irritanti dal punto di vista degli Stati membri, ma che esse danno ai cittadini una possibilità di sbarazzarsi di norme nazionali fastidiose o superate. V. Hols‑Christensen, N., «What’s in a Name? – EU‑retten som korrektionsfaktor i forhold til national navnelovgivning [Il diritto dell’Unione come correttivo rispetto alla legge nazionale sui nomi]», Familieret og engagement – Hilsener til Svend Danielelsen, Thomson Reuters Professional A/S, Copenhagen, 2009, pagg. 187‑197.


12 – Gli Stati firmatari della convenzione CIEC n. 14 sono: il Regno del Belgio, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica ellenica, la Repubblica italiana, il Granducato di Lussemburgo, il Regno dei Pesi Bassi, la Repubblica d’Austria e la Repubblica di Turchia. Né l’Unione europea, né gli Stati membri direttamente interessati dalla presente causa, cioè la Repubblica di Lituania e la Repubblica di Polonia, sono vincolati da tale convenzione.


13 – Proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (GU C 364, pag. 1), modificata e dotata di forza giuridica vincolante in occasione dell’adozione del trattato di Lisbona (GU 2007, C 303, pag. 1).


14 – Gli artt. 12 CE e 18 CE, considerati dalle questioni pregiudiziali, sono divenuti gli articoli 18 TFUE e 21 TFUE. Tuttavia, dato che la presente controversia riguarda, in via principale, l’applicazione di disposizioni di legge lituane nella loro versione anteriore all’entrata in vigore del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, si farà riferimento alle disposizioni del Trattato CE secondo la numerazione applicabile prima di tale data.


15 – Žin., 2008, nn. 88‑3541.


16 – Il fascicolo inviato alla Corte contiene copia del certificato di nascita originale, quale emesso dalle autorità della Lituania sovietica. Vi è scritto «Maлгожата Mихайловна Pуневич», il che è una traslitterazione diretta in caratteri cirillici della forma lituana del nome della neonata, del patronimico con suffisso femminile e del cognome del padre. Da detto certificato risulta altresì nelle rubriche «Национальность», vale a dire nazionalità, riguardanti il padre e la madre della neonata interessata, rispettivamente le menzioni «Поляк» e «Полька», vale a dire «polacco» e «polacca».


17 – Tuttavia, all’udienza, il sig. Wardyn ha dichiarato che la moglie è di nazionalità lituana, precisando che ella non può avere la doppia nazionalità.


18 – All’udienza, il governo polacco ha asserito che i certificati di nascita e di matrimonio di cui trattasi avevano dovuto essere concessi sulla base di un trattato bilaterale, firmato tra la Repubblica di Lituania e la Repubblica di Polonia, in data 26 aprile 1994, il cui art. 14 prevede che le parti contraenti dichiarano che le persone elencate all’art. 13, secondo comma, hanno un diritto specifico a utilizzare il loro nome e il loro cognome nella forma propria alla minoranza etnica a cui appartengono. Esso ha precisato di non escludere che un ufficiale di stato civile polacco abbia potuto ritenere che tale disposizione fosse immediatamente applicabile.


19 – V., in particolare, sentenza 9 dicembre 2003, causa C‑116/02, Gasser (Racc. pag. I‑14693, punto 27).


20 – V., in particolare, sentenze 22 novembre 2005, causa C‑144/04, Mangold (Racc. pag. I‑9981, punti 34 e segg.), 24 giugno 2010, causa C‑98/09, Sorge (Racc. pag. I‑5837, punto 24) e 12 ottobre 2010, causa C‑45/09, Rosenbladt (Racc. pag. I‑9391, punto 32).


21 – Sentenza 13 gennaio 2000, causa C‑254/98, TK‑Heimdienst (Racc. pag. I‑151, punti 14 e 15).


22 – V., in particolare, sentenza 19 aprile 2007, causa C‑444/05, Stamatelaki (Racc. pag. I‑3185, punto 23). Sulle notevoli differenze esistenti tra le norme nazionali relative al cognome, nonché sui fattori di tale situazione, v. sentenza Dafeki, cit. (punti 14 e segg).


23 – «Lo stato civile può essere definito come il modo di constatazione dei principali fatti relativi allo stato delle persone e della famiglia, quali la nascita, il matrimonio, il nome o la nazionalità. Per estensione, si designa come stato civile anche il servizio pubblico incaricato di redigere gli atti che constatano tali fatti, di celebrare i matrimoni e di rilasciare estratti, libretti di famiglia ed altri documenti», secondo una relazione del Senato francese concernente la Commissione internazionale dello stato civile (n. 277, sessione ordinaria 2001‑2002). Tuttavia, non esiste alcuna definizione comune a tutti gli Stati membri della nozione di stato civile, dato che taluni di essi possono utilizzare termini diversi per le due categorie di oggetto che sono indicate in questa citazione.


24 – V., in particolare, sentenza Garcia Avello, cit., punto 25.


25 – Ricordo che l’annessione dei paesi baltici all’Unione sovietica era, a tale epoca, riconosciuta de facto da tutti gli Stati europei.


26 – V., in questo senso, Ringelheim, J., «The Prohibition of Racial and Ethnic Discrimination in Access to Services under EU Law», European Anti‑discrimination Law Review, Issue n. 10, 2010, pag. 11, che cita: Bell, M., Anti‑Discrimination Law and the European Union, Oxford University Press, 2002, pag. 137.


27 – V., in particolare, sentenza 15 maggio 2003, causa C‑300/01, Salzmann (Racc. pag. I‑4899).


28 – La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che «la nozione di origine etnica si basa sull’idea di gruppi sociali aventi in comune una nazionalità, un’appartenenza tribale, una religione, una lingua, origini e ambiente culturali e tradizionali» (v. Corte eur. D.U., sentenza Timichev c. Russia del 13 dicembre 2005, ricorsi nn. 55762 e 55974/00, Raccolta delle sentenze e decisioni, 2005‑XII, § 55). V., altresì, De Schutter, O., «Il divieto di discriminazione nel diritto europeo dei diritti dell’uomo. La sua pertinenza per le direttive comunitarie relative alla parità di trattamento sulla base della razza e nell’occupazione», relazione pubblicata sotto l’egida della Commissione europea, OPOCE, Lussemburgo, 2005, spec. pagg. 7, 15, 38 e 39.


29 – Il detto governo non prende esplicitamente posizione al riguardo, ma si pronuncia nel senso di un’incompatibilità tra la direttiva 2000/43 e una normativa nazionale come quella controversa nella causa principale.


30 – Secondo la proposta di direttiva del Consiglio che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, del 25 novembre 1999 [COM(1999) 566 def. pag. 5]: «un vasto campo di applicazione è necessario per apportare un contributo risoluto alla repressione del razzismo e della xenofobia in Europa». V., altresì dodicesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/43.


31 – (GU L 303, pag. 16). La differenza rilevata tra queste due direttive è tanto più rilevante in quanto esse sono state adottate nello stesso periodo e sullo stesso fondamento giuridico, e cioè l’art. 13 CE.


32 – Proposta di direttiva [COM(1999) 566 def., pag. 7].


33 – Come annuncia il tredicesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/43, l’art. 3, n. 2, della direttiva in questione esclude dal suo ambito di applicazione le discriminazioni in base alla nazionalità.


34 – Su tale nozione, v. l’articolo di Ringelheim, J., cit., pagg. 11 e segg.


35 – Proposta di direttiva [COM(1999) 566 def., pag. 8].


36 – Proposta di direttiva [COM(1999) 566 def., pag. 5].


37 – Questo punto di vista può essere sostenuto in quanto, trattandosi di una discriminazione, ciò che importa è più l’impatto della normativa controversa che l’intenzione del legislatore. Così, l’art. 2, n. 2 , lett. b), della direttiva 2000/43 riguarda lo «svantaggio» subito. Analogamente, nella sentenza 10 luglio 2008, causa C‑54/07, Feryn (Racc. pag. I‑5187), la Corte ha preso di mira l’effetto concreto della misura controversa, e cioè il suo effetto dissuasivo, al fine di caratterizzare una discriminazione diretta all’assunzione ai sensi dell’art. 2, n. 2, lett. a), della direttiva 2000/43.


38 – Così, l’origine polacca della sig.ra Runevič‑Vardyn è iscritta nel passaporto lituano rilasciatole nel 2002, ma una siffatta menzione potrebbe essere considerata causa di discriminazione in taluni Stati membri.


39 – Per esempio, secondo il documento n. 9303 dell’Organizzazione dell’aviazione civile internazionale (OACI), i segni permessi nella zona di lettura automatica dei documenti di viaggio sono limitati ai numeri e alla lettere maiuscole dell’alfabeto inglese inclusi all’appendice 8 di detto documento, mentre le altre lettere o gli altri segni diacritici sono trascritti o traslitterati secondo il modello figurante all’appendice 9 (v. Documenti di viaggio leggibili a macchina sul sito Internet dell’OACI: www2.icao.int). Le compagnie aeree applicano normalmente lo stesso principio per quanto riguarda l’indicazione dei nomi dei passeggeri sui biglietti d’aereo.


40 – Sulla combinazione tra queste diverse disposizioni, v. sentenze 22 maggio 2008, causa C‑499/06, Nerkowska (Racc. pag. I‑3993, punti 21 e segg.), nonché 2 marzo 2010, causa C‑135/08, Rottmann (Racc. pag. I‑1449, punti 43 e segg.).


41 – «Unbeschadet besonderer Bestimmungen der Verträge ist in ihrem Anwendungsbereich jede Diskriminierung aus Gründen der Staatsangehörigkeit verboten» (la sottolineatura è mia).


42 – V. Corte eur. D.U., sentenza Losonci Rose e Rose c. Svizzera, cit., § 47, che sottolinea che «un consenso si delinea in seno agli Stati membri del Consiglio d’Europa quanto alla scelta del cognome dei coniugi su un piano di parità e che, sul piano internazionale, la tendenza in seno alle Nazioni Unite quanto alla parità dei sessi è diretta in questo ambito specifico verso il riconoscimento del diritto per ciascun coniuge di conservare l’uso del suo cognome originario o di partecipare su un piano di parità alla scelta di un nuovo cognome».


43 – Il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha adottato, sin dal 1978, una risoluzione n. (78) 37 con cui viene raccomandato agli Stati membri del detto Consiglio di far scomparire ogni discriminazione tra l’uomo e la donna nel regime giuridico del cognome, poi una raccomandazione n. 1271 (1995) (v. sito internet http://assembly.coe.int).


44 – Tornerò sulla situazione della sig.ra Runevič-Vardyn per quanto concerne il suo cognome da sposata nel contesto dell’interpretazione dell’art. 18 CE.


45 – Ricordo che, se non vi è differenziazione, non vi è discriminazione possibile. V., in particolare, sentenza 14 marzo 2000, cause riunite C‑102/98 e C‑211/98, Kocak e Örs (Racc. pag. I‑1287, punti 52 e segg.), riguardante la menzione di una data di nascita nei registri dello stato civile.


46 – Sull’obbligo di tutelare i diritti fondamentali che grava sugli Stati membri quando applicano il diritto dell’Unione, v. sentenza 11 ottobre 2007, causa C‑117/06, Möllendorf e Möllendorf‑Niehuus (Racc. pag. I‑8361, punto 78, e giurisprudenza ivi citata).


47 – GU 2007, C 303, pag. 20.


48 – Cfr. paragrafi 9‑10 delle conclusioni dell’avvocato generale Sharpston, per la causa, ancora pendente, C‑208/09, Sayn‑Wittgenstein.


49 – Corte eur. D.U., sentenze Burghartz c. Svizzera del 22 febbraio 1994 (serie A n. 280‑B, § 24), Stjerna c. Finlandia del 25 novembre 1994 (serie A n. 299‑B, § 37), Guillot c. Francia del 24 ottobre 1996 (Raccolta delle sentenze e delle decisioni 1996‑V, § 21) e Daróczy c. Ungheria, del 1° luglio 2008 (ricorso n. 44378/05, § 32). V., anche, paragrafi 33, 40 e 41 delle conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa all’origine della sentenza Konstantinidis, cit., nonché il paragrafo 66 delle conclusioni del medesimo avvocato generale nella cause all’origine della sentenza Garcia Avello, cit..


50 – Corte eur. D.U, sentenza Kuharec alias Kuhareca c. Lettonia, del 7 dicembre 2004 (ricorso n. 71557/01).


51 – Corte eur. D.U, sentenza Kemal Taşkin e altri c. Turchia del 2 febbraio 2010 (ricorsi nn. 30206/04, 37038/04, 43681/04, 45376/04, 12881/05, 28697/05, 32797/05 e 45609/05, § 49).


52 – A questo proposito, preciso che la Konstitucinis Teismas (Corte costituzionale della Repubblica di Lituania) ha emanato, il 21 ottobre 1999, una decisione secondo la quale, nei passaporti dei cittadini della Repubblica di Lituania, i nomi e i cognomi debbono essere redatti nella lingua nazionale, con la motivazione che l’inserimento di caratteri stranieri potrebbe nuocere ad interessi nazionali, in quanto sarebbero messi a repentaglio non soltanto il principio costituzionale della lingua ufficiale, ma anche il buon funzionamento delle istituzioni, imprese e organizzazioni governative, comunali e altre. Successivamente, in una decisione emanata il 6 novembre 2009, interpretativa della precedente, tale giudice ha precisato che una menzione del nome nella forma originaria è ammissibile sotto la rubrica «altre iscrizioni» del suo passaporto lituano, qualora un cittadino nazionale lo desideri.


53 – Progetto di legge relativa alla grafia dei cognomi e nomi nei documenti ufficiali (Vardų ir pavardžių rašymo dokumentuose įstatymo projektas), presentato il 14 gennaio 2009 (n. XIP‑1644). Detto progetto è stato respinto dal Parlamento lituano. I lavori continuano, invece, in ordine ad un progetto di legge (n. XIP‑1668) presentato da un gruppo di parlamentari, il cui tenore è meno liberale (v. il sito Internet www.lrs.lt).


54 – Organismo intergovernativo creato nel 1950, composto da sedici Stati europei, la Commissione internazionale di stato civile (CIEC) ha in particolare come compito quello di elaborare convenzioni, dotate di forza vincolante, che tendano ad armonizzare le disposizioni in vigore negli Stati contraenti in materia di stato e di capacità delle persone, di famiglia o di nazionalità.


55 – Nel preambolo della detta convenzione si afferma che essa ha lo scopo di «garantire l’indicazione dei cognomi e dei nomi nei registri di stato civile».


56 – Sentenza 17 settembre 2002, causa C‑413/99, Baumbast e R (Racc. pag. I‑7091, punto 94).


57 – Per più ampi dettagli, v. conclusioni dell’avvocato generale Sharpston per la sentenza Sayn‑Wittgenstein, cit. (paragrafi 11 e segg. nonché la giurisprudenza ivi citata).


58 – Analogamente, la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiara che gli inconvenienti subiti a causa delle normative relative al nome debbono essere di una certa gravità o importanza perché possa configurarsi una violazione del rispetto del diritto alla vita privata (Corte eur. D.U., sentenza Stjerna c. Finlandia, cit. § 42).


59 – Paragrafo 66 e segg. delle conclusioni dell’avvocato generale Jacobs nella causa all’origine della sentenza Garcia Avello, cit..


60 – Sentenza 11 luglio 2002, causa C‑224/98, D’Hoop (Racc. pag. I‑6191, punti 28‑31): «Poiché un cittadino dell’Unione ha diritto a che gli venga riconosciuto in tutti gli Stati membri il medesimo trattamento giuridico accordato ai cittadini di tali Stati membri che si trovino nella medesima situazione, sarebbe incompatibile con il diritto alla libera circolazione che gli si potesse applicare nello Stato membro di cui è cittadino un trattamento meno favorevole di quello di cui beneficerebbe se non avesse usufruito delle facilitazioni concesse dal Trattato in materia di circolazione. Tali facilitazioni non potrebbero, infatti, dispiegare pienamente i propri effetti se un cittadino di uno Stato membro potesse essere dissuaso dal farne uso da ostacoli posti, al suo ritorno nel paese d’origine, da una normativa che penalizzasse il fatto che egli ne abbia usufruito».