CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
PAOLO MENGOZZI
presentate il 18 luglio 2013 (1)
Causa C‑285/12
Aboubacar Diakité
contro
Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides
[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d’État (Belgio)]
«Diritto di asilo – Direttiva 2004/83/CE – Norme minime sulle condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato o di beneficiario della protezione sussidiaria – Persona ammissibile alla protezione sussidiaria – Danno grave – Articolo 15, lettera c) – Nozione di “conflitto armato interno” – Interpretazione mediante riferimento al diritto internazionale umanitario – Criteri di valutazione»
1. La presente causa verte su una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d’État (Belgio), relativa all’interpretazione dell’articolo 15, lettera c), della direttiva 2004/83/CE (in prosieguo: la «direttiva qualificazioni») (2). Tale domanda è stata presentata nel contesto di un procedimento che oppone il sig. Diakité, di cittadinanza guineana, al Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (Commissario generale per i rifugiati e gli apolidi; in prosieguo: il «Commissaire général») riguardo alla decisione di quest’ultimo di non concedergli la protezione sussidiaria.
I – Ambito normativo
A – Diritto internazionale
2. L’articolo 3, comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 (3) (in prosieguo: l’«articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra»), così recita:
«Nel caso in cui un conflitto armato che non presenti carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti, ciascuna delle parti in conflitto sarà tenuta ad applicare almeno le disposizioni seguenti:
1) Le persone che non partecipano direttamente alle ostilità, compresi i membri delle forze armate che abbiano deposto le armi e le persone messe fuori combattimento da malattia, ferita, detenzione o qualsiasi altra causa, saranno trattate, in ogni circostanza, con umanità (...)
A questo scopo, sono e rimangono vietate (…) nei confronti delle persone sopra indicate:
a) le violenze contro la vita e l’integrità corporale (...)
(...)
c) gli oltraggi alla dignità personale, specialmente i trattamenti umilianti e degradanti;
d) le condanne pronunciate e le esecuzioni compiute senza previo giudizio di un tribunale regolarmente costituito (...)
(…)».
3. L’articolo 1 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati non internazionali, dell’8 giugno 1977 (in prosieguo: il «Protocollo II»), così recita:
«1. Il presente Protocollo, che sviluppa e completa l’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 senza modificarne le condizioni attuali di applicazione, si applicherà a tutti i conflitti armati che non rientrano nell’articolo 1 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali (Protocollo I), e che si svolgono sul territorio di un’Alta Parte contraente fra le sue forze armate e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati che, sotto la condotta di un comando responsabile, esercitano, su una parte del suo territorio, un controllo tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concertate, e di applicare il presente Protocollo.
2. Il presente Protocollo non si applicherà alle situazioni di tensioni interne, di disordini interni, come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza ed altri atti analoghi, che non sono considerati come conflitti armati».
B – Diritto dell’Unione
4. A tenore dell’articolo 2, lettera e), della direttiva qualificazioni, si intende per
«“persona ammissibile alla protezione sussidiaria”: cittadino di un paese terzo (…) che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese di origine [(4)] (…), correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito all’articolo 15, e al quale non si applica l’articolo 17, paragrafi 1 e 2, e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese».
5. Nel capo V, intitolato «Requisiti per poter beneficiare della protezione sussidiaria», l’articolo 15 della direttiva qualificazioni, rubricato «Danno grave», così dispone:
«Sono considerati danni gravi:
a) la condanna a morte o all’esecuzione; o
b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o
c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale» (5).
6. La direttiva qualificazioni è stata oggetto di rifusione attraverso la direttiva 2011/95/UE (6) (in prosieguo: la «nuova direttiva qualificazioni»). Quest’ultima direttiva non apporta modifiche sostanziali né all’articolo 2, lettera e) [divenuto articolo 2, lettera f)], né all’articolo 15 della direttiva qualificazioni.
C – Diritto belga
7. L’articolo 48/4 della legge del 15 dicembre 1980 sull’accesso al territorio, il soggiorno, lo stabilimento e l’allontanamento degli stranieri (7) (in prosieguo: la «legge del 15 dicembre 1980»), che traspone gli articoli 2, lettera e), e 15 della direttiva qualificazioni, così recita:
«§ 1. Lo status di protezione sussidiaria è accordato allo straniero che non possa essere considerato un rifugiato e che non possa beneficiare dell’articolo 9 ter, nei cui confronti sussistano seri motivi per ritenere che, in caso di rientro forzato nel suo paese d’origine ovvero, nel caso degli apolidi, nel paese di precedente dimora abituale, incorrerebbe nel rischio effettivo di subire un grave danno, quale definito al paragrafo 2, e che non possa ovvero, a causa di tale rischio, non intenda avvalersi della protezione di tale paese (…)
§ 2. Sono considerati danni gravi:
(…)
c) la minaccia grave alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale».
II – Controversia principale e questione pregiudiziale
8. Il 21 febbraio 2008 il sig. Diakité presentava domanda d’asilo in Belgio, richiamandosi alla repressione e agli episodi di violenza subiti nel suo paese di origine a motivo della sua partecipazione alle manifestazioni nazionali e ai movimenti di protesta contro il potere insediato. Il 25 aprile 2008 il Commissaire général adottava una prima decisione di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria. Tale decisione veniva revocata il 17 novembre 2009 e, in data 10 marzo 2010, il Commissaire général adottava una nuova decisione di diniego dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria. Tale decisione veniva confermata dal Conseil du contentieux des étrangers (Commissione belga per il contenzioso in materia di stranieri) con sentenza del 23 giugno 2010 (8), che constatava l’inattendibilità dei fatti invocati e, pertanto, l’infondatezza dei timori e l’insussistenza di un rischio effettivo di asseriti danni gravi.
9. Senza essere tornato nel frattempo nel proprio paese d’origine, in data 15 luglio 2010 il sig. Diakité presentava alle autorità belghe una seconda domanda di asilo.
10. Il 22 ottobre 2010 il Commissaire général adottava una nuova decisione di diniego del riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione sussidiaria. Il rifiuto di concedere la protezione sussidiaria, il solo a essere messo in discussione nella causa principale, era motivato con la constatazione che all’epoca non esisteva in Guinea una situazione di violenza indiscriminata o di conflitto armato ai sensi dell’articolo 48/4, paragrafo 2, della legge del 15 dicembre 1980. Tale decisione veniva impugnata dinanzi al Conseil du contentieux des étrangers, il quale confermava, con sentenza del 6 maggio 2011 (9), il duplice diniego del Commissaire général.
11. Nel suo ricorso dinanzi al Conseil d’État contro detta sentenza del 6 maggio 2011, il sig. Diakité deduce quale motivo unico la violazione dell’articolo 48/4 della legge del 15 dicembre 1980, in particolare del suo paragrafo 2, lettera c), e dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni, in combinato disposto con il suo articolo 2, lettera e).
12. Dinanzi al giudice del rinvio, il sig. Diakité critica la sentenza del Conseil du contentieux des étrangers in quanto quest’ultimo, dopo avere rilevato che né la direttiva qualificazioni né la legge belga che l’aveva trasposta contenevano una definizione del «conflitto armato», ha deciso che occorreva fare ricorso alla «definizione (…) elaborata dal Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia [(ICTY)] nella causa Tadic» (10). Egli fa valere che tale definizione è troppo restrittiva ed invoca un’interpretazione autonoma e più ampia della nozione di «conflitto armato interno».
13. Il Conseil d’État rammenta che, nella sentenza del 17 febbraio 2009, Elgafaji (11), la Corte ha sottolineato, a proposito della nozione di «violenza indiscriminata», il carattere autonomo dell’interpretazione di cui deve essere oggetto l’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni rispetto all’articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU») (12). Secondo il Conseil d’État, alla luce di tale sentenza, e sebbene la Corte non si sia pronunciata sulla nozione specifica di conflitto armato, «non si può escludere, come sostiene il [sig. Diakité], che la nozione de qua, ai sensi dell’articolo 15, lettera c), della direttiva [qualificazioni], possa essere parimenti interpretata in modo autonomo, assumendo un significato specifico rispetto a quella adottata nella giurisprudenza del[l’ICTY], in particolare nella causa Tadic».
14. In tali circostanze, il Conseil d’État ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte la seguente questione pregiudiziale:
«Se l’articolo 15, lettera c), della direttiva [qualificazioni] debba essere interpretato nel senso che assicuri una protezione unicamente in una situazione di “conflitto armato interno”, quale interpretata dal diritto internazionale umanitario [in prosieguo: il “DIU”] e in particolare con riferimento all’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra (...).
Nell’ipotesi in cui la nozione di “conflitto armato interno” di cui all’articolo 15, lettera c), della direttiva [qualificazioni] debba essere interpretata in modo autonomo rispetto all’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra (…), quali siano i criteri da applicare al fine di valutare l’esistenza di un simile “conflitto armato interno”».
III – Procedimento dinanzi alla Corte
15. Il sig. Diakité, i governi belga, tedesco e del Regno Unito nonché la Commissione europea hanno depositato osservazioni scritte. I loro rappresentanti e quello del governo francese sono stati sentiti dalla Corte all’udienza tenutasi il 29 maggio 2013.
IV – Analisi
16. La questione pregiudiziale si articola in due parti, che saranno esaminate separatamente.
A – Sulla prima parte della questione pregiudiziale
17. Con la prima parte della sua questione, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se la nozione di «conflitto armato interno» di cui all’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni costituisca una nozione autonoma di diritto dell’Unione oppure debba essere interpretata conformemente al DIU.
18. Ad eccezione del sig. Diakité e del governo del Regno Unito, che sostengono incondizionatamente un’interpretazione autonoma ed estensiva di detta nozione (13), gli altri interessati che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte hanno assunto posizioni più sfumate. Il governo francese e la Commissione, pur affermando il carattere autonomo di detta nozione, ritengono che i suoi contorni vadano precisati partendo dalla definizione fornita dal DIU, al fine, tra l’altro, di garantire l’uniformità tra i diversi sistemi di protezione a livello internazionale e dell’Unione. I governi belga e tedesco considerano invece che la principale fonte di interpretazione della nozione di cui trattasi andrebbe individuata nel DIU, precisando tuttavia che l’obiettivo di tutela della direttiva qualificazioni può, in via eccezionale, rendere necessario riconoscere l’esistenza di un «conflitto armato interno» ai sensi del suo articolo 15, lettera c), anche qualora non sussistano tutte le condizioni richieste dal DIU. Pertanto, pur partendo da premesse diverse, tali interessati pervengono in pratica a conclusioni ampiamente convergenti.
19. È giocoforza constatare che le nozioni di «conflitto armato interno», di «conflitto armato che non presenti carattere internazionale» e di «conflitto armato non internazionale» che figurano, rispettivamente, all’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni, all’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e nel Protocollo II sono quasi identiche dal punto di vista semantico. Tale semplice constatazione, tuttavia, non consente di per sé di concludere che tali nozioni debbano essere interpretate nello stesso modo.
20. A tal riguardo rammento che, per quanto riguarda l’interpretazione delle disposizioni della direttiva qualificazioni, la Corte ha già avuto occasione di mettere in guardia contro interpretazioni volte ad importare nell’ambito di detta direttiva concetti o definizioni adottati in contesti diversi, ancorché rientranti nell’ambito del diritto dell’Unione (14). Nella fattispecie, si tratterebbe di fare ricorso, per l’interpretazione di una disposizione della menzionata direttiva, ad una nozione che non solo appartiene a un settore, come si vedrà, notevolmente diverso, ma appartiene altresì ad un diverso ordinamento giuridico.
21. Nelle sue osservazioni presentate in udienza, il governo francese ha ricordato la giurisprudenza della Corte secondo cui una disposizione di diritto dell’Unione che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo senso e della sua portata deve di regola dar luogo in tutta l’Unione ad un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contenuto della disposizione e dello scopo perseguito dalla normativa di cui trattasi (15). A parere di detto governo, nel caso di specie si dovrebbe applicare il medesimo criterio.
22. Ritengo che questa tesi non possa essere accolta. Infatti, da un lato, come giustamente sottolineato dal governo tedesco, un’interpretazione conforme a quella adottata nell’ambito di una convenzione internazionale vincolante per tutti gli Stati membri risponde alla principale preoccupazione di tale giurisprudenza di assicurare un’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione. Dall’altro, anche supponendo che da detta giurisprudenza possa trarsi un principio generale valido al di fuori dei rapporti tra il diritto dell’Unione e i diritti degli Stati membri, siffatto principio sarebbe comunque inidoneo a disciplinare i rapporti tra l’ordinamento giuridico dell’Unione e l’ordinamento giuridico internazionale.
23. Ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 5, TUE, l’Unione «contribuisce (…) alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale». Come la Corte ha ripetutamente dichiarato, le competenze dell’Unione devono essere esercitate nel rispetto del diritto internazionale (16). Un atto adottato in forza di tali competenze dev’essere quindi interpretato, e la sua sfera d’applicazione circoscritta, alla luce delle norme pertinenti del diritto internazionale (17), comprese, oltre a quelle derivanti da accordi internazionali conclusi dall’Unione (18), le norme di diritto internazionale consuetudinario, che vincolano le istituzioni dell’Unione e fanno parte del suo ordinamento giuridico (19). La prevalenza di tali norme sui testi di diritto derivato dell’Unione impone di interpretare questi ultimi, per quanto possibile, in conformità delle stesse (20).
24. Pertanto, il principio dell’interpretazione conforme si impone alla Corte allorché essa esamina i rapporti tra il diritto internazionale e il diritto dell’Unione (21).
25. Se l’applicazione di tale principio non può dipendere dalla circostanza che l’atto delle istituzioni da interpretare contenga un espresso rinvio alle norme del diritto internazionale, occorre tuttavia formulare due precisazioni.
26. Da un lato, l’obbligo di interpretazione conforme è stato posto, in linea di principio, solo in relazione agli impegni internazionali vincolanti per l’Unione (22). Nella fattispecie, pur essendo pacifico che l’Unione non sia parte delle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 e dei loro protocolli aggiuntivi, la Corte internazionale di giustizia (in prosieguo: la «CIG») ha dichiarato che tali atti sono espressione di «principi inviolabili del diritto internazionale consuetudinario» (23). In quanto tali, essi vincolano le istituzioni, compresa la Corte, la quale deve garantire un’interpretazione del diritto dell’Unione conforme a tali principi.
27. Dall’altro, la messa in conformità del diritto dell’Unione con il diritto internazionale per via interpretativa può essere imposta solo quando si giustifichi un’uniformità ermeneutica tra i diversi atti in questione.
28. Tale ipotesi non ricorre, a mio avviso, nel caso di specie, considerate in particolare le differenze relative ad oggetto, finalità e strumenti esistenti tra il DIU, da un lato, ed il meccanismo della protezione sussidiaria istituito dalla direttiva qualificazioni, dall’altro, come si dimostrerà in seguito.
1. Oggetto, finalità e strumenti del DIU
29. Nel parere dal titolo «Liceità della minaccia o dell’uso delle armi nucleari», la CIG definisce il DIU come un «sistema complesso» e unitario in cui confluiscono le due branche del diritto applicabile nei conflitti armati, vale a dire il «diritto dell’Aia» (24), che codifica «le leggi e i costumi della guerra terrestre, stabilisce i diritti e gli obblighi dei belligeranti nella condotta delle operazioni e limita la scelta dei mezzi per nuocere al nemico nei conflitti armati internazionali», e il «diritto di Ginevra», in particolare le quattro Convenzioni del 12 agosto 1949 e i protocolli aggiuntivi del 1977 (25), «che tutela le vittime della guerra e mira a salvaguardare i membri delle forze armate messi fuori combattimento nonché le persone che non partecipano alle ostilità» (26).
30. Secondo l’espressione spesso impiegata per designarlo, il DIU costituisce dunque un «diritto della guerra» (ius in bello), che mira, per ragioni umanitarie, a limitare gli effetti dei conflitti armati, sia prevedendo restrizioni ai mezzi e ai metodi di guerra, sia proteggendo talune categorie di persone e di beni.
31. In tale contesto, le quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, scaturite da una revisione delle tre convenzioni firmate nel 1929, prevedono che le persone che non partecipano ai combattimenti, quali i civili, il personale medico o religioso, e quelle che hanno cessato di prendervi parte, come i combattenti feriti o malati, i naufraghi e i prigionieri di guerra, abbiano diritto al rispetto della loro vita e della loro integrità fisica e morale, godano di garanzie giurisdizionali e debbano, in qualunque circostanza, essere protette e trattate con umanità, senza distinzioni sfavorevoli. Ciascuna di tali convenzioni contiene una disposizione sulle «infrazioni gravi», la quale precisa le infrazioni alle convenzioni per le quali sussiste una competenza repressiva obbligatoria universale tra gli Stati contraenti (27).
32. I principi sanciti dalle quattro Convenzioni di Ginevra del 1949, inizialmente destinati a trovare applicazione solo in caso di conflitto internazionale, sono stati successivamente estesi alle situazioni di guerra civile.
a) L’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e l’estensione dei principi della medesima ai conflitti armati non internazionali
33. Nel 1949, su iniziativa del CICR, le tre Convenzioni di Ginevra del 1929 vigenti all’epoca furono sottoposte ad una revisione e venne firmata una quarta Convenzione, relativa alla protezione dei civili. Una delle modifiche più importanti introdotte in tale occasione fu l’estensione dell’ambito di applicazione delle quattro convenzioni ai casi di conflitti armati «che non presentano carattere internazionale» (28).
34. Alla discussione sul testo dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, che codifica tale estensione, vennero dedicate 25 sessioni della Conferenza diplomatica, che si accordò infine su un testo di compromesso. Diversamente dal progetto presentato alla XVIIa conferenza internazionale della Croce Rossa di Stoccolma, che aveva costituito il punto di partenza delle discussioni, il testo infine approvato prevedeva, in caso di conflitto armato interno, solo l’applicazione dei principi espressamente elencati nel testo dell’articolo. Poiché si applica solo ai conflitti armati interni e stabilisce l’insieme dei principi applicabili a tali conflitti, detta disposizione è stata definita una «convenzione in miniatura» (29).
35. Durante le discussioni sul menzionato articolo 3, il principale timore degli Stati partecipanti alla conferenza diplomatica era che le Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 si applicassero «a tutte le forme di insurrezione, ribellione, anarchia, disintegrazione dello Stato o semplice banditismo», il che avrebbe consentito ai responsabili di tali atti di far valere la loro qualità di belligeranti al fine di rivendicare un riconoscimento giuridico e sfuggire alle conseguenze delle loro azioni. Tale timore si rispecchiava nelle proposte avanzate durante la conferenza, che miravano a subordinare l’applicazione delle convenzioni ai conflitti interni a talune condizioni, quali il riconoscimento, da parte del governo dello Stato contraente, della qualità di belligerante della parte avversa, il fatto che essa possieda una forza militare organizzata ed un’autorità responsabile dei suoi atti, sia dotata di un’autorità civile che eserciti il potere di fatto sulla popolazione di una determinata porzione di territorio nazionale o disponga di un regime avente le caratteristiche di uno Stato e, infine, il fatto che il governo dello Stato contraente sia costretto a ricorrere all’esercito regolare per contrastare gli insorti (30).
36. Nella versione definitiva non venne inserita nessuna di tali condizioni e il testo dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra si limita a precisare che esso si applica «[n]el caso in cui un conflitto armato che non presenti carattere internazionale scoppiasse sul territorio di una delle Alte Parti contraenti». L’obiettivo di circoscrivere la portata di tale disposizione era stato perseguito limitando l’applicazione di dette convenzioni ai soli principi in essa espressamente elencati, anziché procedendo a definire le situazioni alle quali la medesima disposizione si applica.
37. La mancanza di una definizione della nozione di conflitto armato che non presenti carattere internazionale all’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra rende tale disposizione potenzialmente applicabile a qualsiasi tipo di conflitto armato interno. Per tale motivo, l’attuazione di detto articolo ha incontrato problemi nella pratica, che hanno spesso portato ad escluderne l’applicazione.
i) La definizione della nozione di conflitto armato interno nel DIU
38. Una definizione di «conflitto armato non internazionale» è stata introdotta nel sistema delle Convenzioni di Ginevra solo nel 1977, con il protocollo II, concluso al fine di sviluppare e completare l’articolo 3 comune a dette convenzioni, «senza modificarne le condizioni attuali di applicazione».
39. Come risulta dal suo articolo 1 (31), l’ambito di applicazione ratione materiae del Protocollo II è più limitato rispetto a quello dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. Tuttavia, poiché l’acquis di tale ultima disposizione è stato espressamente mantenuto, essa continua ad applicarsi ai conflitti che non presentano le caratteristiche descritte all’articolo 1 del Protocollo II e che pertanto non sono coperti dal medesimo. È il caso, ad esempio, dei conflitti tra fazioni rivali senza l’intervento di forze armate governative, che, ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del Protocollo II, non rientrano nell’ambito di applicazione ratione materiae dello stesso, dato che quest’ultimo si applica solo ai conflitti tra le forze armate governative e forze armate dissidenti o gruppi armati organizzati.
40. Anzitutto, nel Protocollo II, la nozione di «conflitto armato non internazionale» viene definita per esclusione. Ai sensi dell’articolo 1 di detto Protocollo, non costituiscono conflitti di questo tipo, da un lato, i conflitti che rientrano nell’articolo 1 del Protocollo I, che definisce i conflitti armati internazionali, e, dall’altro, le «situazioni di tensioni interne [e] di disordini interni, come le sommosse, gli atti isolati e sporadici di violenza ed altri atti analoghi» (v., rispettivamente, paragrafi 1 e 2).
41. Il medesimo articolo elenca poi, al paragrafo 1, una serie di criteri oggettivi per individuare le situazioni di conflitto armato non internazionale. Tali criteri richiedono che gli insorti dispongano, in primo luogo, di un comando responsabile, in secondo luogo, di un controllo di una parte del territorio tale da permettere loro di condurre operazioni militari prolungate e concertate nonché, in terzo luogo, della capacità di applicare il Protocollo.
42. Ai sensi sia dell’articolo 1 del Protocollo II che dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra può sussistere un conflitto armato non internazionale solo se sono soddisfatte due condizioni, vale a dire un certo grado di intensità del conflitto e un certo grado di organizzazione dei partecipanti alle ostilità (32). Per stabilire se queste due condizioni sussistano, generalmente viene presa in considerazione una serie di indicatori nell’ambito di una valutazione globale da effettuare caso per caso.
43. Per quanto attiene alla condizione dell’intensità, entrano in linea di conto il carattere collettivo del conflitto e i mezzi utilizzati dal governo per ristabilire l’ordine, in particolare il fatto che esso sia costretto a fare ricorso alla forza militare contro gli insorti anziché alle semplici forze di polizia (33). La durata del conflitto, la frequenza e l’intensità delle violenze, l’estensione dell’area geografica interessata, la natura delle armi utilizzate, l’importanza delle forze impiegate ed il tipo di strategia utilizzata, gli spostamenti volontari o forzati delle popolazioni civili, il controllo del territorio da parte dei gruppi armati coinvolti, la situazione di insicurezza, il numero delle vittime e l’entità dei danni costituiscono parimenti criteri che sono stati utilizzati per valutare il grado di intensità del conflitto (34). La necessità di tenere conto delle specificità di ciascuna situazione implica che tali criteri non possano essere oggetto né di un elenco esaustivo né di un’applicazione cumulativa (35).
44. Per quanto attiene alla seconda condizione, relativa al grado di organizzazione delle parti in conflitto, essa è generalmente considerata soddisfatta con riguardo alla forze armate governative. Per contro, in relazione al grado di organizzazione degli insorti, l’applicazione del Protocollo II e quella dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra sono soggette a due standard diversi. Il primo di tali strumenti richiede un livello di organizzazione particolarmente elevato e introduce una condizione relativa al controllo del territorio (36), mentre, ai fini dell’applicazione del secondo, è sufficiente che le parti in conflitto dispongano di una «determinata struttura di comando» (37) e che siano in grado di condurre operazioni militari prolungate (38).
45. Oltre alle due condizioni sopra citate, nella definizione di «conflitto armato non internazionale» fornita dall’ICTY figura una terza condizione, di natura temporale. Nella citata sentenza Tadic, sulla quale si è basato il Conseil du contentieux des étrangers nel procedimento principale, l’ICTY ha considerato che «esiste un conflitto armato ogniqualvolta venga fatto ricorso alle forze armate fra Stati o vi sia un conflitto armato prolungato tra le autorità governative e gruppi armati organizzati o tra tali gruppi all’interno di uno Stato» (39). Questa medesima condizione figura all’articolo 8, paragrafo 2, lettera f), dello Statuto della Corte penale internazionale (CPI) (40). Tale disposizione, che si ispira alla giurisprudenza dell’ICTY, precisa che, ai fini dell’applicazione dell’articolo 8, paragrafo 2, lettera e) (41), del medesimo Statuto, per «conflitti armati non di carattere internazionale» devono intendersi i «conflitti armati che si verificano nel territorio di uno Stato ove si svolga un prolungato conflitto armato tra le forze armate governative di detto Stato e gruppi armati organizzati, o tra tali gruppi» (42).
46. Si deve sottolineare che il ricorso a tale criterio di durata è stato previsto in un contesto ben preciso, ossia per definire le violazioni del DIU che rientrano nella competenza giurisdizionale della CPI e degli altri tribunali penali internazionali, e che, anche in tale contesto, detto criterio sembra pertinente, quanto meno nell’ambito dello statuto della CPI, solo al fine di sanzionare penalmente le violazioni diverse da quelle di cui all’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra (43).
47. Ciò premesso, un riferimento alla durata del conflitto figura anche nella presa di posizione adottata dal CICR nel 2008 al fine di illustrare il «parere giuridico prevalente» sulla definizione di conflitto armato non internazionale nel diritto umanitario (44). Tale conflitto viene ivi definito come «un conflitto prolungato tra forze armate governative e forze di uno o più gruppi armati, o tra tali gruppi armati, che si verifica sul territorio di uno Stato (…) Tale conflitto armato deve raggiungere un livello minimo di intensità e le parti coinvolte devono presentare un minimo di organizzazione».
48. Come si è già rilevato, le condizioni alle quali è subordinata l’esistenza di un conflitto armato non internazionale non sussistono nelle situazioni di «disordini interni» e di «tensioni interne». Queste due nozioni figurano all’articolo 1, paragrafo 2, del Protocollo II, che non ne fornisce una definizione. Il loro contenuto è stato descritto nei documenti elaborati dal CICR ai fini della preparazione della Conferenza diplomatica del 1971 (45). I «disordini interni» sono ivi definiti come «situazioni nelle quali, senza che si possa propriamente parlare di conflitto armato non internazionale, esista tuttavia, sul piano interno, un conflitto che presenta un certo carattere di gravità o di durata ed implica atti di violenza. Questi ultimi possono assumere forme variabili, dalla nascita spontanea di atti di rivolta alla lotta tra gruppi più o meno organizzati e le autorità insediate. In tali situazioni, che non degenerano necessariamente in scontro aperto, le autorità insediate ricorrono ad ingenti forze di polizia, o alle forze armate, per ristabilire l’ordine interno. Il numero elevato di vittime ha reso necessaria l’applicazione di un minimo di regole umanitarie». Quanto alle «tensioni interne», esse consistono in «situazioni di grave tensione (politica, religiosa, razziale, sociale, economica, ecc.) o in strascichi di un confitto armato o di disordini interni. Siffatte situazioni presentano l’una o l’altra delle seguenti caratteristiche, o tutte contemporaneamente: arresti di massa, un numero elevato di detenuti «politici», la probabile esistenza di cattivi trattamenti o di condizioni di detenzione inumane, la sospensione delle garanzie giurisdizionali fondamentali a motivo della dichiarazione di uno stato di emergenza o di una situazione di fatto e la presunta scomparsa di persone».
49. Le nozioni di «disordini interni» e di «tensioni interne» delimitano la soglia minima della nozione di conflitto armato non internazionale ai fini dell’applicazione sia del Protocollo II che dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra (46). Attualmente, dette situazioni non rientrano nell’ambito di applicazione del DIU.
ii) La funzione della nozione di conflitto armato non internazionale nel DIU
50. Da quanto sopra esposto emerge che la nozione di conflitto armato non internazionale ha varie funzioni nell’ambito del DIU e che la definizione che ne è stata data in tale contesto risponde agli obiettivi specifici di tale branca del diritto internazionale e del diritto penale internazionale.
51. Essa ha anzitutto la funzione di individuare una categoria di conflitti ai quali si applica il DIU. Nell’ambito di tale funzione di delimitazione dell’ambito di applicazione del DIU, la definizione della nozione di conflitto armato non internazionale persegue l’obiettivo fondamentale di garantire che la protezione delle vittime di tali conflitti non dipenda da una decisione arbitraria delle autorità interessate. Pertanto, essa comporta la fissazione di un certo numero di criteri sostanziali oggettivi la cui funzione consiste principalmente nell’eliminare, per quanto possibile, qualsiasi margine di valutazione soggettiva e nel rafforzare la prevedibilità del DIU. I criteri di carattere organizzativo perseguono, inoltre, lo scopo di individuare le situazioni nelle quali sia concretamente possibile l’applicazione delle norme del DIU, in quanto le parti in conflitto dispongono di un’infrastruttura minima che consente loro di garantirne il rispetto.
52. Oltre a delimitare l’ambito di applicazione del DIU, la nozione di cui trattasi serve anche a determinare il regime giuridico applicabile al conflitto. Come si è già rilevato, detto regime varia non solo a seconda che il conflitto abbia una dimensione internazionale o interna (47), ma anche a seconda che quest’ultimo rientri nella definizione più restrittiva imposta dal Protocollo II o in quella più estesa di cui all’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra. Al di fuori di un nucleo comune, relativo alle condizioni minime di intensità e di organizzazione delle parti in confitto, non sembra che esista una nozione unitaria di «conflitto armato non internazionale» nel DIU, in quanto i criteri che ne precisano il contenuto variano in funzione dello strumento da applicare.
53. Infine, come si è già osservato, a determinate condizioni, gli atti commessi in violazione del DIU durante un conflitto armato interno costituiscono «crimini di guerra», che possono essere perseguiti in forza del diritto penale internazionale (48). La responsabilità penale che può derivare dalla commissione di tali atti impone di precisare in modo sufficientemente circostanziato il contenuto delle nozioni che concorrono a definire l’incriminazione. I criteri relativi all’organizzazione utilizzati nel DIU per definire la nozione di conflitto armato non internazionale rivestono particolare importanza in tale contesto, nel quale occorre accertare la responsabilità penale delle persone poste ai vari livelli della catena gerarchica del gruppo interessato.
54. Ricordo infine, più in generale, che il processo di elaborazione della nozione di conflitto armato non internazionale nel DIU procede per fasi, le quali rispecchiano lo stato di applicazione e di sviluppo di tale branca del diritto internazionale in un determinato momento. In siffatto contesto, in ciascuna fase, l’esigenza prevalente è pervenire ad un accordo al fine di garantire l’efficacia del sistema, il che conduce inevitabilmente, come dimostrano i lavori preparatori delle conferenze diplomatiche che hanno portato all’adozione dell’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra e del Protocollo II, a soluzioni di compromesso.
55. Per concludere, la definizione della nozione di conflitto armato non internazionale nel DIU risponde ad obiettivi specifici propri di tale branca del diritto internazionale e, come si vedrà in prosieguo, estranei al regime di protezione sussidiaria di diritto dell’Unione.
2. Oggetto, finalità e strumenti della protezione sussidiaria
56. La direttiva qualificazioni costituisce la prima fase del processo di armonizzazione della politica dell’Unione nel settore dell’asilo. Tale processo deve condurre alla creazione di un regime europeo comune in materia di asilo in quanto «elemento fondamentale dell’obiettivo dell’Unione europea volto a realizzare gradualmente uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, chiedono legittimamente una protezione [nell’Unione]» (considerando 1 della direttiva qualificazioni) (49).
57. Lo scopo principale di tale prima fase era, in particolare, «assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale» (50), riducendo le disparità tra le legislazioni e le prassi degli Stati membri in questo settore (51).
58. Il punto 14 delle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere, del 15 e 16 ottobre 1999, che la direttiva qualificazioni è diretta ad attuare, raccomandava, tra l’altro, l’adozione di «misure che prevedano forme complementari di protezione», che avrebbero dovuto completare le norme relative allo status di rifugiato, offrendo uno «status adeguato» alle persone che, pur senza soddisfare le condizioni per essere considerate rifugiati, necessitino nondimeno di protezione internazionale.
59. Conformemente a tali conclusioni, la direttiva qualificazioni sottolinea che le misure a titolo di protezione sussidiaria devono essere considerate complementari al regime di protezione istituito dalla Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 relativa allo status dei rifugiati (52), come integrata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967 (53).
60. Più precisamente, nel sistema della direttiva qualificazioni, lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria sono considerati due componenti distinte ma strettamente connesse della nozione di protezione internazionale (54). Siffatto approccio integrato consente di interpretare le disposizioni di detta direttiva, completate dal regime istituito dalla direttiva 2001/55/CE (55), che prevede una protezione temporanea in caso di afflusso massiccio di sfollati (in prosieguo: la «direttiva sulla protezione temporanea»), come un sistema normativo tendenzialmente completo, idoneo a coprire tutte le situazioni in cui un cittadino di un paese terzo o un apolide, che non possa ottenere una protezione da parte del suo paese d’origine, invochi la protezione internazionale sul territorio dell’Unione.
61. Depone peraltro in tal senso il testo dell’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, che ha sostituito l’articolo 63, punto 1, CE e costituisce il fondamento normativo della nuova direttiva qualificazioni. Ai sensi del paragrafo 1 di detto articolo, «[l]’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento».
62. Nell’ambito di tale sistema normativo, il meccanismo della protezione sussidiaria mira, ai sensi dell’articolo 2, lettera e), della direttiva qualificazioni, a concedere protezione internazionale a qualsiasi persona che non possa avvalersi dello status di rifugiato ma che, qualora fosse rimpatriata, correrebbe un rischio effettivo di subire una violazione dei suoi più fondamentali diritti (56).
63. Dai lavori preparatori della direttiva qualificazioni emerge che la nozione di protezione sussidiaria è basata principalmente sugli strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo più pertinenti in materia, e in particolare sull’articolo 3 della CEDU, sull’articolo 3 della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1984, nonché sull’articolo 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite (57). La scelta delle categorie di beneficiari di tale protezione si ispira, dal canto suo, oltre che alla CEDU e alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto «cornice giuridica vincolante», ai regimi di protezione «sussidiaria» o «complementare» elaborati dagli Stati membri (58).
64. Dai lavori preparatori della direttiva qualificazioni risulta inoltre che vi è sempre stata l’intenzione di includere tra le categorie di beneficiari del regime di protezione sussidiaria le persone che non possono tornare nel loro paese d’origine a causa della situazione di violenza generalizzata e di insicurezza che vi regna.
65. Tale inclusione, da un lato, mirava a completare il regime istituito dalla direttiva sulla protezione temporanea, assicurando accoglienza a tali persone anche al di fuori delle ipotesi di afflusso massiccio (59), e, dall’altro, rispondeva alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’espulsione verso un paese in cui esista un livello elevato di pericolo e di insicurezza e/o di violenza potrebbe essere considerata un trattamento inumano o degradante ai sensi della CEDU (60).
3. Conclusioni intermedie
66. L’esame sopra svolto consente di concludere che il DIU e il meccanismo della protezione sussidiaria previsto dalla direttiva qualificazioni, pur essendo entrambi basati su considerazioni umanitarie, hanno scopi e perseguono obiettivi diversi.
67. Mentre il DIU mira principalmente a ridurre l’impatto dei conflitti armati sulle popolazioni interessate, la protezione sussidiaria riguarda le persone che hanno abbandonato i luoghi in cui si svolge il conflitto – a causa di quest’ultimo o per altri motivi (61) − e non possono tornarvi in ragione della situazione di violenza generalizzata che vi regna.
68. Il DIU riguarda essenzialmente lo Stato o gli Stati direttamente coinvolti nel conflitto, mentre la protezione sussidiaria è una forma di «protezione sostitutiva», concessa da un paese terzo rispetto al conflitto qualora il richiedente non abbia alcuna possibilità effettiva di ottenere protezione nel suo paese d’origine.
69. Il DIU opera a due livelli, vale a dire regolamentando la condotta delle ostilità e imponendo alle parti belligeranti il rispetto di un determinato codice di condotta nei confronti delle vittime del conflitto. Si tratta di un diritto di guerra che, in quanto tale, tiene conto, oltre che del bisogno di protezione delle vittime del conflitto, delle esigenze di carattere militare delle parti contrapposte. La protezione sussidiaria, dal canto suo, è anzitutto una protezione basata sul principio di non respingimento, il cui fattore decisivo è l’effettivo bisogno di protezione internazionale del richiedente.
70. Infine, le violazioni del DIU sono sanzionate penalmente a livello internazionale e danno luogo ad una responsabilità penale individuale. Pertanto, il DIU presenta collegamenti molto stretti con il diritto penale internazionale, e queste due branche del diritto internazionale si influenzano reciprocamente. Siffatta relazione è invece estranea al meccanismo della protezione sussidiaria.
71. Considerate tali differenze, non si giustifica un’uniformità ermeneutica tra la nozione di «conflitto armato interno» ai sensi dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni e quella di «conflitto armato non internazionale» ai sensi del DIU. Ne consegue che dall’articolazione tra ordinamento giuridico dell’Unione e ordinamento giuridico internazionale non può desumersi un obbligo di interpretare la prima nozione in modo da garantirne la conformità alla seconda.
72. Siffatto obbligo non deriva nemmeno da un rinvio al DIU che sarebbe contenuto nella direttiva qualificazioni.
4. Assenza di rinvio al DIU nella direttiva qualificazioni
73. Conformemente agli obiettivi da essa perseguiti, la direttiva qualificazioni contiene vari rinvii agli strumenti di diritto internazionale dei quali gli Stati membri sono parti e che definiscono i loro obblighi nei confronti dei richiedenti protezione internazionale. Come la Corte ha sottolineato a più riprese, tali rinvii forniscono indicazioni circa il modo in cui devono essere interpretate le disposizioni di tale direttiva (62).
74. Oltre alla Convenzione di Ginevra del 1951 e al Protocollo del 1967, definiti nel considerando 3 della direttiva qualificazioni come «la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati», la medesima direttiva menziona in generale gli obblighi degli Stati membri ai sensi degli «strumenti di diritto internazionale (…) che vietano le discriminazioni» (considerando 11) e degli «atti internazionali in materia di diritti dell’uomo» (considerando 25) nonché i loro obblighi in materia di non respingimento (considerando 36 e articolo 21, paragrafo 1). Il considerando 22 contiene inoltre un richiamo al preambolo e agli articoli 1 e 2 della Carta delle Nazioni Unite nonché alle risoluzioni delle Nazioni Unite relative alle misure di lotta al terrorismo internazionale.
75. Per contro, detta direttiva non contiene alcun rinvio esplicito al DIU. Né i suoi considerando né alcuno dei suoi articoli menzionano strumenti rientranti nell’ambito di tale branca del diritto internazionale (63).
76. Se è vero che, nell’esposizione dei motivi della sua proposta di direttiva, la Commissione aveva fatto riferimento agli obblighi incombenti agli Stati membri in forza del DIU in quanto posti all’origine dei regimi di protezione «sussidiaria» o «complementare» adottati a livello nazionale, tale riferimento – peraltro indiretto e molto generico – in definitiva non è stato mantenuto (64). Analogamente, non è stata accolta una proposta della presidenza del Consiglio dell’Unione europea diretta ad inserire nell’articolo 15, lettera c), un rinvio alla Convenzione di Ginevra del 12 agosto 1949 relativa alla protezione delle persone civili in tempo di guerra nonché, su parere del servizio giuridico del Consiglio, ai suoi allegati e protocolli.
77. Ne consegue che non si può trarre alcuna indicazione dalla direttiva qualificazioni a favore di un allineamento della nozione di «conflitto armato interno» ai sensi del suo articolo 15, lettera c), a quella di «conflitto armato non internazionale» del DIU. Per contro, l’assenza di qualsiasi rinvio esplicito al DIU nel testo di tale direttiva nonché il processo di adozione della medesima forniscono elementi che depongono contro un’interpretazione di detta disposizione rigidamente conforme al DIU.
5. Conclusione sulla prima parte della questione pregiudiziale
78. Il complesso delle suesposte considerazioni mi induce a concludere che la nozione di «conflitto interno» ai sensi dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni deve essere interpretato in modo autonomo rispetto alla corrispondente nozione del DIU.
79. Nella citata sentenza Elgafaji la Corte ha già avuto occasione di affermare l’autonomia dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni rispetto all’articolo 3 della CEDU. A tal fine, essa si è basata sulla differenza di contenuto tra queste due disposizioni nonché su argomenti di ordine sistematico.
80. Nella presente causa, propongo alla Corte di confermare tale autonomia anche rispetto al DIU, in particolare rispetto all’articolo 3 comune alle Convenzioni di Ginevra, sulla base della diversità dei settori cui appartengono le disposizioni della direttiva qualificazioni e quelle del DIU.
B – Sulla seconda parte della questione pregiudiziale
81. Con la seconda parte della sua questione, il giudice del rinvio chiede alla Corte, per il caso in cui essa rispondesse alla prima parte di detta questione che la nozione di «conflitto armato interno» di cui all’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni deve essere interpretata in modo autonomo rispetto al DIU, quali siano i criteri da applicare al fine di valutare l’esistenza di un simile conflitto armato interno.
82. Le riflessioni fin qui svolte consentono di elaborare un certo numero di elementi utili per rispondere a tale parte della questione.
83. In primo luogo, le norme dell’Unione in materia di protezione internazionale, comprese le disposizioni della direttiva qualificazioni relative alla protezione sussidiaria, rientrano nel sistema di protezione dei diritti fondamentali dell’Unione. Esse sono calcate sui principali strumenti internazionali relativi ai diritti dell’uomo elaborati a livello sia europeo che mondiale e devono essere interpretate ed applicate tenendo conto dei valori ai quali tali strumenti si ispirano.
84. In secondo luogo, tali norme costituiscono un sistema tendenzialmente completo, il cui scopo consiste nello stabilire uno «spazio comune di protezione e solidarietà» (65) per tutti coloro che chiedano legittimamente una protezione internazionale nel territorio dell’Unione. Esse devono essere interpretate ed applicate in modo da garantire la flessibilità di tale sistema.
85. In terzo luogo, lo scopo del meccanismo di protezione sussidiaria è offrire uno status adeguato a tutti i cittadini di un paese terzo che, senza ottenere l’asilo europeo, necessitino di una protezione internazionale. Il bisogno di protezione del richiedente costituisce, pertanto, il principale criterio che deve guidare le autorità nazionali competenti adite con una domanda di riconoscimento dello status di protezione sussidiaria o i giudici di uno Stato membro ai quali venga sottoposta una decisione di rigetto di una simile domanda.
86. Per accertare l’esistenza di un bisogno di protezione connesso al rischio di subire i danni definiti all’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni, che il richiedente il riconoscimento della protezione sussidiaria correrebbe qualora fosse rinviato nel suo paese d’origine, le autorità e i giudici nazionali competenti devono tenere conto, conformemente alle regole stabilite dall’articolo 4, paragrafo 3, di tale direttiva, di tutte le circostanze pertinenti che caratterizzano sia la situazione del paese d’origine del richiedente al momento di statuire sulla domanda, sia la situazione personale di quest’ultimo.
87. Tale impostazione casistica, l’unica che consenta di valutare l’esistenza di un bisogno effettivo di protezione, osta alla fissazione di criteri che la situazione nel paese d’origine del richiedente debba necessariamente soddisfare per poter essere definita come «conflitto armato interno» ai sensi di detto articolo 15, lettera c).
88. Pertanto, al fine di rispondere utilmente alla seconda parte della questione pregiudiziale, mi limiterò a fornire alcune indicazioni generali di ordine metodologico.
89. Nel contesto dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni, le nozioni di «violenza indiscriminata» e di «conflitto armato» sono strettamente connesse, dato che la seconda serve sostanzialmente a definire il contesto della prima.
90. Inoltre, diversamente che nel DIU, in cui l’esistenza di un conflitto armato interno o internazionale determina di per sé stessa l’applicazione del regime di protezione, l’elemento decisivo per far scattare il meccanismo di protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera e), della stessa, è il rischio corso dal richiedente a causa della situazione di violenza generalizzata esistente nel suo paese d’origine.
91. Ne consegue che, nel contesto di tali disposizioni, l’esame relativo all’intensità della violenza e al rischio che ne deriva per il richiedente assume un ruolo fondamentale, mentre l’identificazione e la qualificazione dei fatti all’origine di tale violenza riveste minore importanza.
92. Pertanto, l’applicazione dell’articolo 15, lettera c), in combinato disposto con l’articolo 2, lettera e), della direttiva qualificazioni non può essere esclusa a priori per il solo motivo che la situazione nel paese d’origine del richiedente non soddisfa tutti i criteri utilizzati nel DIU o nello Stato membro interessato per definire la nozione di conflitto armato interno. Non si possono quindi considerare automaticamente escluse dall’ambito di applicazione di tali disposizioni le situazioni nelle quali, ad esempio, la violenza armata venga esercitata unilateralmente, le parti belligeranti non dispongano del grado di organizzazione richiesto dal DIU o non abbiano il controllo del territorio, le forze governative non intervengano nel conflitto, non vi sia un «conflitto prolungato» ai sensi del DIU, il conflitto si trovi nella fase finale o, ancora, la situazione rientri, secondo il DIU, nelle nozioni di «disordini interni» o «tensioni interne» (66).
93. Tutte le suddette situazioni possono essere coperte dall’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni qualora il grado di violenza indiscriminata nel paese terzo interessato al momento di statuire sulla domanda di protezione sussidiaria raggiunga un livello tale che sussista un rischio effettivo per la vita o la persona del richiedente in caso di rimpatrio. Tale valutazione deve essere effettuata tenendo conto della precisazione fornita dalla Corte al punto 39 della citata sentenza Elgafaji, vale a dire che «tanto più il richiedente è eventualmente in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinché egli possa beneficiare della protezione sussidiaria».
94. L’interpretazione proposta riflette l’impostazione che sembra potersi trarre dalla citata sentenza Elgafaji, in cui la Corte, chiamata a chiarire la nozione di «minaccia individuale» ai sensi dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualificazioni, ha stabilito un nesso esplicito e diretto tra il rischio corso dal richiedente protezione sussidiaria di subire i danni definiti da tale disposizione, da una parte, e il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, dall’altra (67). La medesima linea interpretativa viene seguita dalle autorità e dai giudici competenti di alcuni Stati membri – in particolare i Paesi Bassi e il Regno Unito, che hanno modificato la loro prassi anteriore a seguito della menzionata sentenza Elgafaji (68) − e sembra essere stata adottata dalla Commissione nell’esposizione dei motivi della sua proposta di rifusione della direttiva qualificazioni (69).
95. Concludo osservando che la circostanza, sottolineata in udienza, che la direttiva qualificazioni persegua un obiettivo di armonizzazione minima non deve indurre la Corte a preferire un’interpretazione restrittiva delle sue disposizioni, in particolare quando occorra stabilire la portata delle nozioni utilizzate per definire l’ambito di applicazione del regime di protezione sussidiaria.
96. Tali nozioni vanno invece interpretate tenendo conto delle considerazioni umanitarie che sono all’origine di detto regime, espressione dei valori di rispetto della dignità umana e di rispetto dei diritti dell’uomo sui quali, ai sensi dell’articolo 2 TUE, l’Unione è fondata.
V – Conclusione
97. Conformemente alle suesposte osservazioni, suggerisco alla Corte di rispondere come segue alla questione pregiudiziale posta dal Conseil d’État:
L’articolo 15, lettera c), in combinato disposto con l’articolo 2, lettera e), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che:
– l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che la situazione nel suo paese d’origine o, per un apolide, nel paese in cui aveva precedentemente la dimora abituale, possa essere qualificata come conflitto armato interno ai sensi del diritto internazionale umanitario e, in particolare, dell’articolo 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, vale a dire la Convenzione (I) per il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle Forze armate in campagna; la Convenzione (II) per il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle Forze armate sul mare; la Convenzione (III) sul trattamento dei prigionieri di guerra, e la Convenzione (IV) sulla protezione delle persone civili in tempo di guerra;
– l’esistenza di siffatta minaccia deve essere valutata in funzione del grado di violenza indiscriminata che caratterizza la situazione nel paese d’origine del richiedente o, per un apolide, nel paese in cui aveva precedentemente la dimora abituale, al momento di statuire sulla domanda di protezione sussidiaria.