Language of document : ECLI:EU:C:2014:479

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

NILS WAHL

presentate il 22 maggio 2014 (1)

Causa C‑221/13

Teresa Mascellani

contro

Ministero della Giustizia

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Tribunale ordinario di Trento (Italia)]

«Politica sociale – Direttiva 97/81/CE – Accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES – Trasformazione di un contratto di lavoro a tempo parziale in un contratto di lavoro a tempo pieno contro la volontà del lavoratore»





1.        La questione sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi nella fattispecie consiste, in sostanza, nello stabilire se sia compatibile con la direttiva 97/81/CE (2) la circostanza che uno Stato membro preveda norme che consentono a un datore di lavoro di modificare unilateralmente un rapporto di lavoro, imponendo così al lavoratore di modificare il rapporto di lavoro a tempo parziale in rapporto di lavoro a tempo pieno contro la sua stessa volontà.

I –    Contesto normativo

A –          Il diritto dell’Unione

2.        La direttiva 97/81 inserisce nel diritto dell’Unione l’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (in prosieguo: l’«accordo quadro»). Lo stesso accordo quadro è rinvenibile nell’allegato alla direttiva 97/81.

3.        Come ripetuto nel considerando 5 del preambolo della direttiva 97/81, le conclusioni del Consiglio europeo di Essen hanno sottolineato la necessità di provvedimenti per promuovere l’occupazione e la parità di opportunità tra donne e uomini e hanno richiamato l’esigenza di adottare misure volte ad incrementare l’intensità occupazionale della crescita, in particolare mediante un’organizzazione più flessibile del lavoro, che risponda sia ai desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitività.

4.        Il considerando 11 del preambolo della direttiva 97/81 così dispone:

«(…) le parti firmatarie hanno inteso concludere un accordo quadro sul lavoro a tempo parziale enunciante i principi generali e le prescrizioni minime in materia di lavoro a tempo parziale; (…) esse hanno espresso la volontà di stabilire un quadro generale per l’eliminazione delle discriminazioni verso i lavoratori a tempo parziale e di contribuire allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale su basi accettabili sia ai datori di lavoro che ai lavoratori».

5.        Il secondo considerando dell’accordo quadro così dispone:

«Riconoscendo la diversità delle situazioni nei diversi Stati membri e riconoscendo che il lavoro a tempo parziale è caratteristico dell’occupazione in certi settori ed attività, il presente [accordo quadro] enuncia principi generali e prescrizioni minime relative al part-time. Esso rappresenta la volontà delle parti sociali di definire un quadro generale per l’eliminazione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e per contribuire allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale, su basi che siano accettabili sia per i datori di lavoro, sia per i lavoratori».

6.        Secondo la considerazione generale 5 dell’accordo quadro, le parti firmatarie di tale accordo attribuiscono importanza alle misure che facilitino l’accesso al tempo parziale per uomini e donne che si preparano alla pensione, che vogliono conciliare vita professionale e familiare e approfittare delle possibilità di istruzione e formazione per migliorare le loro competenze e le loro carriere, nell’interesse reciproco di datori di lavoro e lavoratori e secondo modalità che favoriscano lo sviluppo delle imprese.

7.        La clausola 1 dell’accordo quadro («Oggetto») prevede quanto segue:

«Il presente accordo quadro ha per oggetto:

a)      di assicurare la soppressione delle discriminazioni nei confronti dei lavoratori a tempo parziale e di migliorare la qualità del lavoro a tempo parziale;

b)      di facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e di contribuire all’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori».

8.        La clausola 3.2 dell’accordo quadro («Definizioni») definisce l’espressione «lavoratore a tempo pieno comparabile». Tale espressione sta ad indicare il lavoratore a tempo pieno dello stesso stabilimento, che ha lo stesso tipo di contratto o di rapporto di lavoro e un lavoro/occupazione identico o simile, tenendo conto di altre considerazioni che possono includere l’anzianità e le qualifiche/competenze. La clausola 3.2 continua prevedendo che, qualora non esistesse nessun lavoratore a tempo pieno comparabile nello stesso stabilimento, il paragone dovrebbe effettuarsi con riferimento al contratto collettivo applicabile o, in assenza di contratto collettivo applicabile, conformemente alla legge, ai contratti collettivi o alle prassi nazionali.

9.        La clausola 4.1 dell’accordo quadro («Principio di non discriminazione») prevede quanto segue:

«Per quanto attiene alle condizioni di impiego, i lavoratori a tempo parziale non devono essere trattati in modo meno favorevole rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili per il solo motivo di lavorare a tempo parziale, a meno che un trattamento differente sia giustificato da ragioni obiettive».

10.      La clausola 5 dell’accordo quadro («Possibilità di lavoro a tempo parziale») prevede quanto segue:

«1.      Nel quadro della clausola 1 del presente accordo e del principio di non-discriminazione tra lavoratori a tempo parziale e lavoratori a tempo pieno:

a)      gli Stati membri, dopo aver consultato le parti sociali conformemente alla legge o alle prassi nazionali, dovrebbero identificare ed esaminare gli ostacoli di natura giuridica o amministrativa che possono limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale e, se del caso, eliminarli;

b)      le parti sociali, agendo nel quadro delle loro competenze a delle procedure previste nei contratti collettivi, dovrebbero identificare ed esaminare gli ostacoli che possono limitare le possibilità di lavoro a tempo parziale e, se del caso, eliminarli.

2.      Il rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato.

3.      Per quanto possibile, i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione:

a)      le domande di trasferimento dei lavoratori a tempo pieno ad un lavoro a tempo parziale che si renda disponibile nello stabilimento;

(…)

d)      le misure finalizzate a facilitare l’accesso al lavoro a tempo parziale a tutti i livelli dell’impresa, ivi comprese le posizioni qualificate e con responsabilità direzionali, e nei casi appropriati, le misure finalizzate a facilitare l’accesso dei lavoratori a tempo parziale alla formazione professionale per favorire carriera e mobilità professionale;

(…)».

11.      La clausola 6 dell’accordo quadro («Disposizioni per l’attuazione») fissa determinate regole. Ai sensi della clausola 6.1, gli Stati membri possono introdurre disposizioni più favorevoli rispetto a quelle previste nell’accordo quadro. Inoltre, ai sensi della clausola 6.2:

«L’attuazione delle disposizioni del presente accordo non costituisce giustificazione valida per ridurre il livello generale di protezione dei lavoratori nell’ambito coperto dal presente accordo e ciò senza pregiudizio per il diritto degli Stati membri (…) di sviluppare, tenuto conto dell’evoluzione della situazione, disposizioni legislative, normative o contrattuali differenti, e senza pregiudizio per l’applicazione della clausola 5.1 purché il principio di non-discriminazione contemplato alla clausola 4.1 sia rispettato».

B –          La normativa italiana

12.      Ai sensi dell’articolo 16 della legge 4 novembre 2010, n. 183 (3) (in prosieguo: la «legge n. 183/2010»), è possibile per talune amministrazioni pubbliche, in sede di prima applicazione delle disposizioni adottate ai sensi del decreto‑legge 25 giugno 2008, n. 112 (in prosieguo: il «decreto‑legge n. 112/2008») (4), sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, quando tali provvedimenti siano stati adottati prima dell’entrata in vigore del decreto‑legge n. 112/2008. Tale nuova valutazione deve essere effettuata entro 180 giorni dall’entrata in vigore dell’articolo 16 della legge n. 183/2010 e nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede.

13.      Il Dipartimento della Funzione Pubblica ha adottato una circolare ministeriale che prevede orientamenti ai fini dell’applicazione, tra l’altro, dell’articolo 16 della legge n. 183/2010 (5). Secondo la circolare, tale previsione è giustificata dai limiti di bilancio più rigorosi applicabili nel contesto della crisi finanziaria mondiale. La circolare stabilisce inoltre che il potere unilaterale dei datori di lavoro pubblici di ordinare a un dipendente di tornare al lavoro a tempo pieno dev’essere considerato eccezionale e dev’esser esercitato nei limiti indicati nel precedente paragrafo 12.

14.      L’interpretazione dell’articolo 16 della legge n. 183/2010, come stabilita nella circolare ministeriale, è stata poi confermata dalla Corte costituzionale (6).

II – Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

15.      La sig.ra Mascellani è un funzionario del Ministero della Giustizia e presta servizio presso il giudice del rinvio. Dal 28 agosto 2000, la sig.ra Mascellani lavora a tempo parziale secondo un orario settimanale in cui il 50 % del normale orario di lavoro è distribuito su tre giorni settimanali (un «rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale»).

16.      In seguito all’entrata in vigore della legge n. 183/2010, il Ministero della Giustizia, agendo per il tramite del dirigente amministrativo del Tribunale di Trento, ha adottato la decisione n. 20384, dell’8 febbraio 2011, e la decisione n. 1882, del 21 marzo 2011 (in prosieguo: le «decisioni impugnate»). Le decisioni impugnate sottoponevano a una nuova valutazione e revocavano unilateralmente il regime di lavoro a tempo parziale della sig.ra Mascellani, conformemente all’articolo 16 della legge n. 183/2010, e le imponevano di lavorare a tempo pieno, in base a un orario di lavoro a tempo pieno distribuito su sei giorni settimanali, a decorrere dal 1° aprile 2011.

17.      Opponendosi a tale trasformazione del suo contratto di lavoro, la sig.ra Mascellani ha proposto ricorso dinanzi alla Sezione del Lavoro del giudice del rinvio, chiedendo l’annullamento delle decisioni impugnate e la dichiarazione che il suo rapporto di lavoro a tempo parziale non poteva essere trasformato in un rapporto di lavoro a tempo pieno contro la sua volontà. La sig.ra Mascellani sostiene che la trasformazione è illegittima ai sensi della direttiva 97/81.

18.      Secondo la sig.ra Mascellani, il lavoro a tempo parziale le ha consentito di dedicare il suo tempo sia alla cura della famiglia sia alla formazione professionale. Ella si è iscritta all’albo degli avvocati di Trento, si è diplomata a una scuola di specializzazione per le professioni legali, e si è anche iscritta all’Università di Padova per frequentare un corso di laurea triennale per formatori sul posto di lavoro. Il lavoro a tempo parziale ha anche consentito alla sig.ra Mascellani di prestare assistenza all’unico genitore superstite – ora ultranovantenne – che vive con lei e non ha altri parenti nelle vicinanze.

19.      Il Ministero della Giustizia si oppone al ricorso proposto dalla sig.ra Mascellani. Esso sostiene che, ai sensi dell’articolo 16 della legge n. 183/2010, il ministero può far cessare un rapporto di lavoro a tempo parziale e imporre l’orario di lavoro a tempo pieno, anche contro la volontà del dipendente. Secondo il ministero, la direttiva 97/81 non osta a tale disposizione.

20.      Nutrendo dubbi quanto all’interpretazione della direttiva 97/81, il giudice del rinvio ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.      Se, nei limiti in cui dispone che “[i]l rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento, senza pregiudizio per la possibilità di procedere, conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, a licenziamenti per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato”, la clausola 5.2 dell’[accordo quadro] debba essere interpretata nel senso che non è permesso alle legislazioni nazionali degli Stati membri di prevedere la possibilità – per il datore di lavoro – di disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part‑time a tempo pieno, anche contro la volontà del lavoratore.

2.      Se la [direttiva 97/81] osti a che una norma nazionale (quale l’articolo 16 della [legge n. 183/2010]) preveda la possibilità – per il datore di lavoro – di disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part‑time a tempo pieno, anche contro la volontà del lavoratore».

21.      Hanno presentato osservazioni scritte i governi italiano e ceco nonché la Commissione. All’udienza del 20 marzo 2014, sono intervenuti la sig.ra Mascellani, il governo italiano e la Commissione.

III – Osservazioni presentate alla Corte

22.      Secondo la sig.ra Mascellani, la clausola 5.2 dell’accordo quadro dovrebbe essere interpretata nel senso che essa vieta a un datore di lavoro – del settore privato o del settore pubblico – di modificare il rapporto di lavoro senza il consenso espresso del lavoratore. Poiché l’accordo quadro è inteso a impedire la discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, questa sarebbe l’unica interpretazione corretta della clausola in parola.

23.      Il governo italiano pone l’accento sulla natura transitoria dell’articolo 16 della legge n. 183/2010. Tale governo osserva che, secondo il regime precedentemente applicabile al settore pubblico (7), i lavoratori avevano un diritto quasi illimitato di ottenere la riduzione dell’orario di lavoro. L’attuale regime, previsto dal decreto‑legge n. 112/2008, intende invece trovare un giusto equilibrio tra i diritti del datore di lavoro, da un lato, e i diritti del lavoratore, dall’altro. Il datore di lavoro del settore pubblico può ora respingere una richiesta di riduzione dell’orario quando l’accoglimento di tale richiesta possa compromettere, tra l’altro, il funzionamento dell’ente pubblico. Di conseguenza, l’articolo 16 della legge n. 183/2010 ha disciplinato la fase di transizione dal precedente regime a quello attualmente in vigore. Lo scopo dell’articolo 16 della legge n. 183/2010 è di ponderare gli interessi contrapposti dei datori di lavoro e dei lavoratori del settore pubblico. Un ulteriore scopo è quello di porre i lavoratori che avevano presentato una richiesta di lavoro a tempo parziale in base al precedente regime su un piano di parità rispetto ai lavoratori che hanno presentato una richiesta analoga in base all’attuale regime.

24.      Secondo il governo italiano, la clausola 5.2 dell’accordo quadro non può essere interpretata nel senso che essa prescrive che la trasformazione da un lavoro a tempo parziale a un lavoro a tempo pieno debba essere necessariamente consensuale. Tale disposizione mira solo a limitare la possibilità di licenziamento quando il lavoratore non accetta siffatta trasformazione, ma non vieta misure meno invasive da parte del datore di lavoro. Inoltre, tale disposizione è formulata in termini non vincolanti e quindi non attribuisce al lavoratore un diritto che può essere fatto valere in giudizio.

25.      Il governo italiano sostiene inoltre che la direttiva 97/81 non può essere interpretata nel senso che essa prescrive, in generale, che si debba ottenere il consenso del lavoratore per la modifica dell’orario di lavoro. Non richiedere il consenso non equivale a una discriminazione tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori a tempo parziale ai sensi della clausola 4 dell’accordo quadro, né costituisce un limite alla possibilità di lavorare a tempo parziale. In realtà, il governo italiano ritiene che, ai sensi della clausola 1, lettera b), dell’accordo, sia solo la transizione dal lavoro a tempo pieno al lavoro a tempo parziale a dover essere adottata su base volontaria, in quanto tale transizione comporta un danno economico per il lavoratore.

26.      Ad avviso del governo ceco, il rapporto di lavoro che sia stato in precedenza a tempo parziale non può essere modificato unilateralmente dal datore di lavoro contro la volontà del lavoratore. Ciò ostacolerebbe lo sviluppo del lavoro a tempo parziale senza tener conto della volontà del lavoratore, in contrasto con lo scopo dell’accordo quadro di cui alla clausola 1, lettera b), dello stesso e come specificato nella sua quinta considerazione generale. Il governo ceco ritiene inoltre che, contrariamente all’altro scopo di tale accordo, quale previsto nella sua clausola 1, lettera a), siffatta possibilità dia luogo a un’ingiustificata discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo parziale, in quanto i lavoratori a tempo pieno non si trovano di fronte al medesimo rischio. Più in generale, tale governo fa riferimento al principio dell’autonomia contrattuale e al divieto di lavoro forzato sancito all’articolo 5, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (8), e sostiene che i datori di lavoro del settore pubblico non dovrebbero godere di maggiori diritti rispetto agli altri.

27.      La Commissione, che propone di fornire una risposta congiunta alle due questioni, osserva che la clausola 5.2 e la clausola 5.3, lettera a), dell’accordo quadro sono formulate in termini generali. Essa prosegue affermando che l’accordo quadro non conferisce ai lavoratori il diritto di rimanere soggetti al regime di lavoro a tempo parziale. In particolare, la clausola 5.2 non esclude la possibilità di licenziare un lavoratore che rifiuti la trasformazione in un rapporto di lavoro a tempo pieno quando ciò sia richiesto da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato. Ciò è confermato dallo scopo dell’accordo quadro, che – come stabilito nella clausola 1, lettera b) – è quello di contribuire all’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni dei datori di lavoro e dei lavoratori.

28.      La Commissione sostiene tuttavia che dalla clausola 1, lettera b), dell’accordo quadro, letto in combinato disposto con la clausola 5.2 del medesimo accordo, risulta che il datore di lavoro è tenuto a consultare il lavoratore e a prendere in considerazione le sue esigenze, a valutare altre possibilità, nonché a concedere al lavoratore un periodo di tempo per adeguarsi al nuovo regime. Il licenziamento può essere contemplato solo quando esso sia necessario al fine di soddisfare le necessità di funzionamento dello stabilimento considerato. Secondo la Commissione, non prevedendo che il licenziamento debba essere la conseguenza automatica di un rifiuto e assoggettando la trasformazione del rapporto di lavoro ai principi di correttezza e buona fede, la normativa italiana risponde ai requisiti fissati dall’accordo quadro.

29.      Infine, facendo riferimento ai considerando 5 e 11 del preambolo della direttiva 97/81, al preambolo dell’accordo quadro ad esso allegato, al paragrafo 5 delle considerazioni generali dello stesso, nonché alle sue clausole 1, 4 e 5, il giudice del rinvio considera l’articolo 16 della legge n. 183/2010 incompatibile con la direttiva 97/81. A suo avviso, l’articolo 16 della legge n. 183/2010 consente la discriminazione nei confronti dei lavoratori a tempo parziale che, diversamente dai lavoratori a tempo pieno, sono esposti al rischio che il loro orario di lavoro possa essere modificato. Inoltre, secondo il giudice del rinvio, dalla clausola 5.2 dell’accordo quadro risulta che un rapporto di lavoro a tempo parziale non può essere trasformato in un rapporto a tempo pieno (o viceversa), salvo che il lavoratore vi acconsenta. Se, ai sensi di tale clausola, il licenziamento è considerato illegale, il rifiuto del lavoratore di accettare la modifica deve essere legittimo e, di conseguenza, il consenso del lavoratore va acquisito.

IV – Analisi

A –          Riformulazione delle questioni pregiudiziali

30.      Le due questioni sollevate dal Tribunale di Trento sono chiaramente connesse. Con la prima questione, il giudice del rinvio chiede se la clausola 5.2 dell’accordo quadro osti a che un datore di lavoro trasformi unilateralmente un rapporto di lavoro a tempo parziale in un rapporto di lavoro a tempo pieno. Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede essenzialmente lo stesso chiarimento, ma senza fare riferimento ad alcuna disposizione specifica della direttiva 97/81 o dell’accordo quadro. Pertanto, la seconda questione verte effettivamente sullo stesso argomento della prima; eppure, essa risulta anche subordinata alla prima, nel caso in cui si risponda a quest’ultima in senso negativo.

31.      Concordo con la Commissione sul fatto che la Corte debba fornire una risposta congiunta a entrambe le questioni. Tuttavia, ritengo – diversamente dalla Commissione – che, a tal fine, sarebbe utile per il giudice del rinvio affrontare in termini più generali il tema della compatibilità delle norme in questione con l’accordo quadro, come avviene per il punto principale della seconda questione. Procederò in tal senso nell’ultima parte delle presenti conclusioni.

32.      Pertanto, riformulerò le questioni come segue:

«Se la direttiva 97/81 – e, in particolare, la clausola 5.2 dell’accordo quadro ad essa allegato – osti a che una norma nazionale, quale l’articolo 16 della legge n. 183/2010, preveda la possibilità – per il datore di lavoro – di disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part‑time a tempo pieno contro la volontà del lavoratore».

B –          Analisi della questione riformulata

33.      La risposta alla questione così riformulata riguarda la tutela che dev’essere opportunamente riconosciuta ai lavoratori, ai sensi della clausola 5.2 dell’accordo quadro. Svolgerò la mia valutazione osservando il tenore letterale, il contesto e lo scopo di tale disposizione.

34.      Per quanto riguarda il suo tenore letterale, osservo innanzi tutto – al pari del governo italiano e della Commissione – che la clausola 5.2 di tale accordo è stata redatta in modo tale da rendere oscuro il suo significato profondo.

35.      In primo luogo, la terminologia utilizzata nella clausola 5.2 dell’accordo quadro risulta deliberatamente vaga. Secondo tale disposizione, «[i]l rifiuto di un lavoratore di essere trasferito da un lavoro a tempo pieno ad uno a tempo parziale, o viceversa, non dovrebbe, in quanto tale, costituire motivo valido per il licenziamento» (il corsivo è mio). Da un lato, l’impressione che si ricava è che, secondo tale disposizione, siffatto rifiuto non giustifica, prima facie, il licenziamento di un lavoratore che non vuole la trasformazione del rapporto di lavoro. D’altro canto, tuttavia, l’uso dell’espressione «non dovrebbe» non indica che il consenso del lavoratore alla modifica dell’orario di lavoro sia obbligatorio.

36.      In secondo luogo, la clausola 5.2 dell’accordo quadro prevede inoltre che il rifiuto di essere trasferito da un lavoro a tempo parziale ad uno a tempo pieno può anch’esso costituire motivo valido per risolvere un contratto di lavoro «conformemente alle leggi, ai contratti collettivi e alle prassi nazionali, (…) per altre ragioni, come quelle che possono risultare da necessità di funzionamento dello stabilimento considerato» (il corsivo è mio). Inoltre, è difficile, a mio parere, quando si esamina la parte evidenziata del passaggio citato sotto il profilo dei diritti, concludere con certezza che esso concede ai lavoratori un incontestabile diritto di rifiutare la trasformazione del rapporto di lavoro. Infatti, il potere di risolvere un rapporto di lavoro a causa delle necessità di funzionamento del posto di lavoro, in continuo mutamento, sembrerebbe negare sin dall’inizio l’idea che la clausola 5.2 conceda una tutela sostanziale.

37.      Da un punto di vista sistematico, tale considerazione è confermata, in primo luogo, dal modo in cui è stata redatta la parte restante della clausola 5. La clausola 5.1, lettera a), e la clausola 5.1, lettera b), prevedono che gli Stati membri, insieme alle parti sociali, «dovrebbero identificare» gli ostacoli al lavoro part‑time e, «se del caso», eliminarli; la clausola 5.3 stabilisce che «per quanto possibile, i datori di lavoro dovrebbero prendere in considerazione» un elenco di misure diverse, alcune delle quali sono descritte in termini ancor più anodini (il corsivo è mio in tutti passaggi citati) (9).

38.      In secondo luogo, non si dovrebbe trascurare il fatto che, ai sensi dell’articolo 288 TFUE, l’accordo quadro, quale allegato alla direttiva 97/81, lascia agli Stati membri la determinazione delle modalità con le quali devono essere attuati gli obiettivi di tale atto. Secondo la clausola 6.1 dell’accordo quadro, quest’ultimo prevede soltanto un’armonizzazione minima. Inoltre, talune disposizioni della direttiva e dell’accordo quadro concedono espressamente alcuni poteri di regolamentazione agli Stati membri (10). Il fatto che così tante questioni irrisolte siano lasciate alla discrezionalità degli Stati membri conferma l’idea che la terminologia utilizzata nella clausola 5 di tale accordo non abbia natura vincolante.

39.      Quanto allo scopo, il fine onnicomprensivo della clausola 5 dell’accordo quadro è enunciato espressamente nella clausola 1, lettera b), ossia «(…) facilitare lo sviluppo del lavoro a tempo parziale su base volontaria e (…) contribuire all’organizzazione flessibile dell’orario di lavoro in modo da tener conto dei bisogni degli imprenditori e dei lavoratori». La flessibilità ivi menzionata è bipolare, in quanto comprende sia la flessibilità «dal lato della domanda», per i datori di lavoro, sia la flessibilità «dal lato dell’offerta», per i lavoratori (11), senza tuttavia propendere a favore di nessuna delle due (12).

40.      Alla luce di tali elementi, alcuni commentatori ritengono che, contrariamente alla clausola 4, la clausola 5 dell’accordo quadro (e/o alcune sue sottoclausole) sia formulata in termini vaghi di natura dichiarativa (13), mentre altri ritengono che, semplicemente, non sussista alcun diritto al lavoro part‑time (14). È pur vero che non tutti condividono la tesi secondo la quale la clausola 5 non stabilisce assolutamente alcun obbligo giuridico (15).

41.      Non sono affatto contrario alla tesi che si debba ricorrere al licenziamento solo quando esso sia necessario al fine di soddisfare le necessità di funzionamento dello stabilimento considerato. Dubito, tuttavia, che sussista un obbligo giuridico a tal fine ai sensi della clausola 5.2, rilevante per il diritto dell’Unione. Mi sembra, infatti, che la clausola 5.2 dell’accordo quadro sia troppo vaga per essere elemento di giudizio per i tribunali. A parte le osservazioni formulate prima, ai paragrafi da 34 a 39, ritengo che siffatta interpretazione sia suffragata da diversi elementi, in particolare l’iter legislativo e i fatti alla base dell’accordo quadro.

42.      Quando il Parlamento europeo stava esaminando la proposta di direttiva della Commissione, la Commissione parlamentare per l’Occupazione e gli Affari sociali ha presentato una relazione su tale proposta. Nella relazione tale Commissione ha affermato che la clausola 5 dell’accordo quadro «non è vincolante» per nessuno dei punti cui viene fatto riferimento (16). La risoluzione parlamentare sulla proposta della Commissione, adottata dopo tale relazione, ha confermato le critiche in essa espresse (17). Tuttavia, il contenuto dell’accordo quadro non è stato modificato come proposto.

43.      Inoltre, la clausola 5 dell’accordo quadro risulta ispirata agli articoli 9 e 10 della Convenzione n. 175 dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) sul lavoro a tempo parziale (in prosieguo: la «convenzione OIL») (18). Infatti, la normativa dell’Unione ha riconosciuto che le misure adottate dovranno tenere conto dei principi della convenzione OIL (19). E ancora, la raccomandazione adottata per integrare la convenzione OIL (20) – che, secondo il suo punto 1, dovrebbe essere considerata in combinato disposto con le disposizioni della convenzione – contiene, ai punti da 17 a 19, disposizioni quasi simili a quelle dell’accordo quadro.

44.      A tal proposito, è stato sostenuto – in modo convincente, a mio avviso – che il livello generale di tutela riconosciuto ai lavoratori a tempo parziale ai sensi della direttiva 97/81 è inferiore a quello garantito dalla convenzione OIL e dalla raccomandazione che lo accompagna (21). Se ciò è vero, ritengo ancor più difficile immaginare come la clausola 5.2 dell’accordo quadro possa consentire a un lavoratore, che abbia lavorato in precedenza a tempo parziale, di rifiutare il trasferimento a un lavoro a tempo pieno, quando neppure il testo di una disposizione corrispondente, contenuta nell’atto di diritto internazionale che aveva proposto l’accordo quadro, prevede espressamente un siffatto diritto.

45.      Ciò detto, sono consapevole del fatto che la Corte, nella sentenza Michaeler e a., ha ritenuto che la clausola 5.1, lettera a), dell’accordo quadro osti a norme nazionali che prescrivono, pena l’irrogazione di un’ammenda, l’invio alle autorità di copie di contratti di lavoro a tempo parziale entro 30 giorni dalla loro firma (22). La Corte ha così implicitamente riconosciuto che una clausola di tal genere ha un contenuto essenziale che la normativa nazionale deve rispettare (23). Tuttavia, sebbene si possa concordare sul fatto che le norme burocratiche in questione in tale causa rendevano molto più difficile lavorare a tempo parziale, devo ammettere di non comprendere appieno come il termine «dovrebbero», contenuto nella clausola 5.1, lettera a), dell’accordo quadro – anche se inteso in senso contrario allo scopo della direttiva 97/81 – possa essere interpretato nel senso di far sorgere un obbligo giuridicamente vincolante (24). La sentenza Michaeler e a. non riguardava, in ogni caso, la clausola 5.2 dell’accordo quadro. Inoltre, essa non costituisce un precedente adeguato alla causa in esame in quanto il procedimento principale, in questo caso, non riguarda l’imposizione di «obblighi amministrativi, finanziari e giuridici tali da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese» (25). Per contro, qualora la Corte si attenesse, nella fattispecie, all’iter logico seguito nella sentenza Michaeler e a. richiedendo il consenso formale del lavoratore alla modifica del rapporto di lavoro, sorgerebbero proprio tali obblighi.

46.      Ciò premesso, concludo che la clausola 5.2 dell’accordo quadro non osta a che una norma nazionale preveda la possibilità – per il datore di lavoro – di disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part‑time a tempo pieno, contro la volontà del lavoratore.

47.      Resta da stabilire se tale conclusione sia in qualche modo inficiata da altre disposizioni della direttiva 97/81.

C –          Ulteriori considerazioni

48.      Innanzi tutto, occorre sottolineare che la clausola 5.2 dell’accordo quadro è l’unica disposizione della direttiva 97/81 che affronta specificamente la questione sollevata dal giudice del rinvio, ossia le conseguenze di un rifiuto di trasferimento da un lavoro a tempo parziale a un lavoro a tempo pieno. Sottolineo quindi che, in virtù del principio lex specialis derogat legi generali, la questione sulla quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi dovrebbe essere risolta solo in base a tale clausola, e che non sono necessari ulteriori approfondimenti. Tuttavia, qualora la Corte ritenesse utile procedere in tal senso, fornirò i seguenti pareri.

49.      A mio avviso, la circostanza che solo i lavoratori a tempo parziale siano esposti al rischio di dover passare al lavoro a tempo pieno non dà luogo ad alcuna discriminazione vietata dalla clausola 4 dell’accordo quadro. Infatti, le norme in questione non comportano un trattamento meno favorevole dei lavoratori a tempo parziale, quanto alle condizioni di lavoro, rispetto ai lavoratori a tempo pieno.

50.      L’elemento di comparazione rilevante, qui in discussione, non è costituito dalla retribuzione, dalle pensioni o da altre condizioni di lavoro «tipiche», determinate in base al criterio dell’impiego (ossia il rapporto di lavoro sussistente fra un lavoratore e il suo datore di lavoro) (26). Per contro, l’elemento di comparazione sul quale il giudice del rinvio chiede alla Corte di incentrare la sua analisi è il rischio, per il lavoratore a tempo parziale, che la quantità di tempo giornaliera dedicata al lavoro possa essere modificata contro la sua volontà. Si tratta tuttavia di una questione che non può essere verificata in termini di discriminazione ai sensi di tale clausola. Tenendo presente la definizione stabilita alla clausola 3.2 del contratto quadro, non è possibile comparare il rischio, per un lavoratore a tempo parziale, di veder trasformato il proprio rapporto di lavoro in un lavoro a tempo pieno con il rischio che lo stesso possa accadere a un lavoratore a tempo pieno comparabile, in quanto quest’ultimo lavora già a tempo pieno (27).

51.      Per ipotesi, è comunque dubbio se la situazione di un lavoratore a tempo parziale che affronta il rischio di dover lavorare a tempo pieno contro la sua volontà sia, in effetti, paragonabile a quella di un lavoratore a tempo pieno che rischia di dover lavorare a tempo parziale. Dire a un lavoratore di lavorare di più non è come dirgli di lavorare di meno – almeno dal punto di vista del suo sostentamento. È quindi discutibile se sussista un lavoratore a tempo pieno comparabile (28).

52.      A parte la sentenza Michaeler e a., la Corte ha ritenuto, in effetti, nella sentenza Bruno e a., che, quando le norme nazionali violano la clausola 4 dell’accordo quadro, è probabile che violino anche la clausola 5, paragrafo 1, di tale accordo (29). È difficile non condividere tale opinione, in quanto la parte iniziale di detta disposizione si riferisce espressamente, tra l’altro, al principio di non discriminazione (30). Tuttavia, come ho già affermato, ritengo che la presente fattispecie non dia luogo a un caso di discriminazione. Inoltre, come accennato prima, tale giurisprudenza riguardava ostacoli di natura amministrativa che possono limitare le opportunità di lavoro a tempo parziale, il che non rappresenta la posizione sostenuta nel procedimento principale.

53.      In un’ottica diversa, il governo ceco fa giustamente riferimento al fatto che la Corte ha considerato che un contratto è caratterizzato dal principio di autonomia della volontà (31). Tuttavia tale principio non sta ad indicare che si deve rispondere in senso affermativo alle questioni pregiudiziali, come suggerisce tale governo. Infatti, disposizioni legislative, come l’articolo 18 della legge n. 183/2010, possono interferire con l’autonomia contrattuale. Ciò è espressamente previsto alla clausola 5.2 dell’accordo quadro. Inoltre, il lavoratore è sempre libero di porre fine al rapporto di lavoro qualora non intenda lavorare a tempo pieno. Per tale motivo, mi lascia piuttosto perplesso il confronto, operato dal governo ceco, con una situazione di lavoro forzato.

54.      Inoltre, occorre anche porre l’accento sul «divieto di reformatio in peius» di cui alla clausola 6.2 dell’accordo quadro. Tale clausola conferisce espressamente agli Stati membri il diritto «di sviluppare, tenuto conto dell’evoluzione della situazione, disposizioni legislative, normative o contrattuali differenti, e senza pregiudizio per l’applicazione della clausola 5.1 purché il principio di non‑discriminazione contemplato alla clausola 4.1 sia rispettato». A mio avviso, la ragion d’essere di tale disposizione è di consentire agli Stati membri di modificare e, all’occorrenza, di ridurre il livello di tutela, riconosciuto ai sensi della loro normativa sul lavoro a tempo parziale, in periodi di turbolenza. Tale disposizione chiarisce quantomeno che siffatte norme non sono immutabili. A tal proposito, ho rilevato il fatto che il regime italiano applicabile dal 2008 sembra coincidere con l’improvviso aggravarsi della crisi finanziaria mondiale.

55.      Apprezzo il fatto che, secondo il diritto italiano, la possibilità di imporre a un lavoratore a tempo parziale di tornare a un lavoro a tempo pieno sia un evento di natura eccezionale e che sia inoltre limitato dai principi di correttezza e buona fede. Tuttavia, diversamente dalla Commissione, non riesco a individuare alcun fondamento normativo, nell’ambito dell’accordo quadro, che prescriva al datore di lavoro di osservare le garanzie indicate nel precedente paragrafo 28. La Commissione suggerisce che siffatto approccio deriva dalla clausola 1, lettera b), che fissa lo scopo dell’accordo quadro, in combinato disposto con la clausola 5.2. Tuttavia, un’interpretazione adeguata della sola clausola 5.2 richiede, di per sé, un’analisi proprio di tale scopo (vedi supra, paragrafo 39). Di conseguenza, la clausola 1, lettera b), non può aggiungere nient’altro a tale analisi.

56.      Su tale base, ritengo che, in mancanza di armonizzazione in tal senso (32), spetti agli Stati membri prevedere siffatte garanzie nei limiti della discrezionalità ad essi riconosciuta dalla direttiva 97/81, a condizione che essi rispettino i principi di efficacia e di equivalenza nell’attuazione della direttiva, nonché gli altri principi generali del diritto dell’Unione (33). In Italia, siffatte garanzie non sono una possibilità puramente teorica ma, in seguito alla giurisprudenza della Corte costituzionale, una questione di diritto (34).

57.      Tuttavia, è parimenti evidente che qualsiasi modifica dell’orario di lavoro – e, in particolare, una riduzione – quando si passa dal lavoro a tempo pieno a quello a tempo parziale non può ridurre diritti già acquisiti che il lavoratore ha maturato durante il periodo di lavoro a tempo pieno (35).

V –    Conclusione

58.      Per le suesposte ragioni, propongo di rispondere alle questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Trento nei seguenti termini:

La direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, deve essere interpretata nel senso che, in circostanze come quelle del procedimento principale, essa non osta a una norma nazionale mediante la quale il datore di lavoro può disporre la trasformazione del rapporto di lavoro da part‑time a tempo pieno contro la volontà del lavoratore.


1 –      Lingua originale: l’inglese.


2 –      Direttiva del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (GU 1998, L 14, pag. 9).


3 –      GURI n. 262 del 9 novembre 2010, Supplemento Ordinario n. 243.


4 –      V. articolo 73 del decreto‑legge 25 giugno 2008, n. 112 (GURI n. 147 del 25 giugno 2008, Supplemento Ordinario n. 152/L), convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133 (GURI n. 195 del 21 agosto 2008, Supplemento Ordinario n. 196).


5 –      Circolare n. 9/2011, del 30 giugno 2011.


6 –      Sentenza n. 224/2013, del 16 luglio 2013. In tale sentenza, la Corte costituzionale ha esaminato il rapporto tra detta disposizione e la clausola 5.2 dell’accordo quadro.


7 –      Disciplinato, in precedenza, dall’articolo 1, comma 58, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, GURI n. 303 del 28 dicembre 1996, Supplemento Ordinario n. 233.


8 –      L’articolo 5, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali prevede che «[n]essuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio».


9 –      V. clausola 5.3, lettera b), che contiene anch’essa il temine «should» (dovrebbe/ro); clausola 5.3, lettera d), che utilizza l’espressione «where appropriate» (se del caso), e la clausola 5.3, lettera e), in cui è ancora utilizzato il termine «appropriate» (adeguate).


10 –      V., ad esempio, considerando 16 del preambolo della direttiva 97/81, secondo il quale «per quanto riguarda i termini impiegati nell’accordo quadro e non precisamente definiti in materia specifica, la presente direttiva lascia agli Stati membri il compito di definirli in conformità del diritto e/o delle prassi nazionali, come nel caso di altre direttive adottate in materia sociale che adoperano termini simili, a condizione che le definizioni rispettino il contenuto dell’accordo quadro»; v., inoltre, clausola 2.2; clausola 3.2, seconda frase; clausola 4.3; clausola 4.4, e clausola 6.5 dell’accordo quadro.


11 –      V., tra l’altro, Deakin, S., e Reed, H., «The Contested Meaning of Labour Market Flexibility», in Shaw, J. (a cura di), Social Law and Policy in an Evolving European Union, Hart Publishing, Oxford: 2000, pag. 75.


12 –      Il considerando 11 del preambolo della direttiva 97/81 e il secondo considerando del preambolo dell’accordo quadro fanno entrambi riferimento al fatto che lo scopo di tale accordo è di contribuire allo sviluppo delle possibilità di lavoro a tempo parziale su basi reciprocamente accettabili sia per i datori di lavoro che per i lavoratori. Analogamente, il considerando 5 del preambolo della direttiva fa riferimento a un’organizzazione più flessibile del lavoro, che risponda sia ai desideri dei lavoratori che alle esigenze della competitività.


13 –      V., tra l’altro, Rodière, P., Droit social de l’Union européene, L.G.D.J., Paris: 2002 (2a ed.), secondo il quale «[e]n dehors de la règle de non-discrimination, l’accord‑cadre prend une tournure recommandationnelle»; Barnard, C., EU Employment Law, Oxford University Press, Oxford: 2012 (4a ed.), pag. 437, secondo il quale «gran parte delle rimanenti norme della direttiva 97/81 dà l’impressione di avere valore più esortativo che giuridicamente vincolante»; Jeffery, M., «Not Really Going to Work? Of the Directive on Part-Time Work, “Atypical Work” and Attempts to Regulate It», 3(27) 1998 Industrial Law Journal 193, pagg. 198 e 203, in cui si afferma che «il disposto della [clausola 5.2] è vago, e lascia assai incerti in merito all’applicabilità della norma generale».


14 –      V., a tal proposito, Hepple, B., e Barnard, C., «Substantive Equality» 3(59) 2000 Cambridge Law Journal 562, pag. 582, secondo il quale «non c’è nessun obbligo di creare posti di lavoro part‑time o condivisi»; Nielsen, R., European Labour Law, DJØF, Copenhagen: 2000, pag. 152, in cui si afferma che «[la direttiva 97/81] non introduce nessun diritto al lavoro a tempo parziale per i lavoratori che lo desiderino».


15 –      V. Kilpatrick, C., e Freedland, M., «The United Kingdom: how is EU governance transformative?» in Sciarra, S., Davies, P., e Freedland, M. (a cura di), Employment Policy and the Regulation of Part-time Work in the European Union. A Comparative Analysis, Cambridge University Press, Cambridge: 2004, pag. 329 e segg., in cui, facendo riferimento alla clausola 5.2, si afferma che «[la clausola] 5 non può essere ignorata come se fosse una disposizione assolutamente non vincolante, che contenga solo auspicati obiettivi di tutela sociale e di promozione dell’occupazione».


16 –      Relazione del 6 novembre 1997, sulla proposta della Commissione concernente una direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (A4‑0352/97, pag. 16). Nel passaggio rilevante si afferma che: «La clausola 5 dell’accordo quadro non è vincolante per nessuno dei punti sopra citati. Certo l’impiego del condizionale (dovrebbero) non comporta di per sé obblighi specifici per gli Stati membri, le parti sociali e i datori di lavoro. La disposizione resta quindi a livello di dichiarazione ovvero di comunicazione d’intenti per cui, in concreto, il testo dell’accordo non può rispondere al secondo obiettivo formulato nel preambolo e cioè di rendere più interessante il lavoro a tempo parziale e di aumentare il numero di posti di lavoro di questo tipo».


17 –      Risoluzione sulla proposta della Commissione concernente una direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (GU C 371, pag. 41), pag. 62, punti da 7 a 9: «Il Parlamento europeo, (…) 7. ritiene fondamentale che il passaggio dei lavoratori al “tempo parziale” non debba derivare da un’imposizione; 8. deplora che l’accordo [quadro] europeo delle parti sociali diversamente dalla Convenzione [dell’Organizzazione internazionale del lavoro] del 1994 sul lavoro a tempo parziale non preveda esplicitamente l’implicita riduzione graduale delle deroghe; 9. constata che, a prescindere dagli elementi dichiarativi, il contenuto dell’accordo non risponde sempre all’obiettivo fissato in quanto non elimina le discriminazioni relative ai lavoratori a tempo parziale né contribuisce a strutturare l’attività a tempo parziale in modo più attraente».


18 –      All’epoca della stesura delle presenti conclusioni, la Convenzione OIL era stata ratificata da nove Stati membri su 28 (Cipro, Finlandia, Ungheria, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia e Svezia).


19 –      V. proposta della Commissione, del 23 luglio 1997, concernente una direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, COM (97) 392 def., punto 5. V., inoltre, la summenzionata risoluzione del Parlamento europeo, punto 8.


20 –      Raccomandazione n. 182 dell’OIL sul lavoro a tempo parziale (in prosieguo: la «raccomandazione»).


21 –      V. supra, Hepple, B., e Barnard, C., pag. 580, nonché supra, Jeffery, M., pag. 200. V., inoltre, la summenzionata risoluzione del Parlamento europeo, punto 8.


22 –      V. il dispositivo della sentenza del 24 aprile 2008, Michaeler e a. (C‑55/07 e C‑56/07, Racc. pag. I‑3135).


23 –      Curiosamente, le norme italiane in questione nella causa Michaeler e a. sono state adottate ai fini dell’attuazione della direttiva 97/81, e il governo italiano ha sostenuto che esse favorivano la tutela e la promozione del lavoro a tempo parziale; v. punti 6, 7 e 22 di detta sentenza.


24 –      V. sentenza Michaeler e a., cit., punto 21.


25 –      V. sentenza Michaeler e a., cit., punto 22, che si riferisce all’articolo 2, paragrafo 2, dell’accordo sulla politica sociale concluso tra gli Stati membri della Comunità europea ad eccezione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU 1992, C 191, pag. 1), pag. 91, allegato al Protocollo (n. 14) sulla politica sociale allegato al Trattato che istituisce la Comunità europea.


26 –      V., riguardo al concetto di «condizioni di lavoro», di cui alla clausola 4, paragrafo 1, dell’accordo quadro, sentenza del 12 dicembre 2013, Carratù (C‑361/12, punti 34 e 35). La Corte ha ritenuto che un contratto che prevede un regime di «lavoro secondo il fabbisogno» rientri in tale concetto; v. sentenza del 12 ottobre 2004, Wippel (C‑313/02, Racc. pag. I‑9483, punti 30 e 32).


27 –      Nella sentenza Wippel, la Corte ha ritenuto che una durata massima dell’orario di lavoro, che, ovviamente, ha rilevanza soprattutto per i lavoratori a tempo pieno, non costituiva un trattamento meno favorevole dei lavoratori a tempo parziale rispetto ai lavoratori a tempo pieno comparabili. V. punti 49 e 50 di tale sentenza.


28 –      V, a tal fine, sentenza Wippel, cit., punti da 57 a 62, in cui la Corte ha ritenuto che il rapporto di lavoro di un tipico lavoratore a tempo pieno non potesse essere paragonato, quanto all’oggetto e alla causa, a quello di un lavoratore a tempo parziale che lavora secondo il fabbisogno. V. inoltre, per analogia, sentenza Carratù, cit., punti da 41 a 45, in cui la Corte ha ritenuto che l’indennità esigibile in caso di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro non potesse essere paragonata all’indennità derivante dall’illecito licenziamento di un lavoratore a tempo indeterminato.


29 –      V. sentenza del 10 giugno 2010, Bruno e a. (C‑395/08 e C‑396/08, Racc. pag. I‑5119, punto 81). V., inoltre, ordinanza del 7 aprile 2011, Dai Cugini (C‑151/10, Racc. pag. I‑54, punto 56), nonché ordinanza del 9 dicembre 2011, Yangwei (C‑349/11, Racc. pag. I‑192, punto 37).


30 –      Al paragrafo 112 delle sue conclusioni, presentate nella causa che ha dato luogo alla sentenza Bruno e a., cit., l’avvocato generale Sharpston sostiene che: «[a] mio giudizio l’obbligo di cui alla clausola 5 dell’accordo quadro è (…) un’applicazione specifica del divieto di discriminazione di cui alla clausola 4». Se, come risulterebbe dai fatti di tale causa, il riferimento generico alla «clausola 5» va inteso come se fosse fatto alla clausola 5.1 di tale accordo, sono propenso a condividere tale opinione.


31 –      V. sentenza del 9 marzo 2006, Werhof (C‑499/04, Racc. pag. I‑2397, punto 23).


32 –      Per quanto riguarda l’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore sui termini del contratto, tale questione è, in effetti, armonizzata; v. direttiva 91/533/CEE del Consiglio, del 14 ottobre 1991, relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro (GU L 288, pag. 32).


33 –      V, in tal senso, sentenza del 1° marzo 2012, O’Brien (C‑393/10, punto 34). In tal senso, ritengo di non essere in grado – diversamente dall’avvocato generale Kokott nelle sue conclusioni, presentate nella causa che ha dato luogo alla sentenza Wippel, cit., paragrafi 108 e 109 – senza una disposizione (scritta) corrispondente in tal senso, nell’ambito dell’accordo quadro o in altro atto, di interpretare l’obiettivo di un’adeguata tutela sociale, di cui, tra l’altro, all’articolo 151, paragrafo 1, TFUE, nel senso che impone ai datori di lavoro l’obbligo giuridico di adottare talune misure nei confronti dei lavoratori.


34 –      V. punto 3.3 della sentenza di cui supra, al paragrafo 14.


35–      V., in tal senso, sentenze del 22 aprile 2010, Zentralbetriebsrat der Landeskrankenhäuser Tirols (C‑486/08, Racc. pag. I‑3527, punto 32), e dell’8 novembre 2012, Heimann (C‑229/11 e C‑230/11, punto 35).