Language of document : ECLI:EU:C:2018:614

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

MICHAL BOBEK

presentate il 25 luglio 2018(1)

Causa C193/17

Cresco Investigation GmbH

contro

Markus Achatzi

[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Oberster Gerichtshof (Corte suprema, Austria)]

«Rinvio pregiudiziale – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Normativa nazionale che attribuisce determinati diritti a un gruppo delimitato di lavoratori – Comparabilità – Discriminazione diretta fondata sulla religione – Giustificazione – Azione positiva – Applicazione orizzontale della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Efficacia diretta orizzontale della Carta dei diritti fondamentali – Obblighi dei datori di lavoro e dei giudici nazionali in caso di incompatibilità del diritto nazionale con l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali e con l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE»






I.      Introduzione

1.        Secondo la legge austriaca, il Venerdì santo è un giorno festivo (retribuito) solo per gli appartenenti a quattro chiese. Se comunque gli appartenenti a queste chiese lavorano quel giorno, essi hanno effettivamente diritto a ricevere un’indennità pari al doppio della retribuzione. Il sig. Markus Achatzi (in prosieguo: il «ricorrente») è impiegato presso la Cresco Investigations GmbH (in prosieguo: la «resistente»). Il ricorrente non appartiene a nessuna di queste quattro chiese. Di conseguenza, per l’attività lavorativa da lui prestata il Venerdì santo del 2015 non ha ottenuto una festività retribuita né gli è stata corrisposta una doppia retribuzione.

2.        Il ricorrente ha citato in giudizio la resistente per la retribuzione aggiuntiva che egli ritiene che avrebbe dovuto ricevere per aver lavorato il Venerdì santo, sostenendo che la norma nazionale discrimini in base alla religione e alle convinzioni religiose in relazione alle condizioni di lavoro e alla retribuzione. È in tale contesto che l’Oberster Gerichtshof (Corte suprema, Austria) chiede sostanzialmente alla Corte se, alla luce del diritto dell’Unione, una normativa nazionale come quella in questione nel procedimento principale sia discriminatoria e, se lo è, quale debba essere la conseguenza di tale accertamento per il periodo antecedente al momento in cui il legislatore nazionale abbia adottato un nuovo regime giuridico non discriminatorio: si chiede se tutti i dipendenti debbano beneficiare del diritto di ferie per il Venerdì santo e della retribuzione aggiuntiva (pagata dal datore di lavoro) ovvero se nessuno di loro debba rcevere un tale beneficio.

3.        Nelle proprie questioni, il giudice del rinvio invoca l’«articolo 21 della Carta (letto) in combinato disposto con» la direttiva 2000/78/CE (2). Un determinato parallelismo nei contenuti de facto e nell’applicazione di una disposizione della Carta e del pertinente elemento di un atto normativo secondario, che dà espressione a tale disposizione della Carta, non è certamente una novità nella giurisprudenza di questa Corte. Quando si affronta la questione della compatibilità astratta di una disposizione di diritto nazionale con la Carta e con una direttiva dell’Unione (3), la domanda su cosa si applichi esattamente al caso in esame è probabilmente di secondaria importanza. Tuttavia, nel caso di specie, la Corte è invitata a precisare quali siano le conseguenze di tale eventuale incompatibilità in relazione a un tipo specifico (orizzontale) di rapporto giuridico, la qual cosa a sua volta richiede che sia precisato rispetto a cosa tale eventuale norma nazionale sia incompatibile proprio in tale tipo di rapporti.

II.    Contesto normativo

A.      Diritto dell’Unione

1.      Carta dei diritti fondamentali

4.        L’articolo 21, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») stabilisce che: «È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

5.        L’articolo 52, paragrafo 1, della Carta stabilisce che: «Eventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».

2.      Direttiva 2000/78

6.        Gli articoli 1, 2 e 7 della direttiva 2000/78 prevedono quanto segue:

«Articolo 1

Obiettivo

La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.

Articolo 2

Nozione di discriminazione

1.      Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2.      Ai fini del paragrafo 1:

a)      sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b)      sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

(…)

5.      La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui.

(…)

Articolo 7

Azione positiva e misure specifiche

1.      Allo scopo di assicurare completa parità nella vita professionale, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure specifiche dirette a evitare o compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1.

(…)».

B.      Diritto nazionale

7.        L’articolo 7, paragrafo 2, del Bundesgesetz über die wöchentliche Ruhezeit und die Arbeitsruhe an Feiertagen (Arbeitsruhegesetz), BGBl. n. 144/1983, come modificata (legge in materia di periodi di riposo; in prosieguo, anche semplicemente: la «legge»), elenca tredici giorni festivi nazionali, applicabili a tutti i dipendenti. L’articolo 7, paragrafo 3, stabilisce che anche il Venerdì santo è un giorno festivo per gli appartenenti alle chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, alla chiesa vetero-cattolica e alla chiesa evangelica metodista.

8.        L’articolo 9 della legge in materia di periodi di riposo stabilisce in sostanza che un lavoratore che non presta attività lavorativa in un giorno festivo mantiene il diritto a percepire l’intera retribuzione per quel giorno (articolo 9, paragrafo 1) e, se lavora, sarà pagato il doppio (articolo 9, paragrafo 5).

III. Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

9.        A chiunque lavori in una delle tredici festività retribuite in Austria viene corrisposta, oltre alla sua normale retribuzione, una retribuzione aggiuntiva per la festività, di pari importo (in prosieguo: l’«indennità»), con il risultato che egli riceve, in pratica, una doppia retribuzione. Tuttavia, poiché il Venerdì santo è un giorno festivo retribuito solo per gli appartenenti alle quattro chiese, solo quei membri hanno diritto al giorno festivo retribuito il Venerdì santo, ovvero a ricevere un’indennità, oltre alla loro normale retribuzione, se decidono di lavorare quel giorno.

10.      Il ricorrente è impiegato presso la resistente. Egli non appartiene a nessuna delle quattro chiese. Di conseguenza non ha ottenuto un giorno festivo retribuito o un’indennità da parte della resistente per aver lavorato il Venerdì santo del 3 aprile 2015.

11.      Mediante la sua azione, il ricorrente chiede l’importo lordo di EUR 109,09, più interessi. La norma legislativa secondo cui il Venerdì santo è un giorno festivo unicamente per gli appartenenti alle quattro chiese, unitamente alla previsione di un’indennità nel caso in cui lavorino di fatto in quel giorno, determina, a suo avviso, una discriminazione, in materia di condizioni di lavoro e retribuzione, fondata sulla religione e sul credo.

12.      La resistente contesta tale affermazione e sostiene che il ricorso dovrebbe essere respinto con contestuale condanna alle spese. Essa asserisce che non si configura alcuna discriminazione.

13.      Il tribunale di primo grado ha respinto la domanda sulla base del fatto che la normativa sul Venerdì santo costituisce un trattamento differenziato oggettivamente giustificato, di situazioni che non erano simili.

14.      La corte d’appello ha accolto l’impugnazione del ricorrente e ha riformato la sentenza originaria in modo tale da accoglierne la domanda. Essa ha basato la propria decisione sull’assunto per cui le norme nazionali che prevedono disparità di trattamento in relazione al Venerdì santo violano l’articolo 21 della Carta, che è direttamente applicabile. Essa ha riscontrato che vi è stata discriminazione diretta dei dipendenti in questione per motivi di religione, che non è giustificata. Il Venerdì santo, in quanto giorno festivo, non può pertanto essere limitato a gruppi specifici di dipendenti, con la conseguenza che il ricorrente, che aveva lavorato il Venerdì santo del 3 aprile 2015, aveva anch’egli diritto a un’indennità.

15.      L’Oberster Gerichtshof (Corte suprema) deve ora decidere sull’impugnazione in ordine a una questione di diritto proposta dalla resistente avverso la pronuncia emessa in appello, e mediante la quale la resistente intende ripristinare la sentenza del giudice di primo grado che rigettava il ricorso. Tale giudice ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con gli articoli 1 e 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE, debba essere interpretato nel senso che, in una controversia tra lavoratore e datore di lavoro in relazione a un rapporto di lavoro privato, esso osta a una normativa nazionale secondo la quale soltanto per gli appartenenti alle Chiese Evangeliche di Confessione Augustana e di Confessione Elvetica, della Chiesa Vetero-Cattolica e della Chiesa Evangelica Metodista anche il Venerdì santo è un giorno festivo con un periodo di riposo ininterrotto di almeno 24 ore e, in caso di impiego del lavoratore [appartenente a una di dette chiese] nonostante il riposo festivo, oltre al diritto alla retribuzione per il tempo di lavoro non prestato a causa del giorno festivo, viene riconosciuto anche un diritto alla retribuzione per il lavoro prestato, mentre ciò non avviene per altri lavoratori, non appartenenti a tali chiese.

2) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con l’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78/CE, debba essere interpretato nel senso che detta direttiva non osta alla normativa nazionale descritta nella prima questione, la quale riconosce diritti soltanto a un gruppo relativamente ristretto, se rapportato alla popolazione totale e all’appartenenza della maggioranza alla chiesa romano-cattolica, di appartenenti a determinate (altre) chiese, poiché si tratta di una misura che, in una società democratica, è necessaria per la tutela dei diritti e delle libertà altrui, in particolare del diritto alla libertà religiosa.

3) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE, debba essere interpretato nel senso che la normativa nazionale esposta nella prima questione costituisce una misura positiva e specifica in favore degli appartenenti alle chiese indicate nella prima questione, allo scopo di assicurare la loro completa parità nella vita professionale, per prevenire o compensare, per tali appartenenti, svantaggi in ragione della religione, se in tal modo viene loro riconosciuto il medesimo diritto di esercitare la religione durante l’orario di lavoro in una festività solenne per tale religione, quale quello che in base a una diversa normativa nazionale sussiste in capo alla maggioranza dei lavoratori per il fatto che i giorni festivi della religione, nella quale la maggioranza dei lavoratori si riconosce, sono giorni di riposo in generale.

Qualora venga ravvisata una discriminazione ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE:

4) Se il diritto dell’Unione, in particolare l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con gli articoli 1, 2, paragrafo 2, lettera a), e 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78/CE, debba essere interpretato nel senso che il datore di lavoro privato, finché da parte del legislatore non sia stato istituito un assetto giuridico privo di discriminazioni, è tenuto a riconoscere a tutti i lavoratori, indipendentemente dalla loro appartenenza religiosa, i diritti descritti nella prima questione in relazione al giorno del Venerdì santo, oppure se la normativa nazionale descritta nella prima questione debba essere del tutto disapplicata, con la conseguenza che i diritti e le pretese relativi al Venerdì santo descritti nella prima questione non vengono riconosciuti ad alcun lavoratore».

16.      Hanno presentato osservazioni scritte il ricorrente e la resistente, i governi austriaco, italiano e polacco e la Commissione europea. Le parti interessate hanno altresì esposto argomentazioni orali all’udienza tenutasi il 10 aprile 2018.

IV.    Valutazione

A.      Introduzione

17.      Ritengo che la concessione di una festività retribuita il Venerdì santo solo agli appartenenti alle quattro chiese, unitamente a un’indennità nel caso in cui tali soggetti lavorino durante quel giorno, costituisca una discriminazione fondata sulla religione ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 (prima questione sollevata dal giudice del rinvio, affrontata nella sottostante sezione C). Non sembra che vi sia alcuna valida giustificazione per tale discriminazione (seconda questione, sezione D). Non mi sembra possibile qualificare tale trattamento come «azione positiva» (terza questione, sezione E).

18.      A mio parere, la questione più complessa in questa fattispecie è quali siano gli effetti giuridici, in una lite insorta tra privati, di tale (astratta) constatazione di una discriminazione, effettuata sulla base di una direttiva (che non ha efficacia orizzontale diretta sui privati) e di una disposizione della Carta. Il principio del primato impone che la norma nazionale venga disapplicata. Tuttavia, potrebbe anche dedursi, sulla base di quel principio o dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, potenzialmente direttamente efficace a livello orizzontale, che un datore di lavoro (di diritto privato) sia tenuto, ai sensi del diritto dell’Unione, a pagare l’indennità a chiunque lavori nel giorno di Venerdì santo, indipendentemente dalle convinzioni religiose, in aggiunta al normale stipendio? A mio avviso, non si può. Nondimeno, il diritto dell’Unione impone che il lavoratore disponga di un rimedio efficace, che può includere la possibilità di un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato membro (quarta questione, sezione F sottostante).

19.      Prima di passare alle domande del giudice del rinvio nell’ordine indicato, affronterò la questione giurisdizionale sollevata dai governi italiano e polacco in relazione all’articolo 17 TFUE.

B.      Giurisdizione della Corte

20.      Nelle sue osservazioni scritte e orali, il governo polacco ha sostenuto che le norme inerenti il giorno festivo del Venerdì santo, in questo caso, sono disposizioni che regolamentano i rapporti tra le quattro chiese e lo Stato austriaco. In quanto tali, rientrano nella nozione di «status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono», di cui all’articolo 17, paragrafo 1, TFUE. La Corte non ha quindi giurisdizione per rispondere ai quesiti posti dal giudice del rinvio. In udienza, il governo italiano ha presentato una tesi analoga in relazione all’articolo 17 TFUE. Esso ha concluso che la Corte dovrebbe rispondere alle questioni sottoposte confermando la competenza esclusiva degli Stati membri a decidere in merito alla concessione di un giorno festivo o di un’indennità a particolari gruppi religiosi.

21.      Ritengo che queste argomentazioni debbano essere rigettate.

22.      Nella sentenza Egenberger, la Corte ha statuito che «l’articolo 17 TFUE esprime la neutralità dell’Unione nei confronti dell’organizzazione, da parte degli Stati membri, dei loro rapporti con le Chiese e le associazioni o comunità religiose» (4). Nelle sue conclusioni nello stesso caso, l’avvocato generale Tanchev ha inoltre aggiunto che il dovere di neutralità non implica che le relazioni tra Chiesa e Stato siano completamente immuni da qualsiasi controllo alla luce del rispetto dei diritti fondamentali dell’Unione (o del diritto dell’Unione più in generale) «qualunque siano le circostanze» (5). Nella sentenza Egenberger, infatti, la Corte ha esplicitamente confermato che «[l’articolo 17 TFUE] non è tale da sottrarre a un controllo giurisdizionale effettivo il rispetto dei criteri enunciati all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2000/78» (6).

23.      Più in generale, è stato suggerito dagli avvocati generali nella cause Achbita e Egenberger che l’articolo 17 del TFUE «concretizza e integra l’articolo 4, paragrafo 2, TUE». Da quest’ultima disposizione «non è dato desumere che determinate materie o settori di attività siano sottratti in toto all’ambito di applicazione della direttiva 2000/78» (7).

24.      Analogamente, non sembra che nella sentenza Concregación de Escuelas Pías de Betania (8), l’articolo 17, paragrafo 1, TFUE abbia in alcun modo impedito l’applicazione delle norme dell’Unione in materia di aiuti di Stato ai redditi delle chiese. La questione dell’articolo 17, paragrafo 1, TFUE non è stata neppure discussa nella sentenza (9), anche se il contenuto della causa avrebbe potuto, in una certa prospettiva, essere interpretato come relativo a relazioni finanziarie tra Chiesa e Stato o come avente implicazioni considerevoli per la situazione economica delle chiese.

25.      Il quadro che emerge da tale giurisprudenza sembra piuttosto chiaro: l’articolo 17, paragrafo 1, TFUE conferma la neutralità del diritto dell’Unione per quanto riguarda lo status delle chiese e impone che esso non pregiudichi tale status. A mio modo di vedere, l’Unione europea si dichiara totalmente neutrale, anzi agnostica, rispetto agli accordi Chiese-Stati membri, nel senso più stretto dell’espressione: ad esempio, se uno Stato membro si definisce neutrale dal punto di vista strettamente religioso o se uno Stato membro ha di fatto una Chiesa di Stato. Tale dichiarazione di neutralità è un’importante affermazione di principio. Oltre a tale più ristretta interpretazione, essa può anche fungere da strumento ermeneutico, applicabile trasversalmente, come avviene d’altronde per altri valori e interessi contenuti nel titolo II della parte prima del TFUE (intitolato, peraltro, «Disposizioni di applicazione generale») in altri settori del diritto dell’Unione: a parità di tutti gli ulteriori fattori, dev’essere preferita un’interpretazione del diritto dell’Unione che tuteli al massimo i valori o gli interessi riflessi in tali disposizioni.

26.      Tuttavia, al di là di queste due dimensioni, l’articolo 17, paragrafo 1, TFUE non può, a mio avviso, essere interpretato come se avesse come conseguenza che qualsiasi normativa nazionale relativa ai rapporti dello Stato con le chiese o allo status di queste ultime semplicemente esuli dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione. Analogamente al fatto che le esenzioni fiscali non sono escluse dal diritto dell’Unione sugli aiuti di Stato per il solo fatto che riguardano una chiesa, o il vino non è esente dalle norme del Trattato sulla libera circolazione delle merci solo perché è vino sacro da impiegare per scopi liturgici. In parole povere, il «rispetto per lo status di» non può essere letto come una «esenzione in blocco» per ogni questione che riguardi una chiesa o una comunità religiosa.

27.      Non riesco quindi a capire come una norma che impone a tutti i datori di lavoro (indipendentemente dalla loro fede o assenza di fede) l’obbligo di concedere ferie retribuite ai dipendenti che siano membri delle quattro chiese (o un’indennità a quei membri che prestano attività lavorativa in quel giorno) possa essere, in virtù dell’articolo 17, paragrafo 1, TFUE, completamente esclusa dal controllo alla luce della Carta o della direttiva 2000/78.

28.      Tale interpretazione dell’articolo 17, paragrafo 1, TFUE è ulteriormente corroborata dal fatto che l’articolo 17, paragrafo 2, TFUE estende un’analoga garanzia di neutralità allo status di organizzazioni filosofiche e non confessionali. Poiché l’Unione europea, all’articolo 17, paragrafo 2, del TFUE, si impegna a «rispetta[re] ugualmente» lo status di tali organizzazioni, qualsiasi «esenzione» ipoteticamente concessa a chiese e associazioni o comunità religiose diventerebbe immediatamente applicabile a qualsiasi organizzazione filosofica (in gran parte indefinita e lasciata alla regolamentazione della legge degli Stati membri). L’articolo 17, paragrafo 2, sottolinea quindi ulteriormente il fatto che l’intenzione chiaramente non poteva essere quella di eliminare qualsiasi rapporto, diretto o indiretto, tra gli Stati membri e tali organizzazioni dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione.

29.      Alla luce di quanto precede, propongo alla Corte di respingere le argomentazioni dei governi italiano e polacco secondo cui la Corte non sarebbe competente a rispondere alle questioni sollevate o che l’argomento non rientra nella giurisdizione dell’Unione europea.

C.      Sulla prima questione pregiudiziale

30.      Con la prima questione il giudice del rinvio chiede in sostanza se l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78 ostino a una norma nazionale che conceda ferie retribuite per il Venerdì santo soltanto agli appartenenti alle quattro chiese e un’indennità nel caso in cui uno di tali appartenenti svolga attività lavorativa in quel giorno.

31.      Ritengo che siffatta norma costituisca una discriminazione ai sensi delle disposizioni richiamate.

32.      In generale, sussiste una discriminazione diretta quando un soggetto è i) trattato in maniera meno favorevole, ii) rispetto a un altro che si trova in una situazione paragonabile, iii) sulla base di un motivo tutelato (in questo caso la religione), iv) senza alcuna oggettiva giustificazione possibile per una tale differenza di trattamento (10).

33.      La questione delle potenziali giustificazioni di cui al punto iv) è oggetto della seconda domanda posta del giudice del rinvio (sezione D sottostante).

34.      Per quanto riguarda i punti i) e iii), è chiaro, a mio avviso, che in questo caso sussiste un trattamento meno favorevole fondato sulla religione. Questo trattamento meno favorevole consiste nel fatto che i dipendenti, che non siano membri delle quattro chiese, ricevono una retribuzione normale o «singola» per lavorare il Venerdì santo, mentre i membri delle quattro chiese ricevono effettivamente una doppia retribuzione. Sebbene capisca che non sia oggetto di censura da parte del ricorrente nel presente procedimento, il diniego di ferie retribuite per il Venerdì santo a chiunque non sia membro delle quattro chiese è inoltre un trattamento meno favorevole basato sulla religione. (11)

35.      L’ultimo elemento di analisi sulla discriminatorietà, che è la comparabilità, è la questione più complessa di questa causa. Esso richiede un duplice chiarimento. Prima di tutto, chi deve essere preso a paragone: persone singole o gruppi di persone (2)? In secondo luogo, quali sono dunque le carateristiche rilevanti per la comparazione? A quale livello d’astrazione dev’essere condotta tale comparazione (3)?

36.      Prima di affrontare approfonditamente tali punti, sono necessari alcuni chiarimenti preliminari riguardanti i parametri dell’analisi (1).

1.      I parametri dell’analisi; tipo di controllo, diritto applicabile e corretta natura del beneficio in questione

37.      Innanzitutto la prima e la quarta questione poste dal giudice del rinvio presentano due livelli. Il primo livello riguarda l’astratta valutazione di compatibilità, posto che il giudice del rinvio chiede l’esame della compatibilità di una norma di diritto nazionale con l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta in combinato disposto con l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78. Il secondo livello, al quale allude il giudice del rinvio nella prima questione e che è poi compiutamente articolato nella quarta, è costituito dalla circostanza che la causa principale riguarda una controversia insorta tra privati. Quale dovrebbe essere, dunque, l’effettiva conseguenza, in un siffatto tipo di rapporto, di un’eventuale dichiarazione secondo cui la normativa dello Stato membro, quale descritta nell’ordinanza di rinvio, sia incompatibile con il diritto UE?

38.      In queste conclusioni, tratto tali due livelli separatamente. Il fatto che essi siano così intrecciati è stato fonte di una discreta confusione nella presente causa, sia a livello di rimedi che in seno al discorso sulla comparabilità. Perciò la risposta da me suggerita in ordine alla prima questione posta dal giudice del rinvio, contenuta in questa sezione, è di tipo generale, inerente solo a un (astratto) controllo di compatibilità delle norme. Le conseguenza di una qualsiasi potenziale conclusione di tal genere, dunque, con riferimento al singolo caso specifico verranno trattate all’interno della quarta questione (sezione F).

39.      In secondo luogo, connessa a tale punto è la questione inerente al diritto applicabile. Quando è stato chiesto se a una disposizione di diritto nazionale ostino l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, la Corte ha in passato accertato la sostanziale compatibilità con tale disposizione della direttiva ed ha effettivamente esteso la stessa interpretazione all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta (12). Infatti, in ordine alla questione sull’astratto controllo di compatibilità, entrambe le fonti del diritto dell’Unione sono chiaramente applicabili (13). Per tali ragioni verranno prese entrambe parallelamente in considerazione nel rispondere alle questioni prima e terza del giudice del rinvio. Per contro la situazione diviene in un certo qual modo più complessa nel contesto della risposta alla quarta questione.

40.      In terzo luogo, l’analisi sulla discriminazione dev’essere condotta «in riferimento alla prestazione di cui trattasi» (14). Nella causa in esame, differenti «prestazioni» sono garantite ai membri delle quattro chiese (e negate a coloro che non appartengono a detto gruppo), vale a dire a) festività retribuita e b) indennità nel caso in cui un membro svolga attività lavorativa in tale giorno.

41.      Ritengo che, al fine di decidere in merito alla presente causa, sia solo necessario evidenziare qui specificamente l’asserita natura discriminatoria dell’indennità. Infatti, dalla descrizione dei fatti contenuta nella domanda di pronuncia pregiudiziale emerge che, nel procedimento principale dinanzi ai giudici nazionali, il ricorrente non rivendica ferie retribuite per il Venerdì santo. Piuttosto rivendica l’indennità per aver lavorato quel giorno.

42.      Pertanto, il lamentato trattamento meno favorevole (15) in relazione al quale deve essere condotta l’analisi è, in particolare, il mancato pagamento dell’indennità. È anche in questo senso che intendo la prima questione del giudice del rinvio, il quale si riferisce specificamente e contemporaneamente all’articolo 7, paragrafo 3, e all’articolo 9, paragrafo 5, della legge in materia di periodi di riposo (che prevedono una doppia retribuzione per i dipendenti che lavorano in un giorno festivo), e non agli articoli 7, paragrafo 3, e 9, paragrafo 1, della legge in materia di periodi di riposo (che dispongono il diritto ad essere retribuiti anche se non si presta attività lavorativa durante i giorni festivi).

43.      Comprendo perfettamente che tutte queste disposizioni sono collegate in seno alla legislazione nazionale. Una volta che una data sia stata dichiarata festiva ai sensi della legge nazionale, diventa applicabile ad essa l’intera disciplina sulle festività nazionali, ivi compresi sia il diritto di essere retribuiti per quel giorno anche se non si svolga attività lavorativa, sia il diritto di essere pagati doppiamente se invece si lavori (l’indennità). Tuttavia, ciò fa precisamente parte del problema: se determinati benefici o diritti sono stati riuniti insieme per opera della legge nazionale, con la medesima giustificazione, diventa piuttosto difficile separarli successivamente e ignorare tutte le conseguenze che il diritto nazionale ricollega alla loro operatività.

44.      Per dovere di completezza, tornerò comunque alla questione delle ferie retribuite alla fine di questa sezione (16).

2.      Chi porre a confronto: singoli individui o gruppi?

45.      Il ricorrente, la resistente, il governo austriaco e la Commissione hanno tutti, in effetti, proposto di confrontare gli stessi gruppi, vale a dire i) i membri delle quattro chiese e ii) il ricorrente in quanto soggetto che non appartiene a nessuna delle quattro chiese.

46.      Al di là di tale accordo di base, tuttavia, sono cominciate a emergere alcune differenze. In particolare, opinioni divergenti sono state manifestate in ordine a se il ricorrente debba essere posto a paragone come ricorrente in qualità di singolo individuo o come ricorrente in qualità di rappresentante di un gruppo.

47.      Nelle sue osservazioni scritte, la Commissione confronta dapprima il ricorrente con gli appartenenti alle quattro chiese. In seguito passa a confrontare gruppi ipotetici di altri lavoratori in Austria con gli appartenenti alle quattro chiese, affermando che spetta al giudice nazionale stabilire se la legislazione nazionale in casi siffatti conduca a discriminazioni. Anche le altre parti estendono il confronto oltre il ricorrente. Ad esempio, la resistente paragona gli appartenenti alle quattro chiese alla «maggioranza» dei dipendenti che sono in grado di professare la loro religione (se ne hanno una) nell’ambito delle festività pubbliche già concesse.

48.      La Commissione ha inoltre ritenuto che la concessione di ferie retribuite agli appartenenti alle quattro chiese non implicasse alcuna discriminazione nei confronti del ricorrente, che la Commissione riteneva ateo. Oltre a una dichiarazione sul fatto che non era appartenente a nessuna delle quattro chiese, le convinzioni religiose del ricorrente non sono infatti mai state esplicitamente corroborate dinanzi a questa Corte.

49.      Il ragionamento della Commissione evidenzia un punto interessante. La Commissione si discosta dall’esame della compatibilità delle misure nazionali, come quelle descritte nell’ordinanza di rinvio, con il diritto dell’Unione e guarda allo specifico caso del ricorrente. In tal modo essa contribuisce a sottolineare la tesi suggerita in precedenza (17): la questione dell’esistenza di una misura discriminatoria vietata dal diritto dell’Unione (che è oggetto della prima questione del giudice del rinvio ed è soggetta a un controllo generale e astratto di compatibilità) è una questione che è meglio tener separata dalle conseguenze di un’eventuale siffatta discriminazione legislativa nel caso specifico (che è oggetto della quarta questione) (18).

50.      Tale logica trova sostegno organico nei casi in cui questa Corte è stata invitata a valutare episodi di discriminazione legislativa. La giurisprudenza distingue tra «discriminazioni che traggono direttamente origine da norme di legge o da contratti collettivi di lavoro» e discriminazioni da parte di un datore di lavoro «nella stessa azienda». In altre parole, la discriminazione ha origine, da un lato, dal legislatore e, dall’altro, dal datore di lavoro (19).

51.      Nel caso in esame, l’asserita discriminazione deriva da disposizioni legislative e alla Corte si chiede di valutare la compatibilità di tali disposizioni col diritto dell’Unione. In questo genere di situazioni la comparazione svolta dalla Corte in effetti impiega, come punto di partenza per la propria analisi, gruppi definiti in seno alla normativa. Il fatto che il singolo ricorrente sia membro di un gruppo di tale tipo naturalmente è rilevante ai fini dell’individuazione di uno dei gruppi da porre a confronto. La situazione individuale di un ricorrente di tale tipo può anche mostrare l’effettivo funzionamento delle norme generali che vengono valutate nei singoli casi. Tuttavia resta il fatto che ciò che verrà confrontato in una simile analisi astratta, in una fattispecie di discriminazione legislativa, e che costituisce il quadro per l’analisi sulla comparabilità, sono gruppi di persone, non singoli individui.

52.      Questo accadeva, ad esempio, nelle sentenza Mangold e Kückükdeveci rese in ordine a una discriminazione fondata sull’età (20). I ricorrenti in quei casi hanno affermato di essere stati discriminati a causa della loro età. La legislazione giuslavoristica nazionale permetteva che i soggetti della loro fascia di età ricevessero meno protezione rispetto a quella offerta ad altre fasce d’età. I loro datori di lavoro avevano applicato tali standard deteriori ai ricorrenti. La Corte ha concluso che una siffatta normativa nazionale era discriminatoria e vietata dal diritto dell’Unione. Nel far ciò, essa non ha confrontato la situazione di ciascun ricorrenti con quella dei suoi colleghi di lavoro. Piuttosto, il confronto è stato svolto, in pratica, tra il trattamento della fascia d’età meno favorita con quello praticato nei confronti delle fasce d’età maggiormente favorite (in altre parole, i gruppi astrattamente definiti nella normativa impugnata) (21).

53.      L’approccio della Corte in tali fattispecie evidenzia il fatto che l’analisi giuridica ha chiaramente natura di generale e astratto controllo di compatibilità della legislazione nazionale con il diritto dell’Unione, piuttosto che di indagine sulla discriminazione specificamente operata dal singolo datore di lavoro resistente nei confronti del ricorrente rispetto ai suoi colleghi (22).

54.      A mio avviso, è importante, nella presente fattispecie, tenere a mente questi punti. Ciò in quanto, oltre alla questione sulla compatibilità, il giudice del rinvio chiede espressamente, nella sua quarta questione, come correggere la discriminazione in termini specifici e pratici. Tale questione metterà in primo piano il problema della «fonte» della discriminazione nonché il problema relativo a quale sia l’organismo che possa dirsi «responsabile della diseguaglianza e che possa ristabilire la parità di trattamento» (23).

3.      Quali gruppi: caratteristiche poste alla base del confronto

55.      Come rilevato, la maggioranza delle parti interessate che hanno presentato osservazioni ha chiesto se il ricorrente si trovasse in una situazione analoga a quella degli appartenenti alle quattro chiese. Tuttavia tale raffronto è stato condotto con riferimento a caratteristiche diverse, in relazione a un diverso punto di confronto. Questa differenziazione genera a sua volta un insieme diverso di gruppi comparabili.

56.      A grandi linee, le parti hanno prospettato tre alternative, secondo il livello prescelto di astrazione:

i)      dipendenti per i quali il Venerdì santo costituisce la festività più importante dell’anno (il «termine di paragone stretto», essenzialmente la posizione del governo austriaco e della resistente). Applicando questo stretto termine di paragone e sulla base delle osservazioni presentate dal ricorrente in udienza, egli non si troverebbe in una situazione analoga a quella degli appartenenti alle quattro chiese. Ciò escluderebbe qualsiasi comparabilità e significherebbe che non vi è discriminazione;

ii)      dipendenti per i quali vi è una festività (religiosa) «particolarmente speciale», non coincidente con alcuna festività nazionale già riconosciuta dalla legislazione nazionale (il «termine di paragone intermedio», essenzialmente la posizione della Commissione). Sulla base di tale termine di paragone, non è chiaro se il ricorrente si trovi in una situazione analoga a quella degli appartenenti alle quattro chiese, dal momento che il suo credo religioso non è noto. Ciò costituirebbe fondamentalmente una questione di fatto per il giudice nazionale;

iii)      dipendenti che prestano attività lavorativa nel giorno del Venerdì santo che vengono distinti dagli altri dipendenti in funzione della religione in relazione alla retribuzione che percepiscono per quella giornata (il «termine di paragone ampio», in sostanza la posizione del ricorrente in questa causa). In base a tale termine di paragone, il ricorrente si troverebbe in una situazione analoga a quella degli appartenenti alle quattro chiese che lavorino il Venerdì santo. La qual cosa implica in linea di principio che sussiste una discriminazione.

57.      Prima di discorrere del termine di paragone corretto da applicare nella causa in esame, dovrebbe essere affrontata una questione più ampia. Nei propri quesiti scritti alle parti, nella presente causa, la Corte ha chiesto se fosse possibile, in linea di principio, escludere esplicitamente la comparabilità sulla base di uno dei motivi sospetti specificamente enumerati all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e all’articolo 1 della direttiva 2000/78 (in questo caso, la religione).

58.      Nei casi che comportano una differenza di trattamento direttamente ricollegata al motivo sospetto in sé, la Corte presume costantemente che sussista una discriminazione (24). Quando li prende comunque un considerazione, la Corte generalmente dedica in tali contesti scarsa attenzione agli argomenti sull’assenza di comparabilità (25).

59.      Tuttavia non ritengo possibile confermare in astratto che una differenza di trattamento basata su un motivo sospetto debba in tutti i casi essere equiparata a una discriminazione diretta (26). L’eventualità che un motivo sospetto possa, di per sè stesso, servire a negare la comparabilità non può essere completamente esclusa (27).

60.      Sospetto che, come in molti altri casi, il diavolo si nasconda a livello del dettaglio in cui verrà formulato il motivo di differenziazione. Il motivo sospetto è sempre astratto (ad esempio, nessuna discriminazione fondata sulla religione). Tuttavia le norme che stabiliscono un quadro di comparabilità nei singoli casi sono inevitabilmente più dettagliate, tenendo spesso conto di altri interessi e considerazioni (come la normativa sui giorni festivi e la retribuzione). Quindi, in termini pratici, sarà piuttosto raro che sia il motivo sospetto quanto il quadro di comparabilità vengano formulati esattamente allo stesso livello di astrazione ed esattamente con la stessa portata.

61.      Ciò premesso, la giurisprudenza precedentemente citata conferma chiaramente che, quando il motivo sospetto viene fatto valere in tal modo, inizia a lampeggiare una metaforica luce rossa. Concludere per l’assenza di comparabilità è una cosa eccezionale. A meno che non si tratti di un caso chiaro e inequivocabile in cui i gruppi in questione siano così sostanzialmente diversi da escludere qualsiasi bisogno di disquisire sulla necessità o sulla proporzionalità della misura, le differenze di trattamento devono essere affrontate a livello di «giustificazioni», non di «(mancanza di) comparabilità».

62.      Tale sovrapposizione tra la questione relativa alla comparabilità e quella relativa alla giustificazione, la quale rende l’attuale quadro per l’analisi della discriminazione intrinsecamente transitorio, risulta inoltre evidente nel caso di specie. L’analisi della discriminazione si suddivide formalmente in diverse fasi: un’indagine sull’esistenza di situazioni comparabili; la differenza di trattamento di tali gruppi; e, se viene riscontrata una discriminazione (differenza nel trattamento di situazioni comparabili), un’indagine sulle giustificazioni. Tuttavia tutte queste fasi comportano domande simili sull’estensione e sulla rilevanza delle differenze di situazione e di trattamento. Se le differenze relative alla situazione sono considerate sufficientemente significative (tenuto conto della natura e della portata della differenza di trattamento nel caso concreto), non vi sarà comparabilità. Se, d’altra parte, le differenze relative alla situazione non sono considerate sufficientemente significative (conclusione che è più facile da raggiungere se la differenza di trattamento già a prima vista sembri un po’ «esagerata»), allora vi è comparabilità e trattamento differenziato, e l’analisi si sposta sulle giustificazioni. Nel contesto della valutazione delle giustificazioni, la domanda è essenzialmente se, sebbene si tratti di situazioni giuridicamente comparabili, le differenze di trattamento riflettano in modo adeguato ed equo le differenze di fatto fra tali situazioni.

63.      Tenendo presente questo, mi dedico ora al termine di paragone appropriato per il presente caso.

4.      Termine di paragone appropriato nel presente caso

64.      Secondo consolidata giurisprudenza, il «requisito relativo al carattere comparabile delle situazioni al fine dell’accertamento di una violazione del principio di parità di trattamento deve essere valutato alla luce di tutti gli elementi che le caratterizzano» (28). Inoltre la valutazione di tale comparabilità deve essere condotta con riferimento all’obiettivo perseguito dalle disposizioni nazionali in questione (29).

65.      Nel caso in esame, il governo austriaco ha dichiarato che il Venerdì santo costituisce la festività più importante per gli appartenenti alle quattro chiese. L’obiettivo delle norme nazionali in questione è quello di consentire a tali soggetti di partecipare ai festeggiamenti religiosi di quel giorno, rispettando in tal modo la loro libertà religiosa.

66.      La giurisprudenza inoltre richiede che l’analisi circa la comparabilità sia effettuata non in modo globale e astratto, bensì in modo specifico, «in riferimento alla prestazione di cui trattasi» (30).

67.      Come già affermato (31), il beneficio relativo al caso in esame non è la festività del Venerdì santo, ma l’indennità. Alla luce di tale beneficio, ritengo che il termine di paragone corretto sia quello ampio.

68.      Il risultato della corresponsione dell’indennità è che un gruppo selezionato di individui i quali lavorano il giorno del Venerdì santo, riceve una doppia retribuzione proprio in virtù della loro religione. Altri individui che lavorano quel giorno sono pagati con retribuzione normale, nonostante potenzialmente svolgano esattamente lo stesso lavoro. Non vi è alcun fattore di distinzione rilevante tra tali gruppi alla luce della prestazione suddetta. I livelli di retribuzione e di fede, in linea di principio, non sono connessi.

69.      Tale conclusione non è, a mio avviso, influenzata dall’obiettivo dichiarato della normativa nazionale, che è quello di tutelare la libertà di religione e di culto. Semplicemente non capisco come pagare, in una determinata data, con retribuzione raddoppiata uno specifico gruppo di dipendenti, individuato sulla base della propria religione, abbia una qualsivoglia relazione con tale obiettivo. In effetti si potrebbe sostenere – ammettendolo non senza un pizzico di cinismo – che il diritto alla doppia retribuzione per gli appartenenti alle quattro chiese, che prestano attività lavorativa il giorno del Venerdì santo, costituisce un incentivo economico a non dedicare il giorno alla pratica del culto.

70.      Si potrebbe rispondere che gli appartenenti alle quattro chiese che lavorano il Venerdì santo si trovano realmente in una situazione diversa, in quanto sono particolarmente colpiti dal fatto di lavorare in quella data. A tale riguardo, comprendo che vi siano alcuni settori specifici in cui i datori di lavoro possono chiedere persino agli appartenenti alle quattro chiese di lavorare il Venerdì santo. Tuttavia, come precedentemente rilevato, la questione qui rilevante, secondo la giurisprudenza della Corte, è se le situazioni siano comparabili tenendo in considerazione l’obiettivo della legge nazionale (il quale, a mio avviso, è tutelare la libertà di religione, non garantire un risarcimento nelle eventualità in cui si ritenga di non poterla tutelare) e le prestazioni specifiche. Inoltre ricordo anche che l’articolo 9, paragrafo 5, della legge in materia di periodi di riposo prevede un’indennità per coloro i quali lavorano durante i giorni festivi, indipendentemente dal fatto che tali festività siano concesse per motivi religiosi.

71.      Per le ragioni ora esposte, ritengo che, alla luce della prestazione del beneficio e tenuto conto dell’obiettivo della legislazione nazionale in materia, tutti i dipendenti che lavorano il Venerdì santo, i quali vengono distinti sulla base della religione in relazione alla retribuzione ricevuta per quel giorno, siano comparabili.

72.      Desidero aggiungere qualche ulteriore osservazione sulla questione della comparabilità.

73.      Innanzitutto, per ragioni di chiarezza, ovviamente non metto in discussione la particolare importanza che riveste il Venerdì santo per gli appartenenti alle quattro chiese. In relazione a tale specifico elemento, costoro possono essere nettamente distinti dai soggetti per i quali il Venerdì santo non riveste un tale significato. Tuttavia, a mio parere, tale caratteristica ha una rilevanza diversa in relazione ai diversi tipi di misure: la concessione del riposo per quel giorno; la concessione del giorno libero, ma detraendolo dalle ferie annuali; la concessione del giorno libero retribuito; e pagare di più qualcuno che lavori quel giorno. Nel caso di specie, il beneficio che viene in rilievo è il versamento dell’indennità. Alla luce di tale beneficio, gli appartenenti alle quattro chiese che lavorano il Venerdì santo potrebbero non trovarsi in una situazione identica a quella di altri dipendenti, ma la rilevanza della loro religione non è certamente tale da rendere le loro situazioni incomparabili (32).

74.      In secondo luogo, la valutazione della comparabilità nel diritto dell’Unione assume come punto di partenza gli obiettivi del diritto nazionale e le categorie stabilite in esso. Tuttavia tali obiettivi e categorie non possono di per se stessi considerarsi decisivi e tali da condizionare un controllo. Come ho sostenuto altrove (33), se fosse altrimenti e la questione della comparabilità fosse già intellettualmente predeterminata dalle categorie fissate dalla normativa nazionale, allora quest’ultima definirebbe direttamente l’insieme delle comparazioni possibili attraverso il suo ambito di applicazione. Un siffatto ragionamento porta a un circolo vizioso, escludendo di fatto qualsiasi possibilità di riesame.

75.      Nel caso in esame, il peso degli obiettivi e delle categorie stabiliti dalla normativa nazionale nell’analisi comparativa è, a mio parere, notevolmente ridotto, in particolare, dalla discrasia esistente tra l’obiettivo dichiarato di tutelare il diritto di culto il Venerdì santo e la maggior remunerazione concessa per svolgere un’attività lavorativa durante quel giorno.

76.      In terzo luogo, la legge nazionale in questo caso è, come si può capire, specificamente tagliata su misura. Essa stabilisce obiettivi e definisce categorie che individuano, per un particolare trattamento, individui appartenenti a gruppi cristiani specifici (e, nell’ambito della popolazione austriaca complessiva, apparentemente piuttosto ristretti) (34). Questo di per sé è motivo di cautela. Tuttavia, se si dovesse presumere che queste caratteristiche così particolari siano effettivamente di tale rilevanza e importanza da rendere incomparabili la posizione degli appartenenti alle quattro chiese, ciò implicherebbe che anche i membri di altri gruppi religiosi avrebbero probabilmente caratteristiche rilevanti che li distinguono da tutti gli altri.

77.      La discriminazione non consiste soltanto nel trattare diversamente le medesime situazioni, ma anche nel trattare situazioni oggettivamente differenti nella stessa maniera. Se si ritiene che gli appartenenti alle quattro chiese abbiano rilevanti caratteristiche distintive, in linea di principio deve essere considerata singolarmente ciascuna religione al fine di determinare in che modo gli appartenenti a tale religione debbano essere trattati in maniera diversa in termini di ulteriori ferie (retribuite) e indennità (35). Tuttavia, semplicemente, questo non è l’approccio adottato dallo Stato austriaco. È stato confermato, nelle memorie scritte e orali del governo austriaco, che vi è un contratto collettivo che garantisce una festività agli appartenenti alla fede ebraica per lo Yom Kippur, che apparentemente è applicabile solo in alcuni settori dell’economia nazionale. In ogni caso, questa è l’unica altra religione che gode di un tale trattamento (36).

78.      L’ultimo motivo costituisce in definitiva anche un ulteriore argomento riguardo alla ragione per cui il «termine di paragone ristretto», come suggerito dal governo austriaco e dalla resistente, non possa essere preso in considerazione. Anche ammettendo che soltanto gli appartenenti alle quattro chiese abbiano un bisogno oggettivo di praticare il culto il Venerdì Santo, il che rende impossibile paragonarli con qualsiasi altro gruppo religioso (perché presumibilmente nessun altro ha lo stesso bisogno di praticare il culto quello specifico giorno), e trascurando il fatto che l’indennità scoraggia, piuttosto che incoraggiare, tale osservanza, emerge chiaramente la questione della selettività della misura, che sposta la questione della discriminazione a un livello superiore. Cosa dire di altri gruppi religiosi o comunità, i quali pure hanno feste religiose importanti, non prese in considerazione dall’elenco delle festività pubbliche esistenti, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della legge in materia di periodi di riposo?

79.      Seguendo tale logica di (in)comparabilità fino alle sue estreme conseguenze, nessuno di questi gruppi sarebbe paragonabile a nessun altro, perché essi hanno l’oggettiva esigenza di celebrare feste religiose differenti. Implicherebbe ciò altresì che il legislatore nazionale possa prevedere festività pubbliche (presumibilmente anche di durata diversa?), potenzialmente associate a livelli diversi di retribuzione, solo per alcuni, al contempo escludendo da esse gli altri?

80.      Per tutti questi motivi, la mia conclusione è che il combinato disposto di norme quali l’articolo 7, paragrafo 3, e l’articolo 9, paragrafo 5, della legge in materia di periodi di riposo fa sì che il ricorrente sia trattato in modo meno favorevole rispetto agli appartenenti alle quattro chiese che ricevono una doppia retribuzione quando lavorano il Venerdì santo. La sottostante differenza di trattamento è direttamente collegata alla religione (37).

81.      È irrilevante, a mio avviso, che il tenore dell’articolo 9, paragrafo 5, della legge in materia di periodi di riposo sia in effetti apparentemente neutrale, poiché dalla domanda di pronuncia pregiudiziale emerge chiaramente che il diritto all’indennità, in forza di tale previsione normativa, deriva dall’articolo 7, paragrafo 3, della stessa legge. Quest’ultima disposizione non è neutrale, ma delinea esplicitamente distinzioni fondate sulla religione. La differenza che ne consegue nel trattamento costituisce una discriminazione ai sensi dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, nonché una discriminazione diretta ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78.

5.      Il beneficio delle ferie retribuite

82.      L’analisi precedente si concentra sulla questione della discriminazione alla luce della prestazione di un beneficio. Nella precedente sezione di queste conclusioni ho cercato di spiegare perché è opportuno prendere in considerazione tale beneficio, che in ultima analisi è la posta in gioco nel procedimento principale, ai fini della comparabilità. Per completezza, affronterò brevemente la questione dell’indennità per ferie retribuite e in che modo l’attenzione potenziale in relazione a tale beneficio altererebbe il quadro della comparabilità.

83.      Ho già osservato che l’importanza del Venerdì santo per gli appartenenti alle quattro chiese ha rivestito un peso differente nell’ambito dell’analisi di comparabilità, se applicata a benefici diversi (38). Concedere tempo libero (non retribuito) per quel giorno è chiaramente più coerente con l’obiettivo dichiarato di tutelare la libertà religiosa rispetto a concedere un’indennità. L’obbligo di retribuire i dipendenti assenti il Venerdì santo ai fini della pratica del culto si allontana in qualche modo dal preciso obiettivo prospettato dal governo austriaco, ma probabilmente rimane molto più strettamente connesso a tale obbietivo originario rispetto all’indennità (39).

84.      Queste considerazioni mi inducono a concludere che, se ciò riguardasse soltanto l’indennità di ferie retribuite, vi sarebbero state solide motivazioni per ricorrere al termine di paragone intermedio, come effettivamente sostenuto dalla Commissione.

85.      Ad ogni modo, ancora, il fatto è che ciò che viene chiesto dal ricorrente nella causa principale non è di ottenere un giorno di ferie retribuito per il Venerdì santo. Né di veder riconosciuto alcun altro giorno in particolare da assoggettare alla stessa disciplina, sì da accogliere le proprie specifiche e diverse convinzioni religiose. Ciò che viene chiesto è l’indennità per lo svolgimento di attività lavorativa nel giorno del Venerdì santo, così eliminando la discriminazione fondata sulla religione in termini di retribuzione.

86.      Pertanto, pur rimanendo pienamente consapevole dello scopo generale della misura, nonché del fatto che le ferie retribuite e l’indennità sono essenzialmente due facce della stessa medaglia, il termine di paragone intermedio, suggerito dalla Commissione (40), non può essere determinante ai fini del caso in esame. Inoltre, per le stesse ragioni precedentemente esposte, per quanto concerne l’indennità (41), ritengo che il ricorso al termine di paragone ristretto, invocato dal governo austriaco e dalla resistente, sia in ogni caso da escludersi anche in relazione alla prestazione delle ferie retribuite.

6.      Conclusioni sulla prima questione

87.      Alla luce di quanto precede, propongo alla Corte di rispondere alla prima questione del giudice del rinvio nel seguente modo:

L’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, in combinato disposto con gli articoli 1 e 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale secondo la quale soltanto per gli appartenenti alle Chiese Evangeliche di Confessione Augustana e di Confessione Elvetica, della Chiesa Vetero-Cattolica e della Chiesa Evangelica Metodista il Venerdì santo è un giorno festivo con un periodo di riposo ininterrotto di almeno 24 ore e, in caso di impiego del lavoratore appartenente a una di dette chiese nonostante il riposo festivo, oltre al diritto alla retribuzione per il tempo di lavoro non prestato a causa del giorno festivo, viene riconosciuto anche un diritto alla retribuzione per il lavoro prestato, mentre ciò non avviene per altri lavoratori, non appartenenti a tali chiese.

D.      Sulla seconda questione pregiudiziale

88.      Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede in sostanza se le misure in favore degli appartenenti alle quattro chiese, qualora siano considerate discriminatorie, possano essere giustificate ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78.

89.      Ritengo di no.

90.      In via preliminare, nella misura in cui in relazione alla prima questione si è concluso che le misure in esame sono vietate dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta in combinato disposto con l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, ogni giustificazione deve essere valutata, rispettivamente, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta e dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva. Oltre all’elemento formale secondo cui una disposizione di una direttiva non può prevedere una deroga a una disposizione della Carta, resta il fatto che entrambe le disposizioni sono formulate in termini leggermente diversi.

91.      Tuttavia, ai fini della presente causa, l’analisi sostanziale condotta ai sensi di entrambe le disposizioni è simile. In base a entrambe le disposizioni, la giustificazione invocata è la «tutela dei diritti e delle libertà altrui». Inoltre, in quanto eccezioni al divieto di discriminazione, entrambe le disposizioni devono essere interpretate in modo restrittivo (42) e sono assoggettate a un esame di proporzionalità (43).

92.      Vi sono tre ragioni, in particolare, che mi inducono a concludere nel senso che la concessione della prestazione del beneficio non può essere giustificata sulla base dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta o dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva.

93.      Prima di tutto, non è così immediatamente evidente che la «protezione dei diritti e delle libertà altrui» comprenda la concessione di un’indennità in caso di limitazioni a tali libertà. Questo non mi sembra costituisca una tutela, quanto piuttosto un risarcimento per la mancata tutela.

94.      Nondimeno, nella misura in cui essa potrebbe essere in linea di principio compresa, le disposizioni si riferiscono specificamente alla «tutela dei diritti e delle libertà altrui». A tal riguardo, l’articolo 2, paragrafo 5, pare sia stato inserito all’interno della direttiva all’ultimo momento su insistenza del Regno Unito (44), e gli indizi suggeriscono che la disposizione fosse intesa a proteggere il pubblico in generale dal comportamento nefasto di determinati gruppi (45).

95.      La mia interpretazione di tale disposizione segue una linea simile: essa consente deroghe in nome di diritti e libertà altrui, intese in modo orizzontale e trasversale, cioè diritti e libertà del resto della società in generale. Ne deriverebbe la logica struttura della deroga: un onere o uno svantaggio imposti a un gruppo specifico potrebbero essere legittimamente sostenuti da tale gruppo, se cio è necessario e proporzionato rispetto all’interesse complessivo del pubblico in genere. In tale fase, può verificarsi un certo bilanciamento di interessi tra lo specifico (svantaggio) e il generale (interesse).

96.      Se si abbracciasse la logica secondo cui «gli altri» nella «tutela dei diritti e delle libertà altrui» sono in realtà i membri del gruppo a cui la legislazione in questione riconosce alcuni vantaggi, tale logica si rovescierebbe. L’intero ragionamento diventerebbe un circolo vizioso e ogni specifica disciplina sarebbe giustificata dal mero fatto della sua esistenza.

97.      In secondo luogo, la natura selettiva dell’articolo 7, paragrafo 3, e dell’articolo 9, paragrafo 5, della legge in materia di periodi di riposo è comunque problematica dal punto di vista della proporzionalità, in particolare la sua prima dimensione: l’opportunità. Sebbene l’obiettivo dichiarato delle misure sia la tutela della libertà religiosa, queste si applicano solo a gruppi particolari. Non si fa menzione delle altre minoranze. Ricordo che, nel contesto della valutazione della proporzionalità di una misura nazionale discriminatoria, la Corte ha avuto riguardo alla coerenza della misura rispetto all’obiettivo dichiarato. Pertanto, ha affermato che «una normativa è idonea a garantire la realizzazione dell’obiettivo addotto solo se risponde realmente all’intento di raggiungerlo in modo coerente e sistematico, e che eventuali deroghe alle disposizioni di una legge possono in taluni casi pregiudicare la coerenza di quest’ultima» (46). Se è vero che le disposizioni del diritto nazionale in materia in questo caso non contengono eccezioni che escludano determinati gruppi, l’effetto pratico di una delimitazione molto ristretta del campo di applicazione del diritto è lo stesso. Esso esclude tutti tranne gli appartenenti alle quattro chiese.

98.      Questo problema della selettività non è risolto dalla concessione di permessi per motivi religiosi in virtù di altre disposizioni. A tal riguardo è corretto che in Austria vi sia, ad esempio, un contratto collettivo che concede una festività per lo Yom Kippour agli appartenenti alla fede ebraica, nonché un dovere di sollecitudine dei datori di lavoro nei confronti dei propri dipendenti (47).

99.      Tuttavia, per quanto riguarda il contratto collettivo, nelle risposte scritte del governo austriaco ai quesiti della Corte è stato confermato che esso non si applica a tutti i settori, e inoltre che si applica solo a membri di uno specifico gruppo religioso. Per quanto riguarda il dovere di sollecitudine, a mio avviso, il diritto di un dipendente a chiedere preventivamente alcune ore di congedo ai fini del culto religioso semplicemente non può essere paragonato al diritto a un giorno festivo retribuito inserito nella legislazione nazionale o in un contratto collettivo. Come considerazione più generale, anche se il permesso per scopi di culto, per gli appartenenti alle altre fedi, può essere ottenuto dietro richiesta e previo accordo col datore di lavoro, non esiste alcun diritto automatico e generale a un’indennità economica ove tale permesso non sia effetivamente goduto.

100. In terzo luogo, non esiste una connessione evidente tra la tutela della libertà religiosa e il diritto a un’indennità se si lavora il Venerdì santo. Per le stesse ragioni, ritengo che la concessione di un’indennità agli appartenenti alle quattro chiese che lavorano il Venerdì santo, ancorché applicata in maniera così selettiva, sia sproporzionata nel senso che non è opportuna per conseguire il fine della tutela della libertà religiosa sulla base dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta e dell’articolo 2, paragrafo 5, della direttiva 2000/78. Ancora una volta, è difficile comprendere come essere pagati il doppio del salario per non praticare il culto il Venerdì santo debba considerarsi opportuno per raggiungere l’obiettivo di tutela della libertà (ancorché accordata in maniera selettiva) religiosa e di culto.

101. Infine osservo che, mentre le precedenti considerazioni si concentrano sull’indennità, il ragionamento ai paragrafi 97 e 98 riguardante la selettività della misura alla luce dell’indennità per ferie retribuite si applica anche e preclude ogni giustificazione in ordine alla natura discriminatoria di tale beneficio.

102. Alla luce di quanto sin qui esposto, propongo che la Corte risponda alla seconda questione del giudice del rinvio nel seguente modo:

In circostanze come quelle del caso in esame, una normativa nazionale che conceda un’indennità del tipo di cui alla prima questione solo agli appartenenti ad alcune chiese che lavorino il Venerdì santo non costituisce una misura che, in una società democratica, è necessaria per la tutela dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi della direttiva 2000/78.

E.      Sulla terza questione pregiudiziale

103. Con la terza questione, il giudice del rinvio chiede essenzialmente se le misure in favore degli appartenenti alle quattro chiese rientrino nella nozione di azione positiva ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, letto in combinato disposto con l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta.

104. A mio avviso non vi rientrano.

105. In via preliminare, osservo che il preciso rapporto tra l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78 non è immediatamente chiaro. In particolare il dibattito sul fatto che l’azione positiva sia una deroga (temporanea) al principio di uguaglianza o sia in effetti una componente intrinseca di una visione realmente sostanziale dell’uguaglianza è lungi dal dirsi risolta. Tuttavia, ai fini delle presenti conclusioni, non ritengo necessario esaminare questioni così profonde.

106. Nel caso in esame, il governo austriaco ha prospettato che le misure potrebbero essere interpretate come rientranti nella nozione di azione positiva, nel senso che sarebbero state adottate per compensare trattamenti meno favorevoli subiti in passato. Secondo le osservazioni scritte presentate dal governo austriaco, gli appartenenti alle quattro chiese, diversamente dalla maggioranza cattolica, non godevano di un diritto al giorno libero per celebrare la loro più importante festa religiosa dell’anno, e hanno patito tale situazione per molti anni, prima che fosse richiesto e concesso negli anni cinquanta.

107. Invero, «azione positiva» non ha una sua chiara definizione nel diritto positivo o in giurisprudenza. Pertanto, prima facie, non vi è alcun limite in relazione a cosa possa rientrare in questa nozione, sia dal punto di vista sostanziale che temporale. Da tale punto di vista potrebbe infatti suggerirsi che l’intenzione di «compensare svantaggi correlati a uno qualunque dei motivi di cui all’articolo 1» potrebbe altresì contenere il desiderio di compensare (anche secoli di) persecuzioni religiose passate.

108. Detto questo, confesso che, almeno dal punto di vista cronologico, sembra piuttosto discutibile che un provvedimento adottato negli anni cinquanta possa essere stato davvero concepito quale «azione positiva», nel senso più moderno della definizione, comparendo esso certamente per la prima volta in seno alla legislazione dell’Unione solo decenni più tardi. Tale preveggenza confina con il miracoloso.

109. Tuttavia, a parte la mancanza di una definizione specifica e il problema temporale, vi sono due motivi inconfutabili per i quali ritengo che l’indennità non possa in ogni caso costituire un’«azione positiva».

110. In primo luogo, la misura riguarda un gruppo molto specifico, che pertanto riapre la già discussa questione della sua selettività e della discriminazione di secondo grado (48). Tali misure non sono state adottate per assicurare la piena uguaglianza di tutti i gruppi che siano stati svantaggiati in generale nel passato o, più specificamente, che non abbiano ferie per una festività rilevante, diversamente dalla maggioranza cattolica.

111. In secondo luogo, qualsiasi misura, che si dica rientri nell’ambito di un’azione positiva, deve in ogni caso rispettare il principio di proporzionalità. Ciò è stato recentemente confermato, in linea generale, in relazione alle misure che limitano le libertà religiose valutate alla luce della Carta e della direttiva 2000/78 (49). Benché la giurisprudenza della Corte sull’applicazione della nozione di azione positiva nel contesto del diritto derivato non prospetti l’analisi in termini di proporzionalità, è chiaro che la Corte esamina le misure al fine di stabilire se esse siano necessarie per neutralizzare lo svantaggio percepito (50). Per le stesse ragioni esposte in relazione alla seconda questione (51), ritengo che le misure di diritto nazionale in questione non possano in alcun caso essere considerate proporzionate e, in quanto tali, non possono rientrare nel concetto di azione positiva ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

112. Infine osservo che, mentre le considerazioni precedentemente esposte si focalizzano nuovamente sull’indennità, vale anche il ragionamento ai paragrafi 97, 98 e 101, relativo alla selettività della misura alla luce del beneficio delle ferie retribuite, che preclude la trattazione di tale prestazione come «azione positiva».

113. Alla luce di quanto precede, propongo di rispondere alla terza questione del giudice del rinvio nel seguente modo:

Una normativa nazionale che garantisce un’indennità del tipo di cui alla prima questione non costituisce un’azione positiva ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

F.      Sulla quarta questione pregiudiziale

114. Con la quarta questione il giudice del rinvio chiede sostanzialmente come si debba porre rimedio alla violazione del divieto di discriminazione, più in particolare quando essa si verifica in un rapporto tra privati. Prima di affrontare la questione se la soluzione sia negare a tutti le ferie e l’indennità o estenderle a tutti, la domanda preliminare, che in parte anticipa la risposta, è quale normativa applicare in una relazione orizzontale siffatta e con quali conseguenze.

115. Certi principi già contenuti nella giurisprudenza della Corte forniscono alcune indicazioni.

116. Prima di tutto una direttiva non può essere fatta valere in quanto tale nei confronti di un individuo (come un datore di lavoro del settore privato) (52). In tali casi il rimedio concesso alla vittima, in linea di principio, assume la forma di un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato (53).

117. In secondo luogo, il divieto di discriminazione fondata sulla religione contenuto nell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta può, almeno in alcuni casi, essere invocato «in combinato disposto con» la direttiva 2000/78 nei confronti di singole persone, con la conseguenza che il giudice nazionale deve disapplicare ogni normativa che ritenga incompatibile con tale divieto. In questo senso il combinato disposto dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e della direttiva dà origine a un diritto a non subire discriminazioni, il quale può essere fatto valere direttamente dinanzi ai giudici nazionali anche in un contesto orizzontale. Tuttavia è importante chiarire che si tratta delle conseguenze del primato del diritto dell’Unione, non di un suo effetto diretto (successiva sezione 1).

118. In terzo luogo, a mio avviso, l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta non è «direttamente efficace a livello orizzontale», nel senso di far sorgere in sé e per sé un obbligo definito, in capo a un datore di lavoro privato, che può essere riconosciuto dai giudici nazionali direttamente nei confronti di tale datore di lavoro, qualora, come nel caso in esame, la discriminazione tragga origine dalla legislazione nazionale (sezione 2). Tuttavia, la vittima deve avere la possibilità di intentare un’azione di risarcimento contro lo Stato per porre rimedio a una tale discriminazione (sezione 3).

1.      Primato

a)      Combinato disposto delle direttive con le disposizioni della Carta

119. La Corte ha compensato il summenzionato diniego di concessione di un effetto orizzontale diretto alle direttive in vari modi. Spesso attraverso il dovere di interpretazione conforme (54). Secondo una giurisprudenza ben consolidata, tale obbligo non richiede comunque che il giudice nazionale interpreti il diritto interno «contra legem». Nel caso in esame, il giudice nazionale ha evidenziato in maniera chiara che un’interpretazione conforme del diritto nazionale non è possibile.

120. Di fronte a tali limiti per un’interpretazione conforme, la Corte ha «combinato» la propria interpretazione dei principi generali del diritto (55) o della Carta (56) con la direttiva 2000/78, al fine di concludere che un individuo può fare affidamento su ciò che in pratica costituisce il contenuto sostanziale di una direttiva nell’ambito di una controversia con un altro privato, al fine di disapplicare la legge nazionale confliggente.

121. Nelle sentenze Mangold, Kückükdeveci e DI (57) la Corte ha accertato che le disposizioni nazionali in materia erano incompatibili con le specifiche disposizioni in materia della direttiva. Ha proseguito confermando che il diritto dell’Unione «ostava» (con la conseguenza che il giudice nazionale deve «disapplicare») a tali disposizioni di diritto nazionale nella misura in cui esse confliggevano con il principio generale. Pertanto i giudici nazionali erano tenuti a interpretare le norme nazionali «in modo tale che esse possano ricevere un’applicazione conforme a tale direttiva oppure, qualora una siffatta interpretazione conforme fosse impossibile, a disapplicare, se necessario, qualsiasi disposizione di tale diritto nazionale contraria al principio generale della non discriminazione in ragione dell’età» (58). Il pertinente contenuto della direttiva è stato quindi efficacemente importato all’interno del principio generale prima di applicare quel principio così «arricchito» in una controversia privata per concludere nel senso dell’incompatibilità della normativa nazionale.

122. Nella sentenza Egenberger la Corte ha ritenuto che il divieto di discriminazione fondata sulla religione o sul credo di cui all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta «è di per sè sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede opposti in un settore disciplinato dal diritto dell’Unione» (59). Nell’applicare tale divieto, il giudice nazionale «deve prendere in considerazione, in particolare, l’equilibrio stabilito tra tali interessi dal legislatore dell’Unione nella direttiva 2000/78, al fine di determinare gli obblighi risultanti dalla Carta» (60). In altre parole, il contenuto delle disposizioni della direttiva in materia è stato in effetti ritenuto implicito nell’articolo 21 della Carta. Il giudice nazionale deve assicurare la piena efficacia di tale disposizione «disapplicando all’occorrenza qualsiasi disposizione nazionale contraria» (61). Lo stesso ragionamento è stato applicato, mutatis mutandis, all’articolo 47 della Carta.

123. Nella causa AMS (62), la Corte aveva tuttavia riconosciuto limiti a tale tipo di importazione del contenuto delle direttive all’interno di principi generali e disposizioni della Carta ai fini dell’applicazione in situazioni orizzontali. Tale causa riguardava la direttiva 2002/14/CE, che imponeva la rappresentanza dei lavoratori nelle imprese con oltre 50 addetti (63). L’articolo 3, paragrafo 1, fissa la soglia dei «50 addetti» e, per quel che qui interessa, il caso riguardava sostanzialmente la definizione di «addetto» a tali fini. La Corte ha rilevato che la disposizione nazionale in materia era incompatibile con l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva, in quanto escludeva determinati tipi di addetti dal calcolo del numero totale di addetti.

124. Tuttavia la Corte ha proseguito dichiarando che «le circostanze del procedimento principale si differenzi[a]no da quelle all’origine della citata sentenza Kücükdeveci, nella misura in cui il principio di non discriminazione in base all’età, in esame in quella causa, sancito dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, è di per sé sufficiente per conferire ai singoli un diritto soggettivo invocabile in quanto tale» (64). Per contro, l’articolo 27 della Carta «non [è] (…) sufficiente per conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale» (65). La Corte ha quindi di fatto ritenuto che la norma di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2002/14 fosse troppo dettagliata per essere considerata inerente alla relativa disposizione della Carta.

b)      Effetti giuridici secondo la giurisprudenza esistente

125. È chiaro che, a seguito della sentenza Egenberger, l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta può essere «fatto valere» in combinato disposto con la direttiva 2000/78, nel contesto di una controversia tra privati, sia come strumento di interpretazione conforme, sia, cosa ancora più importante, come parametro per mettere alla prova la validità del diritto dell’Unione e la compatibilità del diritto nazionale (nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione). Pertanto, può essere invocato dai singoli individui contro altri soggetti per «precludere» o far sì che il giudice nazionale «disapplichi» una disposizione confliggente di diritto nazionale.

126. La sentenza Egenberger conferma così il primato del diritto primario dell’Unione sub specie dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta nel contesto specifico di una controversia orizzontale, dove lo strumento di diritto derivato è una direttiva e un’interpretazione conforme non è possibile.

127. Tuttavia la sentenza Egenberger non entra nel dettaglio delle ulteriori conseguenze di un siffatto ricorso alla disposizione in tali casi. In particolare, non vi è nulla in tale sentenza (e in nessuna delle altre sentenze citate nella sezione precedente) che confermi che l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta sia «direttamente efficace a livello orizzontale» nel senso di essere intrinsecamente in grado, di per sé, di costituire una fonte autonoma di diritti che generino corrispondenti obblighi gravanti su un altro soggetto in una controversia di diritto privato. Né detta sentenza né il resto della giurisprudenza citata portano a concludere che il ricorso all’articolo 21, paragrafo 1, e il rilievo dell’incompatibilità conducano necessariamente a un rimedio particolare.

128. Tale giurisprudenza, invece, ribadisce la formula generale secondo cui i giudici nazionali devono assicurare «la tutela giurisdizionale derivante dalle disposizioni del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia» (disapplicando la normativa nazionale incompatibile) (66) ovvero sostiene che il giudice nazionale deve «garantire il rispetto del principio di non discriminazione» (67) o che a un privato non possa essere negato il beneficio di un’intepretazione in senso ostativo alla norma di diritto nazionale contestata (68).

129. In sintesi, è ormai chiaramente dimostrato che un esame astratto di compatibilità, alla luce dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta in combinato disposto con la direttiva 2000/78, come condotto in risposta alla prima questione proposta dal giudice del rinvio, può comportare la disapplicazione del diritto nazionale incompatibile. Ciò è conseguenza del primato del diritto dell’Unione, che può venire in rilievo anche nel contesto di una controversia tra privati.

130. Per le ragioni esposte nella prossima sezione, il mio suggerimento alla Corte è che sarebbe saggio mantenersi su tale approccio. Quando si chiede esplicitamente quali siano le specifiche conseguenze concrete per le parti, se la legge nazionale fosse effettivamente disapplicata, il mio ulteriore suggerimento sarebbe, invece di prendere in considerazione una diretta efficacia orizzontale delle disposizioni della Carta (2), quello di concentrarsi piuttosto sulla questione dei rimedi (3).

2.      «Efficacia diretta orizzontale»

131. Dichiarare che l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta sia direttamente efficace a livello orizzontale significherebbe che gli individui potrebbero dimostrare, direttamente sulla base di tale disposizione, la sussistenza di un diritto e di un correlato obbligo della controparte privata (non pubblica), indipendentemente dall’esistenza e/o dal riferimento al contenuto del diritto derivato. In questo senso, una norma dotata di efficacia diretta è, in sé e per sé, così sufficientemente chiara, precisa e categorica da poter essere invocata in giudizio in un rapporto orizzontale.

132. Ho difficoltà a vedere la disposizione dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, nel contesto della causa in esame, come conforme a tali requisiti (a); lo stesso dicasi, per quanto riguarda ciò, di un certo numero di disposizioni della Carta in generale (b). Tuttavia, ancora una volta, ciò non esclude che le disposizioni della Carta siano effettivamente applicabili e particolarmente rilevanti in casi come quello in esame, sebbene in modo differente (c).

a)      Efficacia diretta orizzontale dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta

133. A un certo livello, si potrebbe certamente suggerire che la norma che vieta la discriminazione in base alla religione è, a tale livello di astrazione, in effetti sufficientemente chiara, precisa e categorica. Non deve esservi, categoricamente e manifestamente, nessuna discriminazione fondata sulla religione.

134. Tuttavia, se considerata a un tale livello di astrazione, in sostanza qualsiasi disposizione del diritto dell’Unione potrebbe essere direttamente efficace. Questo è il motivo per cui la tradizionale verifica dell’efficacia diretta è di natura diversa: il contenuto della norma specifica è sufficientemente chiaro e preciso da poter essere invocato in giudizio nel contesto di un determinato caso?

135. La stessa causa in esame fornisce un buon esempio della complessità della questione e del perché non esista una regola «chiara, precisa e categorica» per fornire una risposta. Esisterebbe un diritto a (e un obbligo di concedere) un giorno di ferie retribuito derivante dall’articolo 21, paragrafo 1, della Carta? Quel giorno di ferie sarebbe il Venerdì santo o un altro giorno specifico? Oppure l’unica pretesa può essere pecuniaria, sotto forma di diritto a un aumento dello stipendio o a un’indennità o a una compensazione o a un risarcimento (con un corrispondente obbligo di corrispondere detto importo in capo al datore di lavoro)?

136. A mio parere, l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, che è succintamente formulato, non può essere interpretato come se contenesse risposte a tali domande. Nondimeno, il giudice nazionale, «disapplicando» la disposizione incriminata della normativa interna, si troverà inevitabilmente ad affrontarle, come in questo caso.

137. Riconosco prontamente che «chiaro, preciso e incondizionato» non implica che ogni aspetto del diritto sia esplicitamente definito anticipatamente dalla legislazione. Un tale scenario è semplicemente non realistico. Tuttavia, ciò che rimane non definito deve, quanto meno, essere azionabile in giudizio (69). A mio avviso, la reale natura del diritto in questione (una festività per il Venerdì santo, un non meglio definito giorno di ferie retribuite, un’indennità se le ferie in questione non vengono godute) non è qualcosa di azionabile in giudizio in tal senso.

138. A livello ancor più basilare, non ritengo che il problema qui posto riguardi l’«efficacia diretta orizzontale» della Carta (in combinato disposto con una direttiva). Ancora, a un certo livello di astrazione, potrebbe rinvenirsi un divieto di discriminazione «chiaro, preciso e categorico» nell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, ma nessun obbligo pratico «chiaro, preciso e categorico» che scaturisca da esso. A mio avviso, la quarta questione del giudice nazionale non dovrebbe essere affrontata in termini di efficacia diretta orizzontale. L’efficacia diretta orizzontale nel senso ora descritto – che origina diritti specifici (in termini pecuniari, di benefici e così via) e corrispondenti obblighi – è palesemente assente.

b)      Efficacia diretta orizzontale della Carta in generale

139. Guardando oltre lo specifico ambito della causa in esame e oltre l’applicazione all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta della tradizionale verifica dell’«efficacia diretta», vi sono ulteriori argomenti di principio per i quali l’efficacia orizzontale diretta delle disposizioni della Carta sarebbe problematica.

140. In primo luogo, secondo l’articolo 51, paragrafo 1, in modo molto simile alle direttive di cui all’articolo 288 TFUE, la Carta semplicemente non si rivolge ai soggetti dell’ordinamento, quanto piuttosto agli Stati membri nonché alle istituzioni e agli organi dell’Unione. Si potrebbe sostenere che tale argomento (testuale) non è molto solido, poiché in effetti sussistono già significativi effetti orizzontali della Carta che sono stati precedentemente esposti in dettaglio (70). Vi è, tuttavia, una notevole differenza qualitativa fra, da un lato, affermare che una carta dei diritti potrebbe essere utilizzata per l’esame della compatibilità e la potenziale disapplicazione della normativa contrastante, e che potrebbe altresì essere fonte di un’interpretazione conforme che si estenda anche a situazioni orizzontali e, dall’altro lato, rendere le disposizioni di tale carta dei diritti fonte di obblighi diretti per i privati, indipendentemente e/o in assenza di disposizioni di legge. Questo è anche il motivo per cui, per quanto a mia conoscenza, in una serie di ordinamenti giuridici, la carta dei diritti nazionale svolgerebbe proprio queste due funzioni, forse anche in combinazione con l’introduzione di obblighi concreti che lo Stato deve assumersi. Tuttavia, anche se si estendessero con tali modalità a rapporti di diritto privato, i diritti fondamentali non sarebbero ancora dotati, abbastanza saggiamente, di applicabilità diretta orizzontale.

141. In secondo luogo, la ragione di tale limitazione non è certamente l’assenza di una volontà di tutelare efficacemente i diritti fondamentali. È piuttosto l’esigenza di prevedibilità, certezza del diritto e, a livello costituzionale, la separazione dei poteri. Le carte dei diritti tendono ad essere piuttosto astratte e quindi vaghe, così come lo è la Carta. Hanno generalmente bisogno di un’ulteriore attività legislativa per fornire loro contenuti invocabili in giudizio. Attribuire a tali disposizioni un’efficacia diretta orizzontale in sé e per sé, per quanto concerne i diritti e gli obblighi dei privati, apre le porte a forme estreme di creatività giudiziaria (71).

142. In terzo luogo, giacché non è chiaro il contenuto dei diritti e degli obblighi derivanti dalla Carta, si potrebbe essere tentati di cercare risposte all’interno del diritto derivato in materia. Nel valutare la compatibilità della normativa nazionale con le disposizioni della Carta (principio del primato), la Corte si riferisce in effetti all’applicazione delle disposizioni della Carta e dei principi generali «con riferimento a» o «in combinazione con» il diritto derivato (72). Sembra che vi sia una crescente giurisprudenza di questa Corte la quale in effetti importa il contenuto (spesso piuttosto sofisticato) di direttive all’interno di disposizioni della Carta prima di applicare queste ultime disposizioni in via orizzontale (73).

143. Non vi è alcun dubbio che talvolta la consultazione della normativa derivata sia davvero cruciale per accertare quale possa essere il contenuto (accettabile) di un diritto o di un principio generale in un dato momento storico (74). Esiste, tuttavia, una differenza tra una revisione critica comparativa di (un certo numero di) fonti di diritto derivato, al fine di concludere quale possa essere la tendenza generale, e una «traslitterazione», in effetti, acritica e diretta del contenuto di una direttiva in una disposizione della Carta.

144. I problemi sia costituzionali che pratici di quest’ultimo approccio sono numerosi (75). L’efficacia diretta delle disposizioni della Carta dipende realmente da se e quale normativa derivata sia stata adottata in un dato settore? La (non) esistenza di un’efficacia diretta della Carta sarà quindi indirettamente decisa dal legislatore dell’Unione? Dovrebbe essere la Carta, in tal modo, «decostituzionalizzata»? Invece di fornire il parametro per la revisione del diritto derivato, dovrebbe essere determinato e dominato da essa? Se la risposta è no, o se certamente non sempre, allora quando dovrebbe e quando non dovrebbe?

145. Alla fine è questo problema della prevedibilità e della certezza del diritto, insieme, certamente, a un chiaro sapore di elusione di limiti precedentemente autoimposti, che mi porta al punto finale: se davvero questo dovesse essere il futuro approccio della Corte, sarebbe forse opportuno rivedere la questione dell’efficacia orizzontale diretta delle direttive. L’insistenza nel negare, formalmente, l’efficacia orizzontale diretta alle direttive, mentre si muovono cielo e terra per garantire che tale restrizione non abbia alcuna conseguenza pratica, come accade importando il contenuto di una direttiva all’interno di una disposizione della Carta, appare sempre più discutibile.

c)      Nessuna efficacia orizzontale diretta, e pur tuttavia (significativi) effetti

146. L’esclusione dell’efficacia orizzontalediretta dell’articolo 21, paragrafo 1 (e, a questo riguardo, di altre disposizioni), della Carta non significa che tali disposizioni non producano effetti orizzontali. Anzi, al contrario. Ma si tratta di effetti di natura differente. Per quanto riguarda il diritto nazionale, la Carta serve: i) come strumento ermeneutico per l’interpretazione conforme della legge nazionale; ii) come parametro per la compatibilità tra norme dell’Unione e norme nazionali, con la possibile conseguenza che qualora le norme nazionali (applicate nel contesto in cui lo Stato membro agisce nell’ambito del diritto dell’Unione) siano incompatibili con la Carta, esse devono essere disapplicate dal giudice nazionale, anche nelle controversie insorte tra privati. Quest’ultima è tuttavia una delle conseguenze del primato del diritto dell’Unione, non un’efficacia orizzontale diretta delle disposizioni della Carta. Non possono essere creati nuovi obblighi autonomi per i privati esclusivamente sulla base della Carta.

147. Certamente, la disapplicazione di una norma nazionale incompatibile non è in grado di per sé di apprestare tutela immediata alle parti. Ed è evidentemente così nel caso in esame. Disapplicazione significa eliminare le disposizioni interne illegitime. A meno che non si accolga un approccio alquanto singolare, per non dire involuto e pericoloso, al concetto di «disapplicazione» (che implichi, ad esempio, l’esclusione selettiva di determinate parole presenti nella disposizione illegittima (76)), la disapplicazione della disposizione illegittima nel caso di specie comporterebbe la disapplicazione dell’intero articolo 7, paragrafo 3, della legge in materia di periodi di riposo. Ciò significherebbe che, dal momento di una tale dichiarazione giudiziale di incompatibilità, nessuno godrebbe di ferie il Venerdì santo.

148. Un approccio alternativo consisterebbe nel ritenere che esista un diritto efficace orizzontalmente a non essere discriminati e che, all’interno di tale diritto, vi sia un ulteriore diritto a ricevere gli stessi diritti e benefici del gruppo favorito (livellamento verso l’alto) o di vedere i propri pari trattati male nella stessa misura (livellamento verso il basso). Ciò che è in effetti implicito nella quarta questione proposta dal giudice nazionale. Tuttavia, supponendo di adottare la soluzione di un livellamento verso l’alto – tornerò su tale punto più in là – ciò non risponde ancora a nessuna delle precedenti domande sulla natura e la portata dei diritti in questione.

149. Invece, a mio avviso, la questione dovrebbe essere intesa nel senso di chiedere chiarezza sugli esatti rimedi che devono essere a disposizione in casi come quello in esame, in contrapposizione con un insieme sfuggente di diritti specifici (a ferie, indennità o altro). Tale approccio è invero già presente nelle sentenze Mangold, Kükükdeveci, DI ed Egenberger, che hanno tutte confermato la disapplicazione della disposizione nazionale illegittima e l’esistenza di un diritto a un rimedio efficace (non l’«efficacia diretta orizzontale» della Carta). Tuttavia l’attenzione nella causa in esame su quali siano le conseguenze pratiche della disapplicazione significa che la Corte deve essere chiara riguardo a tale distinzione. È a tale questione che ora rivolgo la mia attenzione.

3.      Rimedi

150. L’articolo 21, paragrafo 1, della Carta non fa sorgere uno specifico gruppo di diritti/obblighi corrispondenti per datori di lavoro e lavoratori. Nondimeno, spetta in particolare ai giudici nazionali assicurare agli individui la tutela giurisdizionale derivante dalle norme del diritto dell’Unione e garantirne la piena efficacia (77). Si deve avere a disposizione un rimedio contro le discriminazioni, in conformità con il principio di una tutela giurisdizionale effettiva (78).

151. In assenza di norme dell’Unione che disciplinino la materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare corti e tribunali aventi giurisdizione al riguardo e stabilire le norme procedurali dettagliate che disciplinino le azioni a tutela dei diritti che gli individui traggono dal diritto dell’Unione. Gli Stati membri, tuttavia, sono tenuti a garantire, in ogni caso, la tutela effettiva di detti diritti (79) e, nel far ciò, devono rispettare i principi di equivalenza ed efficacia (80).

152. La Corte può tuttavia fornire indicazioni su cosa comporti il diritto a un rimedio efficace in un caso come quello in esame. Vi sono due questioni in relazione alle quali la Corte può essere d’ausilio al giudice del rinvio. Esse sono, in primo luogo, se il rimedio consista nel livellamento verso l’alto o verso il basso (a) e, in secondo luogo, contro chi dovrebbe essere invocato tale rimedio (b).

153. Ritengo che, in casi come quello in esame, in cui sussiste una controversia tra parti private e in cui la fonte della discriminazione risiede nella normativa nazionale ed è accertata sulla base dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta (in un esame astratto come quello di cui alla prima questione, in combinato disposto con la direttiva 2000/78), il diritto dell’Unione non esige che sia offerto un rimedio contro il datore di lavoro. Tuttavia, esso esige che la vittima possa intentare un’azione di risarcimento contro lo Stato per porre rimedio alla violazione.

154. Prima di approfondire questi punti, affronterò la questione del «livellamento verso l’alto» e del «livellamento verso il basso».

a)      Livellamento verso l’alto e verso il basso

155. La quarta questione prospettata dal giudice nazionale prevede due soluzioni al problema della discriminazione per questo caso: il livellamento verso l’alto e il livellamento verso il basso.

156. Desidero chiarire che intendo la questione del giudice del rinvio nel senso che riguardi solo il «periodo intermedio», ovvero il momento successivo alla dichiarazione di incompatibilità, ma antecedente a quello in cui il legislatore nazionale prevederà una nuova disciplina. Per quel periodo, la questione del livellamento verso l’alto o verso il basso resta invero aperta.

157. Per contro, la stessa questione non si pone invero per il passato, vale a dire per gli anni precedenti in cui l’indennità era concessa solo a un gruppo selezionato, e non agli altri, e tali periodi non sono ancora prescritti ai sensi delle norme di diritto interno. Per questi periodi l’unico modo per porre rimedio all’avvenuta discriminazione, in termini pratici, è costituito, invero, semplicemente, dal «livellamento verso l’alto». Il gruppo privilegiato non può essere retroattivamente privato dei suoi vantaggi, in virtù delle sue legittime aspettative, se non piuttosto di diritti già quesiti. Pertanto l’unico vero modo di porre rimedio alla discriminazione, per quel lasso di tempo, è attribuire la stessa prestazione a tutti (ma subordinatamente alla domanda affrontata nella seguente sezione, relativa a chi può essere tenuto a pagare e perché).

158. Rivolgendosi ora, dunque, al solo periodo transitorio, in relazione a tale periodo la Commissione ha anche suggerito che la risposta adatta sarebbe il livellamento verso l’alto. A sostegno di tale tesi, sia il ricorrente che la Commissione hanno citato la stessa giurisprudenza, tra cui le sentenze Milkova, Specht e Landtová (81).

159. È vero che, in tali casi, la Corte ha formulato l’ampia osservazione che «quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata, regime che, in assenza della corretta applicazione del diritto dell’Unione, resta il solo sistema di riferimento valido» (82).

160. Ciò implica che, qualora il giudice nazionale si trovi di fronte a discriminazioni originate dalla normativa nazionale, l’inevitabile conseguenza della disapplicazione della norma di diritto interno contrastante consiste effettivamente in un «livellamento verso l’alto», in pendenza dell’adozione di una normativa non discriminatoria (la quale potrebbe anche livellare verso il basso) (83).

161. Vorrei svolgere, al riguardo, le seguenti osservazioni.

162. In primo luogo, il primato, compreso quello della Carta, impone che la disposizione di diritto nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione venga disapplicata. Ciò significa che la disposizione illegittima dovrebbe essenzialmente scomparire dall’ordinamento giuridico nazionale in quelle situazioni in cui versi in conflitto con il diritto dell’Unione. Per logica, dunque, ciò che è scomparso non può conseguentemente essere applicato proprio a nessuno. Eppure in qualche modo, miracolosamente, proprio la disposizione che era stata rimossa quando era applicabile ad alcuni immediatamente risorge per essere applicata a tutti. Di tale paradosso, che è implicito nella soluzione del livellamento verso l’alto, si deve prendere atto prima che possa essere affrontato.

163. In secondo luogo, come proposta aperta, la soluzione del livellamento verso l’alto quale predefinito rimedio automatico (al contrario di un diritto con efficacia diretta orizzontale) sembra l’opzione migliore, in particolare dal punto di vista delle legittime aspettative del gruppo privilegiato. Ma il diavolo è di nuovo nei dettagli (o almeno nell’applicazione pratica). I casi più complessi riguardano prestazioni di tipo non pecuniario. Nel caso di specie, la Commissione ha sostenuto, nelle sue memorie scritte, che l’articolo 7, paragrafo 3, della legge in materia di periodi di riposo rischierebbe di operare discriminazioni se concedesse il Venerdì santo come giorno libero ad alcuni gruppi religiosi e non ad altri. In ogni caso la soluzione proposta dalla Commissione non era di estendere il Venerdì santo a tutti, come festività pubblica. Piuttosto la Commissione ha proposto una riscrittura pretoria della disposizione per estendere a tutti i dipendenti il beneficio di un giorno di ferie retribuite, al fine di celebrare un evento religioso «particolarmente rilevante», che dovrebbe essere designato da ogni singolo dipendente. «Livellamento verso l’alto» suona bene (almeno in inglese) ma maschera una certa complessità potenzialmente significativa, finanche arbitraria, nella sua applicazione pratica, non dissimile da quella già affrontata in relazione alla questione dell’efficacia orizzontale diretta.

164. In terzo luogo, vi sono diverse sentenze della Corte in cui è enunciata una variante del principio del «livellamento verso l’alto». Tuttavia, ciascuno di questi casi ha caratteristiche distintive. Due sono di particolare importanza, cioè la fonte della discriminazione e l’identità del resistente.

165. A tal proposito, rilevo che, in tutti i casi citati dalle parti per sostenere la soluzione del livellamento verso l’alto (84), la fonte della discriminazione era la legge nazionale e il resistente era lo Stato (e la controversia di tipo pecuniario (85)). Questa è, a mio avviso, la più semplice configurazione possibile (e in effetti la più comune nella giurisprudenza della Corte) (86). In definitiva, lo Stato membro deve pagare il conto per le discriminazioni normative. Questo è l’evidente corollario della sentenza Francovich e della sua discendenza. La responsabilità dello Stato deve in principio fornire una rete di sicurezza.

166. Vi sono anche casi in cui la Corte si è riferita al principio del livellamento verso l’alto nel contesto di controversie tra privati. Tuttavia ciò si è verificato in un numero limitato di casi relativi a discriminazioni riguardanti pensioni (87) o salari (88), generalmente attribuibili al datore di lavoro (non originati dalla legislazione). Nel contesto di controversie private riguardanti presunte discriminazioni, invece di proporre un livellamento verso l’alto come soluzione generale, la Corte si è piuttosto concentrata sulla generale necessità di fornire rimedi e sanzioni efficaci (89).

167. In quarto luogo, senza ulteriori motivi specifici, quali la dignità umana o le legittime aspettative, che impedirebbero un livellamento verso il basso per il periodo transitorio nel contesto di una causa individuale, non riesco a individuare un qualsiasi argomento di principio per il quale sistematicamente, e in tutti i casi di discriminazione, il livellamento verso il basso sarebbe di per sé escluso. Ciò è tanto più vero nei casi in cui il beneficio concesso al gruppo privilegiato non è periodico o, in caso di reiterazione, non sussiste alcuna relazione di dipendenza (come ad esempio le periodiche prestazioni previdenziali).

168. Volgendo lo sguardo al caso in esame, quale sarebbe la specifica (ulteriore) ragione per superare efficacemente la conclusione secondo cui la disposizione incompatibile debba essere «disapplicata» e rimpiazzata con il risultato che il suo ambito soggettivo debba essere esteso cinquanta volte (90)?

169. La generosità di dichiarare che tutti dovrebbero stare meglio è forse personalmente soddisfacente, ma difficilmente è giuridicamente opportuna, senza considerare la sostenibilità economica (91). Desidero sottolineare che le argomentazioni economiche non costituiscono, ovviamente, una giustificazione per le discriminazioni. Tuttavia, ciò di per sé non fornisce una giustificazione positiva per il livellamento verso l’alto.

170. Proteggere la libertà religiosa degli appartenenti alle quattro chiese, inoltre, non dà grandi risultati. A tale proposito, rilevo che l’articolo 8 della legge in materia di periodi di riposo impone un obbligo di sollecitudine ai datori di lavoro, di fatto imponendo loro di soddisfare in modo ragionevole le esigenze di culto dei propri dipendenti. Se ciò è sufficiente per le altre minoranze religiose in Austria, in relazione alle loro festività religiose più importanti, perché non dovrebbe esserlo per gli appartenenti alle quattro chiese? Viceversa, non è chiaro come il «livellamento verso l’alto», magari pagando il doppio tutti i dipendenti austriaci o concedendo loro un giorno libero il Venerdì santo, potrebbe in qualche modo favorire la libertà religiosa.

171. Alla luce di quanto precede, ritengo che non sia possibile nel caso di specie limitarsi a rispondere al giudice del rinvio confermando che il «livellamento verso l’alto» sia l’unica giusta direzione da seguire. Si tratta di un approccio che la Corte ha sviluppato nel contesto di azioni contro lo Stato principalmente in relazione alle prestazioni previdenziali, e che non è generalmente trasferibile a controversie orizzontali. Inoltre, nelle attuali circostanze, costituirebbe una risposta eccessivamente semplicistica che maschererebbe certe complessità di grande importanza pratica. Invece ritengo che il punto di riferimento in questo caso debba essere la giurisprudenza della Corte sui rimedi efficaci.

b)      Rimedi efficaci (e identità del resistente)

172. Benché l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta non sia direttamente efficace orizzontalmente, la disposizione nazionale problematica dev’essere disapplicata (prima questione). Il problema inerente al livellamento verso l’alto o verso il basso è stato già trattato. In questa sezione conclusiva passo alla domanda relativa a chi debba fornire il rimedio. Si prospettano, essenzialmente, due opzioni: i) il datore di lavoro (che può poi rivalersi nei confronti dello Stato), o ii) lo Stato (che dovrebbe essere citato direttamente dal lavoratore). Dal mio punto di vista, la risposta corretta è l’ultima: lo Stato.

i)      Rimedi contro il datore di lavoro

173. Il diritto a un rimedio efficace in casi come quello in esame, in cui il ricorrente è vittima di una normativa nazionale discriminatoria applicata da un datore di lavoro, impone che il lavoratore debba avere a disposizione un rimedio contro tale datore di lavoro?

174. L’avvocato generale Cruz Villalón ha esplicitamente preferito tale opzione nelle sue conclusioni nella causa AMS. Egli ha ritenuto «ragionevole che l’onere del risarcimento ricada su colui che ha beneficiato del comportamento illegittimo, e non sul titolare del diritto derivante dalla concretizzazione del contenuto del “principio”» (92). Il datore di lavoro che è ritenuto responsabile potrebbe poi agire in rivalsa contro lo Stato.

175. A meno di non sbagliarmi, la Corte non ha mai affrontato questo argomento direttamente. Tuttavia la sentenza DI potrebbe anche essere letta come se imponesse un tale criterio (93).

176. Tale approccio potrebbe essere effettivamente giustificato dall’efficacia (della tutela del lavoratore). Potrebbe essere più economico e più veloce (e meno scoraggiante) per il dipendente fare causa al datore di lavoro piuttosto che allo Stato. Dal punto di vista morale, il dipendente è danneggiato dalla legge discriminatoria e merita tutela. È probabile che si verifichi, come rilevato dall’avvocato generale Cruz Villalón, un beneficio illegittimo, ricavato dal datore di lavoro in conseguenza di una discriminazione, che deve essere controbilanciato. Nel complesso, è probabile che il datore di lavoro si trovi in una posizione di relativo potere.

177. Pertanto gli argomenti favorevoli ad asserire che, per le discriminazioni relative alle condizioni di lavoro, ci deve essere sempre un rimedio diretto contro il datore di lavoro tendono essenzialmente a ruotare attorno a tre elementi: la fonte, la colpa e il beneficio, potenzialmente insieme all’argomento della forza e della (intrinseca) disuguaglianza.

178. A livello generale, tali argomentazioni sono di certo valide per un dato tipo di discriminazione: quella attribuibile, almeno parzialmente, a un determinato datore di lavoro. Tuttavia, esse si scontrano con una serie di difficoltà logiche in un caso come quello in esame, ove la controversia è tra parti private in cui si deduce una discriminazione fondata sulla religione derivante direttamente dalla normativa nazionale.

179. In primo luogo, la fonte della violazione nel caso in esame è la normativa nazionale. Non c’era spazio per un’autentica discrezionalità o decisione indipendente in capo al datore di lavoro. Questo ha semplicemente applicato una normativa nazionale vincolante. Una situazione del genere è alquanto diversa da quelle in cui la Corte ha imposto che si offrisse un rimedio contro il datore di lavoro, quando la fonte della discriminazione consisteva anche nelle decisioni di quest’ultimo (94).

180. Ciò si ricollega, in secondo luogo, all’elemento della colpa. Qual è stata la colpa per la quale il datore di lavoro dovrebbe pagare? Aver applicato una valida legge nazionale? Nei casi in cui la Corte ha preso in considerazione presunte discriminazioni da parte dei datori di lavoro, che violavano il diritto dell’Unione, ha spesso statuito che la sanzione imposta contro una violazione deve essere efficace, proporzionata e dissuasiva (95). A meno che non ci si aspetti che i datori di lavoro agiscano quali poliziotti costituzionali, con il dovere concreto di scoprire e contestare attivamente la legge nazionale che considerano potenzialmente in conflitto con le disposizioni della Carta, questa logica di dissuasione o deterrenza scompare. O la colpa cnsiste nel fatto che il datore di lavoro non ha contestato la compatibilità della legislazione nazionale con l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e con la direttiva 2000/78? Quindi, in termini pratici, un datore di lavoro è tenuto ad anticipare ciò che emergerebbe all’esito di diversi anni di procedimenti che vedono il coinvolgimento della Corte suprema di uno Stato membro, della Grande Sezione della Corte di giustizia e di molti altri avvocati e giudici eruditi che hanno dato il loro contributo nelle diverse fasi.

181. In terzo luogo, allo stesso modo non riesco a capire come un datore di lavoro potrebbe trarre benefici dal dover pagare doppiamente alcuni dei suoi dipendenti, o anche dall’essere obbligato a concedergli ferie retribuite per il Venerdì santo. A meno che, sulla base di una lettura molto discutibile, il fatto di astenersi dal pagare il restante 98% dei lavoratori allo stesso modo sia qualificabile come «beneficio» illecito ottenuto maliziosamente dai datori di lavoro, io vedo solo oneri imposti a questi ultimi.

182. In quarto luogo, c’è l’argomento della debolezza relativa. Questo argomento, diversamente dagli altri tre, vanta almeno una certa forza. Potrebbe anche essere usato per superare tutte le altre considerazioni: a causa della disuguaglianza intrinseca sussistente nei rapporti di lavoro, l’onere di saldare il conto ricadrà sempre sul datore di lavoro, indipendentemente dalle circostanze.

183. Tale argomento cela una scelta profondamente ideologica sull’allocazione dei rischi e dei costi (96). Inoltre è forse prudente presumere che non tutti i datori di lavoro in Austria, o altrove nell’Unione europea, siano società multinazionali proverbialmente senza volto. Molte aziende sono gestite da singoli individui o da piccoli gruppi di persone. Perché dovrebbero essi sostenere il costo dell’applicazione di una normativa nazionale difettosa?

184. Tuttavia è certamente vero che tali questioni diventano irrilevanti quando, in sostanza, il datore di lavoro, semplicemente in virtù del fatto di essere un datore di lavoro, venga chiamato a farne le spese. Questo è un argomento assiomatico che però, suggerirei, non merita di essere seguito indiscriminatamente.

185. Mettendo insieme le precedenti argomentazioni, non ritengo che il diritto dell’Unione esiga che vi sia un rimedio contro il datore di lavoro in casi come quello in esame, in cui il datore di lavoro ha agito conformemente alla legislazione nazionale, ma quest’ultima sia considerata contraria all’articolo 21, paragrafo 1, della Carta (letto in combinato disposto con la direttiva 2000/78). Per essere chiari, tale conclusione si applica alle controversie tra parti private, non se il convenuto sia lo Stato (nelle veci del datore di lavoro). Tuttavia il diritto dell’Unione non osta a un rimedio esperibile anche avverso i datori di lavoro privati, nel caso in cui tale tipo di rimedi sia disponibile ai sensi del diritto nazionale.

ii)    L’azione di risarcimento nei confronti dello Stato

186. C’è una differenza, riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte, tra discriminazioni che hanno come fonte originaria il legislatore (come nel procedimento principale) e quelle la cui fonte è il datore di lavoro (97). Per trarre ispirazione dai convincenti argomenti della Commissione nel caso Dekker (98): «È ragionevole chiedersi, alla luce delle circostanze, se ci si possa legittimamente aspettare che il datore di lavoro ignori del tutto la normativa nazionale discriminatoria o che la impugni dinanzi al giudice per incompatibilità con la direttiva o con la legge sulla parità di trattamento [nella causa Dekker] di uomini e donne. L’esito di tali procedimenti sarebbe, tuttavia, in gran parte incerto; in ogni caso, una domanda di questo tipo equivarrebbe a imporre al datore di lavoro un obbligo che dovrebbe essere sopportato dallo Stato».

187. Vi sono ulteriori motivi per cui sarebbe inopportuno che il diritto dell’Unione imponga un rimedio contro il datore di lavoro privato in circostanze siffatte, e per cui un’efficace tutela giurisdizionale dovrebbe in pratica assumere la forma di un’azione di risarcimento nei confronti dello Stato. La maggior parte di essi è il riflesso di argomenti già affrontati nella sezione precedente.

188. Prima di tutto, vi è un argomento semplicemente morale, già esplorato alle voci relative alla fonte e alla colpa nella precedente sezione. Il principale fattore responsabile della discriminazione è lo Stato. A parità di condizioni, non è chiaro perché il costo di tale colpa debba essere sostenuto in prima istanza dai datori di lavoro.

189. L’argomento morale è in linea con quello strutturale. Se, in conseguenza del principio del primato e di una valutazione astratta di compatibilità, viene disapplicata la disposizione nazionale illegittima, sia la colpa sia il conseguente vuoto legislativo sono chiaramente imputabili allo Stato membro.

190. In secondo luogo, la responsabilità dei singoli datori di lavoro in prima istanza non costituirà un deterrente per loro (99) e potrebbe addirittura ridurre l’effetto dissuasivo nei confronti della parte realmente responsabile: lo Stato. Il cambiamento legislativo impone che venga esercitata una pressione sullo Stato.

191. In terzo luogo, se i dipendenti potessero soddisfare le loro pretese intentando causa al proprio datore di lavoro per aver applicato la legge e i datori di lavoro, a loro volta, citare in giudizio lo Stato, vi sarebbe una duplicazione del contenzioso. Per cui, quando la parte danneggiata si rivolge direttamente contro la parte in colpa, piuttosto che contro un intermediario non responsabile, viene evitata una fase del contezioso.

192. In quarto luogo, nel contesto di una lite privata in cui non è possibile un’interpretazione conforme d’una direttiva, la Corte ha sistematicamente rigettato la possibilità per una persona di invocare la direttiva contro un’altra persona. Un rimedio vi deve essere, ma contro lo Stato sotto forma di azione di risarcimento (100). Non è chiaro il motivo per cui, in linea di principio, non si dovrebbero più in tal caso invocare parallalelamente le disposizioni della Carta. In questo modo, la struttura dei rimedi per i rapporti (orizzontali) di diritto privato, quando si invocano fonti di diritto dell’Unione che non sono dotate di una diretta efficacia orizzontale, dovrebbe essere coerente.

193. In quinto e ultimo luogo, vi è un altro elemento di coerenza generale che milita a favore dell’approccio sui rimedi qui proposto. Esso si ricollega ancora al quadro di comparazione. Ho suggerito che, nei casi di valutazione astratta di compatibilità, il quadro di comparazione è costituito da uno dei gruppi (101). Ciò è del tutto in linea con il fatto che la fonte della differenziazione è la legislazione nazionale, non una qualsiasi decisione da parte del datore di lavoro. Per questo motivo, l’identità degli altri dipendenti del datore di lavoro (Cresco Investigation) non era determinante, né lo era la questione se il ricorrente, posto a paragone con essi, fosse stato trattato in modo diverso.

194. Tale questione, comunque, sarebbe divenuta piuttosto importante, con la riapertura totale del connesso discorso sulla comparabilità, se si fosse chiesto al ricorrente di agire nei confronti del datore di lavoro deducendo che quest’ultimo lo discriminasse (102). Supponendo che tale specifico datore di lavoro non abbia nessun appartenente alle quattro chiese tra i propri dipendenti (103), la difesa logica risiederebbe naturalmente nel fatto che egli non ha discriminato nessuno, giacché avrebbe trattato tutti i propri dipendenti esattamente allo stesso modo. Come potrebbe tale datore di lavoro, allora, essere ritenuto responsabile di una discriminazione che gli era assolutamente impossibile commettere?

195. Gli ultimi due pararafi sottolineano ancora una volta la necessità di coerenza logica in qualunque approccio la Corte infine adotti, su due livelli: il primo dei quali con riferimento al caso in esame (il tipo di controllo si riferisce al quadro di comparabilità, che a sua volta ha ripercussioni sui rimedi) e il secondo orizzontalmente, in termini di rimedi disponibili contro le violazioni di determinate fonti del diritto dell’Unione.

196. Per le ragioni esposte in questa e nelle precedenti sezioni, sono dell’avviso che i singoli individui possano avvalersi dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta (in combinato disposto con l’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78) affinché vedano disapplicate le disposizioni di diritto interno incompatibili. Ad ogni modo, il diritto dell’Unione non impone che i costi, derivanti dal fatto che lo Stato abbia omesso di garantire la conformità della normativa nazionale alla Carta, debbano essere sostenuti in prima istanza dai datori di lavoro privati che applicano tale normativa nazionale.

4.      Conclusioni sulla quarta questione

197. Alla luce di quanto precede, propongo di rispondere alla quarta questione del giudice del rinvio nel seguente modo:

In circostanze come quelle del caso in esame, che riguardano procedimenti tra parti private:

–        finché da parte del legislatore non sia stato istituito un assetto giuridico privo di discriminazioni, le disposizioni di diritto interno ritenute in contrasto con l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta, in combinato disposto con gli articoli 1, 2, paragrafo 2, lettera a), e 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, devono essere disapplicate;

–        l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, in combinato disposto con gli articoli 1, 2, paragrafo 2, lettera a), e 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, non può di per sé imporre obblighi ai datori di lavoro;

–        la parte lesa da tale applicazione del diritto nazionale può comunque avvalersi della sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a. (C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428), al fine di ottenere, se del caso, un risarcimento per il danno subito.

V.      Conclusione

198. Propongo, pertanto, alla Corte di rispondere alle questioni poste dall’Oberster Gerichshof (Corte Suprema, Austria) nel seguente modo:

(1)      L’articolo 21, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in combinato disposto con gli articoli 1 e 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale secondo la quale soltanto per gli appartenenti alle Chiese Evangeliche di Confessione Augustana e di Confessione Elvetica, della Chiesa Vetero-Cattolica e della Chiesa Evangelica Metodista il Venerdì santo è un giorno festivo con un periodo di riposo ininterrotto di almeno 24 ore e, in caso di impiego del lavoratore appartenente a una di dette chiese nonostante il riposo festivo, oltre al diritto alla retribuzione per il tempo di lavoro non prestato a causa del giorno festivo, viene riconosciuto anche un diritto alla retribuzione per il lavoro prestato, mentre ciò non avviene per altri lavoratori, non appartenenti a tali chiese.

(2)      In circostanze come quelle del caso in esame, una normativa nazionale che conceda un’indennità del tipo di cui alla prima questione solo agli appartenenti ad alcune chiese che lavorino il Venerdì santo non costituisce una misura che, in una società democratica, è necessaria per la tutela dei diritti e delle libertà altrui, ai sensi della direttiva 2000/78.

(3)      Una normativa nazionale che garantisce un’indennità del tipo di cui alla prima questione non costituisce un’azione positiva ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78.

(4)      In circostanze come quelle del caso in esame, riguardanti procedimenti tra parti private:

–        finché da parte del legislatore non sia stato istituito un assetto giuridico privo di discriminazioni, le disposizioni di diritto interno ritenute in contrasto con l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta (dei diritti fondamentali), in combinato disposto con gli articoli 1, 2, paragrafo 2, lettera a), e 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, devono essere disapplicate;

–        l’articolo 21, paragrafo 1, della Carta (dei diritti fondamentali), in combinato disposto con gli articoli 1, 2, paragrafo 2, lettera a), e 7, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, non può di per sé imporre obblighi ai datori di lavoro;

–        la parte lesa da tale applicazione del diritto nazionale può comunque avvalersi della sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a. (C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428), al fine di ottenere, se del caso, un risarcimento per il danno subito.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      Direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).


3      Chiedendosi se una disposizione di diritto nazionale con certe caratteristiche, in generale e sostanzialmente a prescindere dalla natura del rapporto giuridico in cui è stata applicata a livello nazionale, sia compatibile con il diritto dell’Unione – v., ad esempio, la recente sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566).


4      Sentenza del 17 aprile 2018 (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 58).


5      Conclusioni dell’avvocato generale Tanchev in Egenberger (C‑414/16, EU:C:2017:851, paragrafo 93, v., anche, paragrafo 88).


6      Sentenza del 17 aprile 2018 (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 58).


7      Conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa G4S Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2016:382, paragrafo 32); conclusioni dell’avvocato generale Tanchev nella causa Egenberger (C‑414/16, EU:C:2017:851, paragrafo 95).


8      Sentenza del 27 giugno 2017 (C‑74/16, EU:C:2017:496).


9      Comunque, v. le conclusioni dell’avvocato generale Kokott in quella causa (C‑74/16, EU:C:2017:135, paragrafi da 29 a 33).


10      Di recente, in generale, v., ad esempio, sentenze del 5 luglio 2017, Fries (C‑190/16, EU:C:2017:513, punti da 29 a 31), e del 12 dicembre 2013, Hay (C‑267/12, EU:C:2013:823, punto 31), naturalmente con la differenza che, nel contesto della Carta, un’eventuale siffatta giustificazione deve rispettare l’articolo 52, paragrafo 1, della stessa mentre, nel contesto della direttiva 2000/78, deve rispettare l’articolo 2, paragrafo 5, di quest’ultima.


11      Esamino la distinzione fra questi due benefici nei successivi paragrafi da 40 a 44 e da 82 a 86.


12      Di recente, per esempio, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566, punti da 16 a 18 e 47).


13      Per approfondimenti v. le mie conclusioni nella causa Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:235, paragrafi da 20 a 36).


14      Sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 25). V., anche, sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 32).


15      Nel senso del punto (i) dell’esame della discriminazione precedentemente delineato al paragrafo 32.


16      Successivi paragrafi da 82 a 86.


17       Precedenti paragrafi 37 e 38 delle presenti conclusioni.


18      V., a tal riguardo, la sentenza Feryn, ove la fonte della discriminazione era la politica di assunzione da parte dei datori di lavoro contro gli immigrati, ed è stato considerato non necessario identificare una vittima per stabilire la sussistenza di una discriminazione (sentenza del 10 luglio 2008, C‑54/07, EU:C:2008:397, punto 40).


19      V., per esempio, sentenze dell’8 aprile 1976, Defrenne (43/75, EU:C:1976:56, punto 40); e del 17 settembre 2002, Lawrence e a. (C‑320/00, EU:C:2002:498, punto 17).


20      Sentenze del 22 novembre 2005, Mangold (C‑144/04, EU:C:2005:709), e del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci (C‑555/07, EU:C:2010:21).


21      Sia nella sentenza Mangold che in quella Kücükdeveci (così come nel caso in esame) il ricorrente era un membro del gruppo meno favorito. Per un approccio simile, ma con minor certezza in ordine al fatto che la misura in questione fosse effettivamente (solo) a favore o (solo) a detrimento di un determinato gruppo, v. la sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566).


22      Ciò contrasta con l’approccio nei casi in cui la discriminazione proviene dal datore di lavoro e in molti casi vi è la necessità di identificare specifici gruppi di colleghi di lavoro che ricevono un trattamento favorevole ai fini di effettuare qualsiasi confronto. V., in tal senso, sentenze del 17 settembre 2002, Lawrence e a. (C‑320/00, EU:C:2002:498); e del 13 gennaio 2004, Allonby (C‑256/01, EU:C:2004:18).


23      Sentenze del 17 settembre 2002, Lawrence e a. (C‑320/00, EU:C:2002:498, punti 17 e 18), e del 13 gennaio 2004, Allonby (C‑256/01, EU:C:2004:18, punti 45 e 46). Tale distinzione ha un chiaro impatto sul problema dei rimedi disponibili, discusso nel dettaglio nei successivi paragrafi da 172 a 196.


24      Sentenze dell’8 novembre 1990, Dekker (C‑177/88, EU:C:1990:383, punti 12 e 17); dell’8 novembre 1990, Handels- og Kontorfunktionærernes Forbund (C‑179/88, EU:C:1990:384 punto 13); del 27 febbraio 2003, Busch (C‑320/01, EU:C:2003:114, punto 39); e del 1o aprile 2008, Maruko (C‑267/06, EU:C:2008:179, punto 72). Questo è chiaramente il caso quando il trattamento differenziato è esplicitamente basato sul motivo sospetto [come, per esempio, nella sentenza del 5 luglio 2017, Fries (C‑190/16, EU:C:2017:513, punti da 32 a 34)]. Tuttavia il mero riferimento operato da una misura a un motivo sospetto non è sufficiente per concludere che sussista una discriminazione diretta [v. sentenze del 14 marzo 2017, Bougnaoui e ADDH (C‑188/15, EU:C:2017:204, punto 32); e del 14 marzo 2017, G4S Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2017:203, punto 30)]. La Corte ha adottato un approccio simile quando il motivo sospetto ha costituito la ragione sottesa al trattamento differenziato [v., per esempio, sentenza del 16 luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria (C‑83/14, EU:C:2015:480, punto 91)] o quando in concreto ha soltanto riguardato un gruppo individuabile sulla base del motivo sospetto [per esempio, sentenza del 20 settembre 2007, Kiiski (C‑116/06, EU:C:2007:536, punto 55)].


25      V., per esempio, sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566, punti da 25 a 28). Tuttavia si consideri, come esempio in cui la comparabilità è stata esclusa, la sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643).


26      V., per un diverso punto di vista, le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston in Bressol e a. (C‑73/08, EU:C:2009:396, paragrafo 55).


27      Sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 40).


28      Sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 31).


29      Sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 33).


30      Sentenze del 1o aprile 2008, Maruko (C‑267/06, EU:C:2008:179, punto 42); del 10 maggio 2011, Römer (C‑147/08, EU:C:2011:286, punto 42); del 12 dicembre 2013, Hay (C‑267/12, EU:C:2013:823, punto 33); e del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 32).


31      Sopra, paragrafi da 40 a 43.


32      Sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 25).


33      V. le mie conclusioni nella causa MB (C‑451/16, EU:C:2017:937, paragrafo 47).


34      È stato illustrato nelle memorie scritte e orali del governo austriaco che storicamente gli appartenenti alle quattro chiese in Austria costituivano una minoranza la quale, a differenza della maggioranza cattolica, non aveva un giorno festivo per la propria festività religiosa più importante. Nel momento in cui fu introdotto nella legge l’articolo 7, paragrafo 3, è possibile che gli appartenenti alle quattro chiese costituissero la maggioranza della popolazione acattolica. Tuttavia, come confermato nella domanda di pronuncia pregiudiziale, essi non rappresentano l’intera popolazione acattolica dell’Austria, la quale include anche altre fedi.


35      V., come esempio di trattamento uguale di situazioni le quali possono, tuttavia, essere differenziate per motivi religiosi, sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Grande Sezione) del 6 aprile 2000, Thlimmenos c. Grecia (CE:ECHR:2000:0406JUD003436997).


36      V., ad esempio, sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 38). In quel caso la Corte ha esaminato la comparabilità fra i «giovani» che frequentano l’università o la scuola e gli altri lavoratori. La Corte ha dichiarato che i gruppi non erano comparabili. Nel fare ciò, ha fatto riferimento agli obiettivi della normativa nazionale, ma ha altresì chiaramente considerato la coerenza dell’argomento e il trattamento degli altri gruppi.


37      V., nello stesso senso, le conclusioni dell’avvocato generale Kokott in G4S Secure Solutions (C‑157/15, EU:C:2016:382, paragrafo 43).


38      Precedenti paragrafi da 40 a 43 e 73.


39      In particolar modo per quei dipendenti per i quali affrontare un ulteriore giorno di congedo non retribuito è economicamente gravoso.


40      Quindi, senza nemmeno entrare nelle questioni di interpretazione del termine di paragone intermedio che andrebbero affrontate, e che non sono certamente semplici: quale giorno può considerarsi «importante»? Esiste una soglia legale di importanza spirituale o religiosa? Quali religioni dovrebbero essere prese in considerazione, e in effetti la questione è estendibile ad altri sistemi di credenze, i quali hanno più giorni di rilevante importanza? Che dire, per esempio, degli atei, che hanno anch’essi giorni di rilevante importanza per loro? Si dovrebbe negare ai cattolici un giorno in più perché, per ragioni storiche, alcune delle loro fesività rilevanti sono già coperte dagli altri tredici giorni festivi nazionali? Inoltre, durante l’udienza, si è anche discusso della delicatezza dell’essere tenuti a rivelare dettagli circa le proprie convinzioni (religiose) al datore di lavoro – conseguenza logica dell’applicazione del termine di paragone intermedio.


41      Precedenti paragrafi da 76 a 79.


42      V. sentenze del 13 settembre 2011, Prigge e a. (C‑447/09, EU:C:2011:573, punti 55 e 56), e del 12 dicembre 2013, Hay (C‑267/12, EU:C:2013:823, punto 46).


43      V. la formulazione dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta e del considerando 23 della direttiva. V., anche, sentenza del 5 luglio 2017, Fries (C‑190/16, EU:C:2017:513, punto 44).


44      V., per esempio, Ellis, E., e Watson, P., EU Anti-Discrimination Law, 2a ed., Oxford Law library, 2012, pag. 403.


45      Conclusioni dell’avvocato generale Sharpston in Bougnaoui e ADDH (C‑188/15, EU:C:2016:553, nota 99).


46      Sentenza del 5 luglio 2017, Fries (C‑190/16, EU:C:2017:513, punto 48).


47      Previsto dall’articolo 8 della legge in materia di periodi di riposo.


48      Analogamente ai Precedenti paragrafi da 76 a 79, 97 e 98.


49      Sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 68).


50      V. in tal senso, per esempio, sentenza dell’11 novembre 1997, Marschall (C‑409/95, EU:C:1997:533, punto 31).


51      Precedente paragrafo 100.


52      Sentenze del 14 luglio 1994, Faccini Dori (C‑91/92, EU:C:1994:292, punto 20); del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a. (da C‑397/01 a C‑403/01, EU:C:2004:584, punto 108), e del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci (C‑555/07, EU:C:2010:21, punto 46).


53      Sentenza del 19 novembre 1991, Francovich e a. (C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428). Nel quadro dell’articolo 21, paragrafo 1, della Carta letto in combinato disposto con la direttiva 2000/78, v. sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale (C‑176/12, EU:C:2014:2, punto 50).


54      Sentenze del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a. (da C‑397/01 a C‑403/01, EU:C:2004:584), e del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257).


55      Sentenze del 22 novembre 2005, Mangold (C‑144/04, EU:C:2005:709), e del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci (C‑555/07, EU:C:2010:21).


56      Sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257).


57      Sentenze del 22 novembre 2005, Mangold (C‑144/04, EU:C:2005:709, punti 77 e 78); del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci (C‑555/07, EU:C:2010:21, punti 43 e 51), e del 19 aprile 2016, DI (C‑441/14, EU:C:2016:278, punti 27 e 35).


58      Sentenza del 19 aprile 2016, DI (C‑441/14, EU:C:2016:278, punto 43).


59      Sentenza del 17 aprile 2018 (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 76).


60      Sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 81).


61      Sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 79).


62      Sentenza del 1o gennaio 2014, Association de médiation sociale (C‑176/12, EU:C:2014:2).


63      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 marzo 2002, che istituisce un quadro generale relativo all’informazione e alla consultazione dei lavoratori [nella Comunità europea] (GU 2002, L 80, pag. 29).


64      Sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale (C‑176/12, EU:C:2014:2, punto 47). Corsivo aggiunto.


65      Sentenza del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale (C‑176/12, EU:C:2014:2, punto 49).


66      Sentenza del 19 aprile 2016, DI (C‑441/14, EU:C:2016:278, punti 29 o 35).


67      Sentenze del 19 gennaio 2010, Kücükdeveci (C‑555/07, EU:C:2010:21, punto 56), e del 19 aprile 2016, DI (C‑441/14, EU:C:2016:278, punti da 35 a 37).


68      Sentenza del 19 aprile 2016, DI (C‑441/14, EU:C:2016:278, punto 41).


69      Concedendo così anche che norme formulate a un livello certamente astratto (come la norma secondo cui non devono essere proibitivi i costi delle procedure di impugnazione che contestano la legittimità di determinate decisioni rese nell’ambito della direttiva sulla valutazione dell’impatto ambientale – direttiva 85/337/CEE del Consiglio, del 27 giugno 1985, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati di determinati progetti pubblici e privati; GU 1985, L 175, pag. 40), ma chiaramente circoscritte nella loro portata e nel loro campo di applicazione, e parimenti nei risultati pratici da raggiungere, dalla struttura dell’atto di diritto derivato di cui fanno parte, possano essere direttamente efficaci – si vedano le mie recenti conclusioni del 5 giugno 2018 nella causa Klohn (C‑167/17, EU:C:2018:387, paragrafi da 33 a 55).


70      Paragrafi da 125 a 129 della precedente sezione delle presenti conclusioni.


71      Questo è anche il motivo per cui, nel 1929, Hans Kelsen, che è spesso considerato il «padre» della giustizia costituzionale moderna, ma che probabilmente sarebbe stato abbastanza sorpreso se avesse visto l’attuale portata di quest’ultima, intendeva escludere l’applicabilità diretta di «überpositiver Normen», all’interno delle quali includeva anche i diritti fondamentali, avvertendo che ciò avrebbe conferito a qualsiasi tribunale costituzionale un vero e proprio monopolio del potere in seno alle strutture statali - Kelsen, H., Wesen und Entwicklung der Staatsgerichtsbaarkeit. Veröffentlichungen der Vereinigung der Deutschen Staatsrechtslehrer, Heft 5. Berlin und Leipzig, de Gruyter & Co., 1929, pagg. 69 e 70.


72      Sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger (C‑414/16, EU:C:2018:257), già citata, in questo contesto, al paragrafo 122. V., anche, sentenza del 19 gennaio 2010, Kükückdeveci (C‑555/07, EU:C:2010:21), in relazione al divieto di discriminazione fondata sull’età «quale espresso concretamente» nella direttiva 2000/78.


73      Assai recentemente, ad esempio, ad opera del mio dotto collega, l’avvocato generale Bot, che ha proposto alla Corte di importare all’interno dell’articolo 31, paragrafo 2, della Carta il contenuto della pertinente direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU 2003, L 299, pag. 9). Tale conclusione è stata giustificata con riferimento alle note esplicative relative alla Carta, secondo cui l’articolo 31, paragrafo 2, si «basa sulla direttiva 93/104/CE» (novellata dalla direttiva 2003/88) – v. conclusioni dell’avvocato generale Bot nelle cause riunite Bauer e Broßonn (C‑569/16 e C‑570/16, EU:C:2018:337, paragrafo 86).


74      Per un esempio di una tale attenta ed equilibrata analisi, v. sentenza del 15 ottobre 2009, Audiolux e a. (C‑101/08, EU:C:2009:626).


75      Per un discorso dettagliato su tale argomento, v. le conclusioni dell’avvocato generale Trstenjak nella causa Dominguez (C‑282/10, EU:C:2011:559).


76      L’articolo 7, paragrafo 3, della legge in materia di periodi di riposo attualmente così recita: «Anche il Venerdì santo è un giorno festivo per gli appartenenti alle chiese evangeliche di confessione augustana e di confessione elvetica, alla chiesa vetero-cattolica e alla chiesa evangelica metodista». Spingere la «disapplicazione» al livello delle singole parole contenute in tale disposizione potrebbe quindi equivalere, ad esempio, perfino a cancellare l’oggetto della frase, cioè il riferimento agli appartenenti alle quattro chiese (nel senso che tutti otterrebbero ferie ovvero un’indennità per il Venerdì santo) o a estromettere i riferimenti agli appartenenti alle quattro chiese e al Venerdì santo (nel senso che vi sarebbe un giorno festivo di data indeterminata – in pratica, la proposta della Commissione). Tuttavia, forse ancora permarrebbe una differenza tra la disapplicazione di una normativa nazionale illegittima e una partita di Scarabeo in sede giudiziaria, che consenta la creazione di una qualsiasi norma semplicemente ricombinando parole selezionate estratte dalla normativa in vigore.


77      V. sentenza del 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a. (da C‑397/01 a C‑403/01, EU:C:2004:584, punto 111). V., anche, sentenza del 15 aprile 2008, Impact(C‑268/06, EU:C:2008:223, punto 42).


78      Sentenza del 13 marzo 2007, Unibet (C‑432/05, EU:C:2007:163, punto 37 e giurisprudenza ivi citata).


79      V., in particolare, sentenze del 9 luglio 1985, Bozzetti (179/84, EU:C:1985:306, punto 17); del 18 gennaio 1996, SEIM(C‑446/93, EU:C:1996:10, punto 32), e del 17 settembre 1997, Dorsch Consult (C‑54/96, EU:C:1997:413, punto 40).


80      V., in particolare, sentenze del 16 dicembre 1976, Rewe-Zentralfinanz e Rewe-Zentral, (33/76, EU:C:1976:188, punto 5); del 16 dicembre 1976, Comet (45/76, EU:C:1976:191, punti da 13 a 16); del 14 dicembre 1995, Peterbroeck, (C‑312/93, EU:C:1995:437, punto 12); del 13 marzo 2007, Unibet (C‑432/05, EU:C:2007:163, punto 43); e del 7 giugno 2007, van der Weerd e a. (da C‑222/05 a C‑225/05, EU:C:2007:318, punto 28).


81      Sentenze del 22 giugno 2011, Landtová (C‑399/09, EU:C:2011:415); del 19 giugno 2014, Specht e a. (da C‑501/12 a C‑506/12, C‑540/12 e C‑541/12, EU:C:2014:2005); e del 9 marzo 2017, Milkova (C‑406/15, EU:C:2017:198).


82      Sentenze del 22 giugno 2011, Landtová (C‑399/09, EU:C:2011:415, punto 51); del 19 giugno 2014, Specht e a. (da C‑501/12 a C‑506/12, C‑540/12 e C‑541/12, EU:C:2014:2005, punto 95); e del 9 marzo 2017, Milkova (C‑406/15, EU:C:2017:198, punto 67). Il corsivo è mio.


83      V. sentenza del 9 febbraio 1999, Seymour-Smith e Perez (C‑167/97, EU:C:1999:60).


84      Precedente nota 81.


85      La prestazione fungibile per eccellenza, diversamente, ad esempio, dal diritto alle ferie o dal diritto ad essere assunti.


86      Anche altre sentenze che ripetono la «variante di Landtová; Specht; Milkova» del principio del livellamento verso l’alto riguardano lo Stato in qualità di resistente – v. sentenze del 12 dicembre 2002, Rodríguez Caballero (C‑442/00, EU:C:2002:752, punto 42); del 21 giugno 2007, Jonkman (da C‑231/06 a C‑233/06, EU:C:2007:373, punto 39); del 28 gennaio 2015, Starjakob (C‑417/13, EU:C:2015:38, punto 46), e del 14 marzo 2018, Stollwitzer (C‑482/16, EU:C:2018:180, punto 30). V., anche, varianti formulate in modo più restrittivo, per esempio, in riferimento alla discriminazione in relazione alla retribuzione, sentenze del 7 febbraio 1991, Nimz (C‑184/89, EU:C:1991:50, punto 18), e del 17 aprile 1997, Evrenopoulos (C‑147/95, EU:C:1997:201, punto 42). Anche la discriminazione derivante da contratti collettivi è comune, ed effettivamente assimilata alla discriminazione normativa, e la Corte impiega una variante del principio del livellamento verso l’alto, formulata in forma più estesa – v., per esempio, sentenza del 20 marzo 2003, Kutz-Bauer (C‑187/00, EU:C:2003:168, punto 72).


87      V. sentenze del 28 settembre 1994, van den Akker (C‑28/93, EU:C:1994:351); del 28 settembre 1994, Coloroll Pension Trustees (C‑200/91, EU:C:1994:348), e del 28 settembre 1994, Avdel Systems (C‑408/92, EU:C:1994:349), che inoltre riguardavano tecnicamente un regime pensionistico non statale; si trattava piuttosto di una pensione «esclusa per convenzione», nel senso che i contributi versati in relazione ad essa sostituivano i contributi da versare al regime pensionistico statale.


88      Sentenza dell’8 aprile 1976, Defrenne (43/75, EU:C:1976:56).


89      Sentenze del 10 aprile 1984, Harz (79/83, EU:C:1984:155), e dell’8 novembre 1990, Dekker (C‑177/88, EU:C:1990:383).


90      Rilevo che, nelle proprie osservazioni orali, la Commissione ha sostenuto l’estensione delle ferie/indennità per il Venerdì santo godute dagli appartenenti alle quattro chiese (circa il 2% della popolazione) a tutti i lavoratori austriaci, proponendo di fare lo stesso per lo Yom Kippur.


91      In udienza, il costo per l’estensione dell’indennità del Venerdì santo a tutti i dipendenti è stato stimato pari a EUR 600 milioni (probabilmente, una simile cifra varrebbe per il caso dello Yom Kippur).


92      Conclusioni nella causa Association de médiation sociale (C‑176/12, EU:C:2013:491, paragrafo 79).


93      Sentenza del 19 aprile 2016 (C‑441/14, EU:C:2016:278, punto 42).


94      Per esempio, nella sentenza dell’8 novembre 1990, Dekker (C‑177/88, EU:C:1990:383), la domanda di assunzione della ricorrente era stata respinta in quanto ella era incinta di tre mesi. Nondimeno, lo stato di gravidanza era classificato dalla legge nazionale come una «malattia». Dato che il potenziale datore di lavoro era pienamente consapevole della sua «malattia»», se le avesse dato il lavoro, avrebbe dovuto finanziare il congedo di maternità senza l’assistenza dello Stato, cosa che non voleva. C’era quindi un (significativo) disincentivo economico, scritto nella legislazione nazionale, all’assunzione di donne in stato di gravidanza. Era tuttavia anche chiaro che la decisione definitiva sul se e sul come applicare quella normativa nazionale discriminatoria, nel caso specifico, era del datore di lavoro.


95      Sentenza del 10 aprile 1984, von Colson e Kamann (14/83, EU:C:1984:153). Quando la Corte ha sostenuto che il diritto dell’Unione impone la presenza nel diritto interno di un’azione di risarcimento contro soggetti privati per violazione del diritto dell’Unione, essa ha insistito sugli obiettivi compensatori e deterrenti di tale rimedio. V. sentenza del 20 settembre 2001, Courage e Crehan (C‑453/99, EU:C:2001:465, punto 27).


96      Non si può presumere che chiunque, tutti o perfino la maggior parte dei datori di lavoro intentino un’azione di risarcimento vittoriosa contro lo Stato. Pertanto è giusto riconoscere che la scelta di chi debba essere convenuto in un caso come quello in esame significa, in realtà, una decisione su chi sosterrà i costi.


97      Precedenti paragrafi da 50 a 52.


98      Come sintetizzati nella relazione d’udienza. V. Ward, A., Judicial Review and the Rights of Private Parties in EU Law, 2a ed., Oxford University Press, Oxford, 2007, pag. 57.


99      Precedente paragrafo 180.


100      Sentenze del 19 novembre 1991, Francovich e a. (C‑6/90 e C‑9/90, EU:C:1991:428, punto 45), e del 15 gennaio 2014, Association de médiation sociale (C‑176/12, EU:C:2014:2, punto 50).


101      Precedenti paragrafi da 45 a 54.


102      Sospetto che tale elemento abbia contribuito parzialmente alla confusione sulla questione relativa alla comparabilità (supra, paragrafi da 46 a 48).


103      La qual cosa pare statisticamente piuttosto probabile, non solo per la Cresco Investigation, ma anche per un certo numero di altri datori di lavoro austriaci. È stato confermato che gli appartenenti alle quattro chiese ammontano a circa il 2% della forza lavoro austriaca.