Language of document : ECLI:EU:C:2019:411


CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

GERARD HOGAN

presentate il 15 maggio 2019(1)

Causa C621/17

Gyula Kiss,

CIB Bank Zrt.

contro

Emil Kiss,

Gyuláné Kiss

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Kúria (Corte suprema, Ungheria)]

«Domanda di pronuncia pregiudiziale – Tutela dei consumatori – Clausole abusive – Direttiva del Consiglio 93/13/CEE – Articolo 4, paragrafo 2 – Requisito di redazione in modo chiaro e comprensibile delle clausole vertenti sulla definizione dell’oggetto principale del contratto – Articolo 5 – Requisito di redazione del contratto in modo chiaro e comprensibile in forza dell’articolo 5»






1.        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli 3, paragrafo 1, 4, paragrafo 2, e 5 della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GU 1993, L 95, pag. 29) (in prosieguo: la «direttiva del 1993»). Con la presente domanda la Corte è chiamata nuovamente a valutare il funzionamento della direttiva del 1993 nel contesto dei contratti di mutuo forniti da enti creditizi.

2.        La presente domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig.Gyula Kiss, il sig. Emil Kiss e la sig.ra Gyuláné Kiss e la CIB Bank Zrt. (in prosieguo: la «Banca»), in merito a una richiesta di accertamento dell’asserito carattere abusivo di talune clausole contenute in un contratto di mutuo in valuta estera. È in tale contesto che il giudice del rinvio chiede, in particolare, se i requisiti di cui agli articoli 4, paragrafo 2, e 5 della direttiva del 1993, per quanto riguarda la redazione di alcune clausole in modo chiaro e comprensibile, debbano essere interpretati nel senso che ogni clausola relativa al prezzo deve indicare i servizi specifici forniti in cambio. Prima di esaminare tali questioni è tuttavia necessario, anzitutto, illustrare le disposizioni giuridiche pertinenti.

I.      Contesto normativo

A.      Diritto dell’Unione europea

1.      Direttiva del 1993

3.        I considerando 12, 13, 16, 19 e 20 della direttiva del 1993 stabiliscono quanto segue:

«considerando tuttavia che per le legislazioni nazionali nella loro forma attuale è concepibile solo un’armonizzazione parziale; che, in particolare, sono oggetto della presente direttiva soltanto le clausole non negoziate individualmente; che pertanto occorre lasciare agli Stati membri la possibilità di garantire, nel rispetto del trattato, un più elevato livello di protezione per i consumatori mediante disposizioni nazionali più severe di quelle della presente direttiva;

considerando che si parte dal presupposto che le disposizioni legislative o regolamentari degli Stati membri che disciplinano, direttamente o indirettamente, le clausole di contratti con consumatori non contengono clausole abusive; che pertanto non si reputa necessario sottoporre alle disposizioni della presente direttiva le clausole che riproducono disposizioni legislative o regolamentari imperative nonché principi o disposizioni di convenzioni internazionali di cui gli Stati membri o la Comunità sono parte; che a questo riguardo l’espressione “disposizioni legislative o regolamentari imperative” che figura all’articolo 1, paragrafo 2 comprende anche le regole che per legge si applicano tra le parti contraenti allorché non è stato convenuto nessun altro accordo;

(…)

considerando che la valutazione, secondo i criteri generali stabiliti, del carattere abusivo di clausole, in particolare nell’ambito di attività professionali a carattere pubblico per la prestazione di servizi collettivi che presuppongono una solidarietà fra utenti, deve essere integrata con uno strumento idoneo ad attuare una valutazione globale dei vari interessi in causa; che si tratta nella fattispecie del requisito di buona fede; che nel valutare la buona fede occorre rivolgere particolare attenzione alla forza delle rispettive posizioni delle parti, al quesito se il consumatore sia stato in qualche modo incoraggiato a dare il suo accordo alla clausola e se i beni o servizi siano stati venduti o forniti su ordine speciale del consumatore; che il professionista può soddisfare il requisito di buona fede trattando in modo leale ed equo con la controparte, di cui deve tenere presenti i legittimi interessi;

(…)

considerando che, ai fini della presente direttiva, la valutazione del carattere abusivo non deve vertere su clausole che illustrano l’oggetto principale del contratto o il rapporto qualità/prezzo della fornitura o della prestazione; che, nella valutazione del carattere abusivo di altre clausole, si può comunque tener conto dell’oggetto principale del contratto e del rapporto qualità/prezzo; che ne consegue tra l’altro che, nel caso di contratti assicurativi, le clausole che definiscono o delimitano chiaramente il rischio assicurato e l’impegno dell’assicuratore non formano oggetto di siffatta valutazione qualora i limiti in questione siano presi in considerazione nel calcolo del premio pagato dal consumatore;

considerando che i contratti devono essere redatti in termini chiari e comprensibili, che il consumatore deve avere la possibilità effettiva di prendere conoscenza di tutte le clausole e che, in caso di dubbio, deve prevalere l’interpretazione più favorevole al consumatore».

4.        L’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della direttiva del 1993 prevede:

«1. Una clausola contrattuale che non è stata oggetto di negoziato individuale si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto.

2. Si considera che una clausola non sia stata oggetto di negoziato individuale quando è stata redatta preventivamente in particolare nell’ambito di un contratto di adesione e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto.

Il fatto che taluni elementi di una clausola o che una clausola isolata siano stati oggetto di negoziato individuale non esclude l’applicazione del presente articolo alla parte restante di un contratto, qualora una valutazione globale porti alla conclusione che si tratta comunque di un contratto di adesione.

Qualora il professionista affermi che una clausola standardizzata è stata oggetto di negoziato individuale, gli incombe l’onere della prova».

5.        L’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva del 1993 recita quanto segue:

«La valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile».

6.        L’articolo 5 della direttiva del 1993 dispone:

«Nel caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile. In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore. Questa regola di interpretazione non è applicabile nell’ambito delle procedure previste all’articolo 7, paragrafo 2».

7.        Ai termini dell’articolo 8 della direttiva del 1993:

«Gli Stati membri possono adottare o mantenere, nel settore disciplinato dalla presente direttiva, disposizioni più severe, compatibili con il trattato, per garantire un livello di protezione più elevato per il consumatore».

2.      Direttiva 2003/55

8.        L’articolo 3, paragrafo 3, della direttiva 2003/55/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2003, relativa a norme comuni per il mercato interno del gas naturale e che abroga la direttiva 98/30/CE (GU 2003, L 176, pag. 57), è così formulato:

«(…) gli Stati membri (…) garantiscono un elevato livello di tutela dei consumatori, con particolare riguardo alla trasparenza delle condizioni generali di contratto, alle informazioni generali ed ai meccanismi di risoluzione delle controversie».

3.      Direttiva 2005/29

9.        L’articolo 6, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio (in prosieguo: la «direttiva sulle pratiche commerciali sleali») (GU 2005, L 149, pag. 22), menziona:

«1. È considerata ingannevole una pratica commerciale che contenga informazioni false e sia pertanto non veritiera o in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, inganni o possa ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, riguardo a uno o più dei seguenti elementi e in ogni caso lo induca o sia idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso:

(…)

d) il prezzo o il modo in cui questo è calcolato o l’esistenza di uno specifico vantaggio quanto al prezzo;

(…)».

4.      Direttiva 2014/17

10.      I considerando 4 e 30 della direttiva 2014/17/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 febbraio 2014, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e recante modifica delle direttive 2008/48/CE e 2013/36/UE e del regolamento (UE) n. 1093/2010 (GU 2014, L 60, pag. 34) stabiliscono quanto segue:

«4) Sono stati individuati diversi problemi nei mercati del credito ipotecario all’interno dell’Unione legati al comportamento irresponsabile nella concessione e accensione dei mutui e al potenziale margine per comportamenti irresponsabili da parte degli operatori del mercato, fra cui gli intermediari del credito e gli enti non creditizi. Alcuni problemi hanno riguardato i crediti denominati in una valuta estera contratti dai consumatori in tale valuta al fine di beneficiare del tasso debitore offerto, ma senza un’adeguata informazione o comprensione in ordine al rischio di cambio connesso. Si tratta di problemi dovuti a carenze a livello di mercato e di regolamentazione nonché ad altri fattori, quali la situazione economica generale e la scarsa cultura finanziaria. Altri problemi riguardano regimi inefficaci, incoerenti o inesistenti per gli intermediari del credito e gli enti non creditizi che erogano crediti per beni immobili residenziali. I problemi individuati possono avere effetti a cascata significativi sul piano macroeconomico, danneggiare i consumatori, fungere da barriera economica o giuridica alle attività transfrontaliere e creare condizioni diseguali per gli operatori del mercato.

(…)

30) A causa dei rischi significativi insiti nel prestito in valuta estera è necessario prevedere misure atte a garantire che i consumatori siano consapevoli del rischio che stanno assumendo e abbiano la possibilità di limitare la propria esposizione al rischio di cambio per la durata del credito. Il rischio può essere limitato riconoscendo al consumatore il diritto di convertire la valuta in cui è denominato il credito ovvero con altri meccanismi, quali l’introduzione di limiti massimi o, qualora esse siano sufficienti a limitare il rischio di cambio, avvertenze».

11.      Ai sensi dell’articolo 23 della direttiva 2014/17, rubricato «Prestiti in valuta estera»:

«1. Gli Stati membri provvedono affinché, se il contratto di credito si riferisce a un prestito in valuta estera, sia messo a punto un quadro regolamentare adeguato nel momento in cui è concluso il contratto di credito, in modo da assicurare almeno che:

a) il consumatore abbia il diritto di convertire il contratto di credito in una valuta alternativa a determinate condizioni; o

b) esistano altri meccanismi volti a limitare il rischio di cambio a cui il consumatore è esposto in forza del contratto di credito.

2. La valuta alternativa di cui al paragrafo 1, lettera a), è:

a) quella in cui il consumatore percepisce principalmente il reddito o detiene gli attivi con i quali dovrà rimborsare il credito, come indicato al momento della più recente valutazione di merito creditizio condotta in relazione al contratto di credito; o

b) quella dello Stato membro in cui il consumatore era residente al momento della conclusione del contratto di credito o è attualmente residente.

Gli Stati membri possono precisare se sono a disposizione del consumatore entrambe le scelte di cui al primo comma, lettere a) e b), o solo una di esse o possono consentire ai creditori di precisare se sono a disposizione del consumatore entrambe le scelte di cui al primo comma, lettere a) e b), o solo una di esse.

3. Se un consumatore ha il diritto di convertire il contratto di credito in una valuta alternativa conformemente al paragrafo 1, lettera a), gli Stati membri garantiscono che il tasso di cambio al quale avviene la conversione sia il tasso di mercato applicabile il giorno della domanda di conversione, salvo se diversamente precisato nel contratto di credito.

4. Gli Stati membri provvedono affinché, se un consumatore ha un prestito in valuta estera, il creditore avvisi il consumatore regolarmente su carta o mediante un altro supporto durevole almeno laddove il valore dell’importo totale o delle rate periodiche residui a carico del consumatore vari di oltre il 20% rispetto a quello che si avrebbe se si applicasse il tasso di cambio tra la valuta del contratto di credito e la valuta dello Stato membro applicabile al momento della conclusione del contratto di credito. L’avvertenza informa il consumatore dell’aumento dell’importo totale dovuto dal consumatore, indica, se del caso, il diritto di convertirlo in una valuta alternativa e le condizioni per farlo e illustra altri eventuali meccanismi applicabili per limitare il rischio di cambio cui è esposto il consumatore.

5. Gli Stati membri possono disciplinare ulteriormente i prestiti in valuta estera, a condizione che tale regolamentazione non sia applicata retroattivamente.

6. Le disposizioni applicabili a norma del presente articolo sono comunicate al consumatore nel PIES e nel contratto di credito. Se nel contratto di credito non esiste alcuna disposizione volta a limitare il rischio di cambio a cui il consumatore è esposto nel caso di una fluttuazione del tasso di cambio inferiore al 20%, il PIES include un esempio illustrativo dell’impatto di una fluttuazione del 20% sul tasso di cambio».

B.      Normativa nazionale

12.      L’articolo 209/B della a Polgári Törvénykönyvről szóló 1959. évi IV. Törvény (legge n. IV del 1959, che istituisce il codice civile; in prosieguo: il «codice civile ungherese»), nella versione in vigore all’epoca dei fatti della controversia oggetto del procedimento principale, dispone quanto segue:

«1) Le condizioni generali di contratto, al pari delle clausole di un contratto stipulato con un consumatore, sono abusive se determinano, unilateralmente e ingiustificatamente in violazione dei requisiti di buona fede, a svantaggio di una delle parti, i diritti e gli obblighi delle parti derivanti dal contratto;

2) si considera che i diritti e gli obblighi sono stati stabiliti unilateralmente e ingiustificatamente a svantaggio di una delle parti quando:

a) si discostano in modo significativo dalle norme sostanziali applicabili al contratto; o

b) sono incompatibili con l’oggetto o la finalità del contratto.

3) Al fine di valutare il carattere abusivo di una clausola, occorre esaminare tutte le circostanze esistenti al momento della stipulazione del contratto che hanno indotto le parti a concluderlo, e altresì la natura dei servizi previsti ed i rapporti della clausola controversa con le altre clausole del contratto o con altri contratti.

4) Possono essere determinate, mediante norma speciale, le clausole dei contratti stipulati con i consumatori aventi carattere abusivo o da considerare abusive fino a prova contraria.

5) Le disposizioni relative alle clausole contrattuali abusive non sono applicabili alle clausole contrattuali che definiscono la prestazione principale e il corrispettivo, purché tali clausole siano redatte in modo chiaro e comprensibile per entrambe le parti.

6) Una clausola contrattuale non può considerarsi abusiva qualora sia imposta da una disposizione legislativa o regolamentare o redatta in conformità della stessa»

13.      L’articolo 523 del codice civile ungherese così recita:

«1) In forza di un contratto di mutuo, l’ente creditizio o un diverso soggetto finanziatore deve porre la somma convenuta a disposizione del mutuatario; il mutuatario deve rimborsare detta somma secondo quanto previsto dal contratto.

In assenza di disposizioni contrarie, se il mutuante è un ente creditizio il mutuatario deve corrispondere gli interessi (mutuo bancario)».

II.    Fatti

14.      Il 16 settembre 2005 il sig. Gyula Kiss e altre due persone hanno stipulato un contratto di mutuo di EUR 16 516 per uno scopo imprecisato con il dante causa della Banca a un tasso d’interesse annuo pari al 5,4% per una durata di 20 anni. In aggiunta a detto tasso di interesse, i mutuatari erano tenuti al pagamento delle spese di gestione del 2,4% all’anno e della somma di HUF 40 000 (circa EUR 125) a titolo di commissione per la concessione del mutuo. Il tasso annuo effettivo globale (TAEG) stabilito nel contratto era pari all’8,47%.

15.      Il sig. Gyula Kiss ha presentato ricorso perché le clausole che stabilivano gli importi delle spese di gestione e della commissione per la concessione del mutuo fossero dichiarate sleali, in quanto non era specificato quali servizi venivano resi in cambio dalla Banca.

16.      La Banca non ha contestato il fatto che i servizi prestati a fronte di tali spese non fossero specificatamente menzionati. Essa ha sostenuto, tuttavia, che la commissione per la concessione del mutuo era il corrispettivo per le procedure da espletare prima della conclusione del contratto, mentre le spese di gestione costituivano il corrispettivo delle procedure da espletare dopo la conclusione del contratto.

17.      Il giudice di primo grado ha emesso una sentenza nella quale ha dichiarato il carattere abusivo della clausola contrattuale che stabiliva la commissione per la concessione del mutuo e ha respinto la domanda intesa a ottenere la dichiarazione di invalidità della clausola relativa alle spese di gestione.

18.      Il giudice di secondo grado, adito con i ricorsi in appello presentati dal sig. Gyula Kiss e dalla Banca, ha confermato la sentenza di primo grado. Ha affermato che le clausole relative alle spese di gestione erano redatte in modo chiaro e comprensibile, poiché il relativo importo a carico del mutuatario era definito e la natura della contropartita era notoria. In queste spese sono inclusi servizi di trattamento, gestione, registrazione e recupero del credito. Per quanto riguarda la commissione per la concessione del mutuo, il giudice di secondo grado ha ritenuto che non si potesse determinare quale fosse il servizio remunerato da detta commissione. Alla luce di tali considerazioni tale costo è stato ritenuto abusivo.

19.      Il sig. Gyula Kiss e la Banca hanno presentato ricorso per cassazione dinanzi alla Kúria (Corte suprema, Ungheria). Il sig. Gyula Kiss afferma che il contratto non stabiliva in modo chiaro quale fosse il servizio per cui essa era tenuta a pagare le suddette spese di gestione. Sostiene che la Banca non ha dimostrato che il trattamento e la gestione del credito generino a suo carico spese che non erano già remunerate mediante gli interessi sul capitale preso in prestito.

20.      La Banca chiede, nel proprio ricorso per cassazione, che la domanda relativa alla commissione per la concessione del mutuo sia respinta. Sostiene, tra l’altro, che al momento della conclusione del contratto nessuna norma prescriveva che si dovesse indicare nel contratto gli specifici servizi a cui corrispondeva detta commissione.

III. Domanda di pronuncia pregiudiziale e procedimento dinanzi alla Corte

21.      Il giudice del rinvio ritiene che la giurisprudenza della Corte esistente non consenta di stabilire se le due clausole siano redatte in modo chiaro e comprensibile e, in tal caso, di pronunciarsi sul loro carattere abusivo, e afferma che la giurisprudenza nazionale ungherese non è uniforme su tale questione. Nella maggior parte dei casi, i giudici nazionali hanno dichiarato che la stipula di un contratto di mutuo richiede soltanto che sia chiaro il costo complessivo del mutuo, senza che risulti necessario precisare quali siano tutti i servizi forniti in cambio e, inoltre, che tale condizione è soddisfatta se è menzionato il TAEG, in quanto quest’ultimo è calcolato sulla base degli interessi e delle spese dovuti, consentendo così al mutuatario il confronto tra le diverse offerte di mutuo. Tuttavia, una minoranza di detti giudici ha ritenuto che i servizi forniti a fronte di ciascuna spesa debbano essere dettagliati e specificati. Infatti, sarebbe utile per il consumatore essere in grado di confrontare non solo il TAEG applicabile, ma anche i servizi offerti in cambio. Inoltre, la separazione artificiosa degli interessi in due componenti non sarebbe legittima e, secondo detti giudici, la base per il calcolo dei costi di gestione è diversa da quella utilizzata per il calcolo del tasso di interesse.

22.      Secondo il giudice del rinvio, l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva del 1993 potrebbe essere interpretato nel senso che l’assenza di dettagli sui servizi forniti a fronte di una spesa o di una commissione costituisce una violazione dei requisiti di buona fede di cui a detto articolo. Resta tuttavia aperta la questione se sia ancora necessario valutare l’eventuale esistenza di uno squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto a danno del consumatore. Nel caso in cui tale valutazione fosse ancora necessaria, la Kúria (Corte suprema) segnala che non è certo se sia adeguato esaminare unicamente i servizi e il corrispettivo per gli stessi relativamente a dette clausole, o se invece debbano essere prese in considerazione tutte le clausole del contratto per valutare l’insieme dei vantaggi e degli svantaggi derivanti dal contratto.

23.      In tale contesto, la Kúria (Corte suprema) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se il requisito relativo alla redazione in modo chiaro e comprensibile di cui agli articoli 4, paragrafo 2, e 5 della [direttiva del 1993], debba essere interpretato nel senso che, in un contratto di mutuo stipulato con i consumatori, tale requisito è soddisfatto da una clausola contrattuale che non è stata oggetto di negoziato individuale, che determina in modo preciso l’importo delle spese, delle commissioni e degli altri oneri (in prosieguo, congiuntamente: le “spese”) a carico del consumatore, il relativo metodo di calcolo e il momento in cui devono essere pagati, la quale, tuttavia, non precisa a fronte di quali servizi specifici vengono pagate dette spese; oppure, se esso debba essere interpretato nel senso che il contratto deve altresì indicare quali siano tali servizi specifici. In quest’ultimo caso, se sia sufficiente che il contenuto del servizio reso possa dedursi dalla denominazione della spesa.

2)      Se l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva [del 1993] debba essere interpretato nel senso che la clausola contrattuale in materia di spese utilizzata nella presente fattispecie, senza che sia possibile individuare inequivocabilmente, in base al contratto, quali siano i servizi specifici resi a fronte di tali spese, determina, a danno del consumatore, in violazione del requisito della buona fede, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto».

IV.    Analisi

24.      Forse il primo elemento da osservare è che lo scopo della direttiva del 1993 non è quello di armonizzare il diritto dei contratti, in generale, né l’aspetto del consenso, in particolare. Piuttosto, lo scopo di detta direttiva è invece principalmente quello di vietare clausole che, in violazione del requisito della buona fede, determinino a danno del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto. È importante chiarire tale aspetto in quanto, pur essendo la direttiva del 1993 certamente significativa nel l’ambito della tutela dei consumatori, essa non intende affrontare ogni possibile pratica commerciale fraudolenta o in danno dei consumatori.

25.      In particolare, nella misura in cui esistono altre direttive riguardanti il diritto dei consumatori, è importante, per coerenza, garantire che la Corte mantenga un’impostazione uniforme per quanto riguarda la delimitazione dell’ambito di applicazione di ciascuno di questi atti normativi.

A.      Sulla prima questione

26.      Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se gli articoli 4, paragrafo 2, e 5 della direttiva del 1993 debbano essere interpretati nel senso che, in un contratto di mutuo concluso con un consumatore, il requisito relativo alla redazione delle condizioni in modo chiaro e comprensibile è soddisfatto da una clausola che non è stata oggetto di negoziato individuale, la quale specifica l’importo esatto delle spese a carico del consumatore, il loro metodo di calcolo e il momento in cui devono essere pagate, ma non specifica i servizi effettivamente resi a fronte di dette spese.

27.      Sebbene sia l’articolo 4, paragrafo 2, sia l’articolo 5 della direttiva del 1993 stabiliscano che determinate clausole devono essere redatte in modo chiaro e comprensibile, il contesto in cui si fa riferimento a tale obbligo è tuttavia alquanto diverso. L’articolo 4, paragrafo 2, stabilisce, in sostanza, che l’equità delle clausole che definiscono l’essenza del contratto ‑ come nel caso del prezzo – non può essere esaminata, a meno che dette clausole non siano redatte in modo chiaro e comprensibile. L’articolo 5, d’altro canto, stabilisce che tutte le clausole contrattuali devono soddisfare il suddetto requisito della comprensibilità e che, ove ciò non avvenga, vale a dire, «[i]n caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore» (2). Pertanto, propongo di esaminare la prima questione sollevata prima nell’ottica dell’articolo 4, paragrafo 2, e poi dell’articolo 5 della direttiva del 1993.

1.      Articolo 4, paragrafo 2

28.      A termini dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva del 1993, «[l]a valutazione del carattere abusivo delle clausole non verte né sulla definizione dell’oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni, forniti in cambio, dall’altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile». Poiché l’articolo 4, paragrafo 2, stabilisce due eccezioni al meccanismo di controllo nel merito delle clausole abusive attuato da tale direttiva, occorre dare un’interpretazione restrittiva a detta eccezione (3). In effetti, l’articolo 4, paragrafo 2, statuisce che le clausole relative al prezzo non rientrano nel campo di applicazione della direttiva, a condizione, tuttavia, che tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile. Come spero di dimostrare, le clausole che prevedono spese di gestione, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, rientrano perfettamente nell’ambito di applicazione dell’eccezione di cui all’articolo 4, paragrafo 2, di modo che il carattere non abusivo di dette spese non può essere preso in considerazione a meno che non si tratti di una clausola non formulata in modo chiaro e comprensibile.

29.      L’eccezione di cui all’articolo 4, paragrafo 2, fa riferimento, in primo luogo, alle clausole relative all’«oggetto principale del contratto». Secondo la giurisprudenza della Corte, le clausole contrattuali rientranti nella nozione di «oggetto principale del contratto», ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva del 1993, devono intendersi come quelle che fissano le prestazioni essenziali dello stesso contratto e che, come tali, lo caratterizzano (4). Per contro, le clausole che rivestono un carattere accessorio rispetto a quelle che definiscono l’essenza stessa del rapporto contrattuale non possono rientrare nella nozione di «oggetto principale del contratto».

30.      La seconda eccezione riguarda «la perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall’altro» o, ai sensi del considerando 19 della direttiva in parola, le clausole «che illustrano (…) il rapporto qualità/prezzo della fornitura o della prestazione» (5). Queste due situazioni di cui all’articolo 4, paragrafo 2, non sono pertanto equivalenti; la prima esclude determinate clausole a causa del loro oggetto, mentre la seconda eccezione osta a che il giudice dichiari una clausola abusiva relativa al prezzo solo perché il prezzo indicato è inadeguato o eccessivo.

31.      Suggerisco di esaminare anzitutto la seconda situazione. Infatti, sebbene il sig. Gyula Kiss abbia sostenuto, sia nell’ambito delle sue memorie sia in udienza, che le spese di gestione e la commissione per la concessione del mutuo sono sproporzionate rispetto all’importo del mutuo, discende dalla domanda di pronuncia pregiudiziale che la questione sollevata dinanzi al giudice del rinvio non riguarda l’adeguatezza della remunerazione riferita al mutuo erogato né il metodo di calcolo utilizzato. Essa riguarda piuttosto la questione specifica se il contratto di mutuo avrebbe dovuto indicare i servizi «specifici» resi a fronte delle spese di gestione e della commissione per la concessione del mutuo. Pertanto, la seconda eccezione prevista all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva del 1993 non sembra essere pertinente.

32.      Per quanto riguarda la prima eccezione, secondo la giurisprudenza della Corte, l’espressione «oggetto principale del contratto» deve essere intesa nel senso che essa si riferisce all’obbligazione che, in quanto tale, caratterizza il contratto. Nel caso di un contratto di credito, l’obbligo principale del mutuante è quello di mettere a disposizione del mutuatario una determinata somma di denaro (6).

33.      Va osservato, tuttavia, che nella sentenza Matei la Corte non ha escluso la possibilità che le clausole relative al prezzo possano rientrare nella prima circostanza di cui all’articolo 4, paragrafo 2, ma piuttosto ha sancito che ciò dipende dal fatto se i beni o servizi resi in cambio costituiscano l’oggetto principale del contratto (7). Di conseguenza, clausole come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che prevedono il pagamento di spese o commissioni, a mio giudizio, esclusivamente per quanto attiene al prezzo espresso da tali clausole, sono parte dell’oggetto principale del contratto quando esse costituiscono sostanzialmente la contropartita dei beni o dei servizi forniti. Tuttavia, queste sono questioni che in ultima analisi spetta al giudice nazionale accertare e verificare (8).

34.      Nel procedimento principale non vi è accordo tra le parti sulla questione se, in particolare, esista una contropartita per le spese di gestione.

35.      A mio avviso, comunque, non vi sono dubbi in merito. Nella misura in cui dette spese coprono i costi amministrativi sostenuti per il mutuo concesso che, dalle informazioni fornite dal giudice del rinvio, sembra essere il solo servizio previsto nel contratto, tali spese devono essere considerate come una parte del prezzo pagato in cambio del mutuo.

36.      Nell’esprimere questa opinione non ho trascurato l’argomento dedotto dal sig. Gyula Kiss, secondo la quale una siffatta clausola implica che la banca trasferisca le proprie spese d’esercizio ai consumatori, comprese quelle relative ai propri obblighi giuridici. Il fatto, tuttavia, che siano i consumatori a pagare, direttamente o indirettamente, i costi sostenuti da un’impresa, rappresenta semplicemente la realtà economica, poiché è difficile immaginare chi altro potrebbe sostenerli. Pertanto, nel dedurre il suddetto argomento il sig. Gyula Kiss tenta in effetti di mettere in discussione la proporzionalità della remunerazione della Banca, questione che, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, esula dall’ambito di applicazione della verifica del carattere abusivo di cui all’articolo 3, paragrafo 1, naturalmente a condizione che tale clausola sia formulata in modo chiaro e comprensibile.

37.      È vero che il prezzo specificato in detta clausola è espresso sotto forma di tasso di interesse. Tuttavia, ciò non può rimettere in discussione la conclusione secondo cui tale clausola determina un elemento del prezzo da corrispondere a fronte del mutuo concesso. Invero, la remunerazione delle banche può assumere la forma di un importo fisso o variabile, o di entrambi. Come la Banca ha sottolineato in udienza, nella maggior parte dei casi, la parte dell’importo pagato per coprire i costi amministrativi sostenuti dall’ente creditizio confluisce semplicemente in un tasso di interesse unico. Sebbene, nel caso di specie, l’importo da pagare sia stato suddiviso in tre clausole, ciò non toglie che ogni porzione del prezzo complessivo sia dovuta in cambio del mutuo.

38.      Di conseguenza, se la Corte seguirà lo stesso ragionamento svolto nella causa Matei, una clausola che stabilisce le spese di gestione dovrebbe essere considerata, in linea di principio, esclusa dall’ambito di applicazione della direttiva del 1993. Tuttavia, come chiarirò al termine delle presenti conclusioni, in una situazione come quella oggetto del procedimento principale possono applicarsi altre disposizioni del diritto dell’Unione.

39.      In ogni caso, l’articolo 4, paragrafo 2, specifica che, perché si applichi una delle due eccezioni di cui alla suddetta disposizione, la clausola di cui trattasi deve essere formulata in modo chiaro e comprensibile. Si pone quindi la questione se le clausole oggetto della presente fattispecie soddisfino tale condizione.

40.      Secondo la giurisprudenza della Corte, tale condizione rispecchia l’idea che «le informazioni, prima della conclusione di un contratto, in merito alle condizioni contrattuali ed alle conseguenze di detta conclusione, sono, per un consumatore, di fondamentale importanza. È segnatamente in base a tali informazioni che quest’ultimo decide se desidera vincolarsi alle condizioni preventivamente redatte dal professionista». Pertanto, la condizione di cui all’articolo 4, paragrafo 2, non può essere limitata unicamente al requisito del carattere comprensibile sul piano formale e grammaticale delle clausole di cui trattasi (9). La questione è piuttosto se il consumatore sia posto in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi e intellegibili, le conseguenze economiche che gli derivano dal contratto (10).

41.      In tali circostanze, ritengo che, qualora il contratto sia relativamente lungo e il prezzo da pagare in cambio dei diversi servizi forniti sia stato suddiviso in varie clausole aventi ciascuna un diverso metodo di calcolo – come sembra essere il caso del contratto di cui trattasi nel procedimento principale – allora tali distinte clausole devono essere raggruppate in un punto del contratto o, quantomeno, è necessario che il loro effetto combinato sia specificato. Infatti, il consumatore non può essere considerato in grado di valutare, sul fondamento di criteri precisi e intellegibili, le conseguenze economiche che gli derivano dal contratto se, ad esempio, il prezzo da corrispondere è indicato in parte all’inizio di un contratto molto lungo, in parte a metà e, in parte al termine del medesimo.

42.      Allo stesso modo, in casi in cui, come nel procedimento principale, il prezzo da corrispondere può variare poiché è indicizzato al tasso di cambio della valuta estera, ritengo che il requisito relativo alla redazione di clausole in modo chiaro e comprensibile possa essere considerato soddisfatto soltanto se il metodo utilizzato per calcolare il prezzo è indicato in modo chiaro e preciso in modo da consentire al consumatore di comprendere la natura dei rischi a cui si espone.

43.      È vero che, conformemente alle disposizioni della direttiva 2014/17 e della direttiva 2008/48/CE (11), un contratto di mutuo deve indicare il TAEG applicabile, che è calcolato sulla base non solo dei tassi di interesse applicabili ma anche delle tariffe applicabili (12), e che tale obbligo ha precisamente l’obiettivo di garantire che, in merito ai contratti di credito, siano messe a disposizione dei mutuatari, da parte degli istituti di credito, informazioni generali chiare e comprensibili (13).

44.      Ritengo, tuttavia, che, in considerazione del requisito di comprensibilità di cui all’articolo 4, paragrafo 2, la menzione del TAEG non toglie il fatto che, qualora il prezzo sia stato suddiviso in varie clausole, ciascuna basata su un diverso metodo di calcolo di detto prezzo e tutte collocate in parti diverse del contratto, non si può ritenere che le clausole contrattuali connesse al prezzo siano state redatte in modo chiaro e comprensibile. Rilevo infatti, in primo luogo, che il TAEG è soltanto indicativo. Come indicato all’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2014/17, «[n]el caso dei contratti di credito contenenti clausole che permettono di modificare il tasso debitore e, se del caso, le spese computate nel TAEG ma non quantificabili al momento del calcolo, il TAEG è calcolato muovendo dall’ipotesi che il tasso debitore e le altre spese rimarranno fissi rispetto al livello stabilito alla conclusione del contratto». Inoltre, il TAEG non fornisce alcuna indicazione sulla modalità di pagamento del prezzo. Potrebbe al contrario suggerire che le spese vadano pagate sotto forma di rate, mentre ciò potrebbe non essere necessariamente vero.

45.      Non ritengo tuttavia che l’articolo 4, paragrafo 2, debba essere interpretato nel senso che esso impone che ogni clausola relativa al prezzo debba menzionare specificamente i servizi o i beni forniti in cambio.

46.      È vero che, nella sentenza del 21 marzo 2013, RWE Vertrieb (C‑92/11, EU:C:2013:180, punto 45), la Corte ha menzionato l’esistenza di un obbligo di trasparenza. Poiché, tuttavia, in detta causa la Corte ha utilizzato tale espressione per definire, nel caso di una clausola non sufficientemente precisa connessa all’oggetto principale del contratto, l’obbligo di fornire ai consumatori le informazioni necessarie per valutare le conseguenze economiche derivanti dal contratto, l’uso di tale espressione non ha comportato conseguenze più ampie (14). Nella sentenza Matei, comunque, la Corte ha fatto un ulteriore passo avanti e ha dichiarato che tale condizione dovrebbe essere interpretata nel senso che essa richiede non solo che il consumatore deve essere in grado di comprendere ciò a cui va incontro, ma anche che deve conoscere le motivazioni che giustificano la clausola di cui trattasi (15).

47.      Tale affermazione, a mio avviso, va intesa con riferimento alle circostanze particolari di quella fattispecie. Infatti, al punto 77 della sua sentenza, la Corte ha osservato che «il mutuante ha proposto ai mutuatari di sostituire la denominazione del[le] clausole con quella di “commissione di gestione del credito”, senza tuttavia modificarne il contenuto», il che ha sollevato alcuni dubbi legittimi circa l’esistenza di un servizio effettivamente prestato in cambio di tale commissione.

48.      Non mi persuade neanche la giurisprudenza preesistente, secondo cui l ’articolo 4, paragrafo 2, dovrebbe essere interpretato nel senso che i professionisti devono indicare per ciascuna clausola relativa al prezzo i servizi o i beni specifici forniti in cambio. Giungo a questa conclusione sulla base delle seguenti considerazioni.

49.      In primo luogo , la direttiva del 1993 non contiene alcun riferimento ad un siffatto requisito. Come ho appena illustrato, l’esistenza di un requisito di trasparenza è stata menzionata per la prima volta nella sentenza RWE Vertrieb. In quella causa, tuttavia, la questione riguardava l’interpretazione sia della direttiva del 1993 sia della direttiva 2003/55 (il cui articolo 3, paragrafo 3, prevede espressamente un siffatto requisito).

50.      In secondo luogo, contrariamente a quanto lascia intendere la formulazione della prima questione pregiudiziale, non vi potevano essere servizi specifici prestati in cambio di ciascuna clausola (16). Infatti, un’unica prestazione di servizi può dar luogo a diverse clausole relative al prezzo (17). Se chi eroga un prestito chiede di essere pagato per metà sotto forma di interesse percentuale e per l’altra metà sotto forma di una commissione fissa, ritengo che, in linea di principio, abbia diritto di farlo (18). A mio modo di vedere, ciò che conta veramente in tali situazioni è che il consumatore sia stato informato dell’esistenza di diversi metodi di remunerazione scelti e che, pertanto, sia posto in condizione di valutare gli effetti prodotti dalla clausola relativa all’oggetto principale del contratto, non la relativa causa o ragion d’essere.

51.      In terzo luogo, ritengo che l’articolo 4, paragrafo 2, debba essere interpretato alla luce dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva del 1993.  In conformità di detto articolo, sono sottoposte alla verifica del carattere abusivo di cui all’articolo 3, paragrafo 1, soltanto le clausole che non sono state oggetto di negoziato individuale (19). Di conseguenza, ritengo che la ragion d’essere di detto requisito possa consistere nel fatto che, presumibilmente, i consumatori si informano sul contenuto delle clausole nella misura in cui esse riguardano l’oggetto principale del contratto e prestino il proprio consenso al contratto in considerazione delle stesse. Anche se il consumatore non ha partecipato alla redazione di dette clausole, esse probabilmente non lo troverebbero impreparato, contrariamente alle altre clausole di un contratto di adesione che i consumatori normalmente non leggono. La direttiva del 1993, tuttavia, presuppone la necessità che l’oggetto principale del contratto sia esplicitato in modo chiaro e comprensibile. Di conseguenza, come dispone il considerando 20 della direttiva del 1993, i consumatori dovrebbero avere almeno la possibilità di prendere conoscenza di tutte le clausole del contratto. Per tale motivo l’articolo 4, paragrafo 2, impone che le clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile (20). Ciò, tuttavia, non significa che il consumatore debba comprendere il motivo specifico di ciascuna clausola: sarebbe sufficiente che possano essere adeguatamente compresi dal consumatore medio gli effetti della stipula del contratto (21).

52.      In quarto luogo, se l’articolo 4, paragrafo 2, dovesse essere interpretato nel senso che esso significa che, per ciascuna clausola relativa ali prezzo, i professionisti sono tenuti a indicare i servizi forniti in cambio, questo potrebbe comportare che i professionisti sarebbero dissuasi dal fornire indicazioni dettagliate sui prezzi per i servizi prestati, per evitare di dover giustificare ciascuna clausola relativa al prezzo. Una siffatta interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 2, sarebbe di carattere eccessivamente prescrittivo e oneroso. Sarebbe inoltre tendenzialmente in contrasto con uno degli obiettivi fondamentali del diritto dell’Unione relativo ai consumatori (22), vale a dire garantire che il consumatore sia posto in grado di effettuare una scelta economica informata prima di stipulare il contratto in questione.

53.      Alla luce delle precedenti considerazioni, ritengo che la Corte dovrebbe attenersi alla sua giurisprudenza tradizionale, in base alla quale il requisito relativo alla redazione in modo chiaro e comprensibile di cui all’articolo 4, paragrafo 2, deve essere inteso nel senso che esso prescrive soltanto che il consumatore sia posto in grado di valutare le conseguenze economiche che gli derivano dal contratto e non la ragion d’essere di ogni clausola.

54.      Ciò non significa, tuttavia, che il servizio o i servizi forniti in considerazione della clausola relativa al prezzo non debbano poter essere identificati. Infatti, i giudici nazionali dovranno stabilire di quali servizi si tratti non grazie al requisito relativo alla redazione in modo chiaro e comprensibile, bensì in forza dell’ambito di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 2. Infatti, conformemente alla giurisprudenza della Corte nella causa Matei, se vengono forniti più servizi, alcuni primari e altri ausiliari, il giudice nazionale dovrà accertare quale o quali dei servizi o beni sono forniti a fronte di ciascuna clausola relativa al prezzo per stabilire se quest’ultima appartenga all’«oggetto principale» del contratto (23).

55.      Il fatto, tuttavia, che i giudici nazionali debbano effettuare un siffatto esame non implica che il professionista sia tenuto a menzionare quali beni o servizi vengono forniti in cambio di ciascuna clausola relativa al prezzo. Quando sono forniti più servizi, è sufficiente che dal contenuto del contratto si possa ragionevolmente desumere quello offerto in cambio della clausola relativa al prezzo.

56.      Naturalmente, occorre rilevare che secondo l’articolo 8 della direttiva del 1993, gli Stati membri possono adottare regole più severe di quelle previste dalla direttiva stessa, purché siano dirette a garantire un livello di protezione più elevato per i consumatori (24). Di conseguenza, anche se la direttiva del 1993 non impone che, al fine di beneficiare della deroga di cui all’articolo 4, paragrafo 2, le clausole relativa al prezzo debbano indicare i servizi forniti in cambio, gli Stati membri sono in linea di principio liberi di prevedere un tale obbligo nella loro normativa nazionale relativa alla tutela dei consumatori.

2.      Articolo 5

57.      L’articolo 5 della direttiva del 1993 prevede che «[n]el caso di contratti di cui tutte le clausole o talune clausole siano proposte al consumatore per iscritto, tali clausole devono essere sempre redatte in modo chiaro e comprensibile. In caso di dubbio sul senso di una clausola, prevale l’interpretazione più favorevole al consumatore».

58.      A tal riguardo, occorre anzitutto sottolineare che la direttiva del 1993 non intende affrontare la questione della mancanza di consenso in quanto tale, e ancor meno intende armonizzare il diritto dei contratti: essa piuttosto mira a correggere gli squilibri fra i diritti e gli obblighi delle parti che possono essere generati da alcune clausole.

59.      In secondo luogo, come ho esposto nelle mie conclusioni presentate nella causa Lovasné Tóth (25), dal testo dell’articolo 5 non emerge esplicitamente che il fatto che una clausola non sia stata redatta in modo chiaro e comprensibile costituisce un motivo distinto per dichiarare abusiva una tale clausola. Piuttosto, l’articolo 5 prevede semplicemente che, nei casi in cui una clausola contrattuale non sia redatta in «modo chiaro e comprensibile», quindi «[i]n caso di dubbio sul senso di una clausola», è l’interpretazione più favorevole al consumatore che prevale. Risulta chiaramente dal considerando 16 e dall’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva del 1993 che per valutare se una clausola sia abusiva esiste un solo criterio, vale a dire quello previsto dall’articolo 3, paragrafo 1.

60.      Di conseguenza ritengo che, come ho ricordato sempre nelle conclusioni presentate nella causa Lovasné Tóth, l’articolo 5 non costituisce un criterio alternativo per la verifica del carattere abusivo, ma fornisce invece semplicemente una regola interpretativa, al fine di determinare l’effetto giuridico prodotto da tali clausole. Solo quando la clausola contrattuale, anche se interpretata con riferimento all’articolo 5, continua a determinare uno squilibrio contrattuale a danno del consumatore può essere considerata abusiva.

61.      In tale contesto, il requisito relativo alla redazione chiara e comprensibile deve essere inteso come una dichiarazione generale diretta a introdurre la regola interpretativa di cui all’articolo 5. Ciò che conta, quindi, non è il modo in cui il consumatore comprende una clausola, ma piuttosto se quest’ultima sia oggettivamente ambigua. Per tutti questi motivi, ritengo pertanto che l’articolo 5 non dovrebbe essere interpretato nel senso che esso prescrive che, in un contratto di mutuo concluso con un consumatore, una clausola relativa al prezzo debba menzionare i servizi forniti in cambio.

62.      Anche se la Corte dovesse ritenere che l’articolo 5 stabilisca un criterio distinto per la verifica del carattere abusivo, alla luce della giurisprudenza di cui sopra ritengo che il requisito relativo alla redazione chiara e comprensibile debba essere inteso, in sostanza, nel senso che esso impone che il consumatore sia posto in grado di comprendere le conseguenze economiche che gli derivano dal contratto. Di conseguenza, ribadisco che il fatto che una clausola di prezzo non enunci qual è il servizio specifico fornito in cambio non è sufficiente di per sé per dichiararne il carattere abusivo. A tal fine è necessario che la natura dei servizi effettivamente forniti non possa essere ragionevolmente compresa o desunta dal contratto nel suo complesso.

63.      Alla luce di quanto precede, propongo di rispondere alla prima questione pregiudiziale dichiarando che né l’articolo 4, paragrafo 2, né l’articolo 5 della direttiva del 1993 devono essere interpretati nel senso che, in un contratto di mutuo stipulato con un consumatore, il requisito relativo alla redazione chiara e comprensibile prevede che ciascuna clausola relativa al prezzo enunci i servizi specifici forniti in cambio, a condizione che la natura dei servizi effettivamente forniti possa essere ragionevolmente compresa o desunta da un esame del contratto nel suo complesso.

B.      Sulla seconda questione

64.      Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva del 1993 debba essere interpretato nel senso che, nel caso di clausole contrattuali che prevedono il pagamento di spese per le quali non sia possibile determinare inequivocabilmente, sulla base del solo tenore letterale del contratto, quali siano i servizi specifici resi a fronte di tali spese, ciò sia in contrasto con il requisito della buona fede, in quanto dette clausole determinano, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto.

65.      A tale riguardo, si deve ricordare che l’articolo 3, paragrafo 1, stabilisce che «[u]na clausola contrattuale che non è stata oggetto di negoziato individuale si considera abusiva se, in contrasto con il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto».

66.      Come ho spiegato nelle mie conclusioni nella causa Lovasné Tóth, ritengo che la mancanza di buona fede non sia una condizione autonoma che deve essere dimostrata in aggiunta all’esistenza di un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti. Piuttosto, l’esistenza di un tale squilibrio dimostra di per sé la mancanza di buona fede nell’accezione della direttiva del 1993. Ne consegue, pertanto, che il requisito della buona fede non richiede la dimostrazione di un’intenzione o di dolo.

67.      Di conseguenza, poiché la verifica del carattere abusivo di cui al suddetto articolo si basa sugli effetti giuridici prodotti dalla clausola controversa, vale a dire la creazione, da parte di quest’ultima, di un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti, il fatto che detta clausola contrattuale non menzioni i servizi specifici forniti in cambio non sembra a prima vista tale, di per sé, da determinare l’accertamento del carattere abusivo, nell’accezione dell’articolo 3, paragrafo 1.

68.      Nel caso in cui il giudice nazionale non possa valutare il rapporto tra il prezzo pagato e il servizio effettivamente prestato, esso potrà peraltro dichiarare una clausola relativa al prezzo abusiva ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, per motivi diversi dal prezzo previsti dalla suddetta clausola (26). Un esempio a tale riguardo potrebbe essere quando il prezzo in questione rappresenta una penale, se tale penale non si applica anche quando il professionista è la parte inadempiente. Oltre a ciò, la Corte ha dichiarato che la controversia sull’ipotesi che il mutuante non fornisca alcuna prestazione effettiva come contropartita di tale commissione non riguarda l’adeguatezza della commissione rispetto alla prestazione effettiva (27). Pertanto, in simili circostanze può rendersi necessario per il giudice nazionale individuare quale servizio sia fornito a fronte di una determinata clausola. Da questo punto di vista, è quindi necessario che, se sono prestati più servizi, dal contratto si possa desumere almeno il contenuto del servizio o dei servizi forniti a fronte di una clausola relativa al prezzo.

69.      Con riferimento all’oggetto della seconda questione, propongo, pertanto, di rispondere alla stessa dichiarando che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva del 1993 deve essere interpretato nel senso che non implica che, se una clausola relativa al prezzo non menziona gli specifici servizi forniti in cambio, ciò determina, malgrado il requisito della buona fede, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto. Tuttavia, se non è possibile individuare i servizi forniti in cambio del corrispettivo, la clausola può essere dichiarata abusiva ai fini dell’articolo 3, paragrafo 1.

C.      Osservazioni finali

70.      Vorrei infine formulare alcune osservazioni in merito al contratto di cui trattasi nel procedimento principale.

71.      In primo luogo, alla luce della presentazione della controversia da parte del sig. Gyula Kiss in udienza, i cui fatti dovranno essere verificati dal giudice del rinvio, sembra che la ragione per cui la Banca ha suddiviso l’importo da pagare in tre diverse clausole relative al prezzo sotto forma, rispettivamente, di interesse principale, spese di gestione e commissione per la concessione del mutuo è che ciò ha consentito alla Banca di ridurre al minimo l’interesse principale richiesto e di presentare così ciò che apparentemente sembra essere un’offerta di mutuo più allettante. Una siffatta condotta può ben essere considerata alla luce dell’articolo 6, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2005/29. Questo articolo, infatti, prevede che una pratica commerciale è considerata ingannevole se essa inganna o può ingannare il consumatore medio, anche se l’informazione è di fatto corretta, in relazione al prezzo o al modo in cui esso viene calcolato, e induce il consumatore o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso.

72.      In secondo luogo, il giudice nazionale potrebbe voler valutare se clausole relative al prezzo, come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, debbano essere dichiarate abusive non a causa della mancata menzione dello specifico servizio fornito in cambio del prezzo chiesto, ma piuttosto a causa del trasferimento del rischio di cambio dalla Banca – che probabilmente ha bisogno di rifinanziarsi in euro – al consumatore. Infatti, tale trasferimento rappresenta, a mio parere, una questione che, a seconda delle circostanze, può essere considerata non essere l’oggetto principale del contratto e valutata separatamente dall’adeguatezza di tale prezzo rispetto al servizio fornito (28).

73.      È vero che, dal momento che l’articolo 23 della direttiva 2014/17 prevede espressamente la possibilità di offrire ai consumatori prestiti relativi a immobili residenziali in valuta estera, una siffatta clausola non può essere in quanto tale dichiarata abusiva per questo solo motivo. Tuttavia, sebbene detta direttiva non sia applicabile, si rileva nondimeno che clausole che determinano un trasferimento illimitato e irreversibile del rischio di cambio, senza che vi sia la possibilità, per il consumatore, di limitare la propria esposizione a detto rischio, possono essere considerate come causa di uno squilibrio significativo, a danno del consumatore, tra i diritti e gli obblighi delle parti.

V.      Conclusioni

74.      Alla luce delle summenzionate considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere alle due questioni pregiudiziali sollevate dalla Kúria (Corte suprema) come segue:

1)      Né l’articolo 4, paragrafo 2, né l’articolo 5 della direttiva 93/13/CEE, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, devono essere interpretati nel senso che, in un contratto di mutuo stipulato con un consumatore, il requisito relativo alla redazione chiara e comprensibile delle clausole prevede che ciascuna clausola relativa al prezzo enunci i servizi specifici forniti in cambio. In tali circostanze, tuttavia, è necessario che la natura dei servizi così forniti possa essere estrapolata o desunta dalle clausole del contratto stesso.

2)      L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 93/13 non implica che, se una clausola relativa al prezzo non menziona gli specifici servizi forniti in cambio, ciò non determina di per sé, malgrado il requisito della buona fede, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto. Se, tuttavia, non è possibile individuare i servizi forniti in cambio di un corrispettivo, detta clausola può essere dichiarata abusiva.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      Per i motivi che ho esposto nei paragrafi 87 e 88 delle mie conclusioni sulla causa Lovasné Tóth (C‑34/18, EU:C:2019:245), il fatto che una clausola non sia redatta in modo chiaro e comprensibile non costituisce un motivo distinto per dichiarare abusiva una clausola. L’articolo 5 prevede semplicemente una regola interpretativa per determinare gli effetti giuridici prodotti da una clausola. Ed è solo nel caso in cui, anche dopo l’applicazione della regola interpretativa contenuta nell’articolo 5, la clausola comporti ancora un significativo squilibrio tra le parti, a danno del consumatore, che detta clausola può essere considerata di carattere abusivo.


3      Sentenza del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282, punto 42).


4      Sentenze del 3 giugno 2010, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (C‑484/08, EU:C:2010:309, punto 34), e del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282, punti 46 e 49).


5      Sentenza del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282, punto 52).


6      Con riguardo ai contratti di mutuo espressi in valuta estera, la Corte ha dichiarato nella sentenza del 20 settembre 2017, Andriciuc e a. (C‑186/16, EU:C:2017:703, punto 38), che «il fatto che un credito debba essere rimborsato in una certa valuta riguarda, in linea di principio, non già una modalità accessoria di pagamento, bensì la natura stessa dell’obbligazione del debitore, costituendo così un elemento essenziale del contratto di mutuo».


7      Sentenza del 26 febbraio 2015, Matei (C‑143/13, EU:C:2015:127, punti 65 e 66). In tale prospettiva, mi sembra che la seconda situazione citata dovrebbe essere considerata non un’alternativa, bensì un’indicazione sul modo in cui l’eccezione di cui all’articolo 4, paragrafo 2, si applica nel contesto specifico di una clausola relativa al prezzo; in tale situazione solamente la perequazione fra prezzo e beni o servizi forniti, e pertanto l’entità del pagamento da effettuare, rientra nel campo di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 2, e ciò non vale, ad esempio, per i termini di tale pagamento.


8      Sentenza del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282, punti da 49 a 51).


9      Sentenza del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282, punti da 70 a 73).


10      Sentenze del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282, punto 75); del 23 aprile 2015, Van Hove (C‑96/14, EU:C:2015:262, punto 50), del 20 settembre 2017, Andriciuc e a. (C‑186/16, EU:C:2017:703, punto 45). Pertanto, anche se una clausola contrattuale è grammaticalmente intelligibile, essa può tuttavia esulare dall’ambito di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 2, quando un consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto possa non comprenderne la corretta portata e l’ambito di applicazione. In tali circostanze e in assenza della protezione di cui all’articolo 4, paragrafo 2, una siffatta clausola può essere ritenuta di carattere abusivo.


11      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE (GU 2008, L 133, pag. 66, e rettifiche in GU 2009, L 207, pag. 14, GU 2010, L 199, pag. 40, e GU 2011, L 234, pag. 46).


12      Sentenza del 21 aprile 2016, Radlinger e Radlingerová (C‑377/14, EU:C:2016:283, punto 84).


13      Articolo 13 della direttiva 2014/17 e articolo 5 della direttiva 2008/48.


14      L’espressione «obbligo di trasparenza» è stata utilizzata in altre sentenze. Tuttavia, nella maggior parte di esse si utilizza questa espressione per fare riferimento all’idea che ho espresso in precedenza, secondo cui, quando una clausola non contiene tutte le informazioni necessarie per valutarne la portata, il professionista deve fornire queste informazioni ai consumatori mediante altri mezzi, al fine di porli in condizione di valutare le conseguenze economiche derivanti dal contratto. V. sentenze del 23 aprile 2015, Van Hove (C‑96/14, EU:C:2015:262, punti 40 e 41), nonché del 20 settembre 2017, Andriciuc e a. (C‑186/16, EU:C:2017:703, punti 44 e 45).


15      Sentenza del 26 febbraio 2015, Matei (C‑143/13, EU:C:2015:127, punti da 74 a 77). Prima di detta sentenza, la Corte ha fatto riferimento unicamente alla necessità di informare i consumatori sul funzionamento della clausola. V., in tal senso, sentenza del 26 aprile 2012, Invitel (C‑472/10, EU:C:2012:242, punto 30). Nella sua successiva sentenza del 30 aprile 2014, Kásler e Káslerné Rábai (C‑26/13, EU:C:2014:282), non vi era, tuttavia, alcun riferimento alla direttiva 2003/55.


16      Nel procedimento principale, mi sembra che ciò che il sig. Gyula Kiss ha contestato non sia l’assenza di menzione nel contratto degli specifici servizi forniti a fronte di ciascuna clausola relativa al prezzo, ma la mancata menzione degli adempimenti interni che la banca è tenuta ad assolvere a seguito della concessione del mutuo, circostanza che giustificherebbe dette clausole relative al prezzo. Tuttavia, tale grado di precisione mi sembra eccessivo dal momento che la perequazione tra il prezzo corrisposto e i servizi o i beni forniti non rientra nell’ambito del controllo sulle clausole abusive.


17      A tale riguardo, mi preme sottolineare che, a mio avviso, la nozione di «clausola» utilizzata nella direttiva del 1993 deve essere intesa in senso sostanziale e non formale, vale a dire come riferita a uno specifico diritto o obbligo previsto nel contratto e non ad un determinato punto del contratto. Di conseguenza, una clausola può contenere diverse condizioni e una condizione può assumere la forma di diverse clausole.


18      Qualsiasi interpretazione contraria costituirebbe, a mio avviso, un’ingerenza eccessiva nella libertà di impresa, che, secondo la Corte, comprende la libertà contrattuale, senza che tale ingerenza sia realmente giustificata. V. sentenza del 21 dicembre 2016, AGET Iraklis, (C‑201/15, EU:C:2016:972, punto 67).


19      Secondo una giurisprudenza costante, il sistema di tutela istituito dalla direttiva del 1993 si basa sul presupposto che il consumatore si trovi in una situazione di inferiorità rispetto al professionista per quanto riguarda sia il potere nelle trattative che il grado di informazione. Ciò induce il consumatore ad aderire alle condizioni predisposte dal professionista, senza poter incidere sul contenuto delle stesse, o addirittura senza esserne a conoscenza. V., in tal senso, sentenza del 3 giugno 2010, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (C‑484/08, EU:C:2010:309, punto 27).


20      Un’altra molto più semplice spiegazione della ragion d’essere dell’articolo 4, paragrafo 2, potrebbe essere che il legislatore non voleva che gli organi giurisdizionali avessero la facoltà di modificare l’oggetto principale dei contratti. Ciò tuttavia non spiegherebbe perché l’applicazione di tale disposizione dipenda dalla condizione che le clausole interessate siano redatte in modo chiaro e comprensibile.


21      Osservo, per analogia, che, nel caso di un regolamento o una direttiva, sebbene il legislatore cerchi di fornire, nel preambolo di tale atto, la ragion d’essere di ciascuna delle sue disposizioni, ciò non sempre ha luogo.


22      V. ad esempio, per quanto riguarda i contratti di mutuo, i considerando 18, 19, 31 e 32 della direttiva 2008/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 aprile 2008, relativa ai contratti di credito ai consumatori e che abroga la direttiva 87/102/CEE (GU 2008, L 133, pag. 66) e considerando 20 e 22 della direttiva 2014/17/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 febbraio 2014, in merito ai contratti di credito ai consumatori relativi a beni immobili residenziali e recante modifica delle direttive 2008/48/CE e 2013/36/UE e del regolamento (UE) n. 1093/2010 (GU 2014, L 60, pag. 34).


23      V., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Matei (C‑143/13, EU:C:2015:127, punto 66).


24      Sentenza del 3 giugno 2010, Caja de Ahorros y Monte de Piedad de Madrid (C‑484/08, EU:C:2010:309, punto 40).


25      C‑34/18, EU:C:2019:245).


26      Ad esempio, quando il prestito è espresso in una valuta straniera, ma il rimborso deve essere effettuato in valuta nazionale (o l’importo del rimborso è indicizzato in una valuta estera), la clausola relativa al prezzo si compone di due elementi: il primo esprime il prezzo del servizio reso e l’altro determina il trasferimento del rischio di cambio.


27      V., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Matei (C‑143/13, EU:C:2015:127, punto 70).


28      V., in tal senso, sentenza del 20 settembre 2017, Andriciuc e a. (C‑186/16, EU:C:2017:703, punti 39 e 40).