Language of document : ECLI:EU:C:2020:586

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

HENRIK SAUGMANDSGAARD ØE

presentate il 16 luglio 2020 (1)

Cause riunite C682/18 e C683/18

Frank Peterson

contro

Google LLC,

YouTube LLC,

YouTube Inc.,

Google Germany GmbH (C682/18)

e

Elsevier Inc.

contro

Cyando AG (C683/18)

[domande di pronuncia pregiudiziale proposte dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania)]

«Rinvio pregiudiziale – Proprietà intellettuale – Diritto d’autore e diritti connessi – Direttiva 2001/29/CE – Articolo 3 – Comunicazione al pubblico – Nozione – Messa in rete di opere protette su piattaforme Internet, realizzata da utenti di queste ultime, senza autorizzazione preventiva dei titolari di diritti – Mancanza di responsabilità primaria dei gestori di tali piattaforme – Responsabilità secondaria di tali gestori per le violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti delle loro piattaforme – Questione non rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della direttiva 2001/29 – Direttiva 2000/31/CE – Articolo 14 – Esonero da responsabilità per i prestatori che forniscono un “servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione informazioni fornite da un destinatario del servizio” – Nozione – Possibilità per detti gestori di essere esonerati dalla responsabilità che può derivare dalle informazioni che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme – Condizioni per beneficiare di tale esonero da responsabilità – Articolo 14, paragrafo 1, lettera a) – Nozioni secondo cui si è “effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita” e “al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione” – Informazioni illecite concrete – Articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29/CE – Ingiunzioni nei confronti degli intermediari i cui servizi sono utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi – Condizioni per chiedere siffatta ingiunzione»






Indice


I. Introduzione

II. Contesto normativo

A. Direttiva 2000/31

B. Direttiva 2001/29

III. Procedimenti principali

A. Causa C682/18

1. YouTube

2. Il ricorso del sig. Peterson

B. Causa C683/18

1. Uploaded

2. Il ricorso della Elsevier

IV. Questioni pregiudiziali e procedimento dinanzi alla Corte

V. Analisi

A. Sulla nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (prime questioni)

1. Sul fatto che gestori di piattaforme quali YouTube e Cyando non realizzano, in linea di principio, atti di «comunicazione al pubblico»

2. Sul fatto che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 non disciplina la responsabilità secondaria delle persone che agevolano la realizzazione, da parte di terzi, di atti di «comunicazione al pubblico» illeciti

3. In subordine – sulla questione se gestori quali YouTube e Cyando agevolino deliberatamente la realizzazione di atti illeciti da parte di terzi

B. Sull’ambito di applicazione dell’esonero da responsabilità previsto all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (seconde questioni)

C. Sulla condizione di esonero, relativa alla mancata conoscenza o consapevolezza di un’informazione illecita, prevista all’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31 (terze questioni)

D. Sulle condizioni per chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti di un intermediario, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 (quarte questioni)

E. In subordine – sulla nozione di «autore della violazione» ai sensi dell’articolo 13 della direttiva 2004/48 (quinte e seste questioni)

F. Sul fatto che l’obiettivo di un livello elevato di protezione del diritto d’autore non giustifica un’interpretazione diversa delle direttive 2000/31 e 2001/29

Conclusione


I.      Introduzione

1.        Le presenti domande di pronuncia pregiudiziale sono state proposte dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania). Esse vertono sull’interpretazione della direttiva 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico») (2), della direttiva 2001/29/CE, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (3), nonché della direttiva 2004/48/CE, sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale (4).

2.        Tali domande si inseriscono nell’ambito di due controversie. Nella prima, Frank Peterson, un produttore di musica, agisce contro la YouTube LLC e la sua casa madre, la Google LLC, riguardo alla messa in rete, sulla piattaforma di condivisione di video YouTube, di diversi fonogrammi sui quali egli afferma di detenere diritti, realizzata da utenti di tale piattaforma senza l’autorizzazione del sig. Peterson. Nella seconda, la Elsevier Inc., un gruppo editoriale, agisce contro la Cyando AG riguardo alla messa in rete, sulla piattaforma di hosting e di condivisione di file Uploaded, gestita da quest’ultima società, di diverse opere di cui la Elsevier detiene i diritti esclusivi, messa in rete effettuata da utenti di tale piattaforma senza la sua autorizzazione.

3.        Le sei questioni sollevate dal giudice del rinvio in ciascuna delle sue domande di pronuncia pregiudiziale gravitano attorno alla problematica, estremamente delicata, della responsabilità dei gestori di piattaforme online con riferimento alle opere protette dal diritto d’autore che sono illecitamente messe in rete su tali piattaforme dai loro utenti.

4.        La natura e la portata di tale responsabilità dipendono, in particolare, dall’interpretazione dell’articolo 3 della direttiva 2001/29, che riconosce agli autori il diritto esclusivo di comunicare al pubblico le loro opere, e dell’articolo 14 della direttiva 2000/31, che offre ai prestatori intermediari un esonero relativo da responsabilità per le informazioni che essi memorizzano su richiesta degli utenti dei loro servizi. Nelle presenti cause la Corte sarà quindi invitata a precisare, in particolare, se la prima disposizione sia opponibile a tali gestori di piattaforme, se essi possano far valere la seconda disposizione, e il modo in cui tali disposizioni si articolano tra loro.

5.        In merito a tale problematica si registrano divergenze profonde. Secondo alcuni, le piattaforme online consentirebbero di realizzare una contraffazione su vasta scala, contraffazione da cui i loro gestori trarrebbero vantaggio a danno dei titolari di diritti, il che giustificherebbe l’imposizione, nei confronti di detti gestori, di obblighi gravosi di controllo dei contenuti che gli utenti delle loro piattaforme vi mettono in rete. Secondo altri, imporre a tali gestori simili obblighi di controllo inciderebbe significativamente sulla loro attività nonché sui diritti di tali utenti e ostacolerebbe la libertà di espressione e di creazione online.

6.        Tali divergenze sono state spinte al parossismo nel corso delle discussioni riguardanti l’adozione, da parte del legislatore dell’Unione, della direttiva (UE) 2019/790 sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE (5). L’articolo 17 di tale nuova direttiva prevede, per quanto riguarda gestori come YouTube, un regime di responsabilità specifica per le opere messe in rete illegalmente dagli utenti delle loro piattaforme. Preciso tuttavia che tale direttiva, entrata in vigore nel corso dei presenti procedimenti pregiudiziali, non è applicabile alle controversie principali. È quindi sotto il profilo del contesto normativo precedente a quest’ultima direttiva che tali cause dovranno essere definite, a prescindere dalle soluzioni appena adottate dal legislatore dell’Unione.

7.        Nelle presenti conclusioni, proporrò alla Corte di dichiarare che gestori di piattaforme quali YouTube e Cyando non effettuano, in linea di principio, atti di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3 della direttiva 2001/29, e, pertanto, non sono direttamente responsabili della violazione di tale disposizione qualora i loro utenti mettano in rete illecitamente opere protette. Spiegherò altresì perché tali gestori possano, in linea di principio, beneficiare dell’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14 della direttiva 2000/31, fatte salve le condizioni di cui preciserò l’ambito. Infine, spiegherò che i titolari di diritti possono ottenere, in forza del diritto dell’Unione, ingiunzioni giudiziarie nei confronti di detti gestori, idonee a imporre loro nuovi obblighi, di cui preciserò le condizioni.

II.    Contesto normativo

A.      Direttiva 2000/31

8.        La sezione 4 della direttiva 2000/31, intitolata «Responsabilità dei prestatori intermediari», include gli articoli da 12 a 15 di tale direttiva.

9.        L’articolo 14 di detta direttiva, intitolato «Hosting», così dispone:

«1.      Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a)      non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione,

o

b)      non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.

2.      Il paragrafo 1 non si applica se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore.

3.      Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca una violazione o vi ponga fine nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime».

10.      L’articolo 15 della medesima direttiva, intitolato «Assenza dell’obbligo generale di sorveglianza», prevede, al paragrafo 1, quanto segue:

«Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite».

B.      Direttiva 2001/29

11.      Il considerando 27 della direttiva 2001/29 enuncia che «[l]a mera fornitura di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione non costituisce un atto di comunicazione ai sensi della presente direttiva».

12.      L’articolo 3 di tale direttiva, intitolato «Diritto di comunicazione di opere al pubblico, compreso il diritto di mettere a disposizione del pubblico altri materiali protetti», così dispone:

«1.      Gli Stati membri riconoscono agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente.

2.      Gli Stati membri riconoscono ai soggetti sotto elencati il diritto esclusivo di autorizzare o vietare la messa a disposizione del pubblico, su filo o senza filo, in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente:

a)      gli artisti interpreti o esecutori, per quanto riguarda le fissazioni delle loro prestazioni artistiche;

b)      ai produttori di fonogrammi, per quanto riguarda le loro riproduzioni fonografiche;

(...)

3.      I diritti di cui ai paragrafi 1 e 2 non si esauriscono con alcun atto di comunicazione al pubblico o con la loro messa a disposizione del pubblico, come indicato nel presente articolo».

13.      L’articolo 8 di tale direttiva, intitolato «Sanzioni e mezzi di ricorso», prevede, al paragrafo 3, che «[g]li Stati membri si assicurano che i titolari di diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi».

III. Procedimenti principali

A.      Causa C682/18

1.      YouTube

14.      YouTube è una piattaforma Internet gestita dalla società eponima, di cui Google è socio unico e rappresentante legale. Tale piattaforma, che si articola in diversi siti Internet e applicazioni per dispositivi smart, consente ai suoi utenti di condividere video su Internet.

15.      Per mettere in rete un video su YouTube è necessario creare un account – con un nome utente e una password – e accettare i termini generali di servizio di tale piattaforma. L’utente che, dopo essersi così registrato, mette in rete un video può scegliere di lasciarlo in modalità «privato» o di pubblicarlo sulla piattaforma. Nella seconda ipotesi, il video in questione può essere visionato in flusso continuo (streaming) da detta piattaforma e condiviso da qualsiasi internauta, nonché commentato dagli altri utenti registrati. Gli utenti registrati possono anche creare «canali» che raggruppano i loro video.

16.      La messa in rete di un video sulla stessa piattaforma si effettua automaticamente, senza visione o controllo preliminare da parte di Google o di YouTube. Vi sarebbero dunque pubblicate quasi 35 ore di video al minuto (6), il che rappresenta varie centinaia di migliaia di video al giorno.

17.      YouTube integra una funzione di ricerca e procede a un trattamento dei risultati di ricerca sotto forma, in particolare, di una valutazione della pertinenza dei video, specifica per la regione dell’utente. Il risultato di tale valutazione è riassunto nella pagina iniziale sotto le rubriche «video visti attualmente», «video promossi» e «video tendenze». YouTube indicizza i video e i canali disponibili sotto rubriche quali «intrattenimento», «musica» o «film e animazione». Inoltre, se un utente registrato utilizza la piattaforma, gli viene presentata una panoramica dei «video consigliati», i quali dipendono in particolare dai video precedentemente visionati da quest’ultimo.

18.      YouTube trae dalla sua piattaforma, in particolare, introiti pubblicitari. A tale riguardo, a margine della pagina iniziale di quest’ultima compaiono banner pubblicitari di inserzionisti terzi. Inoltre, in taluni video sono inserite pubblicità, il che presuppone la conclusione di uno specifico contratto tra gli utenti interessati e YouTube.

19.      In forza dei termini generali di servizio di YouTube, ogni utente le concede, sui video che lo stesso mette in rete e fino alla loro rimozione dalla piattaforma, una licenza mondiale, non esclusiva e libera da canoni per l’uso, la riproduzione, la distribuzione, la creazione di opere derivate, l’esposizione e l’esecuzione connessi alla messa a disposizione della piattaforma e alle attività di YouTube, compresa la pubblicità.

20.      Accettando tali termini generali, l’utente conferma di disporre di tutti i diritti, gli accordi, le autorizzazioni e le licenze necessari sui video da esso messi in rete. YouTube invita peraltro gli utenti della sua piattaforma, nelle «Linee guida della community», a rispettare il diritto d’autore. Questi ultimi sono inoltre informati, in occasione di ogni messa in rete, che non può essere pubblicato sulla piattaforma alcun video che leda tale diritto.

21.      YouTube ha predisposto vari dispositivi tecnici al fine di far cessare e prevenire le violazioni sulla sua piattaforma. Chiunque può notificarle la presenza di un video illecito per iscritto, fax, posta elettronica o modulo web. È stato creato un pulsante di notifica grazie al quale possono essere segnalati contenuti indecenti o lesivi di diritti. I titolari di diritti hanno anche la possibilità, mediante un procedimento speciale di segnalazione, di far eliminare dalla piattaforma, indicando gli indirizzi Internet (URL) corrispondenti, fino a dieci video concretamente indicati per la contestazione.

22.      YouTube ha inoltre istituito un programma di verifica dei contenuti (Content Verification Program). Tale programma è aperto alle imprese iscritte a tal fine, non a semplici privati. Detto programma offre ai titolari di diritti interessati diversi strumenti che consentono loro di controllare più agevolmente l’utilizzo delle loro opere sulla piattaforma. Questi ultimi possono, in particolare, contrassegnare direttamente in un elenco di video quelli che, a loro avviso, ledono i loro diritti. Se un video è bloccato a causa di tale segnalazione, l’utente che l’ha messo in rete è avvertito del fatto che il suo account sarà bloccato in caso di recidiva. YouTube mette inoltre a disposizione dei titolari di diritti che partecipano al medesimo programma un software di riconoscimento di contenuto, denominato «Content ID», sviluppato da Google, che ha lo scopo di individuare automaticamente i video che utilizzano le loro opere. A tale riguardo, secondo le spiegazioni fornite Google, i titolari di diritti dovrebbero fornire a YouTube file di riferimento audio o video per identificare le opere in questione. Content ID creerebbe «impronte digitali» a partire da tali file, che sarebbero conservate in una banca dati. Content ID farebbe una scansione automatica di ogni video messo in rete su YouTube e la confronterebbe con tali «impronte». Tale software potrebbe, in tale contesto, riconoscere il video e l’audio, comprese le melodie qualora siano state riprese o imitate. Quando viene individuata una corrispondenza, i titolari di diritti interessati riceverebbero automaticamente una notifica. Questi ultimi avrebbero la possibilità di bloccare i video di cui trattasi. In alternativa, gli stessi potrebbero scegliere di seguire l’utilizzo di tali video su YouTube mediante statistiche di visualizzazione. Essi potrebbero anche scegliere di monetizzare detti video inserendovi pubblicità, o di percepire una parte degli introiti generati da tali pubblicità previamente inserite su richiesta degli utenti che hanno messo in rete gli stessi video.

2.      Il ricorso del sig. Peterson

23.      Il 6 e il 7 novembre 2008 alcuni titoli tratti dall’album A Winter Symphony dell’artista Sarah Brightman nonché registrazioni audio private realizzate in occasione dei concerti della sua tournée «Symphony Tour», associate ad immagini fisse o animate, sono stati pubblicati su YouTube da utenti di tale piattaforma.

24.      Con lettera del 7 novembre 2008, il sig. Peterson, che invoca il diritto d’autore e diritti connessi sui titoli e sulla registrazione in questione (7), si è rivolto alla Google Germany GmbH e, in sostanza, ha ingiunto a tale società, nonché a Google, di rimuovere i video controversi a pena di sanzione. A tal fine, il sig. Peterson ha fornito screenshot di tali video. YouTube ha ricercato manualmente, grazie a tali screenshot, gli indirizzi Internet (URL) di detti video e ne ha bloccato l’accesso. Le parti del procedimento principale controvertono, tuttavia, sulla portata di tali misure di blocco.

25.      Il 19 novembre 2008 su YouTube erano nuovamente accessibili registrazioni audio di concerti di Sarah Brightman, associate ad immagini fisse o animate.

26.      Il sig. Peterson ha conseguentemente proposto nei confronti, in particolare (8), di Google e di YouTube un ricorso dinanzi al Landgericht Hamburg (Tribunale del Land, Amburgo, Germania). In tale contesto, il sig. Peterson ha chiesto, in sostanza, di ottenere un provvedimento inibitorio che vietasse a tali società di mettere a disposizione del pubblico dodici registrazioni audio o interpretazioni tratte dall’album A Winter Symphony e dodici opere o interpretazioni tratte dai concerti della «Symphony Tour» o, in subordine, di consentire a terzi di farlo. Il sig. Peterson ha altresì chiesto di ottenere informazioni sulle attività di contraffazione di cui trattasi e sul fatturato o sui profitti realizzati da YouTube grazie a tali attività. Inoltre, egli ha chiesto che fosse accertato giudizialmente, in particolare, l’obbligo di tale società di versargli un risarcimento danni per la messa a disposizione del pubblico dei video controversi. Infine, il sig. Peterson ha chiesto, in subordine, di ottenere informazioni sugli utenti che avevano messo in rete tali video.

27.      Con sentenza del 3 settembre 2010, il Landgericht Hamburg (Tribunale del Land, Amburgo) ha accolto il ricorso per quanto riguarda tre titoli musicali e l’ha respinto quanto al resto. Il sig. Peterson nonché YouTube e Google hanno impugnato tale decisione.

28.      Con sentenza del 1° luglio 2015, l’Oberlandesgericht Hamburg (Tribunale superiore del Land di Amburgo, Germania) ha parzialmente riformato la sentenza pronunciata in primo grado. Tale giudice ha vietato a YouTube e a Google, a pena di una sanzione pecuniaria, di dare a terzi la possibilità di mettere a disposizione del pubblico registrazioni audio o interpretazioni di sette dei titoli dell’album A Winter Symphony. Detto giudice ha inoltre condannato tali società a fornire al sig. Peterson varie informazioni relative agli utenti che hanno messo in rete i video controversi. Lo stesso giudice ha respinto il ricorso del sig. Peterson quanto al resto.

29.      Il sig. Peterson ha proposto un ricorso per «Revision» (cassazione) dinanzi al Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia). In tali circostanze, con decisione del 13 settembre 2018, pervenuta alla Corte il 6 novembre 2018, tale giudice ha sospeso il procedimento e ha adito la Corte.

B.      Causa C683/18

1.      Uploaded

30.      Uploaded è una piattaforma di hosting e di condivisione di file – comunemente designata come Sharehoster oppure come Cyberlocker – gestita da Cyando. Tale piattaforma, accessibile attraverso diversi siti Internet, offre lo spazio di memorizzazione che consente a chiunque di ospitare online, gratuitamente, file che possono avere qualsiasi contenuto. Per utilizzare Uploaded è necessario creare un account con un nome utente e una password, fornendo in particolare un indirizzo di posta elettronica. La messa in rete di un file si effettua automaticamente e senza visualizzazione o controllo preliminare da parte di Cyando. Ogni volta che un file viene caricato da un utente, un collegamento ipertestuale che consente di scaricarlo, detto downloadlink, è automaticamente generato e comunicato a tale utente. Uploaded non contiene né indice né funzione di ricerca dei file ospitati. Gli utenti possono tuttavia condividere liberamente tali link di download su Internet, ad esempio, in blog, forum, oppure in «raccolte di link», vale a dire siti che indicizzano tali link, forniscono informazioni relative ai file cui tali link rinviano e consentono agli internauti di ricercare i file che desiderano scaricare.

31.      A condizione che si disponga di un account e di link adeguati, i file ospitati su Uploaded possono essere scaricati gratuitamente. Tuttavia, per gli utenti che dispongono di un semplice accesso gratuito alla piattaforma, le possibilità di download sono limitate (in termini, segnatamente, di quantità massima di dati scaricabili, di velocità di download, di numero di download simultanei, ecc.). Per contro, gli utenti possono sottoscrivere un abbonamento a pagamento per beneficiare di un volume di download quotidiano assai più consistente, senza limiti di velocità o di numero di download simultanei, e senza tempi di attesa tra i download. Inoltre, Cyando ha istituito un programma di «partnership» nell’ambito del quale essa versa, a taluni utenti che mettono in rete file su Uploaded, una remunerazione in base al numero di download dei file in questione.

32.      Le condizioni generali d’uso di Uploaded stabiliscono che tale piattaforma non può essere utilizzata per violare il diritto d’autore. Ciò premesso, è pacifico che, di fatto, detta piattaforma dà luogo a usi legali nonché, «in larga misura» (9), a usi lesivi del diritto d’autore, circostanza di cui Cyando è consapevole. A tale riguardo, Cyando è stata informata della presenza, sui suoi server, di oltre 9 500 opere protette, messe in rete senza autorizzazione preventiva dei titolari di diritti, per le quali sono stati condivisi link di download su circa 800 siti Internet (raccolte di link, blog e forum) di cui essa è a conoscenza.

2.      Il ricorso della Elsevier

33.      Dalla decisione di rinvio nella causa C‑683/18 risulta che un certo numero di opere protette, di cui la Elsevier detiene i diritti esclusivi di sfruttamento, sono state ospitate sulla piattaforma Uploaded e messe a disposizione del pubblico, senza l’autorizzazione di tale società, tramite raccolte di link, blog e altri forum. In particolare, sulla base di ricerche effettuate dall’11 al 13 dicembre 2013, tale società ha notificato a Cyando, con due lettere spedite il 10 e il 17 gennaio 2014, che dei file contenenti tre di tali opere, vale a dire Gray’s Anatomy for Students, Atlas of Human Anatomy e CampbellWalsh Urology, erano memorizzati sui suoi server e potevano essere liberamente consultati attraverso le raccolte di link rehabgate.com, avaxhome.ws e bookarchive.ws.

34.      La Elsevier ha proposto un ricorso, notificato il 17 luglio 2014, nei confronti di Cyando dinanzi al Landgericht München (Tribunale del Land, Monaco di Baviera, Germania). In tale contesto, la Elsevier ha chiesto, in particolare, che a Cyando fosse imposto un provvedimento inibitorio, in via principale, in quanto autrice delle violazioni del diritto d’autore commesse relativamente alle opere controverse, in subordine, come complice di tali violazioni e, in ulteriore subordine, come «perturbatrice». La Elsevier ha altresì chiesto che Cyando fosse condannata a fornirle talune informazioni. Inoltre, la prima società ha chiesto a tale giudice di constatare l’obbligo della seconda società di versarle un risarcimento danni per le medesime violazioni.

35.      Con sentenza del 18 marzo 2016, il Landgericht München (Tribunale del Land, Monaco di Baviera) ha imposto a Cyando un provvedimento inibitorio a causa della sua partecipazione alle violazioni del diritto d’autore commesse relativamente alle tre opere cui fanno riferimento le lettere del 10 e del 17 gennaio 2014, e ha accolto le domande formulate in subordine dalla Elsevier. Detto giudice ha respinto il ricorso quanto al resto.

36.      La Elsevier e Cyando hanno impugnato ciascuna tale decisione. Con sentenza del 2 marzo 2017, l’Oberlandesgericht München (Tribunale superiore del Land, Monaco di Baviera, Germania) ha riformato la sentenza di primo grado. Tale giudice ha imposto a Cyando un provvedimento inibitorio in quanto «perturbatrice» riguardo alle violazioni relative alle tre opere cui fanno riferimento le lettere del 10 e del 17 gennaio 2014, conformemente alla domanda formulata in ulteriore subordine dalla Elsevier. Il giudice d’appello ha respinto il ricorso quanto al resto.

37.      La Elsevier ha proposto ricorso per cassazione dinanzi al Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia). In tali circostanze, con decisione del 20 settembre 2018, pervenuta alla Corte il 6 novembre 2018, tale giudice ha sospeso il procedimento e ha adito la Corte.

IV.    Questioni pregiudiziali e procedimento dinanzi alla Corte

38.      Nella causa C‑682/18, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se il gestore di una piattaforma di video su Internet sulla quale gli utenti mettono a disposizione del pubblico video con contenuti protetti dal diritto d’autore senza il consenso degli aventi diritto compia un atto di comunicazione ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della [direttiva 2001/29] nel caso in cui

–        esso percepisca introiti pubblicitari attraverso la piattaforma,

–        [la messa in rete di un video] avvenga automaticamente e senza preventiva visualizzazione o controllo da parte del gestore,

–        il gestore ottenga, in base alle condizioni d’uso, una licenza mondiale, non esclusiva e gratuita per i video, per la durata della pubblicazione del video,

–        il gestore indichi nelle condizioni d’uso e nell’ambito del processo di [messa in rete] che non possono essere pubblicati contenuti lesivi del diritto d’autore,

–        il gestore metta a disposizione strumenti atti a consentire agli aventi diritto di intervenire ai fini della disabilitazione dell’accesso ai video illegali,

–        il gestore organizzi i risultati della ricerca sulla piattaforma sotto forma di classifiche e categorie di contenuti, consentendo agli utenti registrati di visualizzare una scaletta con i video consigliati sulla base dei video già visualizzati,

a condizione che esso non sia concretamente al corrente della disponibilità di contenuti lesivi del diritto d’autore oppure, non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per la loro cancellazione ovvero per disabilitarne l’accesso.

2)      In caso di risposta negativa alla prima questione:

Se, nelle circostanze descritte nella prima questione, l’attività del gestore di una piattaforma video su Internet rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 14, paragrafo 1, della [direttiva 2000/31].

3)      In caso di risposta affermativa alla seconda questione:

Se l’essere effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e l’essere al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione debbano riferirsi, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della [direttiva 2000/31], a specifiche attività o informazioni illegali.

4)      Ancora nel caso di risposta affermativa alla seconda questione:

Se sia compatibile con l’articolo 8, paragrafo 3, della [direttiva 2001/29] il fatto che il titolare del diritto possa ottenere un provvedimento inibitorio nei confronti di un prestatore di servizi il cui servizio consista nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio e sia utilizzato da un destinatario del servizio per violare un diritto d’autore o diritti connessi, soltanto nel caso in cui a seguito della segnalazione di una chiara violazione si sia verificata nuovamente un’analoga violazione.

5)      In caso di risposta negativa alla prima e alla seconda questione:

Se, nelle circostanze descritte nella prima questione, il gestore di una piattaforma di video su Internet possa essere considerato autore della violazione ai sensi degli articoli 11, prima frase, e 13 della [direttiva 2004/48].

6)      In caso di risposta affermativa alla quinta questione:

Se l’obbligo di risarcimento del danno posto a carico di tale autore della violazione ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della [direttiva 2004/48] possa essere subordinato alla condizione che l’autore della violazione abbia agito dolosamente sia in relazione alla propria attività di violazione sia in relazione a quella del terzo e che sapesse o avrebbe dovuto ragionevolmente sapere che gli utenti utilizzano la piattaforma per specifiche violazioni».

39.      Nella causa C‑683/18, tale giudice ha parimenti sottoposto alla Corte sei questioni pregiudiziali, e le questioni dalla seconda alla sesta sono sostanzialmente identiche a quelle sollevate nella causa C‑682/18. Differisce soltanto la prima questione, qui di seguito riportata:

«1)      a)      Se il gestore di un servizio [di hosting e di condivisione di file] attraverso il quale gli utenti mettono a disposizione del pubblico file recanti contenuti protetti dal diritto d’autore senza il consenso degli aventi diritto compia un atto di comunicazione ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva [2001/29] nel caso in cui,

–        [la messa in rete di un file] avvenga automaticamente e senza preventiva visualizzazione o controllo da parte del gestore,

–        il gestore indichi nei termini di servizio che non possono essere pubblicati contenuti lesivi del diritto d’autore,

–        esso percepisca introiti derivanti dalla gestione del servizio,

–        il servizio sia utilizzato per usi leciti, ma il gestore sia al corrente del fatto che è disponibile anche un numero considerevole di contenuti lesivi del diritto d’autore (oltre 9 500 opere),

–        il gestore non fornisca alcun elenco dei contenuti, né alcuna funzione di ricerca, tuttavia i collegamenti per il download che esso mette a disposizione senza limiti sono pubblicati da terzi in apposite raccolte su Internet, le quali includono informazioni sul contenuto dei file e consentono la ricerca di determinati contenuti,

–        attraverso il sistema del compenso per i download corrisposto in base alla domanda, il gestore crei un incentivo a caricare contenuti protetti dal diritto d’autore, altrimenti disponibili per gli utenti solo a pagamento

e

–        con la possibilità di caricare file in forma anonima, aumenti la probabilità che gli utenti non siano chiamati a rispondere di violazioni del diritto d’autore.

b)      Se tale valutazione cambi nel caso in cui vengano offerti, attraverso il servizio di hosting condiviso, contenuti lesivi del diritto d’autore in una misura compresa tra il 90 e il 96% dell’uso totale».

40.      Con decisione del presidente della Corte in data 18 dicembre 2018, le cause C‑682/18 e C‑683/18 sono state riunite, tenuto conto della loro connessione, ai fini delle fasi scritta e orale del procedimento nonché della sentenza.

41.      Il sig. Peterson, la Elsevier, Google, Cyando, i governi tedesco, francese e finlandese nonché la Commissione europea hanno depositato osservazioni scritte dinanzi alla Corte. Le medesime parti e i medesimi interessati, ad eccezione del governo finlandese, sono stati rappresentati all’udienza di discussione che si è tenuta il 26 novembre 2019.

V.      Analisi

42.      Le presenti cause hanno come sfondo i servizi del «web 2.0». Ricordo che, a partire dalla metà degli anni 2000, vari cambiamenti tecnologici (che vanno dall’aumento della larghezza di banda mondiale alla democratizzazione delle connessioni a banda larga) e sociali (che si tratti di una modifica dell’atteggiamento degli internauti riguardo alla privacy o alla volontà di condividere, di contribuire e di creare comunità online) hanno comportato lo sviluppo su Internet di servizi dinamici e interattivi, quali i blog, i social network e le piattaforme di condivisione, costituenti altrettanti strumenti che offrono ai propri utenti la possibilità di condividere online contenuti di ogni genere, designati quindi con l’espressione usercreated content o usergenerated content. I prestatori di tali servizi rivendicano il fatto di consentire agli internauti di uscire dal ruolo di consumatore passivo di intrattenimento, di opinioni o di informazioni e di essere attivamente coinvolti nella creazione e nello scambio di tali contenuti su Internet. L’effetto di rete inerente al successo di un servizio del genere ha rapidamente permesso ad un limitato numero di tali prestatori di passare dallo status di start‑up a quello di impresa dominante (10).

43.      La piattaforma YouTube, al centro della causa C‑682/18, è rappresentativa al riguardo. Tale piattaforma offre a i suoi utenti (che sarebbero più di 1,9 miliardi, stando a quanto sostiene Google) l’opportunità di condividere online i loro contenuti e, in particolare, le loro creazioni. È così messo in rete, ogni giorno, su tale piattaforma, un gran numero di video, tra i quali si trovano contenuti culturali e di intrattenimento, come composizioni musicali pubblicate da artisti emergenti che possono trovare un ampio pubblico, contenuti informativi su temi diversi come la politica, lo sport e la religione, oppure «tutorial» destinati a consentire a chiunque di imparare a cucinare, a suonare la chitarra, a riparare una bicicletta, ecc. I contenuti sono pubblicati su YouTube non solo dai privati, ma anche da organismi pubblici e da professionisti, tra cui imprese affermate operanti nel settore dei media quali emittenti televisive o case discografiche. YouTube è organizzata attorno a un modello economico complesso, che include in particolare la vendita di spazi pubblicitari sulla sua piattaforma (11). Inoltre, YouTube ha istituito un sistema mediante il quale condivide una percentuale dei suoi introiti pubblicitari con taluni utenti che forniscono i contenuti, il che consente a questi ultimi di ricavare un reddito dalla piattaforma (12).

44.      La piattaforma Uploaded, al centro della causa C‑683/18, riflette una realtà certamente collegata, ma tuttavia distinta. In generale, un Cyberlocker fornisce ai suoi utenti uno spazio di memorizzazione online, che consente a questi ultimi, in particolare, di salvare «su cloud» qualsiasi tipo di file al fine di accedervi in qualsiasi momento, dal luogo che preferiscono e mediante qualsiasi dispositivo. In quanto Sharehoster, Uploaded svolge anche una funzione di condivisione dei file ospitati. Gli utenti hanno quindi la facoltà di comunicare a terzi i downloadlinks generati per ogni file messo in rete. Tale funzione mirerebbe, secondo Cyando, a consentire a chiunque di trasferire agevolmente file voluminosi ai familiari, agli amici oppure a partner commerciali. Inoltre, gli utenti, grazie a detta funzione, potrebbero condividere su Internet contenuti liberi da diritti o proprie opere. I Cyberlockers adottano diversi modelli commerciali. Uploaded, dal canto suo, viene remunerata grazie alla vendita di abbonamenti che incidono in particolare sulla capacità di download dei file ospitati.

45.      Anche se piattaforme quali YouTube e Uploaded possono quindi dar luogo a diversi usi leciti, esse sono utilizzate anche illegalmente. In particolare, video condivisi su YouTube possono contenere opere protette e ledere i diritti dei loro autori. Inoltre, uno Sharehoster come Uploaded, per la sua stessa capacità di memorizzare e trasferire file voluminosi, è uno strumento pratico per lo scambio illecito di copie di opere, in particolare cinematografiche o musicali.

46.      I titolari di diritti come il sig. Peterson e la Elsevier, sostenuti nel caso di specie dal governo francese, tracciano così un quadro severo delle piattaforme in questione e dei loro gestori. Consentendo, nell’ambito di tali piattaforme, una fornitura decentralizzata e incontrollata di contenuti da parte di qualsiasi internauta, detti gestori creerebbero un rischio considerevole di violazione del diritto d’autore. Tale rischio sarebbe moltiplicato considerata la natura ubiquitaria dei contenuti pubblicati su dette piattaforme, i quali possono essere consultati istantaneamente da un numero indefinito di internauti in tutto il mondo (13). I titolari di diritti lamentano altresì le difficoltà che essi sperimentano per perseguire gli utenti che commettono tali violazioni attraverso le medesime piattaforme, a causa della loro insolvibilità, del loro anonimato o della loro ubicazione.

47.      Gli argomenti dei titolari di diritti non si limitano al rischio di contraffazione generato dall’attività di gestori quali YouTube o Cyando. Più in generale, essi contestano a tali gestori – e in particolare a YouTube – di aver profondamente modificato, a loro spese, la catena di valore nell’economia della cultura. In sostanza, i titolari di diritti affermano che detti gestori indurrebbero gli utenti delle loro piattaforme a mettere in rete contenuti attraenti, che sarebbero, nella maggior parte dei casi, tutelati dal diritto d’autore. Gli stessi gestori monetizzerebbero per proprio conto tali contenuti, in particolare grazie alla pubblicità (modello «YouTube») o agli abbonamenti (modello «Cyando») e ne trarrebbero profitti considerevoli, senza tuttavia acquistare licenze dai titolari di diritti né, pertanto, versare loro un corrispettivo. I gestori di piattaforme accaparrerebbero quindi la maggior parte del valore generato da tali contenuti, a danno dei titolari di diritti – si tratta in tal caso dell’argomento del value gap (differenza di valore), discusso nel contesto dell’adozione della direttiva 2019/790. Inoltre, le piattaforme quali YouTube ostacolerebbero la possibilità, per i titolari di diritti, di sfruttare in modo normale le loro opere. Infatti, tali piattaforme farebbero una concorrenza sleale ai mass media tradizionali (emittenti radiofoniche e televisive, ecc.) e ai fornitori di contenuti digitali (Spotify, Netflix, ecc.) che acquistano, a loro volta, i contenuti che essi diffondono dai titolari di diritti dietro corrispettivo, e che sarebbero pronti, a causa di tale concorrenza sleale, a versare a questi ultimi un corrispettivo inferiore per restare competitivi (14). Così, per ottenere il livello elevato di tutela della loro proprietà intellettuale che il diritto dell’Unione mira a garantire loro e una remunerazione adeguata per l’utilizzo delle loro opere (15), i titolari di diritti dovrebbero potersi rivolgere agli stessi gestori di piattaforme.

48.      In questa fase è utile ricordare che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 prevede, per gli autori, il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi «comunicazione al pubblico» delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico di tali opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente (16). Tale diritto esclusivo è violato quando un’opera tutelata viene comunicata al pubblico da terzi senza autorizzazione preventiva da parte del suo autore (17), salvo che tale comunicazione rientri in una delle eccezioni e limitazioni tassativamente previste all’articolo 5 di tale direttiva (18).

49.      Orbene, i titolari di diritti ritengono che gestori quali YouTube e Cyando realizzino, unitamente agli utenti delle loro piattaforme, la «comunicazione al pubblico» delle opere che questi ultimi mettono in rete. Di conseguenza, tali gestori dovrebbero, per tutti i file che tali utenti intendono condividere, prima della loro messa in rete, verificare se contengano opere protette, determinare i diritti esistenti su queste ultime e ottenere essi stessi, in generale dietro corrispettivo, una licenza dai titolari di tali diritti o, in mancanza, impedire tale messa in rete. Ogniqualvolta detti gestori non adempiano tali obblighi e, di conseguenza, le opere siano pubblicate illecitamente dalle loro piattaforme, essi ne sarebbero direttamente responsabili, conformemente all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. A tale titolo, gli stessi gestori sarebbero tenuti, in particolare, in forza dell’articolo 13 della direttiva 2004/48, a versare ai titolari di diritti interessati il risarcimento dei danni.

50.      YouTube e Cyando, sostenute nel caso di specie dal governo finlandese e dalla Commissione, replicano che esse sono solo intermediari che forniscono strumenti che consentono agli utenti delle loro piattaforme di comunicare opere al pubblico. Sarebbero dunque non già tali gestori, bensì detti utenti, a realizzare la «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, quando condividono in rete, da tali piattaforme, file contenenti opere protette. Gli stessi utenti assumerebbero quindi la responsabilità diretta in caso di «comunicazione» illecita. In ogni caso, detti gestori ritengono di beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. Tale disposizione li esonererebbe da qualsiasi responsabilità che possa derivare dai file illeciti che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme, a condizione, in sostanza, che essi non ne siano a conoscenza o che, eventualmente, li abbiano prontamente eliminati. Inoltre, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, di tale direttiva, ai medesimi gestori non potrebbe essere imposto l’obbligo generale di sorvegliare i file che essi memorizzano o di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. YouTube e Cyando ritengono quindi che, conformemente a tali disposizioni, esse siano tenute non già a controllare tutti i file forniti dagli utenti delle loro piattaforme prima della loro messa in rete, bensì, in sostanza, ad essere sufficientemente reattive alle notifiche dei titolari di diritti che segnalino l’illegittimità di alcuni di essi.

51.      In tale contesto, le prime questioni sollevate dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) mirano a stabilire se l’attività di gestori di piattaforme quali YouTube e Cyando rientri nella nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. Le seconde questioni di tale giudice mirano a stabilire se tali gestori possano beneficiare dell’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per i file che essi memorizzano su richiesta dei loro utenti. Tali questioni sono strettamente collegate. Infatti, il legislatore dell’Unione intendeva, con le direttive 2000/31 e 2001/29, istituire un quadro normativo chiaro a livello dell’Unione sulla responsabilità dei prestatori intermediari per le violazioni dei diritti d’autore (19). L’articolo 3, paragrafo 1, della prima direttiva e l’articolo 14, paragrafo 1, della seconda devono essere quindi interpretati in modo coerente (20).

52.      Nelle sezioni A e B delle presenti conclusioni esaminerò di volta in volta queste due disposizioni (21).

A.      Sulla nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (prime questioni)

53.      Con le sue prime questioni, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il gestore di una piattaforma di condivisione di video e il gestore di una piattaforma di hosting e di condivisione di file realizzino un atto di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, qualora un utente delle loro piattaforme vi metta in rete un’opera protetta.

54.      Secondo giurisprudenza costante della Corte, la nozione di «comunicazione al pubblico» di cui all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 è una nozione autonoma del diritto dell’Unione, il cui senso e la cui portata devono essere determinati alla luce del tenore letterale di tale disposizione, del contesto in cui essa si inserisce e degli obiettivi perseguiti da tale direttiva (22). Inoltre, tale nozione deve essere interpretata, per quanto possibile, alla luce delle equivalenti nozioni contenute nel diritto internazionale che vincola l’Unione (23).

55.      Conformemente a tale giurisprudenza, la nozione di «comunicazione al pubblico» consta di due condizioni cumulative, vale a dire un atto di «comunicazione» di un’opera e un «pubblico» (24).

56.      A tal proposito, da un lato, la nozione di «comunicazione» riguarda, come precisato dal considerando 23 della direttiva 2001/29, qualsiasi trasmissione (o ritrasmissione) di un’opera al pubblico non presente nel luogo in cui la comunicazione ha origine, a prescindere dal procedimento tecnico utilizzato (25). In altri termini, una persona realizza un atto di «comunicazione» quando trasmette e rende quindi percepibile un’opera (26) a distanza (27). L’esempio tipico di una simile trasmissione è, come precisato in tale considerando, la radiodiffusione di un’opera, mentre il termine «ritrasmissione» riguarda, in particolare, la ritrasmissione simultanea, via cavo, satellite o Internet, di un programma radiodiffuso.

57.      Inoltre, la nozione di «comunicazione» include, come ho ricordato al paragrafo 48 delle presenti conclusioni, quella di «messa a disposizione». Quest’ultima categoria riguarda, come precisato al considerando 25 e all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, le trasmissioni interattive su richiesta, caratterizzate dal fatto che chiunque può avere accesso all’opera dal luogo e nel momento scelti individualmente. La nozione di «messa a disposizione» comprende quindi il fatto che una persona dia a un «pubblico» la possibilità di vedersi trasmettere un’opera a tali condizioni, tipicamente mettendola in rete su un sito Internet (28).

58.      D’altro lato, la nozione di «pubblico» si riferisce a un numero «indeterminato» e «piuttosto considerevole» di persone. Tale nozione riguarda quindi le persone in generale, in contrapposizione a persone determinate appartenenti ad un gruppo privato, e contiene una certa soglia de minimis (29).

59.      Nel caso di specie, tenuto conto di quanto precede, è incontestabile che, quando un’opera protetta è condivisa in rete da una piattaforma quale YouTube o Uploaded, tale opera è «messa a disposizione del pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.

60.      Infatti, quando un video contenente un’opera protetta è pubblicato su YouTube, chiunque può consultarlo in streaming a partire da tale piattaforma, dal luogo e nel momento scelti individualmente. Lo stesso vale quando un file contenente un’opera è ospitato su Uploaded e il relativo download link viene liberamente condiviso su Internet, in raccolte di link, blog o forum (30). In entrambi i casi, l’opera è messa a disposizione di un «pubblico» (31) indipendentemente dal fatto che la sua consultazione o il suo download avvenga su richiesta di singoli individui nella trasmissione «one to one». Infatti, a tal proposito, occorre tener conto del numero di persone che possono avervi accesso contemporaneamente nonché successivamente (32). Nell’ipotesi menzionata, l’opera può essere consultata o scaricata, a seconda dei casi, da tutti i visitatori, attuali e potenziali, di YouTube o del sito Internet sul quale tale link è condiviso – ossia, manifestamente, da un numero «indeterminato» e «piuttosto considerevole» di persone (33).

61.      Pertanto, quando un’opera protetta è pubblicata su Internet a partire da piattaforme quali YouTube o Uploaded, ad opera di terzi, senza autorizzazione preventiva del suo autore, e tale pubblicazione non rientra nelle eccezioni e limitazioni previste all’articolo 5 della direttiva 2001/29, ne deriva una violazione del diritto esclusivo di «comunicazione al pubblico» che l’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva riconosce a quest’ultimo.

62.      Ciò premesso, tutta la questione sta nell’accertare chi, tra l’utente che mette in rete l’opera considerata, il gestore della piattaforma, o questi due soggetti congiuntamente, realizzi tale «comunicazione» e ne assuma l’eventuale responsabilità.

63.      In questa fase, occorre precisare che il sig. Peterson e la Elsevier hanno presentato, su tale questione, argomenti improntati a logiche diverse. A loro avviso, gestori quali YouTube e Cyando sarebbero responsabili ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 per il fatto, anzitutto, che essi parteciperebbero attivamente alla «comunicazione al pubblico» delle opere messe in rete dagli utenti delle loro piattaforme, di modo che realizzerebbero essi stessi tale «comunicazione», poi, che essi sarebbero a conoscenza del fatto che tali utenti condividono opere protette in modo illecito e, inoltre, che essi li indurrebbero deliberatamente a farlo, e, infine, che darebbero prova di negligenza al riguardo, non rispettando taluni obblighi di diligenza che sarebbero loro imposti come contropartita del rischio di contraffazione generato dalla loro attività (34).

64.      Tale argomento fonde, a mio avviso, due problematiche. Da un lato, nel caso in cui gestori quali YouTube e Cyando realizzino la «comunicazione al pubblico» delle opere messe in rete dagli utenti delle loro piattaforme, tali gestori assumerebbero potenzialmente una responsabilità diretta (o «primaria») ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. Se ciò si verifichi nel caso di specie costituisce una questione obiettiva, con esclusione di considerazioni quali la conoscenza o la negligenza. Infatti, la risposta a tale questione dipende, in linea di principio, unicamente dalla questione se detti gestori effettuino gli atti di «comunicazione» e se tali atti siano realizzati senza autorizzazione da parte degli autori delle opere di cui trattasi. Nella sezione 1 esporrò, seguendo tale quadro di analisi, ed esaminando unicamente gli argomenti pertinenti, le ragioni per le quali, in linea di principio, solo gli utenti che mettono in rete opere protette realizzano la «comunicazione al pubblico» di tali opere. La responsabilità primaria che può derivare da tale «comunicazione» è quindi, di norma, assunta unicamente da tali utenti.

65.      D’altro lato, la questione se gestori quali YouTube e Cyando siano responsabili delle violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti delle loro piattaforme per il fatto, ad esempio, che tali gestori ne erano a conoscenza e hanno omesso deliberatamente di agire, che hanno indotto tali utenti a commettere siffatte violazioni oppure che sono stati negligenti al riguardo non rientra, a mio avviso, nell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. Come spiegherò nella sezione 2, anche se la Corte sembra aver interpretato tale disposizione, nelle sentenze GS Media (35), Stichting Brein I («Filmspeler») (36) e Stichting Brein II («The Pirate Bay») (37), nel senso che essa può comprendere la responsabilità per il fatto di terzi (cosiddetta «accessoria», «sussidiaria», «secondaria» o «indiretta»), ritengo, per parte mia, che tale responsabilità non sia, in realtà, armonizzata nel diritto dell’Unione. Essa rientra, pertanto, nell’ambito di applicazione delle norme in materia di responsabilità civile previste nel diritto degli Stati membri. In subordine, esaminerò, nella sezione 3, l’attività di detti gestori alla luce del quadro di analisi risultante da tali sentenze e dai relativi argomenti.

1.      Sul fatto che gestori di piattaforme quali YouTube e Cyando non realizzano, in linea di principio, atti di «comunicazione al pubblico»

66.      Come ho spiegato ai paragrafi da 55 a 58 delle presenti conclusioni, un atto di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, corrisponde alla trasmissione di un’opera protetta a un pubblico. In tale contesto, un atto di «messa a disposizione» consiste nell’offrire ai membri del pubblico la possibilità di siffatta trasmissione, che può essere realizzata su loro richiesta, dal luogo e nel momento da essi scelto individualmente.

67.      Ciò premesso, qualsiasi trasmissione di un’opera a un pubblico richiede, di norma, una catena di interventi effettuati da più persone, coinvolte a diverso titolo e in gradi diversi in tale trasmissione. Ad esempio, la possibilità, per i telespettatori, di visionare un’opera radiodiffusa sui loro apparecchi televisivi è il risultato degli sforzi combinati, in particolare, di un organismo di radiodiffusione, di una o più emittenti, del gestore della rete hertziana nonché delle persone che hanno fornito le antenne e gli apparecchi televisivi di tali telespettatori.

68.      Non tutti questi interventi possono essere considerati atti di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. Altrimenti, qualsiasi anello della catena, indipendentemente dalla natura della sua attività, sarebbe responsabile nei confronti degli autori. Al fine di prevenire il rischio di siffatta interpretazione estensiva, il legislatore dell’Unione ha precisato, al considerando 27 di tale direttiva, che la «mera fornitura di attrezzature fisiche atte a rendere possibile o ad effettuare una comunicazione non costituisce un atto di comunicazione ai sensi [di tale direttiva]» (38).

69.      Occorre quindi distinguere, all’interno della catena di interventi inerente a qualsiasi trasmissione di un’opera a un pubblico, la persona (39) che realizza l’atto di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, dai prestatori che, fornendo le «apparecchiature fisiche» che consentono di effettuare tale trasmissione, fungono da intermediari tra tale persona e il pubblico (40).

70.      Nel caso di specie, ritengo, al pari di Google, di Cyando, del governo finlandese e della Commissione, che il ruolo svolto da gestori quali YouTube e Cyando nella «comunicazione al pubblico» delle opere messe in rete dagli utenti delle loro piattaforme sia, in linea di principio, quello di un simile intermediario. L’obiezione del sig. Peterson, della Elsevier nonché dei governi tedesco e francese secondo cui tali gestori andrebbero al di là di tale ruolo riflette, a mio avviso, un’errata comprensione di ciò che distingue una «mera fornitura di attrezzature fisiche» da un atto di «comunicazione».

71.      Ricordo che i principi che regolano tale distinzione sono stati sanciti dalla prima decisione pronunciata dalla Corte relativamente all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, ossia la sentenza SGAE (41). In tale sentenza la Corte ha dichiarato che il fatto che un albergatore capti una trasmissione radiodiffusa e la distribuisca, attraverso apparecchi televisivi, ai clienti alloggiati nelle camere del suo stabilimento costituisce un atto di «comunicazione al pubblico» delle opere contenute in tale trasmissione. Sebbene l’installazione di tali apparecchi televisivi nelle camere costituisse, di per sé, una «fornitura di attrezzature fisiche», l’intervento dell’albergatore non si limitava a tale fornitura. Infatti, distribuendo la trasmissione radiodiffusa a detti apparecchi, l’albergatore trasmetteva volontariamente (42) le opere in essa contenute ai suoi clienti – i quali costituivano non solo un «pubblico», ma anche un «pubblico nuovo», vale a dire a persone che non erano state prese in considerazione dagli autori di tali opere quando hanno autorizzato la loro radiodiffusione (43) – che, pur trovandosi all’interno della zona di ricezione della trasmissione, non potrebbero, in linea di principio, fruire di dette opere senza il suo intervento (44).

72.      Da tale sentenza risulta che, quando un’opera è trasmessa a un pubblico, la persona che realizza l’atto di «comunicazione» – rispetto ai prestatori che «forniscono attrezzature fisiche» – è quella che interviene volontariamente per trasmettere tale opera a un pubblico, di modo che, in mancanza del suo intervento, tale pubblico non potrebbe fruirne. Così facendo, tale persona, per riprendere la nozione sancita dalla Corte nella sua successiva giurisprudenza, svolge un «ruolo imprescindibile» (45) in tale trasmissione.

73.      Tale spiegazione potrebbe essere intesa in modo errato. In assoluto, qualsiasi intermediario svolge un ruolo rilevante, se non essenziale, in tale trasmissione, poiché è uno degli anelli della catena che ne consente la realizzazione. Tuttavia, il ruolo svolto dalla persona in questione è più fondamentale. Il suo ruolo è «imprescindibile» dal momento che è tale persona a decidere di trasmettere una determinata opera a un pubblico e ad avviare attivamente tale «comunicazione».

74.      Al contrario, i prestatori intermediari i cui servizi sono utilizzati per consentire o realizzare una «comunicazione» non decidono, di propria iniziativa, di trasmettere opere a un pubblico. Essi seguono, a tale riguardo, le istruzioni impartite dagli utenti dei loro servizi. Questi ultimi decidono di trasmettere determinati contenuti e avviano attivamente la loro «comunicazione», fornendo tali contenuti agli intermediari e collocandoli, in tal modo, all’interno di un processo che comporta la loro trasmissione a un «pubblico» (46). Sono quindi, in linea di principio, tali utenti a svolgere, da soli, il «ruolo imprescindibile» previsto dalla Corte e a realizzare gli atti di «comunicazione al pubblico». Senza il loro intervento, gli intermediari non avrebbero nulla da trasmettere e il «pubblico» non potrebbe usufruire delle opere di cui trattasi (47).

75.      Per contro, un prestatore di servizi eccede il ruolo di intermediario quando interviene attivamente nella «comunicazione al pubblico» delle opere (48). Ciò è quanto avviene, da un lato, nel caso in cui tale prestatore selezioni il contenuto trasmesso, lo definisca diversamente, oppure lo presenti agli occhi del pubblico in modo tale da sembrare il proprio (49). In tali situazioni, detto prestatore realizza, unitamente ai terzi che hanno fornito inizialmente il contenuto, la «comunicazione» (50). Così avviene, d’altro lato, nel caso in cui il medesimo prestatore faccia, di propria iniziativa, un uso successivo di detta «comunicazione», ritrasmettendola a un «nuovo pubblico» o con un «diverso mezzo tecnico» (51). In tutti questi casi, un prestatore di servizi non si limita a «fornire attrezzature fisiche», ai sensi del considerando 27 della direttiva 2001/29. Esso svolge, in realtà, un «ruolo imprescindibile» (52) in quanto decide, volontariamente, di comunicare un’opera determinata a un pubblico (53).

76.      Dalle considerazioni che precedono risulta che, contrariamente a quanto sostengono il sig. Peterson e il governo tedesco, il semplice fatto che piattaforme quali YouTube o Uploaded consentano al pubblico di accedere ad opere protette non implica che i loro gestori realizzino la «comunicazione al pubblico» di tali opere, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (54).

77.      Infatti, anzitutto, come sostenuto da Google e dal governo finlandese, nei limiti in cui le opere in questione sono state messe in rete dagli utenti di tali piattaforme (55), questi ultimi svolgono un «ruolo imprescindibile» nella loro messa a disposizione del pubblico. Tali utenti hanno deciso di comunicare tali opere al pubblico attraverso dette piattaforme, scegliendo l’opzione appropriata nel caso di YouTube, e condividendo i download links corrispondenti su Internet nel caso di Uploaded (56). Senza il loro intervento, i gestori delle stesse piattaforme non avrebbero nulla da trasmettere e il pubblico non potrebbe usufruire di dette opere.

78.      Ricordo inoltre che il processo di messa in rete di un file su una piattaforma quale YouTube o Uploaded, una volta avviato dall’utente, si effettua automaticamente (57), senza che il gestore di tale piattaforma selezioni o determini in altro modo i contenuti ivi pubblicati. Preciso che un eventuale controllo preliminare effettuato da tale gestore, se del caso in modo automatizzato, non costituisce, a mio avviso, una selezione (58), a condizione che tale controllo si limiti alla rilevazione dei contenuti illegali e non rifletta quindi la volontà di detto gestore di comunicare taluni contenuti (e non altri) al pubblico (59).

79.      Infine, i medesimi gestori non fanno un uso successivo delle «comunicazioni al pubblico» avviate dai loro utenti, in quanto non ritrasmettono le opere di cui trattasi a un «pubblico nuovo» o con un «diverso mezzo tecnico» (60). Esiste, in linea di principio, una sola «comunicazione», quella decisa dagli utenti in questione.

80.      Ne consegue, a mio avviso, che gestori quali YouTube e Cyando si limitano, in linea di principio, a fornire «attrezzature fisiche, come previsto al considerando 27 della direttiva 2001/29, che consentono agli utenti delle loro piattaforme di realizzare la «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, delle opere determinate da questi ultimi. A mio avviso, nessuno degli argomenti dedotti dinanzi alla Corte rimette in discussione tale interpretazione.

81.      In primo luogo, contrariamente al sig. Peterson, alla Elsevier nonché ai governi tedesco e francese, ritengo che non siano pertinenti né il fatto che un gestore come YouTube strutturi il modo in cui i video messi in rete dagli utenti sono presentati sulla piattaforma, inserendoli in un’interfaccia di visualizzazione standard e indicizzandoli sotto diverse rubriche, né il fatto che tale gestore fornisca una funzione di ricerca e proceda a un trattamento dei risultati di ricerca, riassunti nella pagina iniziale sotto forma di classificazione dei video in diverse categorie (61).

82.      A tale riguardo, osservo che tale struttura di presentazione e tali diverse funzioni tendono a razionalizzare l’organizzazione della piattaforma, ad agevolare il suo utilizzo e, in tal modo, a ottimizzare l’accesso ai video ospitati. Orbene, il requisito, sotteso al considerando 27 della direttiva 2001/29, secondo cui un prestatore di servizi non realizza un atto di «comunicazione al pubblico» a condizione che si limiti a una «mera» fornitura di attrezzature fisiche non significa, a mio avviso, che tale prestatore non possa ottimizzare l’accesso ai contenuti trasmessi organizzando il suo servizio (62). Infatti, non è richiesto da alcuna norma che le «attrezzature fisiche» siano, di per sé, oggetto di una fornitura «mera». A mio avviso, la circostanza che una piattaforma online presenti un determinato grado di sofisticazione, allo scopo di agevolarne l’utilizzo, non ha quindi rilevanza. Il limite che il prestatore non può oltrepassare, a mio avviso, è quello dell’intervento attivo nella comunicazione al pubblico delle opere, come prospettato al paragrafo 75 delle presenti conclusioni.

83.      Orbene, una struttura di presentazione e siffatte funzioni non sono, a mio avviso, tali da dimostrare che il gestore ecceda questo limite. Esse non tendono segnatamente ad indicare che esso determina i contenuti che gli utenti mettono in rete sulla piattaforma. Il fatto di ottimizzare l’accesso ai contenuti non può, in particolare, confondersi con il fatto di ottimizzare i contenuti in quanto tali. Il gestore ne determinerebbe il tenore solo nel secondo caso (63). Inoltre, il fatto che una piattaforma come YouTube contenga un’interfaccia di visualizzazione standard non consente, a mio avviso, di concludere che il suo gestore presenta il contenuto agli occhi del pubblico in modo tale da apparire suo, purché tale interfaccia indichi, per ciascun video, quale utente l’abbia messo in rete.

84.      In secondo luogo, non è, a mio avviso, determinante neppure la circostanza che, su una piattaforma come YouTube, agli utenti registrati sia presentata una panoramica dei «video raccomandati». Nessuno contesta il fatto che tali raccomandazioni esercitino un’influenza sui contenuti consultati da tali utenti. Tuttavia, dal momento che dette raccomandazioni sono generate in modo automatico, sulla base dei video precedentemente visionati dall’utente di cui trattasi, e hanno il solo scopo di agevolare l’accesso di tale utente a video analoghi, esse non riflettono una decisione del gestore di comunicare un’opera determinata a un pubblico. In ogni caso, resta il fatto che tale gestore non determina, a monte, quali opere siano disponibili sulla sua piattaforma.

85.      In terzo luogo, contrariamente a quanto sostenuto dal sig. Peterson e dalla Elsevier, il fatto che un gestore come YouTube stabilisca, nei termini di servizio della sua piattaforma, che ogni utente gli concede una licenza di esercizio mondiale, non esclusiva e gratuita sui video da esso messi in rete non rimette in discussione l’interpretazione da me suggerita. Infatti, questo tipo di clausola (64), che autorizza il gestore della piattaforma a diffondere i contenuti messi in rete dai suoi utenti, e con la quale lo stesso pretende, inoltre, di acquisire in modo automatico e sistematico diritti sul complesso di tali contenuti (65), non dimostra, di per sé, che tale gestore intervenga attivamente nella «comunicazione al pubblico» delle opere, come prospettato al paragrafo 75 delle presenti conclusioni. Infatti, poiché si applica, per l’appunto, in modo sistematico e automatico a qualsiasi contenuto messo in rete, tale clausola non tende ad indicare che detto gestore decide sui contenuti trasmessi. Per contro, qualora il medesimo gestore riutilizzi, in applicazione di detta licenza, i contenuti messi in rete dagli utenti della piattaforma (66), esso realizza, entro tali limiti, atti di «comunicazione al pubblico».

86.      In quarto luogo, non mi convince neppure l’argomento del sig. Peterson e della Elsevier secondo cui il modello economico adottato da gestori quali YouTube o Cyando dimostrerebbe che questi ultimi non si limitano a una «fornitura di attrezzature fisiche», ai sensi del considerando 27 della direttiva 2001/29, ma realizzano la «comunicazione al pubblico» delle opere messe in rete dagli utenti delle loro piattaforme. A tale riguardo, i ricorrenti nel procedimento principale fanno valere che la remunerazione percepita da tali gestori, generata segnatamente dalla vendita di spazi pubblicitari (modello «YouTube») o di abbonamenti (modello «Cyando»), non costituisce il corrispettivo di un servizio tecnico – questi ultimi non fanno pagare, in particolare, agli utenti lo spazio di memorizzazione in quanto tale – ma dipende dall’attrattiva dei contenuti messi in rete sulle loro piattaforme. Infatti, nel caso di YouTube, gli introiti pubblicitari incamerati sarebbero tanto più ingenti quanto più elevata è la frequentazione della piattaforma e, nel caso di Cyando, la prospettiva di poter effettuare agevolmente download multipli di contenuti attraenti spingerebbe gli internauti a sottoscrivere un abbonamento.

87.      In generale, lo scopo di lucro perseguito da un prestatore di servizi è, a mio avviso, un elemento di un’utilità del tutto relativa per distinguere gli atti di «comunicazione al pubblico» da una siffatta «fornitura». Da un lato, ricordo che, a seguito di una riflessione (67), la Corte ha dichiarato nella sentenza Reha Training (68), correttamente a mio avviso, che il carattere lucrativo non costituisce un criterio della nozione di «comunicazione al pubblico», ma può essere preso in considerazione per il calcolo dell’eventuale remunerazione o riparazione dovuta all’autore per tale «comunicazione» (69). Pertanto, il carattere lucrativo può, tutt’al più, costituire un indizio dell’esistenza di siffatta «comunicazione» (70). Orbene, lo scopo di lucro perseguito da un prestatore di sevizi è un indizio tanto meno utile per operare tale distinzione in quanto, d’altro lato, la fornitura di un’«attrezzatura fisica» che consente di realizzare una «comunicazione al pubblico» è effettuata, di regola, a tale scopo (71). In particolare, la stragrande maggioranza degli intermediari online fornisce i propri servizi dietro corrispettivo.

88.      Più in particolare, il fatto che la remunerazione percepita da gestori quali YouTube o Cyando dipenda dall’attrattiva dei contenuti pubblicati dalle loro piattaforme, da parte degli utenti di queste ultime, non consente di concludere che tali gestori realizzano essi stessi la «comunicazione al pubblico» delle opere rinvenibili in tali piattaforme. Ricordo che il criterio decisivo, a mio avviso, consiste nell’accertare se il prestatore di servizi partecipi attivamente a tale «comunicazione», come spiegato al paragrafo 75 delle presenti conclusioni. Orbene, quest’unica circostanza non consente, a mio avviso, di dimostrarlo (72).

89.      L’interpretazione da me suggerita è confermata, a mio avviso, dalla giurisprudenza della Corte nel settore del diritto dei marchi. A tale riguardo, ricordo che, nella sentenza Google France, la Corte ha dichiarato, in Grande Sezione, che l’uso, come parole chiave nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet, quale il servizio AdWords fornito da Google, di segni identici o simili a marchi, senza l’autorizzazione dei loro titolari, costituisce un uso vietato di tali marchi, ai sensi del diritto dell’Unione. Tuttavia, tale uso viene effettuato dall’utente del servizio di posizionamento, che ha scelto detti segni come parole chiave, e non dal prestatore del servizio, che si limita a dargli i mezzi per farlo. Il fatto che tale prestatore sia remunerato dai suoi clienti per l’uso di segni di tal genere è irrilevante. Infatti, secondo la Corte, «la circostanza che si creino le condizioni tecniche necessarie per l’uso di un segno e si percepisca un compenso per tale servizio, non significa che colui che fornisce tale servizio faccia a sua volta uso di detto segno» (73).

90.      Analogamente, nella sentenza L’Oréal/eBay, la Corte ha dichiarato, nuovamente in Grande Sezione, che l’uso, in offerte di vendita pubblicate su un mercato online, di segni corrispondenti a marchi, senza l’autorizzazione dei loro titolari, costituisce un uso vietato di tali marchi. Tuttavia, anche in tal caso, il suddetto uso è effettuato non dal gestore del mercato, bensì dagli utenti che hanno pubblicato tali offerte di vendita. Infatti, poiché detto gestore si limita a consentire agli utenti del suo servizio di mettere in rete tali offerte di vendita e, eventualmente, di utilizzare siffatti segni su tale mercato, non fa uso esso stesso di tali segni (74).

91.      Orbene, è pacifico che, in particolare, eBay struttura la presentazione generale delle inserzioni dei suoi utenti venditori, le indicizza in varie rubriche e ha creato una funzione di ricerca. Tale gestore raccomanda automaticamente, agli utenti acquirenti, offerte analoghe a quelle da essi precedentemente consultate. Inoltre, la remunerazione dei gestori di cui trattasi nelle cause che hanno dato luogo alle sentenze Google France e L’Oréal/eBay dipende dall’attrattiva dei contenuti forniti dagli utenti dei loro servizi. Google, nell’ambito del servizio AdWords, è remunerato in funzione del numero di click sui link promozionali che utilizzano le parole chiave scelte dagli utenti inserzionisti (75). eBay percepisce una percentuale sulle operazioni effettuate a partire dalle offerte di vendita postate sul suo mercato (76). È evidente che tali diverse circostanze non sono sembrate determinanti, se non addirittura pertinenti, agli occhi della Corte, la quale non le ha neppure menzionate nel suo ragionamento. Nutro dubbi quindi sulle ragioni per le quali esse dovrebbero avere, nelle presenti cause, l’importanza suggerita dai ricorrenti nel procedimento principale (77).

92.      Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere alle prime questioni dichiarando che il gestore di una piattaforma di condivisione di video e il gestore di una piattaforma di hosting e di condivisione di file non realizzano un atto di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, quando un utente delle loro piattaforme vi mette in rete un’opera protetta.

93.      Di conseguenza, tali gestori non possono essere considerati direttamente responsabili, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, nel caso in cui soggetti terzi mettano opere protette a disposizione del pubblico, tramite le loro piattaforme, senza autorizzazione preventiva dei titolari di diritti e senza che sia applicabile un’eccezione o una limitazione. Questa conclusione non esclude che possa derivarne, per i suddetti gestori, una forma di responsabilità secondaria. Tale questione deve essere tuttavia esaminata alla luce delle norme in materia di responsabilità civile previste dagli Stati membri, i quali devono rispettare i limiti imposti agli articoli 14 e 15 della direttiva 2000/31 (78).

2.      Sul fatto che larticolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 non disciplina la responsabilità secondariadelle persone che agevolano la realizzazione, da parte di terzi, di atti di «comunicazione al pubblico» illeciti

94.      In via preliminare, occorre, anzitutto, ricordare che, nella sentenza GS Media, la Corte ha dichiarato, sulla scia della sentenza Svensson e a. (79), che il fatto di inserire, su un sito Internet, collegamenti ipertestuali che rinviano ad opere pubblicate illecitamente su un altro sito Internet può costituire una «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. In sostanza, la Corte ha considerato che, inserendo siffatti collegamenti, una persona svolge un «ruolo imprescindibile» in quanto offre al pubblico un «accesso diretto» alle opere in questione. Tuttavia, siffatto inserimento di collegamenti costituisce una «comunicazione al pubblico» solo a condizione che sia dimostrato che la persona che l’ha effettuato sapesse o dovesse sapere che tali collegamenti davano accesso a opere illegittimamente pubblicate, conoscenza che deve essere presunta qualora tale persona persegua uno scopo di lucro (80).

95.      Inoltre, nella sentenza Stichting Brein I («Filmspeler»), la Corte ha dichiarato che la vendita di un lettore multimediale sul quale sono state preinstallate estensioni (add‑ons) contenenti collegamenti ipertestuali che rinviano a siti Internet che diffondono in streaming, in modo illecito, opere protette costituisce una «comunicazione al pubblico». In detta causa la Corte ha considerato che il venditore di tale lettore non si limitava a una «fornitura di attrezzature fisiche», ma svolgeva, al contrario, un «ruolo imprescindibile» nella comunicazione delle opere per il motivo che, senza le estensioni che esso aveva preinstallato in detto lettore, gli acquirenti del medesimo lettore «[avrebbero potuto] soltanto con difficoltà beneficiare delle opere tutelate», poiché i siti di diffusione in streaming interessati non sono facilmente individuabili dal pubblico. Inoltre, la Corte ha fatto riferimento alla circostanza che il venditore di detto lettore era a conoscenza del fatto che tali estensioni consentivano di accedere a opere diffuse su Internet in modo illecito (81).

96.      Infine, nella sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), la Corte ha dichiarato che costituisce una «comunicazione al pubblico» la messa a disposizione e la gestione di una piattaforma Internet, che memorizza e indicizza file torrent, messi in rete dai suoi utenti, che consente a questi ultimi di condividere e di scaricare opere protette nell’ambito di una rete peertopeer. Secondo la Corte, gli amministratori di tale piattaforma non si limitavano a una «mera fornitura di attrezzature fisiche», ma svolgevano un «ruolo imprescindibile» nella messa a disposizione delle opere per il fatto che offrivano, sulla piattaforma, diversi mezzi, tra cui una funzione di ricerca e un indice dei file torrent ospitati, che agevolavano la localizzazione di tali file. Pertanto, senza il loro intervento, «le opere in questione non potrebbero essere condivise dagli utenti o, quantomeno, la loro condivisione su Internet sarebbe più complessa». Ancora una volta, la Corte ha sottolineato il fatto che gli amministratori di detta piattaforma erano a conoscenza del fatto che le opere condivise tramite la medesima piattaforma lo erano, in generale, in modo illecito (82).

97.      In linea di principio, come ho spiegato al paragrafo 56 delle presenti conclusioni, come specificato al considerando 23 della direttiva 2001/29 e come dichiarato più volte dalla Corte (83), una «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, di tale direttiva, corrisponde alla trasmissione di un’opera a un pubblico. Tale considerando precisa, inoltre, che detta disposizione non comprende «altri atti». Se, nel caso di una messa a disposizione, è sufficiente che la persona in questione dia al pubblico accesso all’opera, tale accesso deve implicare, come ho precisato al paragrafo 57 delle presenti conclusioni, la possibilità di una trasmissione di tale opera, che avvenga su richiesta di un membro del pubblico.

98.      Tuttavia, nessuno degli atti in discussione nelle tre sentenze esaminate nella presente sezione consiste, a mio avviso, nella trasmissione, attuale o potenziale, di un’opera a un pubblico. La sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay») fornisce, a tale riguardo, l’esempio più rappresentativo. Poiché le opere condivise sulla rete peertopeer non erano pubblicate sulla piattaforma controversa, i suoi amministratori non erano materialmente in grado di trasmetterle al pubblico. In realtà, tale piattaforma si limitava ad agevolare le trasmissioni effettuate dai suoi utenti su tale rete (84). Lo stesso valeva nelle sentenze GS Media e Stichting Brein I («Filmspeler»). L’inserimento dei collegamenti ipertestuali e la vendita del lettore multimediale controversi, oggetto di tali sentenze, agevolavano l’accesso alle opere illegittimamente messe a disposizione del pubblico sui siti Internet in questione (85).

99.      In definitiva, in tali sentenze, la Corte, a mio avviso, ha fatto rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 atti che, a dire il vero, non costituiscono trasmissioni, attuali o potenziali, di opere, ma che agevolano la realizzazione di siffatte trasmissioni illecite da parte di terzi (86).

100. Inoltre, la Corte, nelle stesse sentenze, ha inserito nella nozione di «comunicazione al pubblico» un criterio relativo alla conoscenza dell’illiceità. Orbene, come hanno fatto valere la Elsevier e il governo francese, in linea di principio, tale nozione non contiene un criterio siffatto. Sebbene la Corte dichiari, costantemente, che l’esistenza di tale «comunicazione» presuppone che la persona interessata intervenga «con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento», «deliberatamente», «volontariamente» o anche in modo «mirato» (87), questi diversi termini mirano, a mio avviso, a indicare, in linea di principio, che, come ho spiegato al paragrafo 72 delle presenti conclusioni, detta nozione implica la volontà di trasmettere un’opera a un pubblico (88). Tale questione si distingue a priori dalla questione se la persona che realizza la «comunicazione al pubblico» di un’opera senza autorizzazione da parte dell’autore sia a conoscenza del fatto che una simile «comunicazione» è, in linea di principio, illecita.

101. A tale riguardo, come ho spiegato al paragrafo 64 delle presenti conclusioni, conformemente all’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, l’esistenza di una «comunicazione al pubblico» – fatta salva la sfumatura indicata al paragrafo precedente – è generalmente considerata come un fatto oggettivo. La liceità o l’illiceità di tale «comunicazione» non dipende neppure, in linea di principio, dalla conoscenza della persona che la realizza, ma essenzialmente dalla questione se l’autore abbia autorizzato detta «comunicazione» (89). Per contro, la conoscenza da parte di tale persona viene presa in considerazione nella fase delle sanzioni e del risarcimento cui quest’ultima può essere condannata. In particolare, dall’articolo 13 della direttiva 2004/48 risulta che una persona che ha leso un diritto di proprietà intellettuale, che sia implicata consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole, ha l’obbligo di risarcire al titolare del diritto danni adeguati al pregiudizio effettivo da questo subito a causa della violazione. Viceversa, quando una persona commette siffatta violazione senza saperlo o senza avere motivi ragionevoli per saperlo, può essere pronunciata una condanna meno pesante, sotto forma di recupero dei profitti da essa realizzati o di pagamento di danni predeterminati (90).

102. Ciò premesso, il fatto che una persona – in particolare un prestatore intermediario – agevoli consapevolmente la realizzazione, da parte di terzi, di atti di «comunicazioni al pubblico» illeciti costituisce evidentemente un comportamento censurabile. Tuttavia, è generalmente ammesso che si tratta in tal caso di una questione di responsabilità secondaria, rientrante nelle norme in materia di responsabilità civile previste dagli Stati membri (91). Tale responsabilità secondaria per le violazioni del diritto d’autore commesse da terzi implica del resto, in generale, un elemento soggettivo quale la conoscenza dell’illiceità o l’intenzione (92).

103. Orbene, a mio avviso, poiché l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 armonizza il contenuto sostanziale del diritto di «comunicazione al pubblico», esso determina gli atti rientranti in tale diritto esclusivo e, entro tali limiti, la responsabilità primaria assunta da coloro che commettono simili atti in modo illecito. Per contro, nessun elemento nel dettato di tale disposizione o in altre disposizioni di tale direttiva tende a indicare che essa sarebbe destinata a disciplinare questioni di responsabilità secondaria (93). Ciò è tanto più rilevante in quanto, quando il legislatore dell’Unione desidera che tali questioni rientrino negli atti che esso adotta, non manca di precisarlo (94).

104. Per tali motivi, nutro riserve riguardo all’iter logico seguito dalla Corte nelle sentenze GS Media, Stichting Brein  I («Filmspeler») e Stichting Brein II («The Pirate Bay»). Indipendentemente dalla questione se sia auspicabile l’esistenza a livello dell’Unione di una soluzione uniforme per le condotte delle persone che agevolano deliberatamente la realizzazione di atti illeciti da parte di terzi, e quand’anche tale uniformità contribuisca a garantire un livello elevato di tutela del diritto d’autore, resta il fatto, a mio avviso, che, allo stato attuale, il diritto dell’Unione non lo prevede (95). Spetterebbe al legislatore dell’Unione includere un regime di responsabilità secondaria nel diritto dell’Unione.

105. Insisto sul fatto che l’inserimento di collegamenti ipertestuali che rinviano ad opere illegittimamente pubblicate su un sito Internet, effettuato con piena cognizione di tale illiceità, la vendita di un lettore quale il «Filmspeler» e la gestione di una piattaforma come «The Pirate Bay» devono essere ovviamente repressi. Non è tuttavia necessario far rientrare tali condotte nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 per giungere a tale risultato. A mio avviso, una reazione a tali condotte può, e deve, essere rinvenuta nel diritto civile degli Stati membri – se non addirittura nel diritto penale di questi ultimi. L’interpretazione da me suggerita non lascia quindi gli autori privi di tutela a tale riguardo.

106. Del resto, ricordo che, nelle sentenze Google France e L’Oréal/eBay, la Corte ha scelto di non estendere, nel settore del diritto dei marchi, l’ambito della responsabilità primaria alle condotte degli intermediari che possono contribuire alle violazioni dei marchi commesse dagli utenti dei loro servizi. La Corte ha rinviato tale questione, correttamente, alle norme in materia di responsabilità civile previste dagli Stati membri e ai limiti posti dalla direttiva 2000/31 (96). Mi chiedo dunque se sia necessario discostarsi da siffatto approccio nel settore del diritto d’autore, dal momento che la normativa dell’Unione, in questi due settori, presenta un livello di armonizzazione analogo e persegue il medesimo obiettivo di un elevato livello di protezione della proprietà intellettuale.

3.      In subordine – sulla questione se gestori quali YouTube e Cyando agevolino deliberatamente la realizzazione di atti illeciti da parte di terzi

107. Nel caso in cui la Corte ritenesse opportuno applicare, nelle presenti cause, il quadro di analisi seguito nelle sentenze GS Media, Stichting Brein I («Filmspeler») e Stichting Brein II («The Pirate Bay»), nonostante le riserve da me espresse nella sezione precedente, fornisco, in subordine, un esame delle presenti cause alla luce di tale quadro di analisi.

108. Secondo la mia interpretazione di tali sentenze, l’intervento di una persona nella trasmissione di un’opera a un pubblico, persona diversa da quella che, avendo deciso detta trasmissione, realizza in senso proprio l’atto di «comunicazione al pubblico», deve essere assimilato a tale atto di «comunicazione» se sono soddisfatti due criteri.

109. Da un lato, la persona in questione deve svolgere un «ruolo imprescindibile» in tale trasmissione. Conformemente all’accezione che è stata accolta in dette sentenze, tale «ruolo» è qualificato quando tale persona agevola detta trasmissione (97). Nella fattispecie, tale criterio è manifestamente soddisfatto nel caso di gestori quali YouTube e Cyando.

110. D’altro lato, l’intervento di detta persona deve avere «carattere intenzionale», inteso nel senso che essa deve essere a conoscenza dell’illiceità della comunicazione da essa agevolata. Il modo in cui tale criterio deve essere interpretato nelle presenti cause è nettamente meno evidente. Tutto il problema risulta dalla mancanza di un quadro normativo, nel diritto dell’Unione, relativo a tale elemento soggettivo. Pertanto, posso fare solo congetture, ispirandomi alle indicazioni risultanti dalle sentenze GS Media, Stichting Brein I («Filmspeler») e Stichting Brein II («The Pirate Bay»), a giurisprudenze nazionali in materia di responsabilità secondaria e alla logica desumibile dalle condizioni che devono essere soddisfatte dai prestatori intermediari, conformemente all’articolo 14, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2000/31, per beneficiare dell’esonero da responsabilità prevista da tale disposizione (98).

111. A tale riguardo, mi sembra possibile ritenere, senza troppa difficoltà, come fa valere il giudice del rinvio, e come sostiene la Commissione, che un gestore quale YouTube o Cyando intervenga «deliberatamente» nella «comunicazione al pubblico» illecita di una determinata opera, realizzata tramite la sua piattaforma, qualora esso fosse a conoscenza o fosse consapevole dell’esistenza del file contenente l’opera in questione – in particolare se quest’ultimo gli fosse stato notificato – e tale gestore non abbia agito immediatamente, a partire dal momento in cui aveva acquisito tale conoscenza o consapevolezza, per rimuovere tale file o disabilitarne l’accesso (99). Infatti, in tal caso, si può ragionevolmente ritenere che, omettendo di agire quando ne aveva il potere, il gestore approvi tale «comunicazione illecita» o dia prova di una negligenza manifesta al riguardo. L’accertamento delle circostanze in cui un gestore acquisisce tale conoscenza o consapevolezza e della eventualità che abbia agito «immediatamente» dovrebbe essere effettuato, a mio avviso, alla luce degli stessi principi applicati nell’ambito delle condizioni previste all’articolo 14, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2000/31 (100).

112. Per contro, al pari della Commissione, e contrariamente al sig. Peterson, alla Elsevier nonché ai governi tedesco e francese, ritengo che la conoscenza dell’illiceità non possa presumersi per il motivo che il gestore di cui trattasi persegue uno scopo di lucro.

113. È vero che, nella sentenza GS Media, la Corte ha dichiarato che, quando la persona che inserisce su un sito Internet collegamenti ipertestuali che rinviano ad opere protette, pubblicate senza autorizzazione da parte del loro autore su un altro sito Internet, lo fa a scopo di lucro, si deve presumere (iuris tantum) che essa sia a conoscenza del fatto che tali opere sono protette e della mancanza di autorizzazione (101). Tuttavia, oltre al fatto che mi sembra che la Corte, nella sua successiva giurisprudenza, abbia limitato tale soluzione alla questione dei collegamenti ipertestuali (102), ritengo che siffatta presunzione non possa, in ogni caso, essere applicata nel caso di specie.

114. Nella causa che ha dato luogo alla sentenza GS Media, lo stesso gestore del sito Internet in questione aveva inserito i collegamenti controversi. Esso era quindi a conoscenza dei contenuti ai quali questi ultimi rinviavano. Come sostenuto da Cyando, tale circostanza costituiva la base per una presunzione di fatto. Su questa base, la Corte poteva attendersi che tale gestore realizzasse, prima di detto inserimento, le «verifiche necessarie» per garantire che non si trattasse di opere protette, illegittimamente pubblicate sul sito al quale tali collegamenti rinviavano (103).

115. Per contro, ricordo che il gestore di una piattaforma, in linea di principio, non è colui che mette il contenuto in rete. Applicare, in tale contesto, la soluzione adottata nella sentenza GS Media equivarrebbe ad affermare che tale gestore, dal momento che persegue in generale uno scopo di lucro, si presumerebbe non solo al corrente di tutti i file presenti sui propri server, ma anche a conoscenza della loro eventuale illiceità, con l’onere a suo carico di rovesciare tale presunzione dimostrando di aver effettuato le «verifiche necessarie». Orbene, una soluzione del genere equivarrebbe, a mio avviso, a imporre a tale gestore l’obbligo generale di sorvegliare le informazioni che memorizza e di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite, in contrasto con il divieto posto, a tale riguardo, dall’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (104).

116. Resta ancora da esaminare la questione se, come sostengono il sig. Peterson, la Elsevier e il governo francese, gestori quali YouTube e Cyando possano essere considerati responsabili dal momento che erano a conoscenza, in via generale e astratta, del fatto che le loro piattaforme sono (in particolare) utilizzate da terzi per condividere on line, in modo illecito, opere protette.

117. Tale questione è estremamente complessa. Numerosi prodotti o servizi, al pari delle piattaforme YouTube e Uploaded, possono essere utilizzati a fini leciti, o addirittura socialmente auspicabili, nonché a fini illeciti. A mio avviso, non si può ritenere che il fornitore di un simile prodotto o servizio sia responsabile degli usi illeciti fatti da terzi per il solo fatto di essere a conoscenza o di sospettare usi di tal genere. Uno standard di responsabilità così basso sarebbe tale da dissuadere la fabbricazione e la commercializzazione di prodotti o servizi siffatti, a scapito dei loro usi leciti – e, per estensione, di frenare lo sviluppo di prodotti o servizi analoghi o innovativi (105).

118. Non può essere determinante nemmeno il semplice fatto che un fornitore tragga profitti da tali usi illeciti. A tale riguardo, il sig. Peterson, la Elsevier e il governo francese hanno evidenziato che YouTube si finanzia in particolare mediante pubblicità inserite sulla piattaforma, che gli introiti pubblicitari da essa incamerati sarebbero tanto più ingenti in quanto vi sarebbero pubblicati contenuti attraenti, e che sarebbe «comunemente ammesso» che, nella «grande maggioranza dei casi», si tratta di opere protette messe in rete senza autorizzazione dei loro autori. Oltre al fatto che tale logica mi sembra un po’ semplicistica nel caso di una piattaforma come YouTube (106), osservo che gli introiti generati da pubblicità inserite in modo indifferenziato su tale piattaforma dipendono dalla sua frequentazione generale – e, pertanto, dipendono sia dai suoi usi leciti che dai suoi usi illeciti. Orbene, qualsiasi fornitore di un prodotto o servizio che possa essere oggetto di entrambi i tipi di utilizzo trarrà fatalmente una parte dei suoi profitti dagli utenti che lo acquistano o ne fruiscono a fini illegali. Occorre quindi dimostrare altre circostanze.

119. Occorre, a tale riguardo, non perdere di vista la finalità di un regime di responsabilità secondaria. Come risulta dal paragrafo 117 delle presenti conclusioni, a mio avviso, siffatto regime deve tendere a dissuadere dai comportamenti che agevolano le violazioni del diritto d’autore, senza tuttavia dissuadere dall’innovazione o ostacolare le potenzialità di un uso lecito dei prodotti o dei servizi che possono essere utilizzati anche a fini illeciti.

120. In tale contesto, come sostiene il governo finlandese, la responsabilità di un prestatore di servizi può sorgere, a mio avviso, senza che sia necessario dimostrare che quest’ultimo fosse a conoscenza o fosse consapevole di violazioni concrete del diritto d’autore, quando è dimostrato tale prestatore aveva l’intenzione, fornendo il proprio servizio, di agevolare la realizzazione di siffatte violazioni da parte di terzi. Le sentenze Stichting Brein I («Filmspeler») e Stichting Brein II («The Pirate Bay») devono, a mio avviso, essere intese in tal senso. Nella prima sentenza la Corte ha sottolineato che il venditore del «Filmspeler» aveva una conoscenza generale del fatto che tale lettore poteva essere utilizzato a fini illeciti (107). Nella seconda sentenza la Corte ha rilevato che gli amministratori della piattaforma «The Pirate Bay» sapevano, in generale, che quest’ultima agevolava l’accesso a opere condivise senza l’autorizzazione preventiva dei loro autori e che, in ogni caso, essi non potevano ignorarlo, tenuto conto della circostanza che gran parte dei file torrent che comparivano su tale piattaforma rinviavano a tali opere (108). Orbene, nelle cause che hanno dato luogo a tali sentenze, dette persone esprimevano apertamente la loro intenzione di agevolare, con il loro lettore o con la loro piattaforma, la realizzazione di atti di «comunicazione al pubblico» illeciti da parte di terzi (109).

121. Nel caso di specie, né YouTube né Cyando promuovono apertamente gli usi illeciti delle loro piattaforme. Il sig. Peterson e la Elsevier fanno tuttavia valere che tali gestori dovrebbero essere ritenuti responsabili in considerazione del modo in cui hanno organizzato i loro servizi. Su tale punto, i ricorrenti nel procedimento principale fanno valere, lo ricordo, diverse logiche: in primo luogo, detti gestori avrebbero dato prova di una cecità volontaria riguardo agli usi illeciti delle loro piattaforme (consentendo ai loro utenti di pubblicarvi contenuti in modo automatizzato e senza previo controllo), in secondo luogo, essi li indurrebbero a effettuare tali usi illeciti e, in terzo luogo, sarebbero stati negligenti nei confronti di tali usi (in quanto sono venuti meno ad obblighi di diligenza non procedendo, ancora una volta, al controllo preventivo dei contenuti messi in rete) (110).

122. Si impongono anzitutto talune precisazioni. A mio avviso, un gestore non può essere considerato responsabile, per cecità volontaria o negligenza colpevole, per il solo fatto che esso consente agli utenti della sua piattaforma di pubblicarvi contenuti in modo automatizzato e non li controlla in generale prima della loro messa in rete. Da un lato, non si può ragionevolmente sostenere, come fa tuttavia la Elsevier, che, organizzando in tal modo la sua piattaforma, tale gestore mira semplicemente a sottrarsi a qualsiasi responsabilità (111). D’altro lato, l’articolo 15 della direttiva 2000/31 osta a che sia possibile attendersi da siffatto prestatore che sorvegli, in via generale e astratta, le informazioni che memorizza e che esso ricerchi attivamente attività illecite sui suoi server. Non si può quindi considerare come cecità volontaria o negligenza il fatto che esso non proceda a tale sorveglianza generalizzata (112). Inoltre, e più in generale, la semplice negligenza di un prestatore non dovrebbe, per definizione, essere sufficiente, fatta salva la situazione prevista al paragrafo 111 delle presenti conclusioni, a dimostrare che esso interviene «deliberatamente» per agevolare le violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti del suo servizio.

123. Ciò premesso, a mio avviso, il modo in cui un prestatore organizza il suo servizio può effettivamente, in determinate circostanze, dimostrare il «carattere intenzionale» del suo intervento negli atti di «comunicazione al pubblico» illeciti commessi dagli utenti di tale servizio, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, come interpretato dalla Corte nelle sentenze GS Media, Stichting Brein I («Filmspeler») e Stichting Brein II («The Pirate Bay»). Ciò avviene quando le caratteristiche del medesimo servizio rivelano la malafede del prestatore in questione, che può tradursi in una volontà di incitamento o in una cecità volontaria, riguardo a tali violazioni del diritto d’autore (113).

124. A tale riguardo, occorre, a mio avviso, verificare, da un lato, se le caratteristiche del servizio in questione abbiano una spiegazione obiettiva e offrano un valore aggiunto per gli usi leciti di tale servizio e, dall’altro, se il prestatore abbia adottato provvedimenti ragionevoli per prevenire gli usi illeciti di detto servizio (114). Su quest’ultimo punto, non ci si può attendere, anche in questo caso, dal prestatore che esso controlli, in generale, la totalità dei file che gli utenti del suo servizio intendono pubblicare, prima della loro messa in rete – l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 è vincolante in tal senso. La seconda parte della verifica, a mio avviso, dovrebbe costituire piuttosto una difesa per i prestatori di servizi. A tale titolo, il fatto che il prestatore adempia generalmente in modo diligente l’obbligo di rimozione derivante dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva o gli eventuali obblighi che, se del caso, gli siano stati imposti mediante un’ingiunzione giudiziaria, oppure il fatto che tale prestatore abbia volontariamente attuato altre misure, tenderà a dimostrare la sua buona fede.

125. Nel caso di specie, spetterebbe al giudice nazionale applicare tale verifica a gestori quali YouTube e Cyando. Tuttavia, mi sembra utile fornirgli talune indicazioni al riguardo.

126. In primo luogo, mi sembra difficile ritenere, alla luce delle caratteristiche di una piattaforma come YouTube, che il suo gestore intenda agevolare gli usi illeciti di tale piattaforma. In particolare, il fatto che le funzioni di ricerca e di indicizzazione di detta piattaforma agevolino, se del caso, l’accesso a contenuti illegali non può costituire un indizio al riguardo. Tali funzioni hanno una spiegazione obiettiva e offrono un valore aggiunto per gli usi leciti di detta piattaforma. Sebbene, nella sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), la Corte abbia presentato il fatto che gli amministratori della piattaforma controversa avevano creato un motore di ricerca e indicizzavano i file ospitati come un indizio del «carattere intenzionale» del loro intervento nella condivisione illecita di opere protette (115), tale valutazione non può essere dissociata dal particolare contesto di tale causa, caratterizzato dall’intenzione manifestata da tali amministratori di agevolare le violazioni del diritto d’autore.

127. Inoltre, contrariamente a quanto sostenuto dalla Elsevier, ritengo che il fatto che un gestore di piattaforma come YouTube consenta a taluni utenti di inserire pubblicità nei loro video e versi loro una parte degli introiti generati (116) non è sufficiente a dimostrare, da parte sua, la volontà di indurre questi ultimi a mettere in rete opere protette senza l’autorizzazione dei loro autori. Al contrario, è pacifico che, per quanto riguarda YouTube, l’inserimento di tali pubblicità avviene attraverso Content ID, diretto a garantire che questa possibilità avvantaggi solo i titolari di diritti, poiché individuerebbe automaticamente la messa in rete di video contenenti opere protette effettuata da terzi e, se del caso, consentirebbe a detti titolari di inserire essi stessi pubblicità nel video in questione e di percepirne gli introiti pubblicitari (117).

128. Ciò mi induce a considerare il fatto che, inoltre, YouTube ha creato alcuni strumenti, in particolare tale software, per contrastare le violazioni del diritto d’autore sulla sua piattaforma (118). Tale circostanza contribuisce a dimostrare, come ho già precisato al paragrafo 124 delle presenti conclusioni, la buona fede del gestore riguardo agli usi illeciti della sua piattaforma (119).

129. In secondo luogo, temo, per contro, che la situazione sia meno chiara nel caso di Uploaded. A tale riguardo, da un lato, contrariamente alla Elsevier, non ritengo che il fatto che un gestore consenta agli utenti della sua piattaforma di mettervi in rete file «anonimamente» dimostri l’intenzione, da parte sua, di agevolare la contraffazione. Preciso che dal fascicolo di cui dispone la Corte risulta come la messa in rete di un file su Uploaded richieda la creazione di un account, fornendo cognome, nome e un indirizzo e‑mail. La Elsevier lamenta quindi il fatto che Cyando non controlla l’esattezza delle informazioni fornite dall’utente mediante un sistema di verifica dell’identità o di autenticazione. Orbene, anche se la possibilità per chiunque di utilizzare Internet e i servizi online senza un controllo dell’identità può essere effettivamente deviata da individui malintenzionati per attività riprovevoli, ritengo che tale possibilità sia tuttavia tutelata da norme fondamentali come il diritto alla vita privata, la libertà di espressione e di coscienza oppure la protezione dei dati, in particolare nel diritto dell’Unione (120) e nel diritto internazionale (121). Sistemi di verifica dell’identità o di autenticazione possono essere quindi attuati, a mio avviso, solo per servizi specifici, alle condizioni previsti dalla legge.

130. Neppure il semplice fatto che uno Sharehoster come Uploaded generi link di download per i file ospitati e consenta agli utenti di condividerli liberamente dimostra, a mio avviso, l’intenzione di agevolare le violazioni del diritto d’autore. Tali link hanno una spiegazione obiettiva e offrono un valore aggiunto per gli usi leciti del servizio. Anche la percentuale di usi illeciti di Uploaded – di cui le parti nel procedimento principale offrono stime quantomeno contrastanti (122) – non consente, a mio avviso, di per sé sola, di dimostrare siffatta intenzione da parte del suo gestore, a fortiori se quest’ultimo ha adottato provvedimenti ragionevoli per contrastare detti usi.

131. Mi interrogo tuttavia, d’altro lato, su un programma di «partnership» come quello attuato da Cyando. Ricordo che, nell’ambito di tale programma, Cyando versa una remunerazione a taluni utenti in base al numero di download dei file che hanno messo in rete (123). Nutro dubbi per quanto riguarda la spiegazione obiettiva e il valore aggiunto di tale programma per gli usi leciti del servizio. Per contro, è stato accertato dinanzi ai giudici nazionali che tale programma ha come effetto di indurre gli utenti a mettere in rete opere popolari ai fini del loro download illecito. Non escludo quindi che il «carattere intenzionale» dell’intervento del prestatore negli atti illeciti commessi dai suoi utenti possa essere dedotto dall’istituzione di tale programma (124). Spetterebbe, se del caso, al giudice nazionale verificarlo.

B.      Sull’ambito di applicazione dell’esonero da responsabilità previsto all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (seconde questioni)

132. Come ho precisato, la sezione 4 della direttiva 2000/31 contiene varie disposizioni relative alla responsabilità dei prestatori intermediari. All’interno di tale sezione, gli articoli 12, 13 e 14 di tale direttiva prevedono ciascuno, al paragrafo 1, un «approdo sicuro» (safe harbour), rispettivamente per le attività di «semplice trasporto», di «caching» e di «hosting» (125).

133. L’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 si applica, più precisamente, in caso di «prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio». Tale disposizione prevede, in sostanza, che il prestatore di tale servizio non possa essere considerato responsabile per informazioni che memorizza su richiesta dei suoi utenti, a meno che detto prestatore, dopo essere venuto a conoscenza o aver avuto la consapevolezza dell’illiceità di tali informazioni, non le abbia immediatamente rimosse o rese inaccessibili.

134. Sottolineo che tale disposizione non ha lo scopo di determinare, in senso affermativo, la responsabilità di siffatto prestatore. Essa si limita a circoscrivere, in senso negativo, le situazioni in cui può sorgere la sua responsabilità. Inoltre, l’esonero previsto da detta disposizione riguarda unicamente la responsabilità che può derivare dalle informazioni fornite dagli utenti del suo servizio. Essa non copre alcun altro aspetto dell’attività di tale prestatore (126).

135. Con le sue seconde questioni, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) chiede, in sostanza, se gestori quali YouTube e Cyando possano beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per i file che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme.

136. A mio avviso, ciò è quanto avviene in generale. Ritengo tuttavia necessario, prima di spiegare la mia posizione, chiarire un punto, relativo al rapporto tra tale disposizione e l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29.

137. Infatti, osservo che il giudice del rinvio ha formulato le sue seconde questioni unicamente per il caso in cui la Corte rispondesse – come da me proposto – in modo negativo alle prime questioni, ossia nel senso che gestori quali YouTube e Cyando non realizzano la «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, delle opere messe in rete, eventualmente in modo illecito, dagli utenti delle loro piattaforme. Esso sembra quindi partire dalla premessa secondo cui nell’ipotesi, inversa, in cui tali gestori siano direttamente responsabili ai sensi del citato articolo 3, paragrafo 1, di tali «comunicazioni» illecite essi non possono, per principio, far valere l’esonero di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (127).

138. Tuttavia, l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 si applica, in modo orizzontale, a ogni forma di responsabilità che possa risultare, per i prestatori interessati, da qualsiasi tipo di informazione che essi memorizzano su richiesta degli utenti dei loro servizi, indipendentemente dalla fonte di tale responsabilità, dal settore del diritto interessato e dalla qualificazione o dalla natura esatta di detta responsabilità. Tale disposizione comprende quindi, a mio avviso, la responsabilità sia primaria che secondaria per le informazioni fornite e le attività avviate da tali utenti (128).

139. Pertanto, a mio avviso, sebbene l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 sia, per principio, inapplicabile quando un prestatore comunica al pubblico il «proprio» contenuto, tale disposizione può essere applicata, per contro, quando il contenuto comunicato è stato fornito, come avviene nel caso di specie, dagli utenti del suo servizio (129). Tale interpretazione è, a mio avviso, suffragata dal fatto che né tale disposizione né l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 prevedono eccezioni per i prestatori che realizzano la «comunicazione al pubblico» di opere fornite dagli utenti dei loro servizi. Al contrario, il considerando 16 di quest’ultima direttiva sottolinea che essa lascia «impregiudicate le regole relative alla responsabilità [della direttiva 2000/31]».

140. Ne consegue che, nel caso in cui la Corte rispondesse, contrariamente a quanto da me suggeritole, in senso affermativo alle prime questioni, essa dovrebbe comunque, al fine di fornire una risposta utile al giudice del rinvio, rispondere alle seconde questioni. Tuttavia, i criteri che caratterizzano una «comunicazione al pubblico» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 e le condizioni di applicazione dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 possono essere interpretati in maniera coerente, come avrò modo di dimostrare, in maniera tale che siano evitate, in pratica, le sovrapposizioni tra queste due norme.

141. Ciò chiarito, dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 risulta che l’ambito di applicazione di tale disposizione dipende da due condizioni cumulative: da un lato, deve sussistere la prestazione di un «servizio della società dell’informazione»; dall’altro, tale servizio deve «[consistere] nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (...) a richiesta» di quest’ultimo.

142. L’interpretazione della prima condizione non solleva difficoltà nelle presenti cause. A tale riguardo, ricordo che la nozione di «servizio della società dell’informazione» riguarda «qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi» (130). Orbene, i servizi forniti da gestori quali YouTube e Cyando sono manifestamente prestati «a distanza», «per via elettronica», e «a richiesta individuale di un destinatario di servizi» (131). Inoltre, tali servizi sono forniti «dietro retribuzione». Il fatto che un gestore come YouTube sia remunerato in particolare dalla pubblicità e che non chieda un pagamento diretto agli utenti della sua piattaforma (132) non rimette in discussione tale interpretazione (133).

143. Per quanto riguarda la seconda condizione, le cose sono a prima vista meno evidenti. Da un lato, sembra chiaro che un gestore come Cyando presti, nell’ambito di Uploaded, un servizio «consistente nella memorizzazione» sui propri server di file, vale a dire di «informazioni» (134) che sono «fornite da un destinatario del servizio», ossia l’utente che procede alla loro messa in rete, «a richiesta» di quest’ultimo, poiché decide riguardo ai file in questione.

144. Tuttavia, d’altro lato, anche se è pacifico che un gestore come YouTube memorizza i video messi in rete dagli utenti della sua piattaforma, si tratta solo di uno dei numerosi aspetti della sua attività. Occorre quindi di stabilire se tale circostanza impedisca a tale gestore di beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31.

145. A mio avviso, così non è nel caso di specie. Infatti, anche se tale disposizione esige che il servizio fornito dal prestatore «[consista] nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio», essa non impone che tale memorizzazione ne sia l’unico oggetto, o addirittura l’oggetto principale. Tale condizione è, al contrario, formulata in modo ampio.

146. Ne consegue, a mio avviso, che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 può, in linea di principio, riguardare qualsiasi prestatore di un «servizio della società dell’informazione» che realizzi, al pari di YouTube o di Cyando, nell’ambito di tale servizio, la memorizzazione di informazioni fornite dai suoi utenti, su richiesta di questi ultimi (135). Tuttavia, lo ribadisco, l’esonero previsto in tale disposizione è, in ogni caso, limitato alla responsabilità che può derivare da tali informazioni e non si estende agli altri aspetti dell’attività del prestatore in questione.

147. La giurisprudenza della Corte pronunciata finora segue tale approccio. A tale riguardo, nella sentenza Google France, la Corte ha dichiarato che il prestatore di un servizio di posizionamento su Internet, come Google per quanto riguarda il servizio AdWords, può beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. Infatti, la Corte ha considerato che tale servizio «[consiste] nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio», ai sensi di tale disposizione, dal momento che, nell’ambito di detto servizio, tale prestatore memorizza talune informazioni, quali le parole chiave selezionate dagli utenti inserzionisti, i link promozionali e i messaggi commerciali che li accompagnano, nonché gli indirizzi dei siti di tali inserzionisti (136). È evidente che la Corte non ha considerato problematico il fatto che la memorizzazione di dette informazioni si inserisca nell’ambito di un’attività più ampia.

148. La Corte ha tuttavia introdotto un temperamento. A suo avviso, un prestatore di servizi può beneficiare dell’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per informazioni che memorizza su richiesta dei suoi utenti solo se il suo comportamento si limita a quello di un «prestatore intermediario» nel senso voluto dal legislatore dell’Unione nell’ambito della sezione 4 di tale direttiva. Alla luce del considerando 42 di detta direttiva, la Corte ha dichiarato che occorre, al riguardo, esaminare «se il ruolo svolto da detto prestatore sia neutro, in quanto il suo comportamento è meramente tecnico, automatico e passivo, comportante una mancanza di conoscenza o di controllo dei dati che esso memorizza», o se, al contrario, svolga «un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati» (137).

149. Analogamente, nella sentenza L’Oréal/eBay, la Corte ha dichiarato che il gestore di un mercato online, come eBay, può beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. Anche in tal caso, la Corte ha rilevato, da un lato, che il servizio fornito da detto gestore consiste, segnatamente, nella memorizzazione di informazioni fornite dagli utenti del mercato. Si tratta, in particolare, dei dati delle loro offerte di vendita. D’altro lato, essa ha ricordato che un prestatore di servizi può beneficiare dell’esonero da responsabilità previsto da tale disposizione per siffatte informazioni solo se agisce come «prestatore intermediario». Così non è allorché tale prestatore «anziché limitarsi ad una fornitura neutra [del suo servizio], mediante un trattamento puramente tecnico e automatico dei dati forniti dai suoi clienti, svolge un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo di tali dati» (138).

150. Da tali sentenze risulta che gestori quali YouTube e Cyando, che effettuano, nell’ambito della loro attività, la memorizzazione di informazioni fornite dagli utenti delle loro piattaforme, possono beneficiare, con riferimento alla responsabilità che può derivare dal carattere illecito di alcune di tali informazioni, dell’esonero previsto dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, purché essi non abbiano svolto un «ruolo attivo» tale da conferire loro «una conoscenza o un controllo» delle informazioni in questione.

151. A tale riguardo, preciso che, come sottolineato dalla Commissione, ogni prestatore di servizi che memorizza informazioni fornite dai suoi utenti ha necessariamente un certo controllo su queste ultime. Esso ha, in particolare, la capacità tecnica di eliminarle o di disabilitarne l’accesso. È proprio per questo motivo che ci si attende da tale prestatore, in forza dell’articolo 14, paragrafo 1, lettere a) e b), della direttiva 2000/31, che agisca in tal modo quando gli vengono comunicate informazioni illecite (139). Tale capacità di controllo non può, di per sé, dimostrare che un prestatore di servizi svolga un «ruolo attivo» – salvo privare detto articolo 14, paragrafo 1, di qualsiasi effetto utile (140).

152. In realtà, il «ruolo attivo» previsto dalla Corte si riferisce, giustamente, al contenuto stesso delle informazioni fornite dagli utenti. Intendo la giurisprudenza della Corte nel senso che il prestatore svolge siffatto «ruolo attivo», tale da conferirgli «una conoscenza o un controllo» delle informazioni che memorizza su richiesta degli utenti del suo servizio, qualora non si limiti a un trattamento di tali informazioni che sia neutro per quanto riguarda il loro contenuto, ma, per la natura della sua attività, acquisisca presumibilmente il controllo intellettuale di tale contenuto. Ciò si verifica se il prestatore seleziona le informazioni memorizzate (141), se esso è coinvolto attivamente nel loro contenuto in altro modo oppure se presenta tali informazioni agli occhi del pubblico in modo tale da farle apparire proprie. In tali ipotesi, il prestatore esce dal ruolo di intermediario delle informazioni fornite dagli utenti del suo servizio: esso se ne appropria (142).

153. Orbene, a mio avviso, gestori quali YouTube e Cyando non svolgono, in linea di principio, siffatto «ruolo attivo» riguardo alle informazioni che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme.

154. Infatti, in primo luogo, ricordo che la messa in rete di file su siffatte piattaforme avviene in modo automatico, senza visualizzazione o selezione preventiva da parte dei loro gestori. Come fanno valere, in sostanza, il governo finlandese e la Commissione, tali gestori non acquisiscono quindi il controllo di tali informazioni al momento della loro messa in rete.

155. In secondo luogo, contrariamente a quanto sostiene la Elsevier, il fatto che le informazioni memorizzate possano essere consultate o scaricate direttamente dalle medesime piattaforme non è tale da indicare un «ruolo attivo» da parte dei loro gestori. A tale riguardo, non rileva il fatto che un prestatore controlli l’accesso alle informazioni che memorizza su richiesta degli utenti del suo servizio. Ad esempio, per accedere agli annunci messi in rete tramite AdWords, è necessario utilizzare il motore di ricerca di Google (143). Analogamente, per l’accesso alle offerte di vendita messe in rete su eBay è necessario entrare nel suo mercato (144). La Corte non ha considerato tale circostanza pertinente nelle sentenze Google France e l’Oréal/eBay, e a ragione. Infatti, conta solo la questione se il prestatore controlli il contenuto delle informazioni memorizzate. La circostanza che queste ultime siano accessibili dalla piattaforma o dal sito Internet del prestatore non è tale da indicare questo controllo, poiché la loro consultazione o il loro download su richiesta individuale di un utente sono realizzati mediante procedimenti «puramente tecnici e automatici».

156. In terzo luogo, nonostante quanto la Elsevier lascia intendere, non sono convinto che un gestore come YouTube o Cyando presenti, agli occhi di terzi, le informazioni che memorizza su richiesta dei suoi utenti e alle quali dà accesso dalla sua piattaforma in modo tale che esse appaiano come proprie. Da un lato, così non è in quanto un gestore come YouTube indica, per ogni video pubblicato sulla sua piattaforma, quale utente l’ha messo in rete. D’altro lato, un internauta medio, ragionevolmente accorto, sa che i file memorizzati attraverso una piattaforma di hosting e di condivisione di file come Uploaded non provengono, di regola, dal suo gestore.

157. In quarto luogo, ritengo che né il fatto che un gestore come YouTube (145) strutturi il modo in cui i video forniti dagli utenti sono presentati sulla piattaforma, inserendoli in un’interfaccia di visualizzazione standard e indicizzandoli sotto varie rubriche, né il fatto che tale piattaforma integri una funzione di ricerca e che il gestore effettui un trattamento dei risultati di ricerca, riassunti sulla pagina iniziale sotto forma di classificazione dei video in diverse categorie, siano tali da dimostrare che detto gestore svolge un «ruolo attivo» riguardo a tali video.

158. Da un lato, il fatto che un prestatore strutturi il modo in cui le informazioni fornite dagli utenti del suo servizio sono presentate sulla sua piattaforma o sul suo sito Internet, al fine di agevolarne l’utilizzo e, pertanto, di ottimizzare l’accesso a tali informazioni, non è, a mio avviso, pertinente. L’argomento contrario dedotto in particolare dal sig. Peterson e dal governo francese riflette, a mio avviso, un’errata interpretazione della sentenza L’Oréal/eBay. Sebbene la Corte abbia dichiarato, in tale sentenza, che un prestatore come eBay svolge un «ruolo attivo» quando presta a taluni venditori, in caso di offerte di vendita determinate, un’assistenza consistente nell’«ottimizzare la presentazione [di tali offerte]» (146), essa si riferiva, con tale affermazione, al fatto che eBay fornisce talvolta un’assistenza individuale sul modo di ottimizzare, di valorizzare e di strutturare il contenuto di offerte concrete (147). Infatti, fornendo siffatta assistenza, eBay partecipa attivamente alla realizzazione del contenuto delle offerte in questione, come previsto al paragrafo 152 delle presenti conclusioni (148).

159. La Corte non si riferiva invece al fatto che eBay struttura la presentazione generale delle offerte di vendita messe in rete sul suo mercato (149). Il fatto che un prestatore abbia il controllo delle condizioni di presentazione delle informazioni che memorizza su richiesta degli utenti del suo servizio non dimostra che esso controlli il contenuto di tali informazioni. A mio avviso, solo un’assistenza individuale riguardante un’informazione concreta è pertinente al riguardo. In breve, a condizione che non assista gli utenti della sua piattaforma, individualmente, sulla maniera di ottimizzare i loro video (150), un gestore come YouTube non svolge un «ruolo attivo» riguardo ai video ospitati.

160. Per quanto riguarda, d’altro lato, le funzioni di ricerca e di indicizzazione, oltre al fatto che queste ultime sono indispensabili per consentire agli utenti della piattaforma di reperire le informazioni che intendono consultare, ricordo che tali funzioni sono realizzate in modo automatizzato. Esse dipendono quindi da «trattamenti puramente tecnici e automatici» delle informazioni memorizzate su richiesta degli utenti, come prospettato dalla Corte nella sua giurisprudenza (151). La circostanza che il prestatore abbia sviluppato gli strumenti e, in particolare, l’algoritmo che consente tali trattamenti e che, di conseguenza, controlli, in particolare, le condizioni di visualizzazione dei risultati di ricerca non dimostra che controlli il contenuto delle informazioni ricercate (152).

161. In quinto luogo, contrariamente a quanto sostengono il sig. Peterson e il governo francese, neppure il fatto che un gestore quale YouTube fornisca agli utenti registrati sulla sua piattaforma una panoramica dei «video raccomandati» è tale da dimostrare un «ruolo attivo» di detto gestore. Anche in questo caso, tale argomento riflette un’errata interpretazione della sentenza L’Oréal/eBay. Dichiarando, in tale sentenza, che un prestatore come eBay svolge siffatto «ruolo attivo» quando presta a taluni venditori, in caso di offerte di vendita determinate, un’assistenza consistente «nel promuovere tali offerte» (153), la Corte si riferiva alla circostanza che eBay talvolta effettua essa stessa la promozione di talune offerte al di fuori del suo mercato, su Internet, tramite in particolare il servizio di posizionamento AdWords (154). eBay acquisisce il controllo intellettuale di tali offerte, in quanto se ne serve per fare pubblicità al suo mercato e, quindi, se ne appropria.

162. Per contro, il fatto che un gestore come YouTube raccomandi agli utenti della sua piattaforma, in modo automatizzato, video analoghi a quelli che essi hanno precedentemente visionato non mi sembra determinante. È pacifico che anche eBay raccomanda agli utenti del suo mercato, allo stesso modo, offerte analoghe a quelle che essi hanno consultato in passato. Tuttavia, la Corte, a mio avviso, non ha tenuto conto di tale circostanza nella sentenza L’Oréal/eBay (155). Si tratta a priori, anche in tal caso, di un «trattamento puramente tecnico e automatico» delle informazioni memorizzate. Ancora una volta, la circostanza che il prestatore abbia sviluppato gli strumenti – e, in particolare, l’algoritmo che consente tale trattamento – e che, di conseguenza, controlli le condizioni di visualizzazione delle informazioni raccomandate non dimostra che controlli il contenuto di queste ultime (156).

163. In sesto luogo, contrariamente a quanto sostenuto dal sig. Peterson e dalla Elsevier, il modello economico adottato da gestori quali YouTube e Cyando non è tale da dimostrare che questi ultimi abbiano un «ruolo attivo» sulle informazioni da essi memorizzate su richiesta degli utenti delle loro piattaforme.

164. A tale riguardo, il fatto che il prestatore sia remunerato come contropartita del suo servizio è una delle condizioni che caratterizzano un «servizio della società dell’informazione». Si tratta quindi, per estensione, di un prerequisito per beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. Inoltre, il fatto che tale remunerazione consista in particolare in introiti pubblicitari, che dipendono non già dallo spazio di archiviazione fornito, bensì dall’attrattiva delle informazioni memorizzate su richiesta degli utenti della piattaforma, non è, a mio avviso, pertinente (157). Su tale punto, ricordo che il legislatore dell’Unione intendeva includere nell’ambito di applicazione di tale direttiva i prestatori di servizi che sono finanziati in particolare dalla pubblicità (158). Inoltre, nulla, nel dettato dell’articolo 14, paragrafo 1, di detta direttiva, tende a indicare che siffatto prestatore debba essere escluso dal beneficio di detta disposizione per il motivo che è remunerato in tal modo.

165. Del resto, ricordo che la Corte ha dichiarato, nelle sentenze Google France e L’Oréal/eBay, che la semplice circostanza che un servizio sia a pagamento e che il prestatore ne fissi le modalità di remunerazione non è tale da dimostrare un «ruolo attivo» da parte sua (159). Orbene, la remunerazione di Google, nell’ambito del servizio AdWords, dipende dall’attrattiva delle informazioni memorizzate, poiché, in particolare, tale remunerazione varia in base al numero di click sui link promozionali che utilizzano le parole chiave scelte dagli utenti inserzionisti (160). Analogamente, anche la remunerazione di eBay dipende dalle informazioni memorizzate, poiché eBay percepisce una percentuale sulle operazioni effettuate a partire da offerte di vendita (161). La Corte, in tali sentenze, ha quindi implicitamente, ma necessariamente, riconosciuto che siffatta circostanza è irrilevante (162).

166. In settimo luogo, non si può ritenere che un prestatore svolga un «ruolo attivo» relativamente alle informazioni che memorizza per il solo motivo che esso effettua proattivamente taluni controlli, come quelli realizzati da YouTube tramite Content ID, al fine di rilevare la presenza di informazioni illecite sui suoi server. Infatti, come sottolinea il governo finlandese, dal considerando 40 della direttiva 2000/31 risulta che le disposizioni di tale direttiva, relativa alla responsabilità dei prestatori intermediari, «non dovrebbero impedire (…) di sviluppare e usare effettivamente (…) strumenti tecnici di sorveglianza resi possibili dalla tecnologia digitale». Del resto, occorre, a mio avviso, evitare di adottare un’interpretazione della nozione di «ruolo attivo» che sia tale da comportare il risultato paradossale secondo cui un prestatore di servizi che effettua talune ricerche di propria iniziativa nelle informazioni che memorizza – al fine di contrastare, in particolare, le violazioni del diritto d’autore, nell’interesse dei titolari di diritti – perderebbe il beneficio dell’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, di detta direttiva e sarebbe, quindi, trattato più severamente di un prestatore che non effettua tali ricerche (163).

167. Infine, ricordo che, per analogia, nelle sentenze SABAM (164) e Glawischnig‑Piesczek (165), la Corte ha rilevato che «è pacifico» che gestori di piattaforme di rete sociale possono far valere l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per le informazioni che essi memorizzano su richiesta dei loro utenti. Sebbene, come ha osservato il governo francese in udienza, l’espressione «è pacifico» sottolinei il fatto che la Corte si è basata, in tali sentenze, su una premessa non contestata dalle parti o dai giudici del rinvio, osservo tuttavia che la Corte non manca, nelle decisioni pregiudiziali, di rimettere in discussione le premesse relative all’interpretazione del diritto dell’Unione che le sembrino dubbie (166). Orbene, essa non lo ha fatto nel caso di specie (167).

168. Alla luce delle suesposte considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere alle seconde questioni dichiarando che il gestore di una piattaforma di condivisione di video, come YouTube, e il gestore di una piattaforma di hosting e di condivisione di file, come Cyando, possono, in linea di principio, beneficiare dell’esonero previsto all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per qualsiasi responsabilità che possa derivare dai file che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme (168).

C.      Sulla condizione di esonero, relativa alla mancata conoscenza o consapevolezza di un’informazione illecita, prevista all’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31 (terze questioni)

169. Come ho spiegato nella mia analisi delle seconde questioni pregiudiziali, gestori quali YouTube o Cyando possono, in linea di principio, far valere l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. Conformemente a tale disposizione, un prestatore non può essere considerato responsabile delle informazioni che memorizza su richiesta degli utenti del suo servizio, a condizione che, (a) non sia «effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita» e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, che non sia «al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione» (169), o che, (b) dopo aver acquisito tali conoscenze, «agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso».

170. Con le sue terze questioni, il giudice del rinvio interpella la Corte in merito all’interpretazione della condizione di cui al citato articolo 14, paragrafo 1, lettera a). Esso chiede, in sostanza, se tale condizione si riferisca a informazioni illecite concrete.

171. La risposta a tale questione ha implicazioni rilevanti per tutte le situazioni in cui viene verificata la responsabilità di un prestatore di servizi per informazioni illecite che esso memorizza. In sostanza, si tratta di determinare se, al fine di far perdere al prestatore interessato il beneficio dell’esonero di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, il ricorrente debba dimostrare che tale prestatore era a «conoscenza» o aveva «consapevolezza» di tali informazioni in particolare, oppure se gli sia sufficiente dimostrare che detto prestatore aveva una «conoscenza» o una «consapevolezza» generale e astratta del fatto che memorizza informazioni illecite e che i suoi servizi sono utilizzati per attività illecite.

172. A mio avviso, le ipotesi di cui all’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31 si riferiscono effettivamente a informazioni illecite concrete.

173. Come sottolineato dal giudice del rinvio, e come sostenuto da Google nonché dai governi tedesco e francese, tale interpretazione risulta dal dettato stesso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31, la quale utilizza un articolo determinativo («l’attività o (...) l’informazione è illecita» e «l’illegalità dell’attività o dell’informazione illecita») (il corsivo è mio) (170). Se il legislatore dell’Unione avesse inteso riferirsi a una conoscenza o consapevolezza generale del fatto che sui server del prestatore si trovano informazioni illecite o che i suoi servizi sono utilizzati per attività illecite, avrebbe scelto un articolo indeterminativo («un’attività o un’informazione è illecita» o «l’illegalità di attività o di informazioni illecite»). Rilevo inoltre che anche l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva utilizza un articolo determinativo («rimuovere le informazioni o (...) disabilitarne l’accesso») (il corsivo è mio).

174. Tale interpretazione si impone anche alla luce del contesto generale nel quale si inserisce l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 e dell’obiettivo perseguito da tale disposizione.

175. A tale riguardo, ricordo che il legislatore dell’Unione, istituendo gli esoneri da responsabilità di cui alla sezione 4 della direttiva 2000/31, intendeva consentire ai prestatori intermediari di fornire i loro servizi senza incorrere in un rischio sproporzionato di responsabilità per le informazioni da essi trattate su richiesta dei loro utenti. In particolare, l’articolo 14, paragrafo 1, di tale direttiva mira a evitare che tali prestatori siano generalmente ritenuti responsabili per l’illiceità delle informazioni che essi memorizzano, il cui numero è spesso consistente e di cui, per tale motivo, in linea di principio, essi non hanno il controllo intellettuale. Detto legislatore intendeva stabilire, al riguardo, un equilibrio tra i diversi interessi in gioco. Da un lato, a detti prestatori, conformemente all’articolo 15, paragrafo 1, di tale direttiva, non può essere imposto l’obbligo generale di sorvegliare le informazioni che essi trasmettono o memorizzano, né l’obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. D’altro lato, non appena vengano effettivamente a conoscenza o abbiano effettivamente consapevolezza di un’informazione illecita, i medesimi prestatori devono agire immediatamente per rimuovere tale informazione o per disabilitarne l’accesso, nel rispetto del principio della libertà di espressione e di procedure stabilite a tal fine a livello nazionale (171).

176. L’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 è quindi destinato a costituire una base per lo sviluppo, a livello degli Stati membri, di procedure cosiddette di «notifica e rimozione» (notice and take down) (172) e le condizioni previste alle lettere a) e b) riflettono, pertanto, la logica di tali procedure: quando un’informazione illecita concreta è portata all’attenzione di un prestatore di servizi (173), questi deve eliminarla immediatamente.

177. Il sig. Peterson e la Elsevier replicano tuttavia che piattaforme quali YouTube e Uploaded danno luogo ad un numero rilevante di usi illeciti, usi regolarmente notificati ai loro gestori. Pertanto, i ricorrenti nel procedimento principale fanno nuovamente valere che tali gestori dovrebbero assumere obblighi di diligenza che implicano la prevenzione e la ricerca attiva dei reati commessi sulle loro piattaforme. Di conseguenza, essi non potrebbero far valere l’ignoranza di informazioni illecite concrete ivi rinvenibili. A tale riguardo, la loro «conoscenza» o «consapevolezza» dovrebbe essere presunta.

178. A mio avviso, l’interpretazione così suggerita dai titolari di diritti non è semplicemente conciliabile con il diritto dell’Unione, allo stato attuale.

179. Tale argomento non è anzitutto compatibile con il primo inciso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31, relativo alla «conoscenza effettiva». Al fine di dimostrare siffatta «conoscenza effettiva», occorre fare riferimento non già a ciò che il prestatore avrebbe saputo se fosse stato diligente, bensì a ciò che sapeva realmente (174).

180. Occorre fornire ulteriori spiegazioni per quanto riguarda l’ipotesi della «consapevolezza» di cui al secondo inciso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31. La Corte ha fornito diverse precisazioni al riguardo nella sentenza L’Oréal/eBay. Ricordo che, nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, veniva verificata la responsabilità di eBay per talune offerte di vendita, messe online sul suo mercato, che potevano arrecare pregiudizio a marchi della L’Oréal. In tale contesto, la Corte ha precisato che, al fine di stabilire se il gestore di un mercato sia «consapevole» di siffatte offerte, ai sensi di tale disposizione, occorre verificare se quest’ultimo sia «al corrente di fatti o circostanze in base ai quali un operatore economico diligente avrebbe dovuto constatare l’illiceità di cui trattasi e agire in conformità [dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva]». Ciò può verificarsi in «qualsiasi situazione nella quale il prestatore considerato viene ad essere, in qualunque modo, al corrente di tali fatti o circostanze» e, in particolare, quando «scopre l’esistenza di un’attività o di un’informazione illecite a seguito di un esame effettuato di propria iniziativa» oppure se «gli sia notificata l’esistenza di un’attività o di un’informazione siffatte» (175).

181. Da tale sentenza risulta che a un prestatore di servizi si impongono effettivamente taluni obblighi di diligenza ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. A tale titolo, siffatto prestatore può perdere talvolta il beneficio dell’esonero da responsabilità previsto da detta disposizione per il fatto che avrebbe dovuto sapere che una determinata informazione era illecita e, nonostante ciò, non l’ha eliminata.

182. Tuttavia, tali obblighi di diligenza sono nettamente più mirati rispetto a quanto suggeriscono i ricorrenti nel procedimento principale. Da detta sentenza non si può dedurre, a mio avviso, che un prestatore di servizi, per comportarsi come «operatore economico diligente», qualora abbia una conoscenza astratta del fatto che informazioni illecite si trovano sui suoi server, debba ricercare attivamente, in generale, siffatte informazioni illecite e, si presuma, di conseguenza, «consapevole» di ciascuna di esse.

183. A tale riguardo, è evidente che, tenuto conto del numero di offerte di vendita pubblicate quotidianamente in un mercato come eBay, il suo gestore sa che un certo numero di esse può violare diritti di proprietà intellettuale. Tuttavia, la Corte non ha dichiarato, nella sentenza L’Oréal/eBay, che tale gestore è ritenuto «consapevole» di qualsiasi offerta contraffatta. Essa ha considerato, al contrario, che si deve verificare se siano stati portati a conoscenza di tale prestatore fatti o circostanze riguardanti le offerte di vendita considerate. Secondo la Corte, occorre in particolare verificare se detto prestatore abbia ricevuto una notifica sufficientemente precisa e suffragata riguardo a tali offerte (176).

184. Ne consegue che l’ipotesi di cui al secondo inciso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31, in cui un prestatore di servizi è «al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione», si riferisce al caso in cui il prestatore sia (effettivamente) a conoscenza di elementi oggettivi, relativi a un’informazione concreta presente sui suoi server, che dovrebbero essergli sufficienti, a condizione che dia prova della necessaria diligenza, per rendersi conto dell’illiceità di tale informazione e per eliminarla, in conformità all’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva.

185. In definitiva, un prestatore di servizi ha l’obbligo di trattare con diligenza i fatti e le circostanze ad esso comunicati, in particolare nell’ambito di notifiche, riguardanti informazioni illecite concrete. Ciò non può confondersi con un obbligo di ricercare attivamente, in generale, tali fatti e circostanze. Siffatta interpretazione invertirebbe la logica dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 e sarebbe incompatibile con l’articolo 15 di tale direttiva (177).

186. Inoltre, non si deve dimenticare che la logica di «notifica e rimozione» sottesa a detto articolo 14, paragrafo 1, mira, come ho precisato, a instaurare un equilibrio tra i diversi interessi in gioco e, in particolare, a salvaguardare la libertà di espressione degli utenti.

187. In tale contesto, la logica delle notifiche non mira soltanto a consentire a un prestatore di servizi di scoprire l’esistenza e l’ubicazione di un’informazione illecita presente sui suoi server. Una notifica mira altresì a fornirgli elementi sufficienti per accertarsi dell’illiceità di tale informazione. Infatti, conformemente allo stesso articolo 14, paragrafo 1, un prestatore deve rimuovere detta informazione unicamente quando la sua illiceità è «manifesta», vale a dire evidente (178). Tale requisito è volto, a mio avviso, a evitare che un prestatore debba definire esso stesso questioni giuridiche complesse e che, così facendo, si trasformi in arbitro della legalità online.

188. Orbene, se è vero che l’illiceità di talune informazioni si palesa immediatamente (179), così non è, di regola, in materia di diritto d’autore. La valutazione della natura contraffatta di un file richiede vari elementi contestuali e può necessitare di un’analisi giuridica approfondita. Ad esempio, stabilire se un video messo in rete su una piattaforma come YouTube violi un diritto d’autore implica, in linea di principio, che si verifichi, in primo luogo, se tale video contenga un’opera, in secondo luogo, se il terzo che se ne duole sia titolare di diritti su tale opera, in terzo luogo, se l’uso così fatto dell’opera violi i suoi diritti – aspetto, quest’ultimo, il quale richiede che si valuti, anzitutto, se l’uso sia stato fatto con la sua autorizzazione – e, inoltre, se sia applicabile un’eccezione. L’analisi è, inoltre, complicata dal fatto che gli eventuali diritti e licenze sull’opera possono variare da uno Stato membro all’altro, al pari di tali eccezioni, a seconda del diritto applicabile (180).

189. Se un prestatore di servizi dovesse ricercare attivamente le informazioni contraffatte presenti sui suoi server, senza l’assistenza dei titolari di diritti, ciò lo costringerebbe a valutare esso stesso, in generale e senza gli elementi contestuali necessari, ciò che è oggetto di contraffazione. Se talune situazioni lasciano poco spazio a dubbi (181), molte altre sono equivoche. Ad esempio, stabilire chi detenga diritti su un’opera è raramente un compito agevole (182). Inoltre, qualora un estratto di un’opera protetta sia incluso in un video postato da terzi, potrebbero applicarsi talune eccezioni, quali l’uso a fini di citazione oppure di parodia (183). Il rischio è che, in tutte queste situazioni equivoche, il prestatore propenda per la rimozione sistematica delle informazioni presenti sui suoi server, al fine di evitare qualsiasi rischio di responsabilità nei confronti dei titolari di diritti. Infatti, gli sembrerà spesso più semplice rimuovere un’informazione piuttosto che dover chiedere esso stesso, nell’ambito di un’eventuale azione per responsabilità, ad esempio, l’applicazione di siffatta eccezione. Tale «rimozione eccessiva» porrebbe un problema evidente in materia di libertà di espressione (184).

190. Per tali ragioni, come fa valere il giudice del rinvio, la natura contraffatta di un’informazione può essere considerata «manifesta», ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31, solo qualora il prestatore interessato abbia ricevuto una notifica che gli fornisca elementi che consentirebbero a un «operatore economico diligente», che si trovasse nella sua situazione, di constatare tale natura agevolmente e senza un esame giuridico e sostanziale approfondito. In concreto, tale notifica deve individuare l’opera protetta, descrivere la violazione contestata e fornire indizi sufficientemente chiari quanto ai diritti che la vittima afferma di avere sull’opera. Aggiungerò che, qualora l’applicazione di un’eccezione non sia esclusa a priori, la notifica deve contenere spiegazioni ragionevoli sui motivi per cui essa dovrebbe essere esclusa. Solo siffatta interpretazione è, a mio avviso, tale da evitare il rischio che i prestatori intermediari si trasformino in arbitri della legalità online e il rischio di «rimozione eccessiva» menzionati ai paragrafi precedenti (185).

191. Ciò chiarito, devono essere ancora fornite due precisazioni finali. In primo luogo, esiste a mio avviso, un caso in cui il prestatore di servizi non può nascondersi dietro al fatto di non essere effettivamente a «conoscenza» o di non avere «consapevolezza» delle informazioni illecite concrete per le quali viene verificata la sua responsabilità, e in cui dovrebbe essere sufficiente una conoscenza generale e astratta del fatto che esso memorizza informazioni illecite e che i suoi servizi sono utilizzati per attività illecite. Si tratta del caso in cui tale prestatore agevola deliberatamente la realizzazione di atti illeciti da parte degli utenti del suo servizio. Quando elementi obiettivi dimostrano la malafede di detto prestatore (186), quest’ultimo perde, a mio avviso, il beneficio dell’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (187).

192. In secondo luogo, il sig. Peterson e la Elsevier fanno valere che, quando un prestatore di servizi ha ricevuto una notifica sufficientemente precisa e suffragata riguardo a un’informazione illecita, l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2000/31 richiederebbe a tale prestatore non solo di rimuovere l’informazione o di rendere la stessa inaccessibile, ma anche di adottare le misure necessarie per «bloccare» tale informazione, vale a dire impedire che essa sia nuovamente messa in rete. In altri termini, nel caso in cui riceva una notifica del genere, un prestatore sarebbe ritenuto «consapevole» non solo dell’informazione attualmente presente sui suoi server, ma anche di tutte le eventuali future messe in rete della stessa informazione, senza che sia necessaria una nuova notifica per ciascuna di esse.

193. A tale riguardo, i titolari di diritti fanno regolarmente valere che le informazioni che sono state oggetto di notifica e che sono state rimosse da un prestatore di servizi sono spesso rimesse in rete poco tempo dopo. Di conseguenza, essi sarebbero costretti a sorvegliare continuamente tutti i siti Internet che possono ospitare le loro opere e a moltiplicare le notifiche. La soluzione suggerita da tali titolari al fine di ovviare al problema sarebbe di interpretare l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 nel senso che esso sottende un sistema non solo di «notifica e rimozione» (notice and take down), ma anche di «notifica e blocco» (notice and stay down).

194. A mio avviso, inserire nell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 un obbligo di stay down modificherebbe significativamente la portata di tale disposizione. Rimuovere un’informazione significa, per il prestatore di servizi, reagire (diligentemente) a una notifica. Bloccare un’informazione richiede, per contro, l’introduzione di una tecnologia di filtraggio delle informazioni che esso memorizza. In tale contesto, si tratta di impedire non soltanto la rimessa in rete di un determinato file informatico, ma anche di qualsiasi file di contenuto equivalente. Indipendentemente dal fatto che taluni prestatori, tra i quali, a quanto pare, YouTube, dispongano di tecnologie che consentono siffatto stay down, e le applichino volontariamente, mi sembra un’operazione delicata inserire, mediante un’interpretazione «dinamica», siffatto obbligo in tale disposizione e farlo così gravare su qualsiasi prestatore di servizi, compresi quelli che non dispongono delle risorse necessarie per attuare una tecnologia di tal genere (188).

195. Per contro, ritengo che un obbligo di stay down possa essere imposto, a condizioni che preciserò nella mia analisi delle quarte questioni, a taluni prestatori di servizi, in base segnatamente alle loro capacità, nell’ambito di un’ingiunzione giudiziaria, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29.

196. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere alle terze questioni dichiarando che l’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31 deve essere interpretato nel senso che le ipotesi ivi previste, vale a dire quella in cui un prestatore di servizi sia «effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita» e quella in cui tale prestatore sia «al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione», si riferiscono, in linea di principio, a informazioni illecite concrete.

D.      Sulle condizioni per chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti di un intermediario, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 (quarte questioni)

197. Nel caso in cui la Corte dichiarasse che gestori di piattaforme quali YouTube e Cyando possono far valere l’articolo 14 della direttiva 2000/31, questi ultimi sarebbero esonerati da qualsiasi responsabilità che possa derivare dai file che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme, purché soddisfino le condizioni previste al paragrafo 1 di tale articolo.

198. Tuttavia, come precisato al paragrafo 3, detto articolo «lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca una violazione o vi ponga fine». In altri termini, il medesimo articolo non osta a che un prestatore di servizi sia il destinatario, in particolare, di un’ingiunzione giudiziaria, anche qualora soddisfi tali condizioni (189).

199. A tale proposito, l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 obbliga gli Stati membri ad assicurarsi che «i titolari di diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi» (190).

200. Con le sue quarte questioni, il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) chiede alla Corte di precisare le condizioni che i titolari di diritti devono soddisfare per poter chiedere tale ingiunzione, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29.

201. Tale giudice si chiede, più in particolare, se la sua giurisprudenza sia compatibile con il diritto dell’Unione. Secondo tale giurisprudenza, detto articolo 8, paragrafo 3, è attuato, nel diritto tedesco, attraverso la «responsabilità del perturbatore» (Störerhaftung), una forma di responsabilità indiretta stabilita da tempo. Tale istituto prevede che, in caso di violazione di un diritto assoluto, come un diritto di proprietà intellettuale, colui che, senza essere autore o complice di tale violazione, vi contribuisca in qualsiasi modo, deliberatamente, e con un adeguato nesso di causalità, può essere perseguito in quanto «perturbatore» (Störer). Può essere sufficiente, in tale contesto, che la persona in questione sostenga o sfrutti il comportamento del terzo autore della medesima violazione, agendo di propria iniziativa, se tale persona aveva, giuridicamente e materialmente, la possibilità di prevenire la violazione commessa (191).

202. Come spiegato dal giudice del rinvio, al fine di non estendere la «responsabilità del perturbatore» oltre misura alle persone che non sono né autrici né complici di reati, tale responsabilità presuppone la violazione di obblighi di comportamento. La portata di tali obblighi dipende dalla questione se ci si possa ragionevolmente attendere dal «perturbatore», tenuto conto delle circostanze, e se del caso in quale misura, che esso controlli o sorvegli i terzi al fine di prevenire siffatti reati. Ciò deve essere stabilito, in ciascun caso, tenendo conto della funzione e dei compiti del «perturbatore» nonché della responsabilità personale degli autori di tali reati.

203. In tale contesto, un prestatore intermediario che memorizza informazioni fornite dagli utenti del suo servizio può essere perseguito come «perturbatore» ed essere oggetto di un provvedimento inibitorio su tale fondamento qualora, da un lato, abbia ricevuto una notifica sufficientemente precisa e suffragata riguardo a un’informazione illecita concreta e, dall’altro, si sia verificata una «recidiva» per il fatto che tale prestatore non ha agito immediatamente per rimuovere l’informazione di cui trattasi o per disabilitarne l’accesso, oppure non ha adottato le misure necessarie per impedire che tale informazione fosse nuovamente messa in rete (192). Di conseguenza, i titolari di diritti non possono chiedere un’ingiunzione nei confronti di un intermediario sin dal momento in cui è stata commessa una violazione dei loro diritti da parte di un utente dei suoi servizi.

204. In sostanza, occorre stabilire se l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 osti a che la possibilità per i titolari di diritti di chiedere un’ingiunzione nei confronti di un intermediario sia condizionata dal requisito di una simile recidiva.

205. Il giudice del rinvio considera che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie. Google, Cyando nonché i governi tedesco e finlandese sono dello stesso parere. Per quanto mi riguarda, tendo a ritenere, al pari del sig. Peterson, della Elsevier, del governo francese e della Commissione, che l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 osti effettivamente a tale requisito.

206. Anzitutto, ricordo che detto articolo 8, paragrafo 3, riconosce ai titolari di diritti il diritto di chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti degli «intermediari», «i cui servizi siano utilizzati da terzi», per «violare un diritto d’autore o diritti connessi». Conformemente alla giurisprudenza della Corte, costituisce un «intermediario», ai sensi di tale disposizione, qualsiasi prestatore che fornisca un servizio che possa essere utilizzato da altre persone per violare siffatto diritto di proprietà intellettuale (193). Ciò è quanto avviene indubbiamente nel caso di YouTube e di Cyando. I loro servizi sono «utilizzati da terzi» per «violare un diritto d’autore o diritti connessi» ogniqualvolta uno dei loro utenti pubblichi online, dalle loro piattaforme, in modo illecito, un’opera protetta.

207. Inoltre, sebbene nel considerando 59 della direttiva 2001/29 sia dichiarato che le condizioni e le modalità relative a tale provvedimento ingiuntivo devono essere stabilite, in linea di principio, dal diritto nazionale degli Stati membri, ne consegue semplicemente che questi ultimi dispongono di un potere discrezionale al riguardo. Tali condizioni e procedure devono, in ogni caso, essere predisposte in modo tale che la finalità perseguita dall’articolo 8, paragrafo 3, di detta direttiva sia realizzata (194). Questo potere discrezionale non può quindi consentire a tali Stati di modificare la portata e, pertanto, la sostanza del diritto riconosciuto da tale disposizione ai titolari di diritti.

208. In tale contesto, osservo che la possibilità per i titolari di diritti di ottenere un’ingiunzione nei confronti di un prestatore intermediario, conformemente alle condizioni della «responsabilità del perturbatore», dipende dal comportamento di quest’ultimo. Come ho precisato, un’ingiunzione emessa in base a tale istituto è un provvedimento inibitorio. Essa implica che tale prestatore abbia violato taluni obblighi di comportamento (195) e consente di ottenerne l’esecuzione forzata in giudizio.

209. Orbene, l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 deriva da una logica diversa. Contrariamente alle ingiunzioni nei confronti dei trasgressori, previste al paragrafo 2 di tale articolo, le ingiunzioni nei confronti degli intermediari previste al paragrafo 3 del medesimo articolo non mirano (soltanto) a far cessare taluni comportamenti censurabili da parte loro. Tale disposizione prende in considerazione anche intermediari «innocenti», nel senso che essi adempiono generalmente tutti gli obblighi loro imposti dalla legge. Essa consente ai titolari di diritti di pretendere dagli stessi un maggiore coinvolgimento nella lotta contro le violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti dei loro servizi, per il fatto che essi sono generalmente i più idonei a porre fine a tali violazioni. In quest’ottica, detta disposizione consente di imporre ai medesimi intermediari nuovi obblighi mediante ingiunzioni giudiziarie. Si tratta, in definitiva, di una forma di cooperazione forzata (196).

210. Tale differenza logica potrebbe non essere di per sé problematica. Come ho precisato, conta solo il risultato ottenuto dagli Stati membri, non le modalità secondo le quali essi attuano l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29. In assoluto, tutto ciò che conta al riguardo è la possibilità per i titolari di diritti di ottenere un’ingiunzione che imponga agli intermediari di tenere una determinata condotta a tutela dei loro interessi. Poco importa che, sul piano teorico, tale ingiunzione sia presentata nel senso che sanziona obblighi di comportamento preesistenti o nel senso che ne impone di nuovi.

211. Tuttavia, subordinare l’emissione di tale ingiunzione alla violazione, da parte dell’intermediario, di obblighi di comportamento preesistenti ha come conseguenza di ritardare e, in tal modo, di limitare il diritto che l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 riconosce ai titolari di diritti (197). In pratica, come sostiene il sig. Peterson, questi ultimi possono chiedere un’ingiunzione nei confronti di un intermediario solo qualora una prima informazione illecita sia stata commessa e sia stata debitamente notificata a quest’ultimo (notifica che fa sorgere obblighi di comportamento) e, inoltre, il reato sia stato reiterato (circostanza che configura l’inadempimento dell’intermediario a tali obblighi).

212. Orbene, a mio avviso, un titolare di diritti deve poter chiedere tale ingiunzione qualora sia accertato che terzi violano i suoi diritti tramite il servizio dell’intermediario, senza dover attendere che si verifichi la recidiva e senza dover dimostrare un comportamento colpevole di quest’ultimo (198). Preciso che l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 non osta, a mio avviso, alle norme della «responsabilità del perturbatore» in quanto tali. Esso osta piuttosto al fatto che i titolari di diritti non dispongano di un’altra base giuridica, nel diritto tedesco, che consenta loro di chiedere un’ingiunzione nei confronti di un intermediario in tali circostanze.

213. Tale interpretazione non è rimessa in discussione, a mio avviso, dall’argomento, presentato dal giudice del rinvio e ribadito da Google, da Cyando e dal governo finlandese, secondo il quale consentire ai titolari di diritti di chiedere un’ingiunzione nei confronti di un intermediario, conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29, ancor prima che vi sia recidiva, equivarrebbe ad imporre a quest’ultimo un obbligo generale di sorveglianza e di ricerca attiva, contrario all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. A loro avviso, ammettere tale possibilità equivarrebbe ad affermare che l’intermediario avrebbe dovuto, ancor prima di ricevere una notifica sufficientemente precisa e suffragata, rimuovere l’informazione in questione e bloccare la sua rimessa in rete, il che implicherebbe, da parte sua, la sorveglianza dei suoi server e la ricerca attiva, in generale, delle informazioni illecite che vi si possono trovare.

214. Orbene, dall’interpretazione da me suggerita non deriva una simile conseguenza. Il fatto che i titolari di diritti possano chiedere un’ingiunzione nei confronti di un intermediario in un determinato caso non significa che quest’ultimo fosse necessariamente tenuto ad agire in un certo modo prima dell’emissione di tale ingiunzione. Lo ripeto, le ingiunzioni previste all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29, in linea di principio, sono dirette non già a sanzionare un inadempimento degli intermediari a obblighi di diligenza preesistenti, bensì a imporre loro nuovi obblighi, validi per il futuro.

215. Infine, sono ben consapevole del fatto che la condizione della «responsabilità del perturbatore» relativa alla violazione, da parte dell’intermediario, di obblighi di comportamento ha lo scopo, come precisato dal giudice del rinvio, di limitare la cerchia delle persone che possono essere soggette a un’ingiunzione. Tuttavia, l’interpretazione da me suggerita non equivale ad affermare che i titolari di diritti dovrebbero poter chiedere qualsiasi ingiunzione nei confronti di qualsiasi prestatore intermediario. I giudici nazionali devono, a mio avviso, applicare il principio di proporzionalità per determinare la portata degli obblighi che possono essere ragionevolmente imposti a un determinato prestatore, tenuto conto, in particolare, della sua situazione in caso di violazioni del diritto d’autore in questione. In taluni casi, un prestatore potrebbe essere troppo distante da tali violazioni perché sia proporzionato richiedere la sua collaborazione. Ad ogni modo, tale questione non si pone nel caso di specie. Infatti, gestori quali YouTube e Cyando sono vicini alle violazioni commesse dagli utenti delle loro piattaforme in quanto memorizzano sui loro server i file corrispondenti.

216. Le parti nel procedimento principale hanno altresì sollevato, dinanzi alla Corte, la questione della portata delle ingiunzioni che possono essere emesse nei confronti degli intermediari: i titolari di diritti ritengono che la giurisprudenza del Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) non si sia spinta troppo oltre, mentre i gestori di piattaforme ritengono, al contrario, che tale giurisprudenza vada al di là di quanto consentito dal diritto dell’Unione. Dal momento che tale questione non è stata sottoposta alla Corte da tale giudice, ma è strettamente connessa ai problemi generalmente sollevati nelle presenti cause, formulerò qualche breve osservazione al riguardo.

217. La Corte ha già chiarito che un provvedimento inibitorio emesso conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 può imporre a un intermediario di adottare provvedimenti che contribuiscano non solo a porre fine alle violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti del suo servizio, ma anche a prevenire nuove violazioni di tale natura (199). Le misure che possono essergli imposte nell’ambito di tale provvedimento devono essere effettive, proporzionate e dissuasive, garantire un giusto equilibrio tra i vari diritti e interessi in gioco, e non devono creare ostacoli agli usi leciti del servizio (200).

218. Inoltre, tali misure devono rispettare i limiti posti all’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (201). Nel caso di specie, si tratta in particolare di accertare se un’ingiunzione possa imporre a un gestore di individuare e di bloccare la messa in rete illecita di opere protette sulla sua piattaforma, e in quale misura. Come ho già precisato (202), ciò richiederà generalmente, per il prestatore, l’utilizzo di una tecnologia di filtraggio delle informazioni da esso memorizzate. Si tratta quindi di stabilire se si debba necessariamente ritenere che siffatta ingiunzione implichi obblighi generali di sorveglianza e di ricerca attiva, vietati da tale disposizione.

219. Su tale punto, osservo che, da un lato, nella sentenza SABAM (203), la Corte ha dichiarato che l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 osta a che il gestore di una piattaforma di rete sociale sia obbligato a predisporre un sistema di filtraggio delle informazioni memorizzate su richiesta degli utenti del suo servizio, che si applichi indistintamente nei confronti di tutti questi utenti, a titolo preventivo, a spese esclusive del prestatore e senza limiti di tempo, idoneo a individuare file contenenti opere sulle quali il richiedente vanta diritti di proprietà intellettuale, al fine di bloccare la messa a disposizione del pubblico di dette opere. La Corte ha altresì considerato il fatto che tale misura comporterebbe, per tale gestore, di sorvegliare la totalità o la maggior parte delle informazioni dallo stesso memorizzate, riguarderebbe qualsiasi futura violazione e presupporrebbe la necessità di proteggere non solo opere esistenti, ma anche le opere che non siano state ancora create al momento della predisposizione di detto sistema.

220. D’altro lato, la Corte ha dichiarato, nella sentenza Glawischnig‑Piesczek (204), che riguarda questa volta il settore degli atti lesivi dell’onore delle persone, che un’ingiunzione può imporre a un prestatore intermediario di individuare e di bloccare un’informazione precisa, il cui contenuto sia stato analizzato e valutato da un giudice che, in esito alla sua valutazione, l’ha dichiarata illecita. Un giudice può quindi esigere che il prestatore blocchi l’accesso alle informazioni identiche a quest’ultima, indipendentemente dall’utente che ne abbia chiesto la memorizzazione. Un’ingiunzione può anche estendersi alle informazioni equivalenti, purché contengano elementi specifici debitamente individuati nell’ingiunzione e il prestatore non sia obbligato a procedere ad una valutazione autonoma del loro carattere diffamatorio, ma, al contrario, possa ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati. Secondo la Corte, siffatta ingiunzione comporta unicamente obblighi specifici di sorveglianza e di ricerca attiva, conformi all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (205).

221. Da tali sentenze risulta che, secondo la Corte, l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 non osta a qualsiasi obbligo di rilevazione e di blocco. Sebbene tale disposizione vieti di imporre a un prestatore, mediante ingiunzione, un filtraggio generalizzato delle informazioni che memorizza alla ricerca di qualsiasi contraffazione (206), essa non osterebbe, a priori, a che tale prestatore sia obbligato a procedere ad un blocco riguardante un file specifico, che fa uso di un’opera protetta, dichiarato illecito da un giudice. Secondo la mia interpretazione della giurisprudenza della Corte, detta disposizione non osterebbe, in tale contesto, a che il prestatore sia tenuto a rilevare e a bloccare non solo le copie identiche di tale file, ma anche altri file equivalenti, vale a dire, a mio avviso, quelli che fanno lo stesso uso dell’opera di cui trattasi. Entro tali limiti, la medesima disposizione non osterebbe quindi a che sia imposto un obbligo di stay down a un prestatore intermediario.

222. Tuttavia, ricordo che le misure adottate nei confronti di un prestatore intermediario nell’ambito di un’ingiunzione devono essere proporzionate. A tale titolo, occorre tener conto delle risorse di tale prestatore. In particolare, se bloccare una copia identica di un file dichiarato contraffatto sembra relativamente agevole (207), è nettamente più complesso rilevare altri file facenti lo stesso uso dell’opera in questione (208). Sebbene YouTube affermi di poterlo fare (209), non tutti i prestatori dispongono della tecnologia necessaria o delle risorse per dotarsene (210). Ricordo altresì che le misure imposte mediante ingiunzione devono garantire un giusto equilibrio tra i vari diritti e interessi in gioco e non devono creare ostacoli agli usi leciti del servizio. In particolare, un obbligo di blocco non può avere, a mio avviso, per oggetto o per effetto di impedire agli utenti di una piattaforma di mettervi in rete contenuti legittimi e, in particolare, di fare un uso lecito delle opere considerate (211). Spetterebbe ai giudici nazionali stabilire ciò che ci si può ragionevolmente attendere dal prestatore in questione.

223. Alla luce delle suesposte considerazioni, suggerisco alla Corte di rispondere alle quarte questioni nel senso che l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 osta a che i titolari di diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti di un prestatore il cui servizio, consistente nel memorizzare informazioni fornite da un utente, sia utilizzato da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi, solo nel caso in cui, a seguito della segnalazione di una chiara violazione, si sia verificata nuovamente un’analoga violazione.

E.      In subordine – sulla nozione di «autore della violazione» ai sensi dell’articolo 13 della direttiva 2004/48 (quinte e seste questioni)

224. Il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) ha formulato le sue questioni quinte e seste unicamente per l’ipotesi in cui la Corte rispondesse in senso negativo sia alle prime sia alle seconde questioni. Il giudice del rinvio considera quindi l’ipotesi secondo cui, da un lato, l’attività di gestori quali YouTube e Cyando non rientra nella nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 e, dall’altro, tali gestori non potrebbero beneficiare dell’esonero di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per la responsabilità che può derivare dalle informazioni che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme (212).

225. Con le sue quinte questioni, il suddetto giudice chiede se, in tale ipotesi, detti gestori debbano essere considerati «autori della violazione», ai sensi segnatamente dell’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 2004/48, per il fatto di aver svolto un «ruolo attivo» relativamente ai file contenenti opere protette messe in rete, in modo illecito, dagli utenti delle loro piattaforme.

226. In caso di risposta affermativa, detto giudice si interroga, con le sue seste questioni, sulla compatibilità con detto articolo 13, paragrafo 1, delle norme in materia di complicità di cui all’articolo 830 del BGB. Quest’ultima disposizione, che prevede una forma di responsabilità secondaria, consente alla vittima di un illecito – contrariamente alla «responsabilità del perturbatore» – di ottenere un risarcimento danni da una persona che risulta complice. Sarebbe considerato tale colui che ha deliberatamente indotto un terzo a commettere intenzionalmente un illecito o che gli ha fornito assistenza a tal fine. La responsabilità del complice presupporrebbe tuttavia, oltre a una partecipazione oggettiva a un illecito concreto, un’intenzione almeno parziale per quanto riguarda tale illecito e che deve estendersi alla consapevolezza dell’illiceità. In pratica, un prestatore intermediario potrebbe quindi essere considerato responsabile in quanto complice solo per violazioni concrete del diritto d’autore, commesse dagli utenti del suo servizio, di cui è a conoscenza e che ha deliberatamente agevolato. Orbene, il giudice del rinvio si chiede se, ai sensi del medesimo articolo 13, paragrafo 1, debba essere sufficiente, per condannare un prestatore intermediario a versare un risarcimento danni ai titolari di diritti, che quest’ultimo sia a conoscenza o sia consapevole, in via generale e astratta, del fatto che il suo servizio è utilizzato per violare il diritto d’autore.

227. A mio avviso, l’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 2004/48, semplicemente, non è inteso a disciplinare le condizioni della responsabilità dei prestatori intermediari per le violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti dei loro servizi.

228. In proposito, ricordo che tale disposizione prevede che, «su richiesta della parte lesa, le competenti autorità giudiziarie ordinino all’autore della violazione, implicato consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole in un’attività di violazione di risarcire al titolare del diritto danni adeguati al pregiudizio effettivo da questo subito a causa della violazione». Ai sensi di detta disposizione, l’«autore della violazione» è quindi la persona che svolge un’«attività di violazione» o, in altri termini, quella che lede un diritto di proprietà intellettuale.

229. Tuttavia, l’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 2004/48 ha come unico obiettivo di prevedere norme, di ordine procedurale, relative alla concessione e alla determinazione del risarcimento danni qualora siffatta violazione sia commessa. Tale disposizione non è diretta a stabilire, a monte, quali diritti di proprietà intellettuale siano tutelati, quali atti ledano tali diritti, chi ne siano i responsabili e chi sia il «titolare del diritto» al quale il risarcimento deve essere versato. Tutte queste questioni rientrano nelle norme sostanziali del diritto di proprietà intellettuale (213). Ricordo che, in generale, la direttiva 2004/48 armonizza unicamente taluni aspetti procedurali della proprietà intellettuale, ad esclusione di siffatte questioni di ordine sostanziale (214).

230. Nel settore del diritto d’autore, le norme sostanziali pertinenti sono contenute, in particolare, nella direttiva 2001/29. Una persona svolge un’«attività di violazione» e diviene in tal modo un «autore della violazione» qualora realizzi un atto rientrante in un diritto esclusivo che tale direttiva riconosce all’autore – il quale è, in tale contesto, in linea di principio, il «titolare del diritto» – senza autorizzazione preventiva di quest’ultimo e senza che siano applicabili eccezioni o limitazioni.

231. Orbene, ricordo che le questioni quinta e sesta si basano sull’ipotesi secondo cui gestori quali YouTube e Cyando non realizzano atti di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. In tale ipotesi, detti gestori non possono essere considerati «autori della violazione» che svolgono «attività di violazione», ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 2004/48.

232. Ciò premesso, la direttiva 2004/48 procede soltanto a un’armonizzazione minima (215). Come osserva la Commissione, gli Stati membri possono quindi prevedere nel loro diritto nazionale, a favore dei titolari di diritti vittime di «attività di violazione», il diritto di ottenere un risarcimento danni da persone diverse dall’«autore della violazione», ai sensi dell’articolo 13 di tale direttiva, compresi i prestatori intermediari che abbiano agevolato tali attività. In ogni caso, le condizioni di siffatta responsabilità secondaria restano disciplinate, come ho precisato più volte nelle presenti conclusioni, dal diritto nazionale.

F.      Sul fatto che l’obiettivo di un livello elevato di protezione del diritto d’autore non giustifica un’interpretazione diversa delle direttive 2000/31 e 2001/29

233. Contrariamente al sig. Peterson e alla Elsevier, non ritengo che l’obiettivo della direttiva 2001/29, consistente nel garantire un livello elevato di protezione del diritto d’autore, richieda un’interpretazione di tale direttiva e della direttiva 2000/31 diversa da quella suggerita nelle presenti conclusioni.

234. Sottolineo anzitutto che tale interpretazione non ha come conseguenza di lasciare i titolari di diritti privi di tutela di fronte all’illecita messa in rete delle loro opere su piattaforme quali YouTube e Uploaded.

235. In particolare, i titolari di diritti hanno, anzitutto, la possibilità di agire in giudizio contro gli utenti che abbiano realizzato tali messe in rete illecite. A tal fine, la direttiva 2004/48 riconosce in particolare a tali titolari il diritto di ottenere da gestori quali YouTube e Cyando talune informazioni utili, tra cui i nomi e gli indirizzi di tali utenti (216). Inoltre, detti titolari possono notificare a tali gestori la presenza, sulle loro piattaforme, di file contenenti le loro opere, messi in rete in modo illecito. Conformemente all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, detti gestori sono tenuti a reagire immediatamente a tale notifica, rimuovendo i file di cui trattasi o disabilitandone l’accesso. In caso contrario, gli stessi gestori perdono il beneficio dell’esonero da responsabilità previsto da tale disposizione e possono essere eventualmente responsabili conformemente al diritto nazionale applicabile. Inoltre, nell’ipotesi in cui un gestore agevolasse deliberatamente la realizzazione di atti illeciti da parte degli utenti della sua piattaforma, l’applicazione di tale disposizione sarebbe, a mio avviso, esclusa a priori. Infine, i titolari di diritti possono in ogni caso ottenere, in base all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29, ingiunzioni nei confronti dei gestori di piattaforme, con le quali possono essere loro imposti obblighi supplementari allo scopo di porre fine a violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti delle loro piattaforme e di prevenire siffatte violazioni.

236. I titolari di diritti non incontrano quindi, per far valere i loro diritti e contrastare l’illecita messa in rete di file contenenti le loro opere tramite piattaforme quali YouTube e Uploaded, le difficoltà che sperimentano riguardo alla condivisione di file su una rete peertopeer, agevolata da una piattaforma come «The Pirate Bay». Infatti, in quest’ultima ipotesi, tenuto conto dell’organizzazione decentralizzata propria di una rete siffatta (217), le misure previste al paragrafo precedente perdono la loro efficacia. Per contro, nel caso di specie, i file sono memorizzati, in modo centralizzato, sui server di YouTube e di Cyando, e queste ultime hanno quindi la capacità di eliminarli, come previsto dal legislatore dell’Unione all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 (218). Un’interpretazione della nozione di «comunicazione al pubblico» come quella accolta dalla Corte nella sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay») sarebbe quindi tanto meno giustificata nelle presenti cause.

237. I titolari di diritti replicano che i diritti esclusivi di cui dispongono sulle loro opere non sono rispettati in quanto le misure in questione sono essenzialmente reattive più che proattive – poiché non impediscono ex ante qualsiasi messa in rete di un contenuto illecito, ma consentono soprattutto la rimozione e, in taluni casi, il blocco di tale contenuto a posteriori – e richiedono la loro collaborazione. A loro avviso, un livello elevato di protezione dei loro diritti sarebbe garantito unicamente se i gestori di piattaforme prevedessero un sistema che non necessiti di siffatta collaborazione, e che consenta di verificare la liceità di tutti i contenuti prima della loro messa in rete.

238. A tale riguardo, ricordo che, in generale, la Corte non segue, nella sua giurisprudenza, una logica semplicistica intesa a far sì che i diritti esclusivi previsti agli articoli da 2 a 4 della direttiva 2001/29 siano necessariamente interpretati in senso ampio (e illimitato), né interpreta le eccezioni e le limitazioni previste all’articolo 5 di tale direttiva, in ogni caso, in senso restrittivo. A mio avviso, quando precisa sia l’ambito di tali diritti (219) sia la portata di dette eccezioni e limitazioni (220), la Corte mira a pervenire a un’interpretazione ragionevole, che garantisca la finalità perseguita da tali diverse disposizioni e preservi il «giusto equilibrio» che il legislatore dell’Unione intendeva attuare, in detta direttiva, tra diversi diritti fondamentali e interessi contrapposti. Pertanto, l’articolo 3, paragrafo 1, della medesima direttiva non deve essere necessariamente interpretato in modo da garantire una tutela massima ai titolari di diritti (221).

239. Analogamente, sebbene il diritto d’autore sia tutelato quale diritto fondamentale, in particolare, all’articolo 17, paragrafo 2, della Carta, tale diritto non è assoluto, e deve essere generalmente bilanciato con altri diritti fondamentali e interessi.

240. Siffatto bilanciamento è necessario nel caso di specie. Da un lato, i gestori di piattaforme possono far valere la libertà d’impresa garantita dall’articolo 16 della Carta, che li protegge, in linea di principio, da obblighi tali da incidere in modo significativo sulla loro attività.

241. D’altro lato, non possono essere ignorati i diritti fondamentali degli utenti di tali piattaforme. Ciò vale per la libertà di espressione e d’informazione, garantita all’articolo 11 della Carta (222), che, lo ricordo, comprende la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee. Sia dalla giurisprudenza della Corte sia da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo risulta che Internet riveste un’importanza particolare al riguardo (223). Più specificamente, quest’ultimo giudice ha rilevato che YouTube costituisce uno strumento importante per l’esercizio di tale libertà (224). Ciò vale anche per la libertà delle arti, garantita all’articolo 13 della Carta e strettamente collegata alla libertà di espressione, tenuto conto delle numerose persone che utilizzano le piattaforme come YouTube per condividere le loro creazioni online.

242. Orbene, esigere che i gestori di piattaforme controllino, in via generale e astratta, tutti i file che i loro utenti intendono pubblicare prima della loro messa in rete alla ricerca di qualsiasi violazione del diritto d’autore comporterebbe un rischio significativo di ostacolo a questi diversi diritti fondamentali. Infatti, tenuto conto del numero potenzialmente ingente di contenuti ospitati, da un lato, sarebbe impossibile procedere manualmente a siffatto controllo preventivo e, dall’altro, il rischio in materia di responsabilità sarebbe smisurato per tali gestori. In pratica, i più piccoli tra questi rischierebbero di non sopravvivere a tale responsabilità, e quelli che dispongono di risorse sufficienti sarebbero costretti a procedere ad un filtraggio generalizzato dei contenuti dei loro utenti, senza controllo giudiziario, con conseguente rischio di «rimozione eccessiva» di tali contenuti.

243. A tale riguardo, ricordo che, nella sentenza SABAM (225), la Corte ha dichiarato che imporre al gestore di una piattaforma un obbligo generale di filtraggio delle informazioni che esso memorizza non solo non sarebbe compatibile con l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, ma non garantirebbe neppure un «giusto equilibrio» tra la tutela del diritto di proprietà intellettuale, di cui godono i titolari di diritti, e la tutela della libertà d’impresa di cui beneficiano i prestatori di servizi in forza dell’articolo 16 della Carta. Infatti, tale ingiunzione comporterebbe una grave violazione di detta libertà, in quanto obbligherebbe il suddetto gestore a predisporre un sistema informatico complesso, costoso, permanente e unicamente a sue spese (226). Inoltre, tale obbligo di filtraggio generalizzato violerebbe la libertà di espressione degli utenti di tale piattaforma, ai sensi dell’articolo 11 della Carta, poiché lo strumento del filtraggio rischierebbe di non distinguere adeguatamente tra un contenuto illecito ed un contenuto lecito, sicché il suo impiego potrebbe produrre l’effetto di bloccare quest’ultima categoria di contenuti (227). Aggiungerò che siffatto risultato comporterebbe un rischio di ostacolo alla creazione online, contrario all’articolo 13 della Carta. Il pericolo, al riguardo, è che si garantisca una tutela massima di talune creazioni intellettuali a scapito di altre forme di creazione tutte altrettanto socialmente auspicabili (228).

244. In definitiva, mi sembra che il bilanciamento da effettuare sia assai più delicato di quanto affermato dai titolari di diritti (229).

245. In tale contesto, le direttive 2000/31 e 2001/29 riflettono un equilibrio tra questi diversi diritti e interessi, auspicato dal legislatore dell’Unione al momento della loro adozione. Con la direttiva 2000/31, il legislatore dell’Unione intendeva favorire lo sviluppo dei prestatori intermediari, al fine di stimolare più in generale la crescita del commercio elettronico e dei «servizi della società dell’informazione» nel mercato interno. Si trattava quindi di non imporre a detti prestatori una responsabilità tale da mettere in pericolo la redditività della loro attività. Gli interessi dei titolari di diritti dovevano essere salvaguardati e bilanciati con la libertà di espressione degli utenti di detti servizi essenzialmente nelle procedure di «notifica e rimozione» (230). Il legislatore dell’Unione ha mantenuto tale equilibrio, nella direttiva 2001/29, considerando che gli interessi dei titolari di diritti sarebbero stati adeguatamente salvaguardati dalla possibilità di ottenere ingiunzioni nei confronti di tali prestatori intermediari (231).

246. Le circostanze sono indubbiamente cambiate dopo l’adozione di tali direttive. I prestatori intermediari non hanno più le stesse caratteristiche, e tale equilibrio non può essere più giustificato. In ogni caso, anche se questi mutamenti di circostanze possono, in una certa misura, essere presi in considerazione dalla Corte quando applica il margine di interpretazione attribuitole dai testi di diritto dell’Unione, spetta soprattutto al legislatore dell’Unione valutarli e, se del caso, far evolvere tali testi, sostituendo un nuovo equilibrio a quello che aveva inizialmente attuato.

247. Orbene, ricordo che il legislatore dell’Unione ha, per l’appunto, appena rivalutato per il futuro l’equilibrio dei diritti e degli interessi in materia di diritto d’autore. Infatti, nel corso dei presenti procedimenti pregiudiziali, è entrata in vigore la direttiva 2019/790 (232). L’articolo 17, paragrafo 1, di tale direttiva obbliga ormai gli Stati membri a disporre che «il prestatore di servizi di condivisione di contenuti online (233) effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico ai fini della presente direttiva quando concede l’accesso al pubblico a opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti». Di conseguenza, come precisa il paragrafo 2 di tale articolo, siffatto «prestatore» deve ottenere esso stesso un’autorizzazione dai titolari di diritti, ad esempio stipulando un accordo di licenza, per le opere messe in rete dai suoi utenti. Inoltre, il paragrafo 3 di detto articolo precisa che, quando siffatto «prestatore» effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico, alle condizioni stabilite da tale direttiva, non si applica l’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31.

248. L’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2019/790 dispone inoltre che, in caso di mancato ottenimento di una simile autorizzazione, i «prestatori di servizi di condivisione di contenuti online» sono responsabili degli atti illeciti di comunicazione al pubblico realizzati tramite la loro piattaforma. Tale disposizione prevede tuttavia che detti «prestatori» non siano responsabili qualora dimostrino di a) aver compiuto i «massimi sforzi» per ottenere un’autorizzazione, b) aver compiuto, «secondo elevati standard di diligenza professionale di settore», i «massimi sforzi» per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari di diritti, e in ogni caso c) aver «agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari di diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web opere o altri materiali oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne la messa in rete in futuro conformemente alla lettera b)» (234). I paragrafi 5 e 6 del medesimo articolo prevedono che l’intensità degli obblighi di mezzi, basati quindi su detti «prestatori», vari in funzione di diversi parametri, tra cui «la tipologia, il pubblico e la dimensione del servizio», e i «piccoli» prestatori beneficiano inoltre di obblighi meno gravosi (235).

249. Occorre esaminare un ultimo punto. Il sig. Peterson e il governo francese hanno sostenuto, in udienza, che, come precisato al considerando 64 della direttiva 2019/790 (236), il legislatore dell’Unione, adottando l’articolo 17 di tale direttiva, intendeva semplicemente «chiarire» il modo in cui la nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, avrebbe dovuto essere sempre intesa e applicata nei confronti di gestori di piattaforme come YouTube. Deduco dal loro argomento che detto articolo 17 si limiterebbe altresì a «chiarire» il fatto che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 non sarebbe mai stato applicabile a tali gestori. L’articolo 17 della direttiva 2019/790 costituirebbe quindi una sorta di «legge interpretativa», che si limita a precisare il significato che le direttive 2000/31 e 2001/29 avrebbero sempre dovuto avere. Le soluzioni che emergono da tale nuovo articolo 17 dovrebbero quindi applicarsi, anche prima della scadenza del termine di recepimento della direttiva 2019/790, fissato al 7 giugno 2021 (237), con effetto retroattivo, anche nei procedimenti principali.

250. Non posso accogliere tale argomento. Sarebbe, a mio avviso, contrario al principio della certezza del diritto dedurre siffatta applicazione retroattiva dal semplice uso di un termine ambiguo in un considerando privo di valore giuridico vincolante (238).

251. Del resto, osservo che, a parte il considerando 64, nessuna disposizione della direttiva 2019/790 tende a indicare che il legislatore dell’Unione intendesse fornire un’interpretazione retroattiva dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 e dell’articolo 14 della direttiva 2000/31, sebbene esso abbia peraltro avuto cura di precisare l’applicazione nel tempo della direttiva 2019/790 alle opere e ai materiali protetti (239) e di prevedere una disposizione transitoria per l’applicazione di un altro dei suoi articoli (240). Del resto, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 precisa, ai paragrafi 1 e 3, che la nozione di «comunicazione al pubblico» da esso fornita vale «ai fini della presente direttiva» e «alle condizioni stabilite dalla presente direttiva». La responsabilità diretta dei «prestatori» ivi prospettata per gli atti di comunicazione commessi dagli utenti delle loro piattaforme, prevista da detto articolo 17, non è la semplice conseguenza del modo in cui l’articolo 3 della direttiva 2001/29 avrebbe dovuto essere sempre inteso, ma «deriva» dallo stesso articolo 17 (241). Pertanto, anche supponendo che il legislatore dell’Unione possa, dopo quasi 20 anni dall’adozione di una direttiva, darne l’interpretazione autentica, ritengo che tale questione non si ponga nel caso di specie.

252. Come sostenuto dalla Commissione in udienza, il legislatore dell’Unione non ha «chiarito» il diritto, quale avrebbe dovuto essere sempre inteso. Esso ha creato un nuovo regime di responsabilità per taluni intermediari online nel settore del diritto d’autore. L’idea era di «adeguare e completare» l’attuale quadro dell’Unione in materia (242). Come sottolineato da tale istituzione, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 riflette una scelta politica del legislatore dell’Unione a favore delle industrie creative (243).

253. Tale articolo 17 è altresì in linea con una serie di consultazioni pubbliche (244), comunicazioni della Commissione (245) e nuove normative settoriali (246) che, nell’ottica di «adeguare» e di «modernizzare» il diritto dell’Unione in base alle nuove circostanze sopra menzionate, tendono ad esigere un coinvolgimento più proattivo degli intermediari al fine di evitare la proliferazione dei contenuti illeciti online (247).

254. Del resto, occorre tenere presenti le conseguenze che deriverebbero dall’applicazione retroattiva suggerita dal sig. Peterson e dal governo francese. A causa del «chiarimento» fornito dall’articolo 17, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2019/790, i gestori di piattaforme sarebbero generalmente responsabili di tutti gli atti di comunicazione al pubblico realizzati dai loro utenti e non potrebbero beneficiare dell’esonero di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. Per contro, i paragrafi 4 e seguenti di tale articolo 17, che prevedono in particolare, come ho precisato, un regime di esonero per tali gestori, non si applicherebbero, a loro volta, retroattivamente. Orbene, prevedendo questi ultimi paragrafi, il legislatore dell’Unione mirava, a mio avviso, ad assicurare un equilibrio tra i diversi diritti e interessi in gioco (248).

255. Pertanto, procedere a un’applicazione retroattiva dell’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2019/790 nelle cause come quelle oggetto dei procedimenti principali non solo non rispetterebbe l’equilibrio auspicato dal legislatore dell’Unione al momento dell’adozione delle direttive 2000/31 e 2001/29, ma non rispetterebbe neppure quello auspicato dallo stesso legislatore al momento dell’adozione della direttiva 2019/790. In realtà, tale soluzione non rifletterebbe, a mio avviso, alcun equilibrio.

 Conclusione

256. Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, propongo alla Corte di rispondere come segue alle questioni sollevate dal Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia, Germania) nelle cause C‑682/18 e C‑683/18:

1)      L’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2001, sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione, deve essere interpretato nel senso che il gestore di una piattaforma di condivisione di video e il gestore di una piattaforma di hosting e di condivisione di file non realizzano un atto di «comunicazione al pubblico», ai sensi di tale disposizione, quando un utente delle loro piattaforme vi mette in rete un’opera protetta.

2)      L’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’8 giugno 2000, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («direttiva sul commercio elettronico»), deve essere interpretato nel senso che il gestore di una piattaforma di condivisione di video e il gestore di una piattaforma di hosting e di condivisione di file possono, in linea di principio, beneficiare dell’esonero previsto in tale disposizione per qualsiasi responsabilità che possa derivare da file che essi memorizzano su richiesta degli utenti delle loro piattaforme.

3)      L’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31 deve essere interpretato nel senso che le ipotesi previste da tale disposizione, ossia quella in cui un prestatore di servizi sia «effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita» e quella in cui tale prestatore sia «al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione», si riferiscono, in linea di principio, a informazioni illecite concrete.

4)      L’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 deve essere interpretato nel senso che osta a che i titolari di diritti possano chiedere un provvedimento inibitorio nei confronti di un prestatore il cui servizio, consistente nel memorizzare informazioni fornite da un utente, sia utilizzato da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi, solo nel caso in cui, a seguito della segnalazione di una chiara violazione, si si sia verificata nuovamente un’analoga violazione.


1      Lingua originale: il francese.


2      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 (GU 2000, L 178, pag. 1, e rettifica in GU 2002, L 285, pag. 27).


3      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 maggio 2001 (GU 2001, L 167, pag. 1).


4      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 (GU 2004, L 157, pag. 45, e rettifica in GU 2004, L 195, pag. 16).


5      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 17 aprile 2019 (GU 2019, L 130, pag. 92).


6      Si tratta della cifra accertata dal giudice d’appello nel procedimento principale. Google menziona, dal canto suo, la cifra di 400 ore di video al minuto.


7      Più precisamente, il sig. Peterson fa valere diritti propri in quanto produttore dell’album A Winter Symphony nonché diritti propri e diritti derivanti da quelli dell’artista riguardo all’esecuzione dei titoli di tale album realizzati con la sua partecipazione artistica quale produttore e corista. Egli fa inoltre valere, riguardo alle registrazioni dei concerti del «Symphony Tour», che sarebbe compositore e autore dei testi di diversi titoli di detto album. Inoltre, in quanto editore, vanterebbe diritti derivati da quelli degli autori riguardo a parecchi di tali titoli.


8      Anche se il sig. Peterson aveva inoltre citato in giudizio la YouTube Inc. e Google Germany, il giudice del rinvio ha precisato che tali società non sono più parti del procedimento principale.


9      La misura esatta è oggetto di discussione tra le parti nel procedimento principale e non è stata accertata dai giudici nazionali.


10      V., per maggiori dettagli, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici (OCSE), «Participative Web: User‑Created Content», Working Party on the Information Economy, DSTI/ICCP/IE(2006)7/Final, 12 aprile 2007.


11      Come sottolineato dal governo tedesco, YouTube raccoglie un numero considerevole di dati personali sugli internauti che visitano la sua piattaforma, sul modo in cui la utilizzano, sulle loro preferenze in termini di contenuti, ecc., in particolare al fine di indirizzare le pubblicità diffuse su tale piattaforma a seconda dell’utente. I dubbi sollevati da tale raccolta generalizzata di dati e il trattamento loro riservato vanno tuttavia oltre l’oggetto delle presenti conclusioni.


12      V., per maggiori dettagli, Fontaine, G., Grece, C., Jimenez Pumares, M., «Online video sharing: Offerings, audiences, economic aspects», European Audiovisual Observatory, Strasburgo, 2018.


13      V., per analogia, sentenza del 13 maggio 2014, Google Spain e Google (C‑131/12, EU:C:2014:317, punto 80 e giurisprudenza ivi citata).


14      V., per maggiori dettagli, Federazione internazionale dell’industria fonografica «Rewarding creativity: Fixing the value gap», Global music report 2017, e Bensamoun, A., «Le value gap ou le partage de la valeur dans la proposition de directive sur le droit d’auteur dans le marché unique numérique», Entertainment, Bruylant, n. 2018‑4, pagg. da 278 a 287.


15      V. considerando 4, 9 e 10 della direttiva 2001/29.


16      Utilizzerò l’espressione «comunicazione al pubblico» per designare, in generale, gli atti di comunicazione al pubblico in senso stretto e gli atti di messa a disposizione del pubblico. Mi riferirò più precisamente all’una o all’altra di tali categorie quando sarà necessario. Inoltre, l’articolo 3 della direttiva 2001/29 riconosce, al paragrafo 2, lettere a) e b), un diritto di messa a disposizione del pubblico – ma non il diritto di comunicazione al pubblico in senso stretto – in quanto diritto connesso al diritto d’autore, rispettivamente, agli artisti interpreti o esecutori, per quanto riguarda le fissazioni delle loro prestazioni artistiche, e ai produttori di fonogrammi, per quanto riguarda le loro riproduzioni fonografiche. Tale disposizione assume rilevanza anche nella causa C‑682/18, in quanto il sig. Peterson dispone, per quanto riguarda taluni fonogrammi messi in rete senza la sua autorizzazione, di diritti connessi in quanto artista interprete o esecutore e/o produttore (v. nota 7 delle presenti conclusioni). Ciò premesso, poiché i procedimenti principali riguardano, come spiegherò in seguito, atti di «messa a disposizione del pubblico» e tale nozione ha lo stesso significato al paragrafo 1 e al paragrafo 2 di tale articolo 3, mi limiterò, per comodità, a menzionare il diritto d’autore di cui al primo paragrafo, ma la mia analisi è comunque trasponibile ai diritti connessi di cui al secondo paragrafo.


17      O, più in generale, del titolare del diritto d’autore sull’opera in questione, che non è necessariamente l’autore. Utilizzo le nozioni di «autore» e di «titolare di diritti» in modo intercambiabile nelle presenti conclusioni.


18      V., in particolare, sentenza del 14 novembre 2019, Spedidam (C‑484/18, EU:C:2019:970, punto 38 e giurisprudenza ivi citata).


19      V. considerando 50 della direttiva 2000/31 e considerando 16 della direttiva 2001/29.


20      Si tratta in particolare di evitare, per quanto possibile, una situazione in cui un prestatore di servizi sia responsabile, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, pur essendo esonerato da tale responsabilità ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31. V., per maggiori dettagli, paragrafi da 137 a 139 delle presenti conclusioni.


21      Non affronterò, nelle presenti conclusioni, la questione delle copie generate dalla messa in rete di un’opera su piattaforme quali YouTube o Uploaded e dalla sua consultazione o dal suo download da parte del pubblico. Infatti, tale questione rientra nell’interpretazione del diritto di riproduzione di cui all’articolo 2 della direttiva 2001/29 nonché delle eccezioni e limitazioni a tale diritto di cui all’articolo 5 di tale direttiva, sulla quale la Corte non viene interpellata. Del resto, ad eccezione di Cyando, che ha fatto valere l’eccezione per copia privata prevista all’ articolo 5, paragrafo 2, lettera b), di detta direttiva, tale problematica non è stata discussa dinanzi alla Corte.


22      V., in particolare, sentenza del 7 agosto 2018, Renckhoff (C‑161/17, EU:C:2018:634, punto 17 e giurisprudenza ivi citata).


23      V., in particolare, sentenza del 2 aprile 2020, Stim e SAMI (C‑753/18, EU:C:2020:268, punto 29 e giurisprudenza ivi citata). In particolare, l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 deve essere interpretato alla luce dell’articolo 8 del Trattato dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (OMPI) sul diritto d’autore, firmato il 20 dicembre 1996 a Ginevra e approvato a nome dell’Unione europea con la decisione 2000/278/CE del Consiglio, del 16 marzo 2000 (GU 2000, L 89, pag. 6) (in prosieguo: il «TDA»), che la prima disposizione mira ad attuare (v. considerando 15 della direttiva 2001/29).


24      V., in particolare, sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punto 61, nonché giurisprudenza ivi citata).


25      V., in particolare, sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punti 49 e 62, nonché giurisprudenza ivi citata).


26      Più precisamente, si tratta di dare ai destinatari la possibilità di percepire, in ogni modo appropriato (auditivamente per un fonogramma, ecc.), la totalità o una parte degli elementi che compongono l’opera e che sono espressione della creazione intellettuale propria del suo autore. V., per analogia, sentenza del 16 luglio 2009, Infopaq International (C‑5/08, EU:C:2009:465, punto 47).


27      Le forme «tradizionali» di comunicazione al pubblico costituite dalle rappresentazioni ed esecuzioni dirette, ad esempio gli spettacoli dal vivo realizzati dinanzi a un pubblico che si trova in contatto fisico con l’esecutore delle opere, non rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. V., in particolare, sentenza del 24 novembre 2011, Circul Globus Bucureşti (C‑283/10, EU:C:2011:772, punti da 35 a 41).


28      V. sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punti da 41 a 44 e 63).


29      V., in particolare, sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punto 66 e giurisprudenza ivi citata).


30      Il fatto che la consultazione di un’opera da una piattaforma come YouTube avvenga in streaming e che, pertanto, non ne derivi una copia permanente per il membro del pubblico interessato è irrilevante ai fini dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 (v., in particolare, Walter, M.M., e von Lewinski, S., European Copyright Law – A Commentary, Oxford University Press, 2010 pag. 983). Inoltre, il fatto che un’opera sia scaricabile da Uploaded e che i membri del pubblico possano così, al contrario, ottenere una copia di tal genere non esclude l’applicazione di tale disposizione a vantaggio del diritto di distribuzione previsto all’articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva [v. sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punti da 40 a 45 e 51)].


31      Per contro, non vi è «messa a disposizione del pubblico» quando un utente mette in rete un’opera su YouTube, la lascia in modalità «privato» e, eventualmente, la condivide unicamente con la sua famiglia o i suoi amici. Lo stesso vale nel caso in cui un utente di Uploaded vi metta in rete un’opera e non condivida il suo download link, o lo condivida unicamente con tali persone. Infatti, si tratta non già di un «pubblico», bensì di un gruppo privato (v. paragrafo 58 delle presenti conclusioni).


32      V., in particolare, sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punti 44, 67 e 68, nonché giurisprudenza ivi citata).


33      V., per analogia, sentenza del 7 agosto 2018, Renckhoff (C‑161/17, EU:C:2018:634, punto 45). È ovvio che, in un caso come nell’altro, il «pubblico» non è presente nel luogo di origine della comunicazione. Inoltre, è irrilevante il fatto che tale «pubblico» consulti o scarichi effettivamente l’opera. Infatti, l’atto determinante è quello consistente nel mettere l’opera a disposizione del pubblico e quindi nell’offrirla su un sito accessibile al pubblico [v., in particolare, sentenza del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punti 63 e 64)].


34      V. paragrafi 46 e 47 delle presenti conclusioni.


35      Sentenza dell’8 settembre 2016 (C‑160/15; in prosieguo: la «sentenza GS Media», EU:C:2016:644).


36      Sentenza del 26 aprile 2017 [C‑527/15; in prosieguo: la «sentenza Stichting Brein I (“Filmspeler”)», EU:C:2017:300].


37      Sentenza del 14 giugno 2017 [C‑610/15; in prosieguo: la «sentenza Stichting Brein II (“The Pirate Bay”)», EU:C:2017:456].


38      Tale considerando riprende la dichiarazione comune relativa all’articolo 8 del TDA adottata dalla conferenza diplomatica il 20 dicembre 1996.


39      Può trattarsi di una o più persone. Utilizzo il singolare per comodità.


40      L’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 segue tale logica quando fa riferimento alla possibilità per i titolari dei diritti di ottenere un provvedimento inibitorio nei confronti degli «intermediari i cui servizi siano utilizzati da terzi per violare un diritto d’autore o diritti connessi». V., altresì, considerando 59 di tale direttiva.


41      Sentenza del 7 dicembre 2006 (C‑306/05, EU:C:2006:764).


42      La Corte, più precisamente, ha rilevato che l’albergatore interveniva «con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento» [v. sentenza del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764, punto 42)]. Tale espressione è, a mio avviso, sinonimo di intervento volontario (v. paragrafo 100 delle presenti conclusioni).


43      Infatti, secondo la Corte, si presuppone che gli autori, quando autorizzano la radiodiffusione delle loro opere, prendano in considerazione solo i detentori di apparecchi televisivi che captano la trasmissione individualmente o nella loro sfera privata o familiare. V. sentenza del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764, punto 41).


44      V. sentenza del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764, punti da 36 a 44). La Corte ha seguito lo stesso ragionamento in contesti simili. V., in particolare, sentenze del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a. (C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punti da 183 a 207), del 27 febbraio 2014, OSA (C‑351/12, EU:C:2014:110, punti da 22 a 36), e del 31 maggio 2016, Reha Training (C‑117/15, EU:C:2016:379, punti da 35 a 65).


45      V., in particolare, sentenza del 31 maggio 2016, Reha Training (C‑117/15, EU:C:2016:379, punto 46). In talune sentenze tale ragionamento si traduce in due criteri: il «ruolo imprescindibile» svolto dalla persona che realizza l’atto di comunicazione e il «carattere intenzionale del suo intervento» [v., in particolare, sentenza Stichting Brein II (“The Pirate Bay”), punto 26)]. Come spiegherò in seguito, in realtà, tali criteri sono indissolubilmente connessi (v. nota 88 delle presenti conclusioni).


46      V. note che accompagnano la proposta del TDA, n. 10.10, in cui si spiega che, in materia di «messa a disposizione», l’atto determinante è l’atto iniziale di messa a disposizione, non la fornitura di spazi di memorizzazione o di un servizio di comunicazione elettronica. V., altresì, Koo, J., The Right of Communication to the Public in EU Copyright Law, Hart Publishing, Oxford, 2019, pagg. da 161 a 162.


47      Ad esempio, in materia di radiodiffusione, la «comunicazione al pubblico» viene realizzata dall’organismo di radiodiffusione che decide riguardo alle opere trasmesse e che avvia attivamente la loro «comunicazione», introducendo queste ultime nel processo tecnico che consente la loro trasmissione al «pubblico» [v., in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stim e SAMI (C‑753/18, EU:C:2020:4, paragrafo 23) e articolo 1, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 93/83/CEE del Consiglio, del 27 settembre 1993, per il coordinamento di alcune norme in materia di diritto d’autore e diritti connessi applicabili alla radiodiffusione via satellite e alla ritrasmissione via cavo (GU 1993, L 248, pag. 15)]. Per contro, le emittenti, che seguono le istruzioni di tale organismo, effettuano una «mera fornitura di attrezzature fisiche».


48      V., in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stim e SAMI (C‑753/18, EU:C:2020:4, paragrafi da 32 a 37).


49      V., in Germania, la giurisprudenza del Bundesgerichsthof (Corte federale di giustizia), nel settore del diritto dei media, secondo la quale un prestatore adotta l’affermazione di terzi qualora si identifichi con essa e la inserisca nella propria catena di pensiero in modo tale che risulti essere la propria [v. in particolare Bundesgerichsthof (Corte federale di giustizia), 17 dicembre 2013, VI ZR 211/12, § 19]. Tale approccio è stato preso in considerazione in materia di proprietà intellettuale [v. Bundesgerichsthof (Corte federale di giustizia), 30 aprile 2008, I ZR 73/05].


50      V., per analogia, nel Regno Unito, articolo 6, paragrafo 3, del Copyright, Designs and Patents Act (legge sul diritto d’autore, sui disegni e modelli e sui brevetti, del 1988), in cui si precisa, in materia di radiodiffusione, che la persona o le persone che realizzano l’atto di «comunicazione al pubblico» sono «(a) (...) the person transmitting the programme, if he has responsibility to any extent for its contents, e (b) (...), any person providing the programme who makes with the person transmitting it the arrangements necessary for its transmission».


51      V. sentenza del 7 marzo 2013, ITV Broadcasting e a. (C‑607/11, EU:C:2013:147). In tale sentenza la Corte ha dichiarato che il fatto che un organismo capti una trasmissione radiodiffusa e la ritrasmetta contemporaneamente, invariata ed integrale in live streaming su Internet, costituisce un utilizzo successivo di tale trasmissione equivalente ad un atto autonomo di «comunicazione al pubblico», per il motivo che tale ritrasmissione utilizzava uno «specifico mezzo tecnico», che differiva dalla radiodiffusione.


52      Come illustrerò nella mia analisi delle seconde questioni pregiudiziali, la Corte interpreta gli articoli da 12 a 14 della direttiva 2000/31 nel senso che un prestatore intermediario non può avvalersi delle esenzioni dalla responsabilità ivi previste qualora svolga un «un ruolo attivo atto a conferirgli una conoscenza o un controllo» delle informazioni fornite dagli utenti del suo servizio [v. sentenze del 23 marzo 2010 (da C‑236/08 a C‑238/08; in prosieguo: la «sentenza Google France», EU:C:2010:159, punti da 112 a 114), e del 12 luglio 2011 (C‑324/09; in prosieguo: la «sentenza L’Oréal/eBay», EU:C:2011:474, punto 113)]. L’approccio da me suggerito per la distinzione tra «atto di comunicazione» e «mera fornitura di attrezzature fisiche» è simile a tale ragionamento e consente di interpretare l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 e l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 in modo coerente. V., nello stesso senso, Husovec, M., Injunctions Against Intermediaries in the European Union – Accountable But Not Liable?, Cambridge University Press, Cambridge, 2017, pagg. da 55 a 57.


53      Ad esempio, nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764), l’albergatore non si limitava a intervenire passivamente in una trasmissione decisa dall’organismo di radiodiffusione. Egli aveva deciso, di propria iniziativa, di fare un uso successivo, non previsto da tale organismo, della trasmissione radiodiffusa, ritrasmettendola ai suoi clienti. Analogamente, come dichiarato dalla Corte nella sentenza del 13 ottobre 2011, Airfield e Canal Digitaal (C‑431/09 e C‑432/09, EU:C:2011:648, punti da 74 a 82), un fornitore di pacchetto satellitare che raggruppa diverse trasmissioni provenienti da diversi organismi di radiodiffusione a favore dei suoi clienti non si limita a una «fornitura di attrezzature fisiche», poiché è coinvolto attivamente per offrire, a un pubblico da esso stesso definito, un catalogo di canali televisivi da esso selezionati. Inoltre, come dichiarato dalla Corte nella sentenza del 29 novembre 2017, VCAST (C‑265/16, EU:C:2017:913, punti da 37 a 51), non si limita a tale «fornitura» neppure il prestatore che capta trasmissioni radiodiffuse e consente agli utenti del suo servizio di registrare «su cloud» le trasmissioni che essi desiderano. Infatti, tale prestatore interviene attivamente nella «comunicazione» poiché, in particolare, seleziona i canali rientranti nel suo servizio.


54      Analogamente, il fatto che gestori quali YouTube e Cyando ospitino, sui loro server, le opere protette e le trasmettano quando ricevono una richiesta in tal senso da un membro del pubblico non è determinante.


55      YouTube dispone altresì di un canale sul quale diffonde contenuti «propri». Orbene, tale gestore effettua la «comunicazione al pubblico» di tali contenuti quando li ha prodotti e/o selezionati.


56      V. conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa VCAST (C‑265/16, EU:C:2017:649, paragrafo 27).


57      V. paragrafi 16 e 30 delle presenti conclusioni.


58      Il controllo che tali gestori esercitano a posteriori, in particolare per reagire immediatamente alle notifiche che ricevono dai titolari dei diritti, non può essere considerato, a fortiori, come una selezione di tal genere.


59      YouTube realizza siffatto controllo tramite Content ID (v. paragrafo 22 delle presenti conclusioni). Sottolineo che, a mio avviso, il fatto che un controllo preliminare sia effettuato in modo automatizzato non costituisce l’elemento decisivo. Infatti, in assoluto, è possibile immaginare un processo di selezione di contenuto effettuato da un software che determina, in modo algoritmico, i contenuti che meglio corrispondono a ciò che il gestore intende avere sulla sua piattaforma. Ciò non avviene, tuttavia, nel caso di un mero controllo di liceità.


60      Tengo a sottolineare che i criteri del «pubblico nuovo» e dello «specifico mezzo tecnico» sono pertinenti solo per quanto riguarda gli usi successivi di una comunicazione iniziale. Tali criteri consentono di individuare, tra tali usi successivi, quelli che devono essere considerati «comunicazioni secondarie» (o «ritrasmissioni») che necessitano di un’autorizzazione specifica (ad esempio, la ritrasmissione via cavo di una trasmissione radiodiffusa). Tali ipotesi non possono essere confuse con quella in cui un’opera, che è stata oggetto di una comunicazione al pubblico in passato, dia luogo ad una nuova comunicazione al pubblico, indipendente dalla precedente. A tale riguardo, conformemente all’articolo 3, paragrafi 1 e 3, della direttiva 2001/29, ciascuna di tali comunicazioni al pubblico deve essere autorizzata, quand’anche entrambe riguardino lo stesso pubblico o utilizzino lo stesso mezzo tecnico. Di conseguenza, non rileva sapere se opere messe in rete su YouTube o su Uploaded siano legalmente disponibili su un altro sito Internet. Queste due messe in rete sono indipendenti e devono dar luogo ciascuna ad un’autorizzazione. V., in tal senso, sentenza del 7 agosto 2018, Renckhoff (C‑161/17, EU:C:2018: 634).


61      Tale questione non si pone nel caso di una piattaforma come Uploaded, che non dispone di funzioni di ricerca né di un indice dei file ospitati. In tale contesto, non mi convince l’argomento dedotto dalla Elsevier e dal governo tedesco secondo cui la mancanza di tali funzioni non sarebbe determinante per il fatto che siti terzi, facenti funzione di raccolte di link, consentono al pubblico di rinvenire, tra il contenuto così ospitato, le opere che essi intendono scaricare. Oltre al fatto che, in ogni caso, dette funzioni non sono, a mio avviso, pertinenti al fine di accertare se un prestatore di servizi realizzi una «comunicazione al pubblico», mi sembra che occorra, al riguardo, riferirsi agli atti di tale prestatore, e non a quelli dei terzi con cui esso non intrattiene alcun rapporto.


62      Al contrario, agevolare l’incontro tra i terzi che intendono comunicare contenuti e il pubblico è proprio di un intermediario. V. OCSE, The Economic and Social Role of Internet Intermediaries, aprile 2010, pag. 15.


63      Inoltre, contrariamente a quanto sostiene la Elsevier, il fatto che un gestore come YouTube converta in più formati i video messi in rete al fine di adattarli a diversi lettori e velocità di connessione non è, a mio avviso, pertinente. Infatti, si tratta di operazioni tecniche dirette a consentire e ad agevolare la trasmissione dei dati e, pertanto, la lettura di tali video da parte dei membri del pubblico sui loro browser (o sull’applicazione dedicata). Siffatte operazioni tecniche non possono essere assimilate a una modifica del contenuto da parte del prestatore. V., per analogia, sentenza del 13 ottobre 2011, Airfield e Canal Digitaal (C‑431/09 e C‑432/09, EU:C:2011:648, punti 60 e 61).


64      Secondo le mie ricerche, una clausola di tal genere è rinvenibile di frequente nei termini di servizio delle piattaforme online. V., in particolare, quelli di Facebook (versione del 31 luglio 2019, punto 3.3 «Autorizzazioni concesse dall’utente a Facebook» accessibili all’indirizzo https://m.facebook.com/terms?locale=it_IT).


65      È lecito interrogarsi sulla compatibilità di siffatta clausola e della generosa licenza di esercizio che essa prevede con altre disposizioni del diritto di proprietà intellettuale o, per quanto riguarda gli utenti non professionisti, con il diritto dell’Unione in materia di tutela dei consumatori. Tuttavia, tale questione eccede l’oggetto delle presenti conclusioni. Mi limiterò a precisare che, per quanto riguarda gli utenti professionali, le norme in materia sono ormai previste all’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), del regolamento (UE) 2019/1150 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, che promuove equità e trasparenza per gli utenti commerciali dei servizi di intermediazione online (GU 2019, L 186, pag. 57).


66      Mi riferisco in particolare alle raccolte del tipo «YouTube Rewind».


67      La Corte aveva, di volta in volta, in primo luogo, riservato la questione se l’esistenza di una «comunicazione al pubblico «dipenda dal suo carattere lucrativo [v. sentenza del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764, punto 44)]; in secondo luogo, aveva dichiarato, con prudenza, che si tratta di un elemento che «non è privo di pertinenza» [v. sentenza del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a. (C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punti da 204 a 206)]; in terzo luogo, aveva considerato, in modo netto, che il carattere lucrativo è un «criterio» della nozione di «comunicazione al pubblico», e la sua mancanza esclude siffatta «comunicazione» [v., in tal senso, sentenza del 15 marzo 2012, SCF (C‑135/10, EU:C:2012:140, punti da 97 a 99)], prima, in quarto luogo, di affermare che il carattere lucrativo «non è necessariamente una condizione indispensabile» e «non è determinante» a riguardo [sentenza del 7 marzo 2013, ITV Broadcasting e a. (C‑607/11, EU:C:2013:147, punti 42 e 43)].


68      Sentenza del 31 maggio 2016 (C‑117/15, EU:C:2016:379, punti 49 e da 62 a 64).


69      Infatti, l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 è indifferente al fatto che la «comunicazione al pubblico» abbia o meno carattere lucrativo. Come ho già precisato, l’esistenza di tale comunicazione è un fatto oggettivo. Inoltre, poiché tale disposizione riconosce all’autore un diritto esclusivo, qualsiasi «comunicazione al pubblico» di un’opera effettuata da terzi senza la sua autorizzazione lede, in linea di principio, tale diritto – a prescindere dal fatto che tali terzi perseguano o meno uno scopo di lucro. L’articolo 5, paragrafo 3, lettere a), b) e j), di tale direttiva riconosce tuttavia agli Stati membri la facoltà di prevedere eccezioni per talune «comunicazioni» realizzate senza scopo di lucro.


70      Ad esempio, il fatto che una persona diffonda opere a scopo di lucro tende ad indicare che essa lo fa non già per un gruppo privato, bensì per persone in generale, vale a dire un «pubblico». Tale status di semplice indizio spiega, a mio avviso, il fatto che, in più sentenze, la Corte ha qualificato taluni atti come «comunicazioni al pubblico» senza menzionare la questione del carattere lucrativo. V. sentenze del 13 febbraio 2014, Svensson e a. (C‑466/12, EU:C:2014:76), del 27 febbraio 2014, OSA (C‑351/12, EU:C:2014:110), del 29 novembre 2017, VCAST (C‑265/16, EU:C:2017:913), del 7 agosto 2018, Renckhoff (C‑161/17, EU:C:2018:634), nonché del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111).


71      V. conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stim e SAMI (C‑753/18, EU:C:2020:4, paragrafi 43 e 44).


72      Del resto, gli introiti pubblicitari percepiti da una piattaforma come YouTube dipendono dalla popolarità della piattaforma, in tutti i suoi possibili usi. Analogamente, gli abbonamenti come quelli proposti da Cyando offrono diversi vantaggi in materia di download di contenuto, ma anche, a quanto pare, in termini di capacità di memorizzazione. In tale contesto, la linea che separa il «corrispettivo per il servizio» e il «corrispettivo per il contenuto» mi sembra sottile. Viceversa, come dichiarato dalla Corte nella sentenza del 13 ottobre 2011, Airfield e Canal Digitaal (C‑431/09 e C‑432/09, EU:C:2011:648, punto 80), il prezzo dell’abbonamento versato dal pubblico a un fornitore di pacchetti satellitari costituisce (indubbiamente) il corrispettivo dell’accesso alle opere comunicate via satellite.


73      V. sentenza Google France, punti da 50 a 57 e 104.


74      V. sentenza L’Oréal/eBay, punti da 98 a 105. V., inoltre, nello stesso senso, sentenza del 2 aprile 2020, Coty Germany (C‑567/18, EU:C:2020:267, punti da 34 a 48).


75      V. sentenza Google France, punto 25.


76      V. sentenza L’Oréal/eBay, punti 28 e 110.


77      Del resto, per analogia, nella sentenza del 16 febbraio 2012, SABAM (C‑360/10, EU:C:2012:85, in particolare punti 27 e 40), la Corte è partita dalla premessa secondo cui il gestore di una piattaforma di rete sociale si limita a fornire un servizio che consente ai suoi utenti di comunicare opere al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29. Non vedo alcun motivo per cui debba discostarmi da questo approccio nel caso di specie.


78      V., per analogia, sentenza Google France, punto 57, sentenza L’Oréal/eBay, punto 104, nonché sentenza del 2 aprile 2020, Coty Germany (C‑567/18, EU:C:2020:267, punto 49).


79      Sentenza del 13 febbraio 2014 (C‑466/12, EU:C:2014:76).


80      V. sentenza GS Media, punti da 40 a 51.


81      V. sentenza Stichting Brein I («Filmspeler»), punti da 41 a 51.


82      V. sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), punti da 35 a 46.


83      V., in particolare, sentenze del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a. (C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punto 193), del 31 maggio 2016, Reha Training (C‑117/15, EU:C:2016:379, punto 38), nonché del 19 dicembre 2019, Nederlands Uitgeversverbond e Groep Algemene Uitgevers (C‑263/18, EU:C:2019:1111, punti 49 e 62). Nella sentenza del 24 novembre 2011, Circul Globus Bucureşti (C‑283/10, EU:C:2011:772, punto 40), la Corte ha altresì dichiarato che l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 non riguarda atti che non implicano la «trasmissione» o la «ritrasmissione» di un’opera.


84      Preciso che la responsabilità degli utenti di una rete peertopeer ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della 2001/29 è oggetto della causa pendente C‑597/19, M.I.C.M.


85      La questione dei collegamenti ipertestuali eccede l’oggetto delle presenti conclusioni. La Corte avrà occasione di esaminare nuovamente tale questione nella causa pendente C‑392/19, VG Bild‑Kunst.


86      V., in tale ambito, conclusioni dell’avvocato generale Wathelet nella causa GS Media (C‑160/15, EU:C:2016:221, paragrafi da 54 a 61). Del resto, al punto 26 della sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), la Corte ha modificato la definizione iniziale di «ruolo imprescindibile», ormai inteso come il fatto, per una persona, «[di intervenire] con piena cognizione delle conseguenze del suo comportamento, per dare ai suoi clienti accesso a un’opera protetta, in particolare quando, in mancanza di questo intervento, tali clienti non potrebbero, o potrebbero solo con difficoltà, fruire dell’opera diffusa» (il corsivo è mio).


87      V., in particolare, sentenze del 7 dicembre 2006, SGAE (C‑306/05, EU:C:2006:764, punto 42), del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a. (C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punto 194), del 15 marzo 2012, SCF (C‑135/10, EU:C:2012:140, punti 91 e 94), nonché del 27 febbraio 2014, OSA (C‑351/12, EU:C:2014:110, punto 26).


88      La trasmissione fortuita di un’opera a un pubblico – ad esempio, della musica diffusa in un domicilio privato da altoparlanti regolati a un volume elevato che passanti sentirebbero dalla strada – non costituisce quindi una «comunicazione al pubblico». La volontarietà di una comunicazione si deduce da elementi oggettivi relativi alla natura stessa dell’intervento della persona interessata. Ciò spiega perché, a parte le sentenze GS Media, Stichting Brein I («Filmspeler») e Stichting Brein II («The Pirate Bay»), la Corte non ha mai effettuato un esame separato di tale questione e l’ha giustamente presentata come indissolubilmente collegata a quella del «ruolo imprescindibile» della persona di cui trattasi.


89      V., per analogia, conclusioni dell’avvocato generale Campos Sánchez‑Bordona nella causa Stichting Brein (C‑527/15, EU:C:2016:938, paragrafo 71).


90      Inoltre, talune delle misure di cui alla direttiva 2004/48 sono previste solo per gli atti commessi su scala commerciale, ad esclusione degli atti effettuati dai consumatori finali in buona fede. V. considerando 14 nonché articolo 6, paragrafo 2, articolo 8, paragrafo 1, e articolo 9, paragrafo 2, di tale direttiva.


91      In Germania la responsabilità per complicità è prevista all’articolo 830 del Bürgerliches Gesetzbuch (codice civile) (in prosieguo: il «BGB») (v., al riguardo, la mia analisi delle questioni pregiudiziali quinte e seste). Nel Regno Unito il fatto di autorizzare, di procurare i mezzi o di incentivare la contraffazione costituisce un illecito (tort) (v. Arnold, R., e Davies, P.S., «Accessory liability for intellectual property infringement: the case of authorisation», Law Quarterly Review, n. 133, 2017, pagg. da 442 a 468). V., inoltre, per analogia, negli Stati Uniti, le norme di contributory infringement (v. Ginsburg, J.C., «Separating the Sony Sheep from the Grokster Goats: Reckoning the Future Business Plans of Copyright‑Dependent Technology Entrepreneurs», Arizona Law Review, vol. 50, 2008, pagg. da 577 a 609).


92      V., in particolare, Leistner, M., «Copyright law on the internet in need of reform: hyperlinks, online plateforms and aggregators», Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2017, vol. 12, n. 2, pagg. da 136 a 149; Angelopoulos, C., «Communication to the public and accessory copyright infringement», Cambridge Law Journal, 2017, vol. 76, n. 3, pagg. da 496 a 499; Koo, J., op. cit., pag. 117, nonché Ohly, A., «The broad concept of “communication to the public” in recent CJEU judgments and the liability of intermediaries: primary, secondary or unitary liability?», Journal of Intellectual Property Law & Practice, 2018, vol. 13, n. 8, pagg. da 664 da 675.


93      Ad eccezione, tuttavia, delle norme relative alle ingiunzioni nei confronti degli intermediari di cui all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 (v. la mia analisi delle quarte questioni pregiudiziali).


94      Numerose direttive includono un articolo che obbliga gli Stati membri ad erigere al rango di reato il fatto di indurre a commettere, a partecipare o a rendersi complice degli atti che esse mirano a reprimere in via principale. V., in particolare, articolo 7 della direttiva 2011/93/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, e che sostituisce la decisione quadro 2004/68/GAI del Consiglio (GU 2011, L 335, pag. 1); articolo 8 della direttiva 2013/40/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 agosto 2013, relativa agli attacchi contro i sistemi di informazione e che sostituisce la decisione quadro 2005/222/GAI del Consiglio (GU 2013, L 218, pag. 8); articolo 6 della direttiva 2014/57/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativa alle sanzioni penali in caso di abusi di mercato (direttiva abusi di mercato) (GU 2014, L 173, pag. 179); articolo 5 della direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (GU 2017, L 198, pag. 29); articolo 4 della direttiva (UE) 2018/1673 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2018, sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale (GU 2018, L 284, pag. 22).


95      V. conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro nelle cause riunite Google France e Google (da C‑236/08 a C‑238/08, EU:C:2009:569, paragrafo 48), conclusioni dell’avvocato generale Jääskinen nella causa L’Oréal e a. (C‑324/09, EU:C:2010:757, paragrafi 55 e 56), nonché conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stichting Brein (C‑610/15, EU:C:2017:99, paragrafo 3).


96      V. sentenza Google France, punto 57, e sentenza L’Oréal/eBay, punto 104.


97      V., in tal senso, sentenza Stichting Brein I («Filmspeler»), punti 41 e 42, nonché sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), punti 26, 34, 36 e 37. V., sulla nozione di «ruolo imprescindibile», come viene interpretata, a mio avviso, nelle altre sentenze della Corte, paragrafo 72 delle presenti conclusioni.


98      Infatti, qualora la Corte intenda mantenere un criterio di conoscenza dell’illiceità nell’ambito della nozione di «comunicazione al pubblico», ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29, essa dovrà seguire i principi derivanti dall’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, salvo assumere il rischio di giungere alla situazione, menzionata alla nota 20 delle presenti conclusioni, in cui un prestatore di servizi sia responsabile ai sensi della prima disposizione, ma esonerato in virtù della seconda.


99      V. conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stichting Brein (C‑610/15, EU:C:2017:99, paragrafi 51 e 52), e, per analogia, sentenza GS Media, punto 49.


100      Rinvio quindi, su tale accertamento, alla mia analisi delle terze questioni pregiudiziali. Preciso tuttavia che l’idea di «consapevolezza» [che si riferisce all’inciso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31, secondo cui il «prestatore (...) [è] al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione»] corrisponde all’idea, menzionata al punto 49 della sentenza GS Media, secondo cui una persona è responsabile quando «avrebbe dovuto sapere» di facilitare una comunicazione illecita.


101      V. sentenza GS Media, punto 51.


102      Al punto 49 della sentenza Stichting Brein I («Filmspeler»), la Corte ha menzionato la presunzione stabilita nella sentenza GS Media. Tuttavia, sebbene la vendita del lettore multimediale in questione fosse realizzata a scopo di lucro, essa non ha applicato, in realtà, tale presunzione. Inoltre, nella sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), la Corte non ha neppure menzionato detta presunzione.


103      V. sentenza GS Media, punto 51.


104      V., conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stichting Brein (C‑610/15, EU:C:2017:99, paragrafo 52). Fino ad oggi, la Corte ha precisato i limiti posti dall’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per quanto riguarda le ingiunzioni giudiziarie che possono essere emesse nei confronti di un prestatore che memorizza informazioni fornite dagli utenti del suo servizio (v., in particolare, sentenza L’Oréal/eBay, punto 139). A mio avviso, occorre tener conto di tale disposizione al di là della questione riguardante tali ingiunzioni. Infatti, non si può accogliere un’interpretazione del diritto dell’Unione che abbia l’effetto di imporre ex ante un obbligo del genere a siffatto prestatore. Inoltre, anche supponendo che la Corte dichiari, nell’ambito delle seconde questioni pregiudiziali, che gestori quali YouTube o Cyando non rientrano nell’ambito di applicazione degli articoli 14 e 15 di tale direttiva, un obbligo generale di sorveglianza e di ricerca attiva sarebbe incompatibile con altre disposizioni del diritto dell’Unione (v. sezione F delle presenti conclusioni).


105      V. Supreme Court of the United States (Corte suprema, Stati Uniti), Sony Corp. of America v. Universal City Studios Inc., 464 US 417 (1984). Nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, i titolari dei diritti cercavano di far sorgere la responsabilità secondaria della Sony per la fabbricazione e la commercializzazione del videoregistratore «Betamax» per il fatto che tale società forniva a terzi, mediante tale videoregistratore, i mezzi per commettere violazioni del diritto d’autore (in particolare la copia illecita di programmi televisivi) e che essa poteva ragionevolmente sapere che tali violazioni si sarebbero verificate. Tuttavia, il loro ricorso è stato respinto sulla base del rilievo che detto videoregistratore, anche se poteva essere utilizzato illecitamente, poteva parimenti dar luogo a un numero sostanziale di usi leciti.


106      A tale riguardo, osservo che, se è vero che YouTube beneficia certamente del fatto che la sua piattaforma ospita opere popolari, quali trasmissioni televisive, film o clip musicali di grandi artisti, la loro presenza su tale piattaforma spesso non ha nulla di illecito. Infatti, come sostenuto da Google senza essere contraddetta, un gran numero di fornitori di contenuti e di titolari dei diritti pubblicano contenuti su YouTube. Inoltre, Google ha fatto valere, ancora una volta senza essere contraddetta, che YouTube dà accesso a contenuti culturali, informativi ed educativi, creati dagli utenti, che sono, di per sé, attraenti (v. paragrafo 43 delle presenti conclusioni).


107      V., in tal senso, sentenza Stichting Brein I («Filmspeler»), punto 50.


108      V. sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), punto 45.


109      V. sentenza Stichting Brein I («Filmspeler»), punti 18 e 50, nonché sentenza Stichting Brein II («The Pirate Bay»), punto 45. Come spiegherò nella mia analisi delle terze questioni pregiudiziali, un prestatore online che dimostra siffatta intenzione perde, a mio avviso, anche il beneficio dell’esonero da responsabilità di cui agli articoli da 12 a 14 della direttiva 2000/31. V., per analogia, Supreme Court of the United States (Corte suprema), MGM Studios Inc. v Grokster Ltd., 545 US 913, 2005. In tale sentenza due società, fornitrici di software, che consentivano la condivisione di file su una rete peertopeer sono state dichiarate responsabili delle violazioni del diritto d’autore commesse dagli utenti di tali software, in quanto avevano apertamente promosso i loro possibili usi illeciti.


110      V. paragrafo 63 delle presenti conclusioni.


111      Con tale affermazione, la Elsevier si riferisce, in realtà, alla responsabilità gravante sui fornitori di contenuti «tradizionali», che selezionano i contenuti da essi trasmessi. Orbene, come ho cercato di dimostrare, le piattaforme non svolgono lo stesso ruolo.


112      Ribadisco che, anche qualora la Corte dovesse ritenere che gestori quali YouTube o Cyando non rientrino nell’ambito di applicazione degli articoli 14 e 15 della direttiva 2000/31, altre disposizioni del diritto dell’Unione osterebbero a tale soluzione.


113      Agendo in tal modo, un prestatore di servizi perde, inoltre, a mio avviso, il beneficio dell’esonero da responsabilità previsto all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31.


114      V., nello stesso senso, Stallings, E., «Improving Secondary Liability Standards in Copyrights by Examining Intent: Why Courts Should Consider Creating a Good‑Faith Standard for Secondary Liability», Journal of the Copyright Society of the U.S.A., vol. 57, n. 4, 2010, pagg. da 1017 a 1038.


115      V. Stichting Brein II («The Pirate Bay»), punti 36 e 38.


116      Ricordo che, secondo le indicazioni del giudice del rinvio, i video di cui trattasi nella causa C‑682/18 non contenevano a priori siffatte pubblicità.


117      V. paragrafo 22 delle presenti conclusioni.


118      V. paragrafi 21 e 22 delle presenti conclusioni.


119      Sottolineo che tale interpretazione non significa che qualsiasi prestatore di servizi debba realizzare un software di questo tipo e che, in caso contrario, debba essergli imputata una cecità volontaria. Allo stato attuale del diritto dell’Unione, nulla lo obbliga in tal senso – fatta salva, tuttavia, la possibilità di imporre, mediante ingiunzione, a un prestatore di servizi, a condizioni ben definite, in base alle sue risorse, l’uso di uno strumento di filtraggio (v. la mia analisi delle quarte questioni pregiudiziali).


120      Oltre alle disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») riguardanti i diritti in questione, v. in un settore connesso, considerando 9, 33, 34, articolo 6, paragrafo 1, e articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche) (GU 2002, L 201, pag. 37).


121      V. Consiglio d’Europa, déclaration sur la liberté de la communication sur l’internet (dichiarazione sulla libertà di comunicazione su Internet), adottata dal Comitato dei ministri il 28 maggio 2003, nel corso della 840a riunione dei Delegati dei Ministri, principio 7; Office of the Special Rapporteur for Freedom of Expression, Inter‑American Commission on Human Rights, Freedom of expression and the Internet (Ufficio del Relatore speciale per la libertà di espressione, Commissione interamericana sui diritti umani, Libertà di espressione e Internet), punti da 130 a 136, nonché Organisation des Nations unies, Assemblée générale, rapport du rapporteur spécial sur la promotion de la protection du droit à la liberté d’opinion et d’expression (Organizzazione delle Nazioni Unite, assemblea generale, relazione del Relatore speciale sulla promozione della tutela del diritto alla libertà di opinione e di espressione), A/HRC/29/32, 29 maggio 2015, pagg. 12, 16 e 56.


122      La Elsevier afferma che i contenuti lesivi del diritto d’autore rappresentano tra il 90 e il 96% dei file ospitati su Uploaded, ragion per cui il Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia) interpella la Corte, con la sua prima questione, sub b), nella causa C‑683/18, sulla pertinenza di tale circostanza. Tale giudice spiega, inoltre, che, nel caso in cui si trattasse effettivamente di un elemento pertinente, tale affermazione dovrebbe essere dimostrata dalla Elsevier nell’ambito di una riapertura del procedimento d’appello. La Cyando sostiene, dal canto suo, che solo una percentuale molto bassa (dell’ordine dell’1,1%) di tutti i file effettivamente consultati riguarderebbe la messa a disposizione del pubblico di contenuti protetti dal diritto d’autore, il che corrisponderebbe allo 0,3% del volume totale dei dati memorizzati.


123      Dell’ordine di varie decine di euro per migliaio di download. V. paragrafo 31 delle presenti conclusioni.


124      V., per analogia, Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia), 15 agosto 2013, I ZR 80/12 (FileHosting Service), GRUR 1030, § 38. Siffatto programma differisce notevolmente dalla ripartizione di introiti pubblicitari operata da una piattaforma di condivisione di video come YouTube. Da un lato, se una ripartizione di introiti può essere giustificata nell’ambito di una simile piattaforma, un programma di «partnership» sembra più anomalo nell’ambito di una piattaforma destinata a ospitare file. D’altro lato, ricordo che, nell’ambito di YouTube, tale ripartizione di introiti è attuata in modo sicuro.


125      Gli articoli da 12 a 15 della direttiva 2000/31 si ispirano al Digital Millennium Copyright Act (DMCA) (legge del millennio sul diritto d’autore digitale), adottato dal legislatore federale statunitense nel 1998, che ha introdotto esenzioni da responsabilità analoghe per quanto riguarda specificamente il diritto d’autore [contenute nel titolo 17, capo 5, articolo 512, dello United States Code (codice degli Stati Uniti)].


126      V. conclusioni dell’avvocato generale Jääskinen nella causa L’Oréal e a. (C‑324/09, EU:C:2010:757, paragrafo 153).


127      Osservo che tale questione è espressamente sottoposta alla Corte nelle cause pendenti C‑442/19, Stichting Brein, e C‑500/19, Puls 4 TV.


128      V. considerando 16 della direttiva 2001/29; conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Mc Fadden (C‑484/14, EU:C:2016:170, paragrafo 64); proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a taluni aspetti giuridici del commercio elettronico nel mercato interno [COM (1998) 586 def. (GU 1999, C 30, pag. 4)], pagg. 27 e 29, nonché relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, del 21 novembre 2003, Prima relazione in merito all’applicazione della [direttiva 2000/31] [COM (2003) 702 definitivo], pag. 13. L’esonero da responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 non pregiudica tuttavia la possibilità, riservata al paragrafo 3 di tale articolo, di ottenere un’ingiunzione nei confronti di un prestatore di servizi (v. la mia analisi delle quarte questioni pregiudiziali).


129      L’applicazione di tale disposizione è altresì esclusa, per principio, nel caso in cui l’utente che ha fornito le informazioni in questione agisse sotto l’autorità o il controllo del prestatore (v. articolo 14, paragrafo 2, della direttiva 2000/31).


130      Più precisamente, l’articolo 2, lettera a), della direttiva 2000/31 definisce la nozione di «servizi della società dell’informazione» con riferimento all’articolo 1, punto 2, della direttiva 98/34/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche (GU 1998, L 204, pag. 37), come modificata dalla direttiva 98/48/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 20 luglio 1998 (GU 1998, L 217, pag. 18). La direttiva 98/34 è stata sostituita dalla direttiva (UE) 2015/1535 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 settembre 2015, che prevede una procedura d’informazione nel settore delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (GU 2015, L 241, pag. 1), il cui articolo 1, paragrafo 1, lettera b), riprende la medesima definizione.


131      V., per analogia, sentenza del 19 dicembre 2019, Airbnb Ireland (C‑390/18, EU:C:2019:1112, punti 47 e 48). A tale riguardo, conformemente all’articolo 2, lettera d), della direttiva 2000/31, il «destinatario del servizio» è «la persona fisica o giuridica che, a scopi professionali e non, utilizza un servizio della società dell’informazione, in particolare per ricercare o rendere accessibili delle informazioni». Tale nozione riguarda quindi sia l’utente che mette un file in rete sia colui che lo consulta o lo scarica.


132      Non si può tuttavia parlare di «gratuità» del servizio per gli utenti. Come ho precisato nella nota 11 delle presenti conclusioni, YouTube raccoglie un numero considerevole di dati personali riguardanti i suoi utenti, che rappresentano di per sé un prezzo. V., a tale riguardo, considerando 24, articolo 2, punto 7), e articolo 3 della direttiva (UE) 2019/770 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali (GU 2019, L 136, pag. 1).


133      V. considerando 18 della direttiva 2000/31 e sentenza dell’11 settembre 2014, Papasavvas (C‑291/13, EU:C:2014:2209, punti da 26 a 30).


134      La nozione di «informazioni» di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 deve essere intesa in senso ampio (v. proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a taluni aspetti giuridici del commercio elettronico nel mercato interno, pag. 27).


135      V., in tal senso, Montero, E., «Les responsabilités liées au web 2.0», Revue du droit des technologies de l’information, 2008, n. 32, pag. 368, e Van Eecke, P., «Online Service Providers and Liability: A Plea for a Balances Approach», Common Market Law Review, 2011, vol. 47, pag. 1473. Tale interpretazione è corroborata dalla relazione sull’applicazione di tale direttiva, pag. 13, che si riferisce, in modo ampio, a «diversi scenari in cui i contenuti di terzi vengono archiviati».


136      V. sentenza Google France, punti 110 e 111.


137      V. sentenza Google France, punti da 112 a 114 e 120 (il corsivo è mio).


138      V. sentenza L’Oréal/eBay, punti 110, 112 e 113.


139      V. sentenza del 15 settembre 2016, Mc Fadden (C‑484/14, EU:C:2016:689, punti da 61 a 64). Tale constatazione aveva indotto l’avvocato generale Jääskinen, nelle sue conclusioni nella causa L’Oréal e a. (C‑324/09, EU:C:2010:757, paragrafi da 139 a 142), a concludere che, a suo avviso, il considerando 42 della direttiva 2000/31, cui la Corte si è ispirata nella sentenza Google France per stabilire il requisito del «ruolo neutro» del prestatore per quanto attiene alle informazioni fornite dagli utenti del suo servizio, riguarda non l’attività di hosting, bensì unicamente il semplice trasporto e il caching.


140      V., in tal senso, sentenza L’Oréal/eBay, punto 115.


141      In tal senso, nella sentenza dell’11 settembre 2014, Papasavvas (C‑291/13, EU:C:2014:2209, punti 45 e 46), la Corte ha dichiarato che un editore che pubblica sul proprio sito Internet la versione elettronica di un giornale è a conoscenza delle informazioni pubblicate ed esercita un controllo sulle stesse – in quanto le seleziona – cosicché tale editore non può essere considerato un «prestatore intermediario» ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31.


142      V., nello stesso senso, Husovec, op. cit., pagg. 56 e 57.


143      V. sentenza Google France, punto 117.


144      La Elsevier sostiene inoltre che, in un mercato online come eBay, non è il gestore, bensì l’utente venditore, a consentire al pubblico l’accesso ai prodotti venduti, poiché quest’ultimo cede tali prodotti agli acquirenti. Viceversa, nel caso di YouTube, sarebbe il gestore a consentire l’accesso ai video. Tale argomento è frutto, a mio avviso, di confusione. Le «informazioni» memorizzate su richiesta degli utenti di un mercato sono non già i prodotti proposti in vendita, bensì le offerte di vendita in quanto tali. eBay dà accesso a queste ultime «informazioni» allo stesso modo in cui YouTube dà accesso alle «informazioni» costituite dai video messi in rete dai suoi utenti. In entrambi i casi, queste diverse «informazioni» sono fornite dagli utenti.


145      Ciò non avviene, lo ricordo, nel caso della piattaforma Uploaded.


146      V. sentenza L’Oréal/eBay, punti 114 e 116.


147      V. sentenza L’Oréal/eBay, punto 31.


148      V., nello stesso senso, sentenza Google France, punto 118, in cui la Corte ha considerato rilevante il «ruolo svolto [da] Google nella redazione del messaggio commerciale che accompagna il link pubblicitario o nella determinazione o selezione di tali parole chiave».


149      Ne è prova il fatto che la Corte si è concentrata sull’idea di ottimizzare «la presentazione delle offerte in vendita di cui trattasi» (sentenza L’Oréal/eBay, punto 116) (il corsivo è mio). Se la Corte avesse preso in considerazione la strutturazione generale delle offerte di vendita presentate sul mercato, non avrebbe fornito tale precisazione, né avrebbe rimesso al giudice nazionale il compito di verificare se eBay avesse svolto un «ruolo attivo» «relativamente alle offerte in vendita di cui trattasi nella causa principale» (punto 117 di tale sentenza). Infatti, eBay avrebbe avuto un «ruolo attivo» riguardo a qualsiasi offerta di vendita, poiché tutte rientrano in tale struttura generale.


150      Ad esempio, modificando taluni passaggi dei video in questione, scegliendo una migliore musica di fondo, migliorando il montaggio, ecc.


151      V., per analogia, sentenza L’Oréal/eBay, punto 113.


152      V., per analogia, sentenza Google France, punti 115 e 117.


153      Sentenza L’Oréal/eBay, punto 116.


154      V. sentenza L’Oréal/eBay, punti 38, 39 e 114.


155      Anche in tal caso, se la Corte avesse avuto in mente questo tipo di raccomandazioni, non avrebbe rimesso al giudice nazionale il compito di verificare se eBay avesse svolto un «ruolo attivo» «relativamente alle offerte in vendita di cui trattasi nella causa principale» (sentenza L’Oréal/eBay, punto 117). Infatti, tale «ruolo attivo» sarebbe esistito per tutte le offerte presenti sul mercato, poiché una qualsiasi di esse può essere potenzialmente raccomandata, secondo la programmazione dell’algoritmo, a un determinato utente.


156      V., per analogia, sentenza Google France, punto 115. Ciò non pregiudica la possibilità, per un prestatore di servizi, qualora abbia il controllo di siffatto algoritmo, di essere considerato responsabile dei danni causati dal funzionamento dell’algoritmo in quanto tale. Ciò potrebbe avvenire, in particolare, nel caso in cui detto algoritmo discriminasse illegittimamente taluni contenuti o taluni utenti. Lo ripeto, l’esonero di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 riguarda soltanto la responsabilità derivante dalle informazioni memorizzate.


157      V., per analogia, Cour de cassation (Corte di cassazione, Francia), prima sezione civile, sentenza n. 165 del 17 febbraio 2011, Carion c/ Société Dailymotion, n. 09‑67.896.


158      V. considerando 18 della direttiva 2000/31.


159      V. sentenza Google France, punto 116, e sentenza L’Oréal/eBay, punto 115.


160      V. sentenza Google France, punto 25.


161      V. sentenza L’Oréal/eBay, punti 28 e 110.


162      Ciò è tanto più rilevante in quanto l’avvocato generale Poiares Maduro, nelle sue conclusioni nelle cause riunite Google France e Google (da C‑236/08 a C‑238/08, EU:C:2009:569, paragrafi 144 e 145), aveva suggerito alla Corte l’approccio opposto.


163      V., in tal senso, considerando 26 della raccomandazione (UE) 2018/334 della Commissione, del 1° marzo 2018, sulle misure per contrastare efficacemente i contenuti illegali online (GU 2018, L 63, pag. 50). Del resto, risulta implicitamente, ma necessariamente, dalla sentenza L’Oréal/eBay che un prestatore di servizi può effettuare proprie ricerche senza perdere, per tale motivo, il suo «ruolo neutro» (v. punti 46 e 122 di tale sentenza).


164      Sentenza del 16 febbraio 2012 (C‑360/10, EU:C:2012:85, punto 27).


165      Sentenza del 3 ottobre 2019 (C‑18/18, EU:C:2019:821, punto 22).


166      V., in particolare, sentenza del 29 luglio 2019, Funke Medien NRW (C‑469/17, EU:C:2019:623, punti da 16 a 26).


167      Inoltre, lo stesso legislatore dell’Unione sembra ritenere che un gestore di piattaforma come YouTube possa beneficiare dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 poiché diverse disposizioni del diritto dell’Unione prevedono l’applicazione di tale articolo a siffatto gestore. V., in particolare, articolo 28 bis, paragrafo 5, della direttiva (UE) 2018/1808 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, recante modifica della direttiva 2010/13/UE, relativa al coordinamento di determinate disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti la fornitura di servizi di media audiovisivi (direttiva sui servizi di media audiovisivi), in considerazione dell’evoluzione delle realtà del mercato (GU 2018, L 303, pag. 69), in cui si afferma che «ai fornitori di piattaforme per la condivisione di video considerati stabiliti in uno Stato membro (...) si applicano (...) gli articoli da 12 a 15 della direttiva [2000/31]» (v. altresì articolo 28 ter di tale direttiva).


168      Fatto salvo, tuttavia, il limite ricordato al paragrafo 146 delle presenti conclusioni.


169      Per comodità, utilizzo, nelle presenti conclusioni, la nozione di «conoscenza effettiva» per designare l’ipotesi di cui al primo inciso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31 e la nozione di «consapevolezza» per designare l’ipotesi di cui al secondo inciso di tale disposizione.


170      Ciò avviene anche nell’ampia maggioranza delle altre versioni linguistiche della direttiva 2000/31. Il sig. Peterson e la Elsevier replicano che la versione in lingua inglese di tale direttiva reca l’interpretazione opposta. Non ne sono convinto. È vero che, in tale versione, il primo inciso dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva non contiene alcun articolo determinativo [«(...) the provider does not have actual knowledge of illegal activity or information (...)»]. Tuttavia, il secondo inciso utilizza effettivamente, a sua volta, un articolo determinativo [«(...) is not aware of facts or circumstances from which the illegal activity or information is apparent (...)»] (il corsivo è mio).


171      V. considerando 40, 41 e 46 della direttiva 2000/31.


172      V. considerando 40 e articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2000/31. Contrariamente all’articolo 512 introdotto dal DMCA, la direttiva 2000/31 non prevede quindi alcuna procedura di notifica e di rimozione armonizzata.


173      Con ciò intendo: portata a conoscenza di un dipendente del prestatore di servizi. Non si può ritenere che un prestatore sia a «conoscenza» o abbia «consapevolezza» di un’informazione illecita che memorizza, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31, per il fatto, ad esempio, di aver effettuato un trattamento automatizzato di tale informazione. Siffatta interpretazione priverebbe tale disposizione di ogni effetto utile, poiché ogni prestatore di servizi che ospita informazioni deve necessariamente operare siffatto trattamento.


174      V. conclusioni dell’avvocato generale Jääskinen nella causa L’Oréal e a. (C‑324/09, EU:C:2010:757, paragrafi 162 e 163)].


175      Sentenza L’Oréal/eBay, rispettivamente punti 120, 121 e 122.


176      V. sentenza L’Oréal/eBay, punto 122.


177      V., nello stesso senso, Riordan, J., The Liability of Internet Intermediaries, Oxford University Press, 2016, pagg. 407 e 408. La Corte ha del resto precisato, al punto 139 della sentenza L’Oréal/eBay, che i provvedimenti che possono essere richiesti a un prestatore di servizi quale eBay «non possono consistere in una vigilanza attiva di tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale attraverso il sito di tale prestatore». Analogamente, l’indicazione fornita dalla Corte, al punto 120 di tale sentenza, secondo cui un prestatore può scoprire fatti e circostanze che rendono manifesta l’illegittimità nell’ambito delle proprie ricerche tende semplicemente a indicare che l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 autorizza un prestatore ad effettuare tali ricerche. Se del caso, tale prestatore deve ovviamente eliminare le informazioni illecite che scopre. Ciò non significa che sia, in generale, obbligato ad effettuare siffatte ricerche.


178      V. Conseil constitutionnel (Consiglio costituzionale, Francia), decisione n. 2004‑496 del 10 giugno 2004.


179      Mi riferisco, ad esempio, alle immagini pedopornografiche. Per questo tipo di informazioni che sono, di per sé, manifestamente e indiscutibilmente illecite, la direttiva 2000/31 non vieta, a mio avviso, di esigere che il prestatore sia proattivo per quanto riguarda la loro rimozione. V., in tal senso, considerando 48 di tale direttiva e, per quanto riguarda specificamente la pedopornografia, il considerando 47 e l’articolo 25 della direttiva 2011/93.


180      V., in particolare, sentenza del 16 febbraio 2012, SABAM (C‑360/10, EU:C:2012:85, punto 50).


181      Ad esempio, la messa in rete, da parte di un oscuro utente, di una copia di pessima qualità, filmata mediante una videocamera, di un film uscito recentemente in sala.


182      Dalla decisione di rinvio nella causa C‑682/18 risulta che una parte significativa della sentenza d’appello è dedicata alla questione se, e in quale misura, il sig. Peterson detenga diritti sulle opere in questione.


183      V. articolo 5 della direttiva 2001/29.


184      Rilevo in particolare che la direttiva 2000/31 non prevede alcuna garanzia per gli utenti, come una procedura di «contro‑notifica» che consenta di contestare la «rimozione eccessiva» delle loro informazioni. Il considerando 46 di tale direttiva si limita a rilevare che gli Stati membri possono «stabilire obblighi specifici da soddisfare sollecitamente prima della rimozione delle informazioni o della disabilitazione dell’accesso alle medesime».


185      V., in tal senso, Riordan, J., op. cit., pag. 406. In generale, la questione se «i fatti e le circostanze» portati a conoscenza di un prestatore di servizi fossero sufficienti per dargli la «consapevolezza» di un’informazione illecita, ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/31, dipende da tutte le circostanze del caso di specie, in particolare dal grado di precisione della notifica, dalla complessità dell’analisi necessaria per comprendere l’illiceità di tale informazione e dalle risorse di cui dispone tale prestatore. Lo stesso vale per quanto riguarda la questione se il prestatore abbia agito «immediatamente», ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva.


186      Per tale questione, rinvio il lettore ai paragrafi da 120 a 131 delle presenti conclusioni.


187      Infatti, a mio avviso, è inconcepibile che, ad esempio, gli amministratori della piattaforma «The Pirate Bay» possano far valere l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 per sottrarsi alla loro responsabilità secondaria, in forza del diritto nazionale, per le informazioni memorizzate su tale piattaforma. Come sostiene il governo francese, tale disposizione mira a tutelare i prestatori di servizi che sono generalmente in buona fede, non già i prestatori la cui intenzione sia proprio quella di agevolare le violazioni del diritto d’autore.


188      Per contro, un obbligo di stay down figura all’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2019/790. Osservo tuttavia che il legislatore ha previsto un’eccezione per i piccoli prestatori di servizi, che non hanno le risorse o la tecnologia necessaria per attuare un obbligo siffatto.


189      V., altresì, considerando 45 della direttiva 2000/31.


190      Tale obbligo è previsto anche all’articolo 11, terza frase, della direttiva 2004/48, che si applica alle violazioni di diversi diritti di proprietà intellettuale, tra cui il diritto d’autore (v. articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva). Tuttavia, tale disposizione è, come dalla stessa precisato, «senza pregiudizio» dell’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29. In ogni caso, poiché l’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 e l’articolo 11, terza frase, della direttiva 2004/48 sono formulati in maniera quasi identica e tali direttive perseguono il medesimo obiettivo di un alto livello di protezione della proprietà intellettuale (v. considerando 9 della prima direttiva e considerando 10 della seconda), queste disposizioni devono, a mio avviso, ricevere la stessa interpretazione.


191      La «responsabilità del perturbatore» consente di ottenere un’ingiunzione. Essa non costituisce quindi il fondamento per la concessione di un risarcimento, contrariamente alla responsabilità primaria dell’autore di un reato e alla responsabilità del complice, prevista all’articolo 830 del BGB.


192      V., in particolare, Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia), sentenze del 26 luglio 2012, I ZR 18/11, GRUR 2013, 370 – Alone in the Dark, nonché del 19 marzo 2015, I ZR 94/13, GRUR 2015 1129 – Hotelbewertungsportal. Conformemente alla giurisprudenza di tale giudice, gestori quali YouTube e Cyando non sono, di regola, direttamente responsabili delle violazioni del diritto d’autore commesse tramite le loro piattaforme, in quanto non realizzano la «comunicazione al pubblico» delle opere ivi messe in rete. Tali gestori non sono neppure considerati, in linea di principio, responsabili in quanto complici di tali violazioni, ai sensi dell’articolo 830 del BGB, dal momento che una condanna su tale fondamento implica la prova di un’intenzione e di una conoscenza relative a un reato concreto (v. la mia analisi delle questioni pregiudiziali quinte e seste). Pertanto, detto giudice disciplina il comportamento di tali gestori essenzialmente nell’ambito delle ingiunzioni fondate sulla «responsabilità del perturbatore». Nei procedimenti principali i giudici d’appello hanno quindi condannato YouTube e Cyando come «perturbatrici», per non aver rispettato i loro obblighi di comportamento.


193      V., per analogia, sentenza del 7 luglio 2016, Tommy Hilfiger Licensing e a. (C‑494/15, EU:C:2016:528, punto 23 e giurisprudenza ivi citata).


194      V. sentenza L’Oréal/eBay, punto 136.


195      Gli obblighi di comportamento basati concretamente sui prestatori di servizi che svolgono un’attività consistente, in particolare, nell’hosting di file forniti da terzi, conformemente alla giurisprudenza del Bundesgerichtshof (Corte federale di giustizia), riflettono la condizione prevista all’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2000/31. Tali obblighi, se ho ben inteso, vanno tuttavia al di là di tale disposizione: tale giudice impone che il prestatore abbia non solo rimosso l’informazione notificata, ma anche bloccato tale informazione, in una logica di stay down.


196      V. considerando 59 della direttiva 2001/29 nonché Husovec, op. cit., pagg. XV, XVI, 8 e da 10 a 13. A mio avviso, il fatto che gli intermediari beneficino finanziariamente, in una certa misura, degli usi illeciti dei loro servizi giustifica altresì il fatto che essi debbano sopportare tali ingiunzioni.


197      V., nello stesso senso, Nordemann, J.B., «Liability for Copyright Infringements on the Internet: Host Providers (Content Providers) – The German Approach», Journal of Intellectual Property, Information Technology and Electronic Commerce Law, vol. 2, n. 1, 2011, pag. 40.


198      V., nello stesso senso, comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio e al Comitato economico e sociale europeo, del 29 novembre 2017, Orientamenti in merito ad alcuni aspetti della direttiva 2004/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sul rispetto dei diritti di proprietà intellettuale [COM (2017) 708 final], pag. 18: «le autorità giudiziarie competenti non possono chiedere ai richiedenti di dimostrare che l’intermediario è responsabile, anche indirettamente, della (presunta) violazione, come condizione per l’emissione di un’ingiunzione».


199      V., per analogia, sentenza L’Oréal/eBay, punto 131.


200      V. articolo 3 della direttiva 2004/48 e, per analogia, sentenza L’Oréal/eBay, punti da 140 a 144. Ricordo che tale direttiva si applica anche in materia di diritto d’autore. Pertanto, i requisiti stabiliti dalle sue disposizioni generali devono essere rispettati nell’ambito di un provvedimento inibitorio emesso conformemente all’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29.


201      V. sentenza del 16 febbraio 2012, SABAM (C‑360/10, EU:C:2012:85, punti da 31 a 33).


202      V. paragrafo 194 delle presenti conclusioni.


203      Sentenza del 16 febbraio 2012 (C‑360/10, EU:C:2012:85, punti da 35 a 38).


204      Sentenza del 3 ottobre 2019 (C‑18/18, EU:C:2019:821, punti da 33 a 47).


205      V. considerando 47 della direttiva 2000/31.


206      V., altresì, sentenza L’Oréal/eBay, punto139.


207      A tale riguardo, le copie di uno stesso file possono essere individuate grazie a filtri MD5 (o hash filters), che sembrano comuni.


208      Ad esempio, per quanto riguarda un’opera cinematografica, sono possibili molteplici variazioni in termini di formato o di qualità di immagine, di durata, ecc.


209      Secondo le spiegazioni fornite da Google, una volta che un file di riferimento per un’opera è stato versato nella banca dati di Content ID, tale software riconoscerebbe automaticamente (quasi) tutti i file contenenti tale opera al momento della loro messa in rete.


210      Secondo le informazioni fornite da Google, quest’ultima avrebbe speso oltre 100 milioni di dollari (USD) (circa EUR  88 milioni) per sviluppare Content ID.


211      V., in tal senso, sentenza del 16 febbraio 2012, SABAM (C‑360/10, EU:C:2012:85, punto 50). In particolare, un’ingiunzione non deve ostacolare la possibilità, per gli utenti di una piattaforma, di far uso di opere protette rientranti nelle eccezioni e nelle limitazioni di cui all’articolo 5 della direttiva 2001/29. Per quanto riguarda una piattaforma come YouTube, si tratta in particolare di consentire agli utenti di condividere video che utilizzano opere a fini di critica, di rassegna oppure di parodia, alle condizioni previste dal paragrafo 3, lettere d) e k), di tale articolo 5. Per quanto riguarda un Cyberlocker, si tratta in particolare di non privare gli utenti del diritto alla copia per uso privato di cui all’articolo 5, paragrafo 2, lettera b), di tale direttiva [v., su tale punto, conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa VCAST (C‑265/16, EU:C:2017:649, paragrafi da 23 a 28)].


212      Ricordo che, a mio avviso, l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 e l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2000/31 devono essere interpretati in modo coerente. In particolare, il «ruolo imprescindibile», conformemente alla giurisprudenza della Corte relativa alla prima disposizione, dovrebbe corrispondere, in pratica, per i prestatori intermediari che memorizzano informazioni fornite dagli utenti dei loro servizi, al «ruolo attivo» considerato nella sua giurisprudenza relativa alla seconda disposizione. Risponderò quindi alle quinte e alle seste questioni pregiudiziali solo brevemente e in subordine.


213      V., in particolare, articolo 4 della direttiva 2004/48, il quale precisa che «[g]li Stati membri riconoscono la legittimazione a chiedere l’applicazione delle misure, delle procedure e dei mezzi di ricorso di cui al presente capo: a) ai titolari dei diritti di proprietà intellettuale, conformemente alle disposizioni della legislazione applicabile» (il corsivo è mio). Può trattarsi di norme sostanziali previste tanto nel diritto dell’Unione quanto nel diritto nazionale (v. articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva).


214      V. considerando 15 e articolo 2, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2004/48.


215      V. articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2004/48.


216      V. articolo 8, paragrafo 1, lettera c), et paragrafo 2, della direttiva 2004/48. V., inoltre, al riguardo, le mie conclusioni nella causa Constantin Film Verleih (C‑264/19, EU:C:2020:261).


217      Ricordo che le opere condivise sono memorizzate sui computer dei diversi utenti della rete, mentre una piattaforma come «The Pirate Bay» si limita ad ospitare i file torrent che consentono di ritrovare tali opere su detta rete.


218      V. conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Stichting Brein (C‑610/15, EU:C:2017:99, paragrafi 19 e 20).


219      V. sentenze GS Media, punti 44 e 45, nonché del 7 agosto 2018, Renckhoff (C‑161/17, EU:C:2018:634, punto 41).


220      V., in particolare, sentenze del 3 settembre 2014, Deckmyn e Vrijheidsfonds (C‑201/13, EU:C:2014:2132, punti da 22 a 27), del 29 luglio 2019, Funke Medien NRW (C‑469/17, EU:C:2019:623, punti 51, 58 e da 65 a 76), nonché del 29 luglio 2019, Spiegel Online (C‑516/17, EU:C:2019:625, punti 36, 38 e da 50 a 59).


221      In particolare, il fatto che i titolari dei diritti non dispongano di una tutela massima della loro proprietà intellettuale implica, a mio avviso, che si possa richiedere loro una certa vigilanza per quanto riguarda gli usi delle loro opere online e una collaborazione con i gestori di piattaforme. V., per analogia, nel settore del diritto dei marchi, conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón nella causa Backaldrin Österreich The Kornspitz Company (C‑409/12, EU:C:2013:563, paragrafo 83).


222      Ricordo che tale articolo 11 contiene diritti corrispondenti a quelli garantiti all’articolo 10, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e che il primo articolo deve essere, pertanto, interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo relativa al secondo. V., in particolare, sentenza del 29 luglio 2019, Funke Medien NRW (C‑469/17, EU:C:2019:623, punto 73).


223      V., in particolare, sentenza GS Media, punto 45, e Corte EDU, 18 dicembre 2012, Ahmet Yıldırım c. Turchia, CE:ECHR:2012:1218JUD000311110, § 54, Corte EDU, 1° dicembre 2015, Cengiz e a. c. Turchia, CE:ECHR:2015:1201JUD004822610, § 49. V., inoltre, nello stesso senso, Corte EDU, 10 marzo 2009, Times Newspapers Ltd c. Regno Unito (nn. 1 e 2), CE:ECHR:2009:0310JUD000300203, § 27, e Corte EDU, 10 gennaio 2013, Ashby Donald e a. c. Francia, CE:ECHR:2013:0110JUD003676908, § 34.


224      Corte EDU, 1° dicembre 2015, Cengiz e a. c. Turchia, CE:ECHR:2015:1201JUD004822610, §§ 51 e 52. V., altresì, in tal senso, sentenza del 14 febbraio 2019, Buivids (C‑345/17, EU:C:2019:122, punti 56 e 57).


225      Sentenza del 16 febbraio 2012 (C‑360/10, EU:C:2012:85).


226      Ribadisco, a tale riguardo, che non tutti i prestatori di servizi dispongono delle stesse capacità e delle stesse risorse di YouTube.


227      V. sentenza del 16 febbraio 2012, SABAM (C‑360/10, EU:C:2012:85, punti da 44 a 52). Pertanto, anche supponendo che i gestori di piattaforme non rientrino nell’ambito di applicazione degli articoli 14 e 15 della direttiva 2000/31, l’obbligo di controllare ex ante tutti i file messi in rete da parte degli utenti sarebbe, in ogni caso, contrario al diritto fondamentale garantito dalla Carta.


228      Ciò vale anche per i video come i tutorial online e altri video a fini di intrattenimento o informativi, che possono, in linea di principio, utilizzare opere protette, a determinate condizioni, conformemente a talune eccezioni previste all’articolo 5 della direttiva 2001/29. A tale riguardo, osservo che sussistono dubbi relativamente al software Content ID di YouTube, che aveva già, a quanto pare, confuso video innocenti con opere protette messe in rete illegalmente e bloccato video per l’uso di estratti di qualche secondo di tali opere (v. in particolare, Signoret, P., «Sur YouTube, la détection automatique des contenus soumis à droit d’auteur ne satisfait personne», Le Monde, blog Pixels, 5 luglio 2018). A tale riguardo, YouTube riconosce che Content ID non rileva l’eventuale applicazione delle eccezioni al diritto d’autore (v. video YouTube Creators, «Content ID sur YouTube», disponibile all’indirizzo https://youtu.be/9g2U12SsRns).


229      Inoltre, la complessità di tale questione è ulteriormente rafforzata, a mio avviso, dal carattere ambivalente di Internet, e più in particolare delle piattaforme come YouTube, per quanto riguarda la contraffazione. Infatti, anche se YouTube offre strumenti che possono essere utilizzati per violare il diritto d’autore, tali strumenti, in particolare il suo motore di ricerca, agevolano al contempo la scoperta di tali violazioni.


230      V. considerando 40, 41, da 45 a 49 della direttiva 2000/31 nonché proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a taluni aspetti giuridici del commercio elettronico nel mercato interno, pagg. 4, 12 e 16.


231      V. considerando 16 e 59 nonché articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29.


232      V. articolo 31 della direttiva 2019/790.


233      L’articolo 2, punto 6, della direttiva 2019/790 dispone che, ai fini di tale direttiva, un «prestatore di servizi di condivisione di contenuti online» è un «prestatore di servizi della società dell’informazione il cui scopo principale o uno dei principali scopi è quello di memorizzare e dare accesso al pubblico a grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti, che il servizio organizza e promuove a scopo di lucro». V., altresì, considerando 62 e 63 di tale direttiva.


234      Come ho già rilevato, mentre l’articolo 14, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2000/31 prevede, a mio avviso, un obbligo di take down, l’articolo 17, paragrafo 4, lettera c), della direttiva 2019/790 impone ormai, in via generale ed ex ante, un obbligo di stay down.


235      Più precisamente, dall’articolo 17, paragrafo 6, della direttiva 2019/790 risulta, in sostanza, che, per quanto riguarda i «prestatori» di meno di tre anni, il cui fatturato è inferiore a EUR 10 milioni, questi ultimi devono soltanto dimostrare di aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione dai titolari di diritti e assumono solo un obbligo di take down.


236      Ai sensi di tale considerando: «È opportuno chiarire nella presente direttiva che i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online effettuano un atto di comunicazione al pubblico o di messa a disposizione del pubblico quando danno l’accesso al pubblico a opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai loro utenti (...)».


237      V. articolo 29 della direttiva 2019/790.


238      V., in particolare, sentenza dell’11 giugno 2015, Zh. e O. (C‑554/13, EU:C:2015:377, punto 42, nonché giurisprudenza ivi citata). Del resto, se è vero che, conformemente alla giurisprudenza della Corte, siffatto considerando può precisare il contenuto dell’atto di cui fa parte, nel caso di specie si tratterebbe di chiarire il significato delle disposizioni non già della direttiva 2019/790, bensì delle direttive 2000/31 e 2001/29.


239      V. articolo 26 della direttiva 2019/790, in cui si precisa che quest’ultima si applica a tutte le opere e altri materiali protetti, tutelati dal diritto nazionale nel settore del diritto d’autore al 7 giugno 2021 o in data successiva, fatti salvi gli atti conclusi e i diritti acquisiti prima di tale data.


240      V. articolo 27 della direttiva 2019/790, in cui si precisa che gli accordi di licenza o di trasferimento dei diritti di autori ed artisti (interpreti o esecutori) sono soggetti all’obbligo di trasparenza di cui all’articolo 19 di tale direttiva a decorrere dal 7 giugno 2022.


241      V. considerando 65 della direttiva 2019/790.


242      V. considerando 3 e 4 della direttiva 2019/790.


243      Prevedendo che gestori come YouTube realizzino la «comunicazione al pubblico» delle opere che gli utenti delle loro piattaforme vi mettono in rete, il legislatore dell’Unione intendeva porre rimedio al value gap messo in evidenza dai titolari di diritti (v. paragrafo 47 delle presenti conclusioni). V., a tale riguardo, considerando 3 e 61 della direttiva 2019/790 nonché proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 settembre 2016, sul diritto d’autore nel mercato unico digitale [COM (2016) 593 final], pagg. 2 e 3.


244      V., in particolare, nel 2010, «Public Consultation on the Future of Electronic Commerce in the Internal Market and the Implementation of the Directive on Electronic Commerce (2000/31/EC)»; nel 2012, «A Clean and Open Internet: Public Consultation on Procedures for Notifying and Acting on Illegal Content Hosted by Online Intermediaries» e, nel 2015, «Public Consultation on the Regulatory Environment for Platforms, Online Intermediaries, Data and Cloud Computing and the Collaborative Economy». Analogamente, negli Stati Uniti, lo United States Copyright Office (Ufficio del diritto d’autore degli Stati Uniti), a seguito di una consultazione pubblica avviata nel 2015, ha presentato, il 21 maggio 2020, una relazione in cui si raccomandava allo United State Congress (Congresso degli Stati Uniti) di modernizzare le disposizioni dell’articolo 512 introdotto dal DMCA (v. Ufficio del diritto d’autore degli Stati Uniti, Section 512 Study, disponibile all’indirizzo https://www.copyright.gov/policy/section512/).


245      V. comunicazioni della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, dell’11 gennaio 2012, «Un quadro coerente per rafforzare la fiducia nel mercato unico digitale del commercio elettronico e dei servizi on‑line» [COM (2011) 942 definitivo], pagg. da 13 a 16; del 6 maggio 2015, «Strategia per il mercato unico digitale in Europa» [COM (2015) 192 final], pagg. 4, 8 e da 12 a 14; del 9 dicembre 2015, «Verso un quadro normativo moderno e più europeo sul diritto d’autore» [COM (2015) 626 final], pagg. 2, 3 e da 10 a 12; del 25 maggio 2016, «Le piattaforme online e il mercato unico digitale – Opportunità e sfide per l’Europa» [COM(2016) 288 final], pagg. da 8 a 10.


246      V. direttiva 2018/1808, la quale fa rientrare le piattaforme di condivisione dei video nell’ambito della normativa in materia di «servizi di media audiovisivi» e obbliga i gestori di tali piattaforme ad adottare misure adeguate, realizzabili e proporzionate, per tutelare i minori dai video che possono nuocere al loro sviluppo e il grande pubblico dai video contenenti un incitamento alla violenza, all’odio o al terrorismo [v. articolo 1, paragrafo 1, lettera b), e articoli 28 bis et 28 ter della direttiva 2010/13, aggiunti dalla direttiva 2018/1808]. V., altresì, raccomandazione 2018/334 sulle misure per contrastare efficacemente i contenuti illegali online. V., inoltre, proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 settembre 2018, relativo alla prevenzione della diffusione di contenuti terroristici online [COM (2018) 640 final].


247      V., anche, per sviluppi in tal senso, Consiglio d’Europa, raccomandazione CM/Racc. (2018) 2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sui ruoli e sulle responsabilità degli intermediari di Internet (adottata dal Comitato dei Ministri il 7 marzo 2018, in occasione della 1309a riunione dei delegati dei Ministri), nonché Corte EDU, 16 giugno 2015, Delfi AS c. Estonia, CE:ECHR:2015:0616JUD006456909.


248      In particolare, le norme previste ai paragrafi 4 e seguenti dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 mirano, a quanto pare, a offrire talune garanzie ai gestori interessati nonché agli utenti delle loro piattaforme. Sottolineo tuttavia che i dettagli del nuovo regime di responsabilità previsto da detto articolo 17 eccedono l’oggetto delle presenti conclusioni. Non intendo neppure esprimere, nelle presenti conclusioni, un’opinione sulla compatibilità di tale nuovo regime con i diritti fondamentali garantiti dalla Carta. La Corte è investita, al riguardo, di un ricorso di annullamento (v. causa C‑401/19, Polonia/Parlamento e Consiglio), che le offrirà l’opportunità di pronunciarsi sulla questione.