Language of document : ECLI:EU:C:2018:621

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

PAOLO MENGOZZI

presentate il 25 luglio 2018 (1)

Causa C56/17

Bahtiyar Fathi

contro

Zamestnik-predsedatel na Darzhavna agentsia za bezhantsite

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria)]

«Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia – Frontiere, asilo e immigrazione – Requisiti per la concessione dello status di rifugiato – Criteri di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale – Esame di una domanda di protezione internazionale senza una decisione esplicita sulla competenza dello Stato membro – Nozione di “religione” – Valutazione dei motivi di persecuzione fondati sulla religione».






1.        La domanda di pronuncia pregiudiziale oggetto delle presenti conclusioni riguarda l’interpretazione dell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento (UE) n. 604/2013°(2) (in prosieguo: il «regolamento Dublino III»), degli articoli 9 e 10 della direttiva 2011/95/UE°(3) e dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32°(4). Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra il sig. Bahtiyar Fathi e la Predsedatel na Darzhavna agentsia za bezhantsite (Agenzia nazionale per i rifugiati, Bulgaria; in prosieguo: la: «DAB»), in merito al rigetto da parte di quest’ultima della domanda di protezione internazionale presentata dal sig. Fathi.

I.      Fatti, procedimento principale e procedura dinanzi alla Corte

2.        Il sig. Fathi, cittadino iraniano di etnia curda, nato il 20 settembre 1981 a Marivan, Repubblica islamica dell’Iran, ha presentato il 1° marzo 2016 una domanda di protezione internazionale dinanzi alla DAB, motivata sulla base della persecuzione di cui era vittima da parte dalle autorità iraniane per motivi religiosi. Secondo le sue parole, si sarebbe convertito al cristianesimo in Iran tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Egli sarebbe stato in possesso di un’antenna satellitare illegale con cui avrebbe captato il segnale di un’emittente televisiva cristiana vietata, Nejat TV, e avrebbe anche partecipato, una volta, telefonicamente, a un programma televisivo di tale emittente. Nel settembre 2009 sarebbe stato trattenuto in arresto per due giorni dai servizi segreti iraniani e interrogato in merito alla sua telefonata al programma televisivo trasmesso in diretta. Durante la detenzione sarebbe stato costretto ad ammettere di essersi convertito al cristianesimo. Nel 2006 si sarebbe recato in Inghilterra. Nel giugno 2012 avrebbe lasciato l’Iran illegalmente entrando in Iraq, dove sarebbe rimasto fino alla fine del 2015, soggiornandovi come richiedente asilo. Durante il suo soggiorno, egli avrebbe contattato l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (ACNUR), ma, in mancanza di un documento d’identità, non sarebbe stato oggetto di alcuna decisione da parte di tale organismo. Per quanto riguarda la sua conversione al cristianesimo, il ricorrente ha affermato che si è trattato di un lungo processo, risultante da incontri con cristiani in Inghilterra e dal fatto di guardare la televisione cristiana, e che è stato battezzato tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, più precisamente a maggio, in una chiesa domestica di Teheran. Ha affermato di aver intrattenuto rapporti con altri cristiani in Iran, durante «meeting» a Teheran che riunivano circa una decina di persone. Si definisce come un «normale cristiano che tende al protestantesimo». Dopo il suo arresto da parte delle autorità iraniane, avrebbe continuato a mantenere i contatti con i cristiani. Non avendo mezzi finanziari, avrebbe lasciato l’Iran solo nel 2012. Dopo la sua partenza, i servizi segreti lo avrebbero cercato e avrebbero detto a suo padre che volevano semplicemente interrogarlo e che non ci sarebbero stati problemi se fosse tornato. Durante il suo colloquio personale con l’amministrazione bulgara, il sig. Fathi ha prodotto una lettera di Nejat TV, datata il 29 novembre 2012°(5).

3.        La domanda del sig. Fathi è stata respinta con decisione del direttore della DAB il 20 giugno 2016 (in prosieguo: la «decisione della DAB»). In tale decisione, le dichiarazioni del sig. Fathi sono state considerate viziate da significative contraddizioni e l’intero suo racconto è stato considerato inverosimile. Il documento rilasciato dalla Najat TV il 29 novembre 2012 è stato, pertanto, scartato in quanto falso. In particolare, il direttore della DAB ha tenuto conto del fatto che, dal suo arresto nel 2009 fino alla sua partenza dall’Iran nel 2012, Fathi non sarebbe stato in alcun modo perseguitato. La decisione della DAB ha concluso che non sussistevano i presupposti che giustificassero il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 8 della zakon za ubezhishteto i bezhantsite (legge in materia di asilo e rifugiati; in prosieguo: la «ZUB») o dello status umanitario ai sensi dell’articolo 9 dello ZUB°(6).

4.        Il sig. Fathi ha impugnato la decisione della DAB dinanzi al giudice del rinvio, che ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se dall’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento [Dublino III], interpretato in combinato disposto con il considerando 12 e con l’articolo 17 del medesimo regolamento, consegua che uno Stato membro può emettere una decisione che rappresenta un esame di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera d), del regolamento suddetto dinanzi ad esso presentata, senza che vi sia stata una pronuncia esplicita sulla competenza dello Stato membro di cui trattasi in base ai criteri del regolamento, quando, nel caso specifico, non vi sono elementi che depongono per una deroga ai sensi dell’articolo 17 dello stesso.

2)      Se dall’articolo 3, paragrafo 1, secondo periodo, del regolamento [Dublino III], interpretato in combinato disposto con il considerando 54 della direttiva 2013/32/UE, consegua che, in considerazione delle circostanze del procedimento principale, ove non intervenga alcuna deroga ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento in parola, a fronte di una domanda di protezione internazionale a norma dell’articolo 2, lettera b), dello stesso, deve essere emanata una decisione con cui lo Stato membro si impegna a esaminare la domanda in base ai criteri del regolamento e che viene fondata sull’applicabilità al richiedente delle disposizioni di quest’ultimo.

3)      Se l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32 debba essere interpretato nel senso che, nell’ambito di un ricorso avverso un provvedimento di diniego della protezione internazionale, ai sensi del considerando 54 della direttiva, il giudice deve valutare se le disposizioni del regolamento [Dublino III] si applichino al richiedente quando lo Stato membro non si è pronunciato espressamente sulla sua competenza ad esaminare la domanda di protezione internazionale in base ai criteri di tale regolamento. Se, in base al considerando 54 della direttiva 2013/32, si debba ritenere che, quando mancano elementi a favore dell’applicazione dell’articolo 17 del regolamento [Dublino III] e la domanda di protezione internazionale è stata esaminata in base alla direttiva 2011/95 dallo Stato membro dinanzi al quale essa è stata presentata, la situazione giuridica dell’interessato ricada nell’ambito di applicazione del regolamento anche quando lo Stato membro non si è pronunciato espressamente sulla propria competenza in base ai criteri dello stesso.

4)      Se dall’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 consegua che, in considerazione delle circostanze del procedimento principale, sussiste il motivo di persecuzione fondato sulla “religione” quando il richiedente non ha rilasciato dichiarazioni e presentato documenti in relazione a tutte le componenti ricomprese nella nozione di religione ai sensi della disposizione in parola che assumono rilevanza essenziale ai fini dell’appartenenza dell’interessato a una determinata religione.

5)      Se dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 consegua che sussistono motivi di persecuzione fondati sulla religione a norma del suo articolo 10, paragrafo 1, lettera b), quando il richiedente, in considerazione delle circostanze del procedimento principale, fa valere di essere stato perseguitato per via della sua appartenenza religiosa, ma non ha rilasciato o presentato alcuna dichiarazione o prova rispetto a circostanze che sono caratteristiche per l’appartenenza di una persona a una determinata religione e che costituirebbero per l’autore delle persecuzioni motivo di ritenere che l’interessato appartenga ad essa – in particolare, circostanze collegate al compimento di atti religiosi o professioni di fede o all’astensione dal compimento dei medesimi –, o rispetto a forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte.

6)      Se dall’articolo 9, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2011/95/UE, interpretato in combinato disposto con gli articoli 18 e 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e dalla nozione di religione ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva succitata, consegua che, in considerazione delle circostanze del procedimento principale:

a)      la nozione di “religione” ai sensi del diritto dell’Unione non ricomprende alcun atto considerato sanzionabile penalmente in base alla normativa nazionale degli Stati membri. Se tali atti, considerati sanzionabili penalmente nello Stato di origine del richiedente, possano costituire atti di persecuzione.

b)      Se, in relazione al divieto di proselitismo e al divieto di atti contrari alla religione su cui si fondando le disposizioni di legge e regolamentari in detto paese, debbano considerarsi lecite delle restrizioni previste a tutela dei diritti e delle libertà altrui nonché dell’ordine pubblico nello Stato di origine del richiedente. Se i suddetti divieti integrino, in quanto tali, atti di persecuzione ai sensi delle succitate disposizioni della direttiva quando la loro violazione è punita con la pena di morte, anche se le leggi non sono espressamente dirette contro una determinata religione.

7)      Se dall’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2011/95/UE, interpretato in combinato disposto con il paragrafo 5, lettera b), dello stesso articolo, con l’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e con l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32/UE, consegua che, in considerazione delle circostanze del procedimento principale, l’esame dei fatti e delle circostanze può avvenire soltanto sulla base delle dichiarazioni fornite e dei documenti presentati dal richiedente, ma che è lecito esigere prova delle mancanti componenti di cui alla nozione di religione ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva quando:

–        in mancanza delle suddette indicazioni la domanda di protezione internazionale sarebbe considerata infondata ai sensi dell’articolo 32 della direttiva 2013/32/UE, in combinato disposto con l’articolo 31, paragrafo 8, lettera e), della medesima, e

–        il diritto nazionale prevede che l’autorità competente debba accertare tutti i fatti rilevanti ai fini dell’esame della domanda di protezione internazionale e che, in caso di impugnazione del provvedimento di diniego, il giudice debba indicare che l’interessato non ha offerto e presentato elementi di prova».

5.        I governi ungherese, polacco, del Regno Unito e la Commissione hanno presentato osservazioni scritte dinanzi alla Corte in conformità all’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea.

II.    Analisi

A.      Sulla prima e sulla seconda questione pregiudiziale

6.        Con le prime due questioni pregiudiziali, che è opportuno analizzare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede in sostanza alla Corte se le autorità di uno Stato membro possano esaminare nel merito una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera b), del regolamento Dublino III, senza che sia stata adottata previamente una decisione esplicita che accerti la competenza di tale Stato membro ad effettuare tale esame, sulla base dei criteri fissati da tale regolamento.

7.        L’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento Dublino III stabilisce che «[g]li Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro (…). Una domanda d’asilo è esaminata da un solo Stato membro, che è quello individuato come Stato competente in base ai criteri enunciati al capo III».

8.        L’articolo 67a, paragrafo 2, punti 1, 2 e 3, dello ZUB, nella versione in vigore al momento della presentazione della domanda del sig. Fathi, prevede che la procedura di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale sia avviata «1. con decisione dell’autorità presso cui si svolgono i colloqui, in presenza di dati che stabiliscano la competenza per l’esame della domanda di protezione internazionale di un altro Stato membro; 2. su richiesta del ministero dell’Interno e dell’Agenzia di Stato per la “Sicurezza nazionale” in merito al soggiorno illegale dello straniero nel territorio della Repubblica di Bulgaria; 3. su domanda di presa in carico o di ripresa in carico dello straniero (…)»°(7).

9.        Il giudice del rinvio precisa che, nel caso del sig. Fathi, non sussisteva alcuno dei motivi previsti dall’articolo 67a, paragrafo 2, della ZUB e che, pertanto, non è stato avviato un procedimento di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda e non è stata adottata alcuna decisione che stabilisse la competenza dello Stato bulgaro ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, del regolamento Dublino III.

10.      Tale giudice si chiede se tale regolamento si applichi solo alle procedure di trasferimento dei richiedenti protezione internazionale o se imponga, in ogni caso, allo Stato che esamina la domanda di precisare, mediante una decisione formale, sulla base di quali criteri esso si ritiene competente a procedere a tale esame.

11.      Secondo tale giudice, in assenza di una decisione siffatta, la questione se una determinata domanda di protezione internazionale rientri nel regolamento Dubino III non sarebbe risolta.

12.      Osservo in primo luogo che questa conclusione non è, a mio avviso, corretta. Ai sensi dell’articolo 1 del regolamento Dublino III, quest’ultimo «stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide». A norma dell’articolo 2, lettera b), di detto regolamento, per «domanda di protezione internazionale» si intende, ai fini dell’applicazione di quest’ultimo, «la domanda di protezione internazionale quale definita all’articolo 2, lettera h), della direttiva 2011/95», ossia, ai sensi di quest’ultima disposizione, «una richiesta di protezione rivolta a uno Stato membro da un cittadino di un paese terzo o da un apolide di cui si può ritenere che intende ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria, e che non sollecita esplicitamente un diverso tipo di protezione non contemplato nell’ambito di applicazione della presente direttiva e che possa essere richiesto con domanda separata».

13.      Orbene, il giudice del rinvio precisa che la domanda del sig. Fathi, respinta dalla DAB, deve essere considerata diretta al riconoscimento del suo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1, parte A, della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 ed entrata in vigore il 22 aprile 1954 (in prosieguo: la «Convenzione di Ginevra»)°(8) o dello status umanitario ai sensi dell’articolo 9 della ZUB, che corrisponde allo status conferito dalla protezione sussidiaria ai sensi della direttiva 2011/95.

14.      Tale domanda rientra pertanto nella definizione di cui all’articolo 2, lettera h), della direttiva 2011/95 e, di conseguenza, nella definizione di cui all’articolo 2, lettera b), del regolamento Dublino III. Di conseguenza, tale domanda, presentata da un cittadino di un paese terzo in Bulgaria, rientra nell’oggetto e nell’ambito di applicazione di detto regolamento, come definito all’articolo 1 dello stesso. Il fatto che lo Stato membro che ha svolto l’esame nel merito abbia o meno applicato i criteri stabiliti in tale regolamento per stabilire la propria competenza ad effettuare tale esame non ha, a tali fini, rilevanza alcuna.

15.      Analogamente, dovrebbe essere respinta l’interpretazione suggerita dal giudice del rinvio secondo cui il regolamento Dublino III si applicherebbe solo qualora fosse previsto il trasferimento del richiedente in un altro Stato membro. Infatti, dall’oggetto e dalle disposizioni di tale regolamento risulta che esso è destinato ad applicarsi dal momento in cui una domanda di protezione internazionale è presentata in uno degli Stati membri, indipendentemente dal fatto che sia chiaro, già al momento della presentazione di tale domanda, che più di uno Stato membro potrebbe essere considerato competente per l’esame di quest’ultima°(9).

16.      Tanto premesso, va ricordato che il regolamento Dublino III persegue lo scopo, secondo giurisprudenza costante della Corte, di stabilire un meccanismo chiaro e pratico, fondato su criteri oggettivi ed equi tanto per gli Stati membri quanto per gli interessati, che consenta di determinare con rapidità lo Stato membro competente al fine di garantire un accesso effettivo alle procedure di riconoscimento della protezione internazionale senza pregiudicare l’obiettivo di un celere espletamento delle domande di protezione internazionale, assicurando al contempo, conformemente al considerando 19 di detto regolamento, un ricorso effettivo ai sensi di detto regolamento avverso le decisioni di trasferimento°(10). Il sistema istituito dal regolamento Dublino III si basa sul principio, sancito dall’articolo 3, paragrafo 1, secondo cui un solo Stato membro è competente a esaminare le esigenze di protezione internazionale di un richiedente, nonostante il fatto che costui abbia presentato domanda in più Stati membri, regola che ha lo scopo di promuovere l’efficienza del sistema e di scoraggiare il «forum shopping» da parte dei richiedenti protezione internazionale e i loro movimenti secondari all’interno dell’Unione.

17.      Il capo VI del regolamento Dublino III prevede procedure di presa in carico e di ripresa in carico nei casi in cui lo Stato membro che procede alla determinazione dello Stato membro competente ritenga che un altro Stato membro sia competente per l’esame della domanda di protezione internazionale in base ai criteri stabiliti da tale regolamento. Se tali procedure sono attivate, e dopo che lo Stato membro richiesto abbia implicitamente o esplicitamente accettato di prendere o riprendere in carico il richiedente°(11), a costui è notificata una decisione di trasferimento verso tale Stato membro, che egli potrà contestare a norma dell’articolo 27 del regolamento Dublino III.

18.      Tale regolamento non prevede invece alcuna procedura specifica nel caso in cui lo Stato membro che procede alla determinazione dello Stato membro competente giunga alla conclusione che esso stesso, in base ai criteri stabiliti da detto regolamento, è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale. Se dal diritto all’informazione riconosciuto al richiedente dall’articolo 4 del regolamento Dublino III risulta che egli deve in ogni caso ricevere comunicazione dello Stato membro che esaminerà la sua domanda non appena quest’ultimo sarà stato determinato, e delle motivazioni che hanno condotto a tale designazione°(12), tale regolamento non impone tuttavia allo Stato membro che ha proceduto a tale determinazione di adottare e notificare al richiedente una decisione formale qualora i criteri del regolamento Dublino III lo indichino come Stato membro competente.

19.      Tuttavia, è opportuno sottolineare che solo applicando i criteri obbligatori e gerarchici di cui agli articoli da 8 a 15 del regolamento Dublino III o i criteri per le persone a carico di cui all’articolo 16 di detto regolamento, o, ancora, attivando la clausola discrezionale di cui all’articolo 17 di detto regolamento°(13), uno Stato membro può stabilire la propria competenza ad esaminare una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera b), di detto regolamento, che gli sia stata presentata. L’esame del merito di una simile domanda comporta pertanto sempre una presa di posizionepreliminare dello Stato membro che procede all’esame quanto ai motivi della sua presa in carico del richiedente.

20.      Il giudice del rinvio spiega l’assenza di una formale presa di posizione delle autorità bulgare in merito alla competenza della Repubblica di Bulgaria ad esaminare la domanda del sig. Fathi in base al contenuto dell’articolo 67 della ZUB, che impone l’avvio di una procedura di determinazione dello Stato membro competente solo in presenza di elementi che lascino supporre che un altro Stato membro potrebbe essere considerato competente ai sensi del regolamento Dublino III. Non risulta dunque in alcun modo dall’ordinanza di rinvio che le autorità bulgare non abbiano stabilito la propria competenza sulla base dei criteri previsti del regolamento Dublino III, dopo aver escluso la competenza di un altro Stato membro in mancanza di elementi in tal senso (14). Dall’ordinanza di rinvio non risulta nemmeno che il sig. Fathi non sia stato informato del fatto che la sua domanda di protezione internazionale sarebbe stata trattata dalle autorità bulgare, e, ancora meno, che egli abbia formulato una qualsiasi obiezione rispetto a una tale competenza.

21.      Inoltre, pur sottolineando che non sono note le motivazioni in base alle quali la Repubblica di Bulgaria è stata considerata lo Stato membro competente, il giudice del rinvio esclude che sia stata applicata la clausola discrezionale di cui all’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III. Di conseguenza, egli non chiede alla Corte di pronunciarsi sull’interpretazione di tale articolo.

22.      In tali circostanze, e senza bisogno di ulteriori analisi, ritengo, sulla base delle considerazioni che precedono, che sia opportuno rispondere alla prima e alla seconda questione pregiudiziale posta dall’Administrativen sad Sofia-grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria), lette congiuntamente, nel senso che uno Stato membro che esamina nel merito una domanda di protezione internazionale che gli è stata presentata non è tenuto ad adottare, previamente, una decisione formale con cui esso riconosca la propria competenza, ai sensi del regolamento Dublino III, a effettuare tale esame. Tale Stato membro deve tuttavia, a norma dell’articolo 4, paragrafo 1, del suddetto regolamento, informare il richiedente, secondo le modalità di cui al paragrafo 2 del medesimo articolo, del fatto che la sua domanda sarà esaminata dalle autorità competenti di detto Stato membro e delle ragioni che lo hanno indotto a dichiarare la propria competenza ai sensi del suddetto regolamento.

23.      Per quanto riguarda l’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, sul quale le parti interessate che hanno presentato osservazioni scritte alla Corte hanno preso posizione nonostante il fatto che la sua interpretazione non fosse stata richiesta dal giudice del rinvio, mi limiterò alle seguenti riflessioni nel caso in cui la Corte decida comunque di statuire al riguardo.

24.      Il suddetto articolo, intitolato «[c]lausole discrezionali», dispone, al paragrafo 1, primo comma, che «[i]n deroga all’articolo 3, paragrafo 1, ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento». Il secondo comma dello stesso paragrafo precisa che «[l]o Stato membro che decide di esaminare una domanda di protezione internazionale ai sensi del presente paragrafo diventa lo Stato membro competente e assume gli obblighi connessi a tale competenza. Se applicabile, esso ne informa, utilizzando la rete telematica “DubliNet” istituita a norma dell’articolo 18 del regolamento [n. 1560/2003], lo Stato membro precedentemente competente, lo Stato membro che ha in corso la procedura volta a determinare lo Stato membro competente o quello al quale è stato chiesto di prendere o riprendere in carico il richiedente». Il terzo comma dispone che «[l]o Stato membro che diventa competente ai sensi del presente paragrafo lo indica immediatamente nell’Eurodac ai sensi del regolamento (UE) n. 603/2013 (15), aggiungendo la data in cui è stata adottata la decisione di esaminare la domanda».

25.      L’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III riproduce la clausola di sovranità già contenuta nell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento n. 343/2003 (in prosieguo: il «regolamento Dublino II») (16) e che si fonda sul riconoscimento della protezione internazionale quale prerogativa dello Stato. Come la clausola umanitaria, di cui all’articolo 15 del regolamento Dublino II, che figura ora all’articolo 17, paragrafo 2, del regolamento Dublino III, la clausola di sovranità introduce, nel sistema istituito da tale regolamento, un importante elemento di flessibilità, riconoscendo a qualunque Stato membro cui sia stata presentata una domanda di protezione internazionale la facoltà di derogare al principio secondo cui è lo Stato membro individuato in base ai criteri oggettivi stabiliti in detto regolamento ad essere competente per l’esame della domanda.

26.      Sebbene l’esercizio di tale diritto di avocazione non sia soggetto ad alcuna condizione particolare (17) e che, pertanto, la clausola di sovranità possa, in linea di principio, essere attivata sulla base di considerazioni di qualsiasi tipo (18), il suo uso è stato invocato essenzialmente per motivi umanitari e come salvaguardia contro malfunzionamenti del sistema di Dublino che potrebbero portare a violazioni dei diritti fondamentali dei richiedenti protezione internazionale. In tale ottica, la Corte ha riconosciuto, in particolare a seguito della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU») del 21 gennaio 2011, M.S.S./Belgio e Grecia (19), che, nonostante il suo carattere discrezionale e l’ampio potere discrezionale che conferisce agli Stati membri (20), la clausola di sovranità può, in determinate circostanze, in particolare per non aggravare una situazione di violazione dei diritti fondamentali del richiedente, comportare per gli Stati membri non una mera facoltà di prendere in carico il richiedente, ma un vero e proprio obbligo (21).

27.      La Corte ha inoltre chiarito, con riferimento all’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento Dublino II, che esso conferisce agli Stati membri un potere discrezionale che costituisce parte integrante del regime europeo comune in materia di asilo previsto dal Trattato FUE ed elaborato dal legislatore dell’Unione e che tale potere deve essere esercitato dagli Stati membri nel rispetto delle altre disposizioni di detto regolamento e delle disposizioni della Carta (22). Ne consegue che, sebbene – contrariamente a quanto previsto dalla Commissione nella sua proposta di riforma del regolamento Dublino II (in prosieguo: la «proposta di regolamento Dublino III») (23) – il consenso del richiedente non sia necessario per attivare la clausola di sovranità (24), tale clausola non può, in ogni caso, essere applicata in violazione dei diritti fondamentali di quest’ultimo (25). Non condivido, pertanto, l’opinione espressa dal governo ungherese nelle sue osservazioni scritte, secondo cui l’esercizio del diritto di avocazione di cui all’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III rientra nella libera valutazione degli Stati membri e sarebbe sottratto a ogni sindacato giurisdizionale.

28.      Detto questo, noto che la formulazione dell’articolo 17, paragrafo 1, primo comma, del regolamento Dublino III, che, per il resto, riproduce quasi parola per parola (26) quella dell’articolo 3, paragrafo 2, prima frase, del regolamento Dublino II, differisce da quest’ultima in quanto utilizza l’espressione «può decidere di esaminare» invece di «può esaminare». Quest’evoluzione nella formulazione della clausola di sovranità è riprodotta all’inizio del secondo comma dell’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, secondo cui «[l]o Stato membro che decide di esaminare una domanda di protezione internazionale ai sensi del presente paragrafo diventa lo Stato membro competente» (27). Inoltre, l’articolo 17, paragrafo 1, terzo comma, del regolamento Dublino III, che non ha corrispondenti nell’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento Dublino II, prevede che lo Stato membro che procede all’avocazione domanda di protezione internazionale deve indicare nel sistema Eurodac, conformemente al regolamento n. 603/2013, la data in cui è stata adottata la decisione di esaminare la domanda.

29.      Questi emendamenti riflettono chiaramente, a mio avviso, l’intenzione del legislatore di formalizzare la procedura di ricorso alla clausola di sovranità e di chiarire le modalità della sua attivazione, come risulta anche dalla proposta di regolamento Dublino III (28), il che si spiega anche con l’esigenza di evitare che l’esercizio della facoltà di avocazione da parte di uno Stato membro implichi una pluralità di procedure di esame e finisca per essere un fattore di inefficienza del sistema.

30.      Sono pertanto incline a ritenere, sulla base delle considerazioni di cui sopra, che il ricorso alla clausola di sovranità contenuta nell’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III imponga allo Stato membro che intende avvalersene di adottare una decisione formale a tal fine.

31.      In ogni caso, conformemente alla mia conclusione di cui al superiore paragrafo 22, ritengo che, in virtù dell’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, il richiedente abbia il diritto di essere informato dell’avocazione della sua domanda di protezione internazionale in applicazione dell’articolo 17, paragrafo 1, di tale regolamento non appena lo Stato membro che intende procedervi abbia preso una decisione in tal senso.

B.      Sulla terza questione pregiudiziale

32.      Con la terza questione pregiudiziale, il cui contenuto è difficile da accertare, il giudice del rinvio sembra chiedere, in sostanza, alla Corte se, ai sensi dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, spetti al giudice adito da un richiedente protezione internazionale avverso la decisione di rigetto della sua domanda verificare d’ufficio se le disposizioni del regolamento Dublino III si applichino a tale richiedente, in una situazione in cui lo Stato membro che ha esaminato la domanda non abbia adottato una decisione esplicita sulla sua competenza a decidere in merito a tale domanda secondo i criteri di detto regolamento e laddove risulti che tale Stato membro non ha applicato la clausola discrezionale di cui all’articolo 17, paragrafo 1, di detto regolamento.

33.      Il giudice del rinvio parte dalla premessa che, qualora lo Stato membro che ha esaminato una domanda di protezione internazionale non abbia adottato alcuna decisione esplicita in merito all’applicazione dei criteri di competenza del regolamento Dublino III, la questione se tale domanda rientri o meno nell’ambito di applicazione di detto regolamento non sarebbe risolta. Il giudice del rinvio si chiede se sia tenuto ad esaminare d’ufficio tale questione, poiché, ai sensi del considerando 54 della direttiva 2013/32, quest’ultima è destinata ad applicarsi ai richiedenti ai quali si applica il regolamento Dublino III «quale integrazione e lasci[a] impregiudicate le disposizioni di detto regolamento».

34.      Orbene, come ho indicato al paragrafo 12 delle presenti conclusioni, tale premessa è errata: la questione se lo Stato membro che ha preso in carico l’esame nel merito di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera b), del regolamento Dublino III, di cui è stato adito, abbia applicato o meno i criteri stabiliti da tale regolamento per stabilire la propria competenza a svolgere tale esame è irrilevante al fine di determinare se tale domanda rientri o meno nell’ambito di applicazione del regolamento Dublino III. In questo caso, come ho sottolineato anche ai paragrafi 13 e 14 delle presenti conclusioni, la richiesta del sig. Fathi rientra nel campo di applicazione di tale regolamento, anche in assenza di una decisione esplicita delle autorità bulgare in merito alla loro competenza ai sensi del regolamento Dublino III a esaminare tale richiesta.

35.      Sulla base delle considerazioni che precedono, propongo di rispondere alla terza questione pregiudiziale nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui lo Stato membro che ha proceduto all’esame di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera b), del regolamento Dublino III, che gli è stata presentata, non ha adottato una decisione espressa circa la sua competenza ai sensi di tale regolamento a statuire su detta domanda, e in cui risulta che tale Stato membro non ha applicato la clausola discrezionale di cui all’articolo 17, paragrafo 1, di detto regolamento, non spetta al giudice del rinvio investito di un ricorso contro la decisione di rigetto della suddetta domanda verificare d’ufficio se tale regolamento si applichi al richiedente.

36.      A differenza del governo ungherese e della Commissione, non credo che la terza questione pregiudiziale possa essere interpretata nel senso che il giudice del rinvio chiede alla Corte se esso sia tenuto a valutare d’ufficio se la competenza delle autorità che hanno esaminato la domanda di protezione internazionale sia stata correttamente radicata sulla base dei criteri e delle norme stabiliti dal regolamento Dublino III.

37.      Se, tuttavia, la Corte dovesse interpretarla in tal senso, mi limiterei a ricordare che il legislatore dell’Unione intendeva mantenere separate la procedura di determinazione dello Stato membro competente ai sensi del regolamento Dublino III e quella di esame nel merito della domanda di protezione internazionale. Così, da un lato, ai sensi dell’articolo 2, lettera d), del regolamento Dublino III, ai fini di tale regolamento, per «esame di una domanda di protezione internazionale» si intende «l’insieme delle misure d’esame, le decisioni o le sentenze pronunciate dalle autorità competenti su una domanda di protezione internazionale conformemente alla direttiva [2013/32] e alla direttiva [2011/95] ad eccezione delle procedure volte a determinare quale sia lo Stato competente in applicazione del [predetto] regolamento» (29); dall’altro, conformemente al considerando 53 della direttiva 2013/32, quest’ultima non si applica alle procedure tra Stati membri disciplinate dal regolamento Dublino III.

38.      Non spetta, pertanto, al giudice nazionale investito di un ricorso avverso una decisione adottata al termine della procedura d’esame di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera d), del regolamento Dublino III, esaminare d’ufficio se il procedimento di determinazione dello Stato membro competente ai sensi di tale regolamento si sia svolto correttamente e se lo Stato membro che ha esaminato la domanda sia effettivamente quello che, in base alle norme e ai criteri stabiliti da tale regolamento, doveva essere designato competente.

C.      Sulla quarta, sulla quinta e sulla settima questione pregiudiziale

39.      Con la quarta e la quinta questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede alla Corte se sussista un motivo di persecuzione fondata sulla religione qualora le dichiarazioni del richiedente e i documenti da lui prodotti non riguardino tutti gli elementi della nozione di «religione», quale definita all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95, e, in particolare, qualora tali dichiarazioni e documenti non riguardino gli aspetti caratteristici dell’appartenenza a una religione, tali da consentire ai presunti persecutori di presumere l’appartenenza del richiedente a tale religione. Con la settima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio intende accertare se, in una situazione del genere, al richiedente possa essere imposto di provare gli elementi mancanti, costitutivi della nozione di «religione» ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95, qualora, in assenza di tali informazioni, la sua domanda debba essere respinta in quanto infondata.

40.      Ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95, «[n]el valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi: (…); b) il termine “religione” include, in particolare, le convinzioni teiste, non teiste e ateiste, la partecipazione a, o l’astensione da, riti di culto celebrati in privato o in pubblico, sia singolarmente sia in comunità, altri atti religiosi o professioni di fede, nonché le forme di comportamento personale o sociale fondate su un credo religioso o da esso prescritte (…)».

41.      Questa disposizione fornisce una definizione ampia del concetto di «religione», integrandovi il complesso delle sue componenti, siano esse pubbliche o private, collettive o individuali (30). Questa nozione, ampiamente ispirata alle norme sviluppate nel contesto del diritto internazionale dei diritti umani (31) e ripresa dall’UNHCR (32), non si limita alle religioni tradizionali, a quelle con elementi istituzionali o pratiche simili a quelle delle religioni tradizionali, ma copre qualsiasi credo o convinzione religiosa, anche minoritaria (33), così come il rifiuto di osservare una determinata religione o di avere credenze religiose. Essa riguarda sia il fatto in sé di avere convinzioni religiose, anche in assenza di qualsiasi manifestazione esterna, sia l’espressione pubblica di tali convinzioni, l’osservanza delle pratiche religiose o, ancora, l’insegnamento della religione. La religione è considerata come «credo», «identità» o «stile di vita» (34). Queste tre componenti della definizione implicano un rapporto tra la persona e la religione molto diverso. La prima implica infatti l’adesione volontaria a una serie di precetti, mentre la religione come identità, che è alla base di molti casi di persecuzione nel mondo, si fonda piuttosto sull’esistenza di legami familiari, culturali, etnici o nazionali, che definiscono l’appartenenza, piuttosto che l’adesione, di una persona a una determinata comunità. Infine, come stile di vita, la religione può non solo occupare la sfera spirituale di una persona, ma anche incidere su diversi aspetti della sua esistenza, imponendogli regole di comportamento molto diverse (preghiere, riti, cerimonie, codici di abbigliamento o alimentari, insegnamento religioso, proselitismo ecc.), che possono entrare in conflitto, in modo più o meno aperto, con le leggi di un determinato Stato (35).

42.      Dall’ampiezza della nozione di «religione» definita all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 – che riflette lo sforzo del legislatore dell’Unione di coprire, nella misura del possibile, i vari aspetti di tale nozione – risulta che non si può esigere da un richiedente protezione internazionale il quale invochi un rischio di persecuzione per motivi attinenti alla religione che, per comprovare le sue affermazioni relative alle sue convinzioni religiose, fornisca indicazioni su tutti gli elementi di tale nozione. In particolare, poiché tale nozione comprende anche il fatto in sé di avere convinzioni religiose, non si può esigere che tale richiedente dimostri l’esecuzione, in ambito pubblico, di atti connessi a tali convinzioni o imposti dalle medesime o l’astensione dal compiere atti incompatibili con tali convinzioni e, ancor meno, che dimostri, con l’ausilio di prove documentali, la fondatezza delle sue asserzioni al riguardo.

43.      Tale conclusione è indirettamente confermata dal principio enunciato dalla Corte nella sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 65), secondo cui l’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi non è individuata in funzione dell’elemento della libertà di religione che viene leso, bensì della natura della repressione esercitata (36). È pertanto la gravità delle misure e delle sanzioni adottate, o che potrebbero essere adottate, nei confronti dell’interessato che determinerà se vi sia persecuzione (37). Orbene, tali misure e sanzioni, che raggiungono la gravità richiesta per l’accertamento della persecuzione o del rischio di persecuzione, possono essere adottate o adottabili anche in assenza di manifestazioni esterne, da parte dell’interessato, delle sue convinzioni religiose, ad esempio unicamente a causa della sua conversione, del suo rifiuto di osservare la religione ufficiale del suo paese di origine o della sua appartenenza a una determinata comunità religiosa (38).

44.      Inoltre, dall’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 – ai sensi del quale, nell’esaminare se un richiedente abbia un timore fondato di essere perseguitato, è irrilevante che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni – risulta che non è sempre necessario, per decidere di pronunciarsi su una domanda di protezione internazionale fondata sul timore di persecuzioni per motivi religiosi, valutare la credibilità del credo religioso del richiedente nel contesto della valutazione dei fatti e delle circostanze di cui all’articolo 4 della suddetta direttiva (39).

45.      È opportuno ricordare che, a norma di questo articolo, l’esame di una domanda di protezione internazionale deve comprendere una valutazione individuale di quest’ultima, che tenga conto in particolare di tutti i fatti pertinenti riguardanti il paese d’origine della persona interessata al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dalla persona interessata e della situazione individuale e delle circostanze personali di quest’ultima (40). Tale esame è costituito da due fasi distinte. La prima fase riguarda l’accertamento delle circostanze di fatto che possono costituire elementi di prova a sostegno della domanda, mentre la seconda fase riguarda la valutazione giuridica di tali elementi, che consiste nel decidere se, alla luce dei fatti che caratterizzano un caso concreto, siano soddisfatti i requisiti sostanziali previsti dagli articoli 9 e 10 o 15 della direttiva 2011/95 per il riconoscimento di una protezione internazionale. Nella prima fase – in cui rientrano la quarta, la quinta e la settima questione sollevate dal giudice del rinvio – gli Stati membri possono ritenere che sia di norma onere del richiedente produrre tutti gli elementi necessari a motivare la domanda, ma spetta allo Stato membro interessato cooperare con tale richiedente al momento della determinazione degli elementi significativi della stessa, conformemente all’articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva (41).

46.      Inoltre, le autorità competenti per l’esame di una domanda di protezione internazionale devono, se del caso, tener conto anche delle spiegazioni fornite in merito all’assenza di elementi di prova e alla credibilità generale del richiedente. Peraltro, nell’ambito delle verifiche compiute dalle autorità competenti, in virtù dell’articolo 4 della direttiva 2011/95, quando taluni aspetti delle dichiarazioni di un richiedente asilo non sono suffragati da prove documentali o di altro tipo, tali aspetti non necessitano di una conferma, purché siano soddisfatte le condizioni cumulative stabilite dall’articolo 4, paragrafo 5, lettere da a) a e), della medesima direttiva (42).

47.      Nel caso di domande di protezione internazionale fondate sul timore di persecuzioni per motivi religiosi, il cui esame è spesso particolarmente complesso, si dovrebbe tener conto, in particolare, oltre che dello status individuale e della situazione personale del richiedente, anche delle sue convinzioni religiose e delle circostanze in cui sono state acquisite, del modo in cui egli intende e vive la sua fede (o la sua mancanza di fede), del suo rapporto con gli aspetti dottrinali, rituali o prescrittivi della religione a cui dichiara di appartenere o da cui intende discostarsi, del fatto che egli svolga, eventualmente, un ruolo particolare nella trasmissione della sua fede, ad esempio attraverso l’insegnamento o il proselitismo, nonché delle interazioni tra fattori religiosi e fattori identitari, etnici (43) o di genere.

48.      Sebbene gli elementi che ho appena indicato consentano di fornire indicazioni sul significato della religione per il richiedente protezione internazionale e di comprendere meglio in che modo le restrizioni all’esercizio della libertà di religione nel suo paese d’origine potrebbero incidere su di lui, è importante sottolineare che, nell’esaminare le domande basate sul timore di persecuzioni per motivi religiosi, la questione di sapere ciò che si intenda con la nozione di «religione» per i (potenziali) responsabili di persecuzioni è di fondamentale importanza. Rispondere a tale domanda aiuta a determinare l’atteggiamento che ci si può aspettare da tali responsabili nei confronti delle convinzioni o dell’identità religiosa del richiedente, nonché nei confronti dei comportamenti (o delle omissioni (44)) che ne costituiscono la manifestazione esterna (45).

49.      Nel caso del sig. Fathi, la sua origine curda, il fatto di essersi convertito al cristianesimo e le modalità di questa conversione, la sua partecipazione alla trasmissione di un’emittente cristiana bandita nel suo paese d’origine, il suo arresto e interrogatorio da parte delle autorità di tale paese, nonché le sue confessioni sulla sua conversione durante la detenzione, sono tutti elementi che la DAB era tenuta a prendere in considerazione in questa prima fase della sua valutazione, unitamente ai fatti pertinenti relativi al paese di origine del richiedente, conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2011/95.

50.      Sulla base delle considerazioni di cui sopra, suggerisco che la risposta alla quarta, quinta e settima questione pregiudiziale, nel loro complesso, sia che l’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), e paragrafo 2, della direttiva 2011/95 devono essere interpretati nel senso che un richiedente protezione internazionale che invochi a sostegno della sua domanda un rischio di persecuzione per motivi religiosi non è tenuto, per dimostrare le sue affermazioni relative al suo credo religioso, a rendere dichiarazioni o produrre documenti su tutti gli elementi della nozione di «religione» come definita all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95. In particolare, il richiedente non è tenuto necessariamente ad attestare, pena il rigetto della sua domanda, il compimento, in ambito pubblico, di atti connessi a tale credo o imposti dal medesimo, o l’astensione dal compimento di atti incompatibili con detto credo, né a dimostrare, con l’ausilio di prove documentali, l’effettività delle sue affermazioni al riguardo.

D.      Sulla sesta questione pregiudiziale

51.      Con la sesta questione pregiudiziale, il giudice di rinvio chiede, in sostanza, se e, eventualmente, in quali circostanze le restrizioni alla libertà di religione previste nello Stato di origine del richiedente, quali il divieto di proselitismo o il divieto di atti contrari alla religione ufficiale di tale Stato, giustificate con l’obiettivo di salvaguardare l’ordine pubblico in tale paese, possano costituire atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 9, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2011/95, letto alla luce dell’articolo 10 della Carta. Il giudice di rinvio si chiede inoltre se la mera esistenza di tali divieti, anche quando non siano diretti contro una religione in particolare, sia sufficiente a dar luogo a una persecuzione qualora la loro violazione sia punibile con la pena di morte.

52.      L’articolo 9 della direttiva 2011/95 definisce gli elementi che consentono di ritenere che si tratti di un atto di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della convenzione di Ginevra. Ai sensi del paragrafo 1, lettera a), dell’articolo 9 di detta direttiva, tali atti devono essere, «per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (46). Conformemente al paragrafo 2, lettere b) e c), del medesimo articolo 9, gli atti di persecuzione ai sensi del paragrafo 1 possono assumere in particolare la forma di «provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia e/o giudiziari, discriminatori per loro stessa natura o attuati in modo discriminatorio» e di «azioni giudiziarie o sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie».

53.      Il diritto alla libertà di religione sancito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta (47) corrisponde al diritto garantito dall’articolo 9 della CEDU (48).

54.      Come la Corte ha affermato al punto 57 della sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518), la libertà di religione rappresenta uno dei cardini di una società democratica e costituisce un diritto umano fondamentale. La violazione del diritto alla libertà di religione può presentare una gravità tale da essere assimilata ai casi contemplati all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU, cui fa riferimento, a titolo indicativo, l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2011/95 per determinare quali atti in particolare devono essere considerati alla stregua di una persecuzione.

55.      Tuttavia, ciò non significa, come la Corte ha precisato ai punti 58 e 59 della stessa sentenza, che qualsiasi violazione del diritto alla libertà di religione garantito dall’articolo 10, paragrafo 1, della Carta costituisca un atto di persecuzione che obblighi le autorità competenti a concedere alla vittima di tale violazione lo status di rifugiato ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, in quanto, affinché gli atti in questione possano essere considerati una persecuzione, occorre una «violazione grave» di detta libertà che colpisca l’interessato in modo significativo. Inoltre, «una violazione del diritto alla libertà di religione può costituire una persecuzione a norma dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva [2011/95] quando il richiedente asilo, a causa dell’esercizio di tale libertà nel paese d’origine, corre un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguito penalmente, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti ad opera di uno dei soggetti indicati all’articolo 6 [di tale] direttiva» (49).

56.      Dai principi stabiliti dalla Corte e sopra esposti risulta che l’esistenza di persecuzioni per motivi religiosi dipende, da un lato, dalla gravità della lesione della libertà di religione del richiedente asilo – lesione che deve costituire una violazione di tale libertà – e, dall’altro, dalla gravità degli atti ai quali il richiedente asilo è esposto in conseguenza dell’esercizio di tale libertà nel suo paese d’origine, aspetti, questi, autonomi tra loro (50).

57.      In un tale contesto, il fatto che le restrizioni alla libertà di religione imposte nel paese di origine del richiedente, nonché le sanzioni previste per la violazione dei divieti connessi a tali restrizioni, siano giustificate dalla necessità di mantenere l’ordine pubblico, la sicurezza, la salute o la morale pubblica in tale paese, non consente di escludere automaticamente l’esistenza di una persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95, che deve essere distinta dal perseguimento legittimo di tale obiettivo (51).

58.      Il giudice del rinvio rileva che restrizioni alla libertà di religione, destinate a salvaguardare l’ordine pubblico o la pubblica sicurezza o a proteggere i diritti e le libertà altrui, sono ammesse dalla legislazione di taluni Stati membri, conformemente all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta (52). Esso si chiede se, alla luce delle precisazioni fornite dalla Corte al punto 66 della sentenza del 7 novembre 2013, X e a. (da C‑199/12 a C‑201/12, EU:C:2013:720) per quanto riguarda la nozione di «orientamento sessuale» (53), i comportamenti illeciti a norma del diritto interno degli Stati membri possano rientrare nella nozione di «religione» ai sensi del diritto dell’Unione e se la repressione di tali comportamenti nel paese di origine del richiedente possa costituire persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95.

59.      Se, per analogia con quanto affermato dalla Corte al punto 66 della sentenza del 7 novembre 2013, X e a. (da C‑199/12 a C‑201/12, EU:C:2013:720), si dovesse ritenere che la nozione di «religione» ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95 non si riferisca, in linea di principio, ad atti penalmente rilevanti secondo la normativa nazionale degli Stati membri, il fatto, invece, che tale normativa possa prevedere restrizioni all’esercizio della libertà di religione vietando determinati comportamenti e sanzionando la violazione di tali divieti con sanzioni penali, o anche con la reclusione (54), non consente di trarre conclusioni definitive circa l’interpretazione e l’applicazione della nozione di «atti di persecuzione» ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95 e, in particolare, non autorizza in alcun modo l’esclusione automatica dall’ambito di applicazione di tale nozione della repressione degli stessi illeciti nel paese di origine del richiedente. Infatti, da un lato, i comportamenti che possono essere vietati, e le violazioni della libertà religiosa che ne derivano, possono variare radicalmente a seconda della definizione adottata in ciascun ordinamento giuridico dei concetti che entrano nella determinazione degli elementi costitutivi del reato (55), nonché, per quanto riguarda le finalità perseguite da tali divieti, di concetti quali «ordine pubblico», «pubblica sicurezza» o «moralità». Dall’altro lato, e in modo più pregnante, la gravità della repressione legata alla commissione di tali reati e il carattere eventualmente sproporzionato o discriminatorio delle sanzioni previste e applicate nella pratica non possono, in ogni caso, essere ignorati.

60.      Per quanto riguarda la questione se la sola circostanza che la normativa dello Stato di origine del richiedente asilo incrimini e punisca con una pena detentiva, o addirittura con la pena capitale, i comportamenti connessi all’esercizio della libertà di religione – quali una conversione religiosa, la manifestazione pubblica della propria fede, la partecipazione, in pubblico o in privato, a cerimonie religiose, l’insegnamento o il proselitismo religioso – sia di per sé sufficiente a dimostrare l’esistenza di una persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95, ritengo che la risposta a una tale domanda dipenda essenzialmente dalla misura in cui tali sanzioni sono effettivamente applicate.

61.      Nelle cause in cui venga in rilievo l’incriminazione di atti connessi all’esercizio della libertà di religione, è quindi essenziale che le autorità competenti per l’esame della domanda d’asilo dispongano, oltre che delle dichiarazioni del richiedente e di eventuali documenti da questo prodotti, di informazioni il più possibile complete e aggiornate, provenienti da fonti affidabili, sul modo in cui le sanzioni per tali comportamenti sono effettivamente applicate nel paese di origine del richiedente, al fine di accertare il rischio che il richiedente corre, tenuto conto della sua situazione personale e di tutte le circostanze che lo riguardano, di essere soggetto a tali sanzioni (56).

62.      Concludo ricordando che la Corte EDU si è recentemente pronunciata in tre occasioni in cause riguardanti il rigetto di domande di asilo presentate da cittadini iraniani convertiti al cristianesimo. Nella sentenza del 23 marzo 2016, F.G./Svezia, la Grande sezione della Corte EDU ha concluso che «vi sarebbe una violazione degli articoli 2 e 3 della [CEDU] se il ricorrente fosse rinviato in Iran in assenza di una valutazione ex nunc da parte delle autorità svedesi delle conseguenze della sua conversione» (57). Con decisione del 5 luglio 2016, T.M. e Y.A./Regno dei Paesi Bassi (58), la Corte EDU ha invece respinto la domanda dei ricorrenti in quanto manifestamente infondata, ritenendo che non vi fossero elementi che potessero mettere in discussione la valutazione delle autorità dei Paesi Bassi secondo cui il racconto dei ricorrenti sulla loro asserita conversione non era credibile. Infine, nella sentenza del 19 dicembre 2017, A./Svizzera, la Corte EDU ha ancora una volta escluso una violazione degli articoli 2 e 3 della CEDU, ritenendo non inadeguata la valutazione delle autorità svizzere secondo cui le persone convertite che non erano già note alle autorità iraniane, anche per fatti diversi dalla loro conversione, e che intendevano praticare la loro fede con discrezione, non avrebbero corso un rischio di trattamenti contrari a tali disposizioni (59). A tal fine, la Corte ha distinto la causa ad essa sottoposta da quelle che hanno dato luogo alla sentenza della Corte del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518) (60).

63.      Due osservazioni s’impongono in merito al caso che ha dato luogo all’ultima sentenza della Corte EDU di cui sopra. In primo luogo, il ricorrente in tale causa (come quello nella causa che ha dato luogo alla sentenza della Corte EDU del 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia, CE:ECHR:2016:0323JUD004361111) si era convertito dopo aver lasciato l’Iran. La sua domanda d’asilo riguardava pertanto un bisogno di protezione internazionale che si era manifestato «fuori dal paese di origine (“sur place”)», in conformità all’articolo 5 della direttiva 2011/95. Orbene, come ha sottolineato la Corte EDU in tale sentenza, facendo riferimento agli orientamenti sulle domande di asilo fondate sulla religione, quando il richiedente asilo fa riferimento a una conversione «sur place», tendono a emergere particolari preoccupazioni in materia di credibilità e sarà necessario un esame rigoroso e approfondito delle circostanze e dellaconversione (61). Inoltre, come la Corte EDU ha altresì ricordato, in questo tipo di cause i potenziali responsabili della persecuzione tendono a dare meno importanza alle conversioni sorte fuori dal paese d’origine, dato il loro carattere spesso «opportunistico» (62). Nel procedimento principale, invece, la conversione del sig. Fathi sarebbe avvenuta mentre egli si trovava ancora in Iran e, secondo le sue dichiarazioni, le autorità iraniane ne erano al corrente (63). Questi due elementi devono essere tenuti in debita considerazione nel valutare le conseguenze che egli subirebbe se tornasse nel suo paese d’origine. In secondo luogo, è necessaria una particolare precauzione, a mio parere, quando l’autorità competente, nel valutare l’entità del rischio di essere effettivamente perseguitato, tiene conto della possibilità che, una volta che il richiedente sia tornato nel suo paese, possa optare per una «pratica discreta della sua fede». A tale riguardo, ricordo che al punto 79 della sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518), la Corte ha precisato che il fatto che la persona interessata «possa scongiurare il rischio rinunciando a taluni atti religiosi non è, in linea di principio, pertinente». Il credo religioso, l’identità o lo stile di vita, che sono tutti elementi della nozione di «religione» ai sensi dell’articolo 1, parte A, della Convenzione di Ginevra e, pertanto, dell’articolo 10 della direttiva 2011/95, devono essere considerati talmente fondamentali per l’identità umana che non si può costringere a nasconderli, modificarli o rinunciarvi per sfuggire alla persecuzione (64).

64.      Sulla base di tutte le considerazioni che precedono, suggerisco alla Corte di rispondere alla sesta questione pregiudiziale nel senso che l’esistenza di una persecuzione, ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95, per motivi religiosi dipende, da un lato, dalla gravità della lesione della libertà di religione del richiedente e, dall’altro, dalla gravità degli atti ai quali il richiedente è esposto in conseguenza dell’esercizio di tale libertà nel suo paese d’origine. Il fatto che le restrizioni alla libertà di religione imposte nel paese d’origine del richiedente, nonché le sanzioni previste per la violazione degli obblighi connessi a tali restrizioni, siano giustificate dall’esigenza di preservare l’ordine, la sicurezza, la salute o la morale in tale paese non autorizza ad escludere in modo automatico l’esistenza di una persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95. La circostanza che la normativa del paese di origine del richiedente asilo punisca con sanzioni sproporzionate o discriminatorie, o addirittura con la pena di morte, comportamenti connessi con l’esercizio della libertà di religione, quali la conversione o il proselitismo religioso, è sufficiente a far ravvisare l’esistenza di una persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95, qualora risulti che tali sanzioni sono effettivamente applicate e che il richiedente corre un rischio assodato di subirle in caso di ritorno in tale paese.

III. Conclusione

65.      Alla luce di tutte le considerazioni che precedono propongo alla Corte di rispondere come segue alle questioni pregiudiziali proposte dall’Administrativen sad Sofia-Grad (Tribunale amministrativo di Sofia, Bulgaria):

1)      Il regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, deve essere interpretato nel senso che uno Stato membro che esamina nel merito una domanda di protezione internazionale che gli è stata presentata non è tenuto ad adottare, previamente, una decisione formale con cui esso riconosca la propria competenza a effettuare tale esame ai sensi del regolamento n. 604/2013. Tale Stato membro deve tuttavia, a norma dell’articolo 4, paragrafo 1, del suddetto regolamento, informare il richiedente, secondo le modalità di cui al paragrafo 2 del medesimo articolo, del fatto che la sua domanda sarà esaminata dalle autorità competenti di detto Stato membro e delle ragioni che lo hanno indotto a dichiarare la propria competenza ai sensi del suddetto regolamento.

2)      In una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui lo Stato membro che ha proceduto all’esame di una domanda di protezione internazionale ai sensi dell’articolo 2, lettera b), del regolamento n. 604/2013, che gli è stata presentata, non ha adottato una decisione espressa circa la sua competenza ai sensi di tale regolamento a statuire su detta domanda, e in cui risulti che tale Stato membro non ha applicato la clausola discrezionale di cui all’articolo 17, paragrafo 1, di detto regolamento, non spetta al giudice nazionale investito di un ricorso contro la decisione di rigetto della suddetta domanda verificare d’ufficio se tale regolamento si applichi al richiedente.

3)      L’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), e paragrafo 2, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che un richiedente protezione internazionale che invochi a sostegno della sua domanda un rischio di persecuzione per motivi religiosi non è tenuto, per dimostrare le sue affermazioni relative al suo credo religioso, a rendere dichiarazioni o produrre documenti su tutti gli elementi della nozione di «religione» quale definita all’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2011/95. In particolare, tale richiedente non è tenuto necessariamente ad attestare, pena il rigetto della sua domanda, il compimento, in ambito pubblico, di atti connessi a tale credo o imposti dal medesimo, o l’astensione dal compimento di atti incompatibili con detto credo, né a dimostrare, con l’ausilio di prove documentali, l’effettività delle sue affermazioni al riguardo.

4)      L’esistenza di una persecuzione per motivi religiosi ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95 dipende, da un lato, dalla gravità della lesione della libertà di religione del richiedente asilo e, dall’altro, dalla gravità degli atti ai quali tale richiedente è esposto in conseguenza dell’esercizio di tale libertà nel suo paese d’origine. Il fatto che le restrizioni alla libertà di religione imposte nel paese d’origine del richiedente, nonché le sanzioni previste per la violazione degli obblighi connessi a tali restrizioni, siano giustificate dall’esigenza di preservare l’ordine, la sicurezza, la salute o la morale in tale paese non autorizza ad escludere in modo automatico l’esistenza di una persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95. La circostanza che la normativa del paese di origine del richiedente asilo punisca con sanzioni sproporzionate o discriminatorie, o addirittura con la pena di morte, comportamenti connessi all’esercizio della libertà di religione, quali la conversione o il proselitismo religioso, è sufficiente a far ravvisare l’esistenza di una persecuzione ai sensi dell’articolo 9 della direttiva 2011/95, qualora risulti che tali sanzioni sono effettivamente applicate e che il richiedente corre un rischio assodato di subirle in caso di ritorno in tale paese.


1      Lingua originale: il francese.


2      Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (GU 2013, L 180, pag. 31).


3      Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).


4      Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).


5      La lettera, che è stata prodotta dinanzi al giudice del rinvio, era una dichiarazione di un dipendente della Nejat TV indirizzata al sig. Fathi e indicante un «numero di causa dinanzi all’ONU». Questa lettera conferma che Fathi è un cristiano e che si è presentato come tale dinanzi all’emittente televisiva e specifica che i contatti con lui sono stati mantenuti in vari momenti nel corso degli anni, a seguito delle sue chiamate ai consulenti telefonici dell’emittente.


6      Lo status umanitario ai sensi dell’articolo 9 dello ZUB corrisponde alla protezione sussidiaria prevista della direttiva 2011/95.


7      Il giudice del rinvio sottolinea che, prima dell’entrata in vigore dell’articolo 67a, paragrafo 2, della ZUB, il procedimento di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione internazionale veniva avviato al momento della presentazione di tale domanda.


8      La convenzione di Ginevra è stata integrata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, adottato il 31 gennaio 1967 ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967.


9      V., in tal senso, l’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, ai sensi del quale non appena sia presentata una domanda diprotezione internazionale ai sensi dell’articolo 20, paragrafo 2, del medesimo regolamento, il richiedente è informato dell’applicazione di tale regolamento (v., anche il considerando 18 del regolamento Dublino III). L’allegato X del regolamento (CE) n. 1560/2003 della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU 2003, L 222, pag. 3), modificato dal regolamento di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione del 30 gennaio 2014 (GU 2014, L 39, pag. 1) (in prosieguo: il «regolamento n. 1560»), prevede che, in un primo tempo, i richiedenti siano informati soltanto dell’applicazione del regolamento Dublino III e, in un secondo tempo, solo nel caso in cui le autorità dello Stato membro interessato hanno motivo di ritenere che un altro paese possa essere competente per l’esame della domanda, ricevano informazioni dettagliate sui criteri di determinazione dello Stato membro competente e sulle procedure di trasferimento previste dal regolamento Dublino III. Nello stesso senso del suddetto articolo 4, paragrafo 1, si veda l’articolo 20, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, secondo il quale la procedura di determinazione dello Stato membro competente è avviata non appena una domanda di protezione internazionale è presentata per la prima volta in uno Stato membro.


10      V., in tal senso, sentenze del 31 maggio 2018, Hassan (C‑647/16, EU:C:2018:368, punto 56), del 7 giugno 2016, Ghezelbash (C‑63/15, EU:C:2016:409, punto 42), e del 25 ottobre 2017, Shiri (C‑201/16, EU:C:2017:805, punti 31 e 37, nonché giurisprudenza citata).


11      V., sentenza del 31 maggio 2018, Hassan (C‑647/16, EU:C:2018:368, dispositivo).


12      Ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, il diritto di informazione del richiedente mira, in termini generali, all’«applicazione» di tale regolamento. Le lettere da a) a f), del suddetto paragrafo contengono una lista non esaustiva degli elementi che devono essere comunicati al richiedente, come attesta l’impiego dell’espressione «in particolare». Come è stato enunciato, tale diritto si estende anche ai risultati concreti dell’applicazione dei criteri previsti dal regolamento Dublino III e ciò avviene anche nel caso in cui non sia previsto alcun procedimento di trasferimento del richiedente.


13      Vedere i successivi paragrafi da 23 a 30.


14      A tale proposito, noto che, ai sensi dell’articolo 67a della ZUB, la decisione di avviare la procedura per la determinazione dello Stato membro competente è presa dall’autorità che conduce i colloqui individuali e quindi, in linea di principio, dopo aver ascoltato il richiedente.


15      Regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento (UE) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il regolamento (UE) n. 1077/2011 che istituisce un’agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (GU 2013, L 180, pag. 1):


16      Regolamento (CE) n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU 2003, L 50, pag. 1).


17      V., per quanto riguarda l’articolo 3, paragrafo 2, del regolamento Dublino II, la sentenza del 30 maggio 2013, Halaf (C‑528/11, EU:C:2013:342, punto 36).


18      V., in tal senso, la proposta della Commissione che ha portato all’adozione del regolamento Dublino II, COM(2001) 447 def. (in prosieguo: la «proposta di regolamento Dublino II»), pag. 11, in cui si afferma che questa facoltà è stata introdotta per consentire a ciascuno Stato membro di decidere sovranamente «in base a considerazioni di tipo politico, umanitario o pragmatico»; si veda anche la sentenza Halaf del 30 maggio 2013 (C‑528/11, EU:C:2013:342, paragrafo 37). Rilevo che nella sua proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, del 4 maggio 2016 [COM(2016) 270 final, in prosieguo: la «proposta di regolamento Dublino IV»], la Commissione prevede una limitazione del campo di applicazione della clausola discrezionale, per garantire che sia utilizzata solo «per ragioni umanitarie in relazione alla famiglia allargata» (pag. 17 e 18 e articolo 19 della proposta). La «relazione Wikström», adottata dal Parlamento europeo quale quadro per i futuri negoziati interistituzionali sulla proposta di regolamento Dublino IV (relazione sulla proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, del 6 novembre 2017, A8-0345/2017), propone, invece, di mantenere lo stesso campo di applicazione della clausola discrezionale attualmente previsto dall’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III e di introdurre la possibilità per il richiedente di chiedere l’applicazione di tale clausola mediante una richiesta motivata scritta (v. articolo 19, paragrafo 1, della proposta Dublino IV come modificata, pagg. 45 e 73 della relazione).


19      Sentenza del 21 gennaio 2011 (CE:ECHR:2011:0121JUD003069609).


20      V. sentenza del 30 maggio 2013, Halaf (C‑528/11, EU:C:2013:342, punto 38).


21      V., sentenza del 21 dicembre 2011, N.S. e a. (C‑411/10 e C‑493/10, EU:C:2011:865, punto 98), che, pur allineandosi, per quanto riguarda il risultato, alla sentenza della Corte EDU del 21 gennaio 2011, M.S.S. c. Belgio e Grecia (citata al punto 88 della sentenza N.S. e altri), segue un percorso logico parzialmente diverso, al fine di salvaguardare il funzionamento del sistema di Dublino. Si veda, nel senso di una mancanza di obbligo di applicare l’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, in una situazione in cui lo stato di salute del richiedente asilo non ne autorizza il trasferimento a breve termine verso lo Stato membro competente, la sentenza 16 febbraio 2017, C.K. e a. (C‑578/16 PPU, EU:C:2017:127, punto 88).


22      V., sentenza del 21 dicembre 2011, N.S. e altri. (C‑411/10 e C‑493/10, EU:C:2011:865, in particolare i punti da 64 a 69). V. anche, in relazione all’articolo 17, paragrafo 1, del regolamento Dublino III, la sentenza del 16 febbraio 2017, C.K. e a. (C‑578/16 PPU, EU:C:2017:127, punto 54), in cui la Corte ha dichiarato che la questione dell’applicazione, da parte di uno Stato membro, della clausola discrezionale prevista da tale disposizione non ricade nel contesto del solo diritto nazionale e dell’interpretazione che ne compie il giudice costituzionale di detto Stato membro, ma costituisce una questione di interpretazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’articolo 267 TFUE.


23      COM(2008) 820 def. del 3 dicembre 2008.


24      V., la proposta di regolamento Dublino III, punto 4, pag. 9; il consenso del richiedente è stato previsto «per garantire che la clausola di sovranità non sia applicata contro gli interessi del richiedente». Il consenso del richiedente asilo era richiesto anche dall’articolo 3, paragrafo 4, della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee - Convenzione di Dublino (GU 1997, C 254, pag. 1). La soppressione della condizione del consenso espresso dell’interessato si basa sull’idea, alquanto semplicistica, che il consenso di quest’ultimo possa essere presunto, dato che egli ha presentato una domanda di protezione internazionale nel paese che esercita la clausola discrezionale.


25      Il metodo di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo si basa su criteri oggettivi ed equi sia per gli Stati membri sia per le persone interessate (v. in particolare il considerando 5 del regolamento Dublino III). Di conseguenza, non si può escludere che la deroga all’applicazione di tali criteri mediante il ricorso alla clausola discrezionale possa, in ultima analisi, andare a scapito del richiedente, ad esempio senza tener conto del suo diritto all’unità della famiglia.


26      Le differenze redazionali corrispondono alle modifiche inserite nel regolamento Dublino III («domanda di protezione internazionale» anziché «domanda di asilo» ed estensione agli apolidi della categoria di persone che possono presentare tale domanda).


27      Il corsivo è mio. L’articolo 3, paragrafo 2, seconda frase, del regolamento Dublino II stabiliva che, «[i]n tale ipotesi, detto Stato membro diventa lo Stato membro competente ai sensi del presente regolamento».


28      Si veda la proposta di regolamento Dublino III, punto 4, pag. 9, in cui la Commissione afferma che «sono inoltre chiariti diversi aspetti della procedura di applicazione delle clausole discrezionali».


29      Il corsivo è mio.


30      V., sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 63), per quanto riguarda l’articolo 10, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 2004/83, che aveva lo stesso contenuto della corrispondente disposizione della direttiva 2011/95.


31      Si veda, in particolare, UN Human Rights Committee (HRC) [Comitato delle Nazioni Unite per i diritti umani], CCPR General Comment No 22: Article 18 (Freedom of Thought, Conscience or Religion), 30 luglio 1993, disponibile all’indirizzo http://www.refworld.org/docid/453883fb22.html, con riferimento all’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.


32      V., Principes directeurs sur la protection internationale no 6: Demandes d’asile fondées sur la religion au sens de l’article 1A(2) de la Convention de 1951 Convention et/ou du Protocole de 1967 relatifs au statut des réfugiés, del28 aprile 2004 (in prosieguo: gli «orientamenti relativi alle domande di asilo basate sulla religione»).


33      Ibidem, punti 1 e 2.


34      Si vedano gli orientamenti dell’UNHCR sulle domande di asilo basate sulla religione, punti 5 e seguenti.


35      Per una panoramica delle questioni che si affrontano nell’esame delle domande di protezione internazionale basate sul timore di persecuzioni per motivi religiosi, si veda T.J. Gunn, The Complexity of Religion in Determining Refugee Status, disponibile all’indirizzo http://www.unhcr.org/protection/globalconsult/3e5f2f7f6/complexity-religion-determining-refugee-status-t-jeremy-gunn.html.


36      V., sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 65). Analogamente, v. conclusioni dell’avvocato generale Bot nelle cause riunite Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:224, paragrafo 52).


37      V., sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 66).


38      Sebbene la semplice appartenenza a una particolare comunità religiosa non sia di norma sufficiente ad accertare la fondatezza di una domanda di status di rifugiato, possono tuttavia esistere circostanze particolari in cui tale semplice appartenenza a una comunità religiosa saràuna giustificazione sufficiente, in particolare quando la situazione nel paese d’origine è tale da creare un clima di insicurezza per il membro di tale comunità. V. UNHCR, Guide to the procedures and criteria to be applied in determining Refuge status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, gennaio 1992, punto 73; Guidelines on International Protection:Religion-based Refugee Claims under Article 1A(2) of the 1951 Convention and/or the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, del 28 aprile 2004, punto 14.


39      Si veda, per analogia, la sentenza del 25 gennaio 2018, F (C‑473/16, EU:C:2018:36, punti 31 e 32). V. anche, UNHCR, Guidelines on Religion-based Refugee Claims, punto 9.


40      V., sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 41), e, per analogia, sentenze del 26 febbraio 2015, Pastore (C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 26), e del 9 febbraio 2017, M (C‑560/14, EU:C:2017:101, punto 36). La Corte ha inoltre precisato che spetta alle autorità competenti adeguare le loro procedure di valutazione delle dichiarazioni e delle prove documentali o di altro tipo alla luce delle caratteristiche specifiche di ciascuna categoria di domanda di protezione internazionale, nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta: v. sentenze del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 36) e del 2 dicembre 2014, A e altri (da C‑148/13 a C‑150/13, EU:C:2014:2406, punto 54).


41      V., al riguardo le sentenze del 22 novembre 2012, M. (C‑277/11, EU:C:2012:744, punti 64 e 65) e del 2 dicembre 2014, A e a. (da C‑148/13 a C‑150/13, EU:C:2014:2406, punto 56)


42      V. sentenza del 2 dicembre 2014, A e a. (da C‑148/13 a C‑150/13, EU:C:2014:2406, punto 58).


43      Come sottolinea l’UNHCR nelle sue Guidelines on:Religion-based Refugee Claims, le autorità che esaminano una domanda di protezione internazionale basata su motivi religiosi devono prestare particolare attenzione alle interconnessioni tra fattori religiosi ed etnici (v. punto 27, lettera d).


44      In un caso di conversione, non è sufficiente considerare in che modo un credente della religione a cui il richiedente si è convertito sia percepito nel suo paese di origine, ma è anche necessario considerare come una persona che abbandona la religione ufficiale di quel paese sia percepita a causa del fatto di averne abbracciata un’altra.


45      V., in tal senso, T.J. Gunn, Op. cit., pagg. 13 e 14.


46      Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»).


47      L’articolo 10 della Carta, intitolato «[l]ibertà di pensiero, di coscienza e di religione», afferma al paragrafo 1 che «[o]gni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».


48      V. sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 56).


49      Sentenza del 5 settembre 2012, Y e Z (C‑71/11 e C‑99/11, EU:C:2012:518, punto 67). Noto che la definizione di «persecuzione» adottata dalla Corte in tale punto 67 differisce dalla definizione più ristretta contenuta al punto 61 della stessa sentenza per quanto riguarda il livello richiesto di gravità del rischio per il ricorrente. Mentre al punto 67 la Corte fa riferimento a «un rischio effettivo, in particolare, di essere perseguito penalmente, o di essere sottoposto a trattamenti o a pene disumani o degradanti»(il corsivo è mio), il punto 61 esclude che «atti che (…) non presentano una gravità pari a quella della violazione dei diritti umani fondamentali inderogabili in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU» possano essere considerati persecuzioni ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2011/95 e dell’articolo 1A della convenzione di Ginevra. A questo proposito, vorrei sottolineare che la definizione di cui al punto 67 sembra più conforme alla formulazione dell’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2011/95, che fa riferimento a solo titolo indicativo, come riconosce la stessa Corte al punto 57 della medesima sentenza, ad atti la cui gravità può essere assimilata ai casi di cui all’articolo 15, paragrafo 2, della CEDU.


50      Pertanto, gli atti che costituiscono una grave violazione della libertà religiosa possono di per sé costituire atti di persecuzione, così come restrizioni meno gravi di tale libertà, quando la loro repressione raggiunge il livello di gravità richiesto.


51      Per quanto riguarda le condizioni alle quali le restrizioni della libertà di religione possono essere ammesse, v., in particolare UN Human Rights Committee (HRC), CCPR General Comment No22: Article 18 (Freedom of Thought, Conscience or Religion), 30 luglio 1993, CCPR/C/21/Rev.1/Add.4, disponibile all’indirizzo: http://www.refworld.org/docid/453883fb22.html


52      Per una rassegna della legislazione degli Stati membri del Consiglio d’Europa in questo campo, si veda lo studio, datato 2010, pubblicato dal Consiglio d’Europa, Blasfemy, insult and hatred: finding answers in a democratic society, pag. 18 ss., disponibile all’indirizzo http://www.venice.coe.int/webforms/documents/?pdf=CDL-STD%282010%29047-e#page= 19.


53      Al punto 66, la Corte afferma che «ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 1, lettera d), della direttiva, non si può ritenere che l’orientamento sessuale includa atti penalmente rilevanti ai sensi del diritto interno degli Stati membri».


54      Come il governo ungherese, ritengo che la questione sia puramente speculativa e non sia rilevante per la risoluzione della causa principale.


55      Così, per riprendere il riferimento fatto dal giudice del rinvio alla legislazione greca sul proselitismo, su cui la Corte EDU si è pronunciata nella sua sentenza del 25 maggio 1993, Kokkinakis c. Grecia (EC:ECHR:1993:0525JUD001430788), vi è ovviamente un impatto diverso sull’esercizio della libertà di religione a seconda che il «proselitismo» oggetto del divieto sia definito come un’«attività [...] [che concede] vantaggi materiali o sociali al fine di ottenere legami con [una] Chiesa [che svolge] indebite pressioni su persone in difficoltà o bisognose» (cfr. punto 48 della suddetta sentenza) oppure come una qualsiasi manifestazione pubblica di una religione diversa dalla religione ufficiale dello Stato in questione.


56      Riferimenti a diverse fonti di informazione recenti riguardanti l’esercizio della libertà di religione in Iran e il trattamento dei convertiti iraniani al cristianesimo si trovano nella sentenza della Corte EDU del 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia (CE:ECHR:2016:0323JUD004361111).


57      Corte EDU, 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia (CE:ECHR:2016:0323JUD004361111), punto 158.


58      CE:ECHR:2016:0705DEC000020916.


59      CE:ECHR:2017:1219JUD006034216.


60      Ibidem, punti 44 e 45.


61      V. Corte EDU, sentenza del 19 dicembre 2017, A. c. Svizzera, CE:ECHR:2017:1219JUD006034216.


62      Così, nella sentenza del 23 marzo 2016, F.G./Svezia, la Corte EDU, nel ribadire le «Guidelines on Religion‑based Refugee Claims», ha chiarito che le attività «interessate», ossia quelle volte unicamente ad ottenere un permesso per restare nello Stato in cui è stata presentata la domanda di asilo, non creano un fondato timore di persecuzione nel paese di origine del richiedente se la natura opportunistica di tali attività è evidente a tutti, comprese le autorità di tale paese (punto 123). Questo argomento figura anche nella sentenza della Corte EDU del 19 dicembre 2017, A. c. Svizzera (CE:ECHR:2017:1219JUD006034216, punto 43).


63      A questo proposito, noto che l’ordinanza di rinvio si contraddice. Infatti, da un lato, nell’esposizione dei fatti, si afferma che Fathi ha dichiarato che, al momento del suo arresto, era stato costretto ad ammettere la sua conversione al cristianesimo, il che permette di ritenere che le autorità iraniane fossero a conoscenza dei suoi orientamenti religiosi. Dall’altro, nella motivazione che l’ha indotto a sottoporre la settima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio afferma che il sig. Fathi ha dichiarato che le autorità iraniane non disponevano di prove o informazioni relative alla sua conversione e alla sua fede cristiana.


64      V., in tal senso, Corte EDU, 23 marzo 2016, F.G. c. Svezia, (CE:ECHR:2016:0323JUD004361111, punto 52).