CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

MICHAL BOBEK

presentate il 10 settembre 2019 (1)

Causa C450/18

WA

contro

Instituto Nacional de la Seguridad Social

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dallo Juzgado de lo Social n.°3 de Gerona (Tribunale del lavoro n. 3 di Girona, Spagna)]

«Rinvio pregiudiziale – Lavoratori di sesso femminile e lavoratori di sesso maschile – Parità di trattamento in materia di previdenza sociale – Direttiva 79/7/CEE – Pensione d’invalidità – Integrazione della pensione riconosciuta a donne con due o più figli che percepiscono una pensione contributiva della previdenza sociale – Articolo 157, paragrafo 4, TFUE – Azione positiva – Misure volte a compensare gli svantaggi relativi alla carriera dei lavoratori di sesso femminile»






I.      Introduzione

1.        In forza del diritto spagnolo, le donne che abbiano avuto due o più figli biologici o adottivi hanno diritto a un’integrazione della loro pensione contributiva di vecchiaia, per vedove o di invalidità permanente. Il ricorrente di cui al procedimento principale (in prosieguo: il «ricorrente»), padre di due figlie, ha impugnato una decisione dell’autorità nazionale di previdenza sociale, che non gli riconosceva un’analoga integrazione della sua pensione di invalidità permanente.

2.        Il giudice del rinvio chiede se la disposizione nazionale, che stabilisce l’integrazione della pensione per le donne, mentre non riconosce siffatto diritto agli uomini, violi il divieto, sancito dall’Unione, di discriminazione fondata sul sesso.

3.        La Corte ha già avuto modo di affrontare il tema dei sistemi pensionistici che concedono vantaggi legati alla maternità soltanto ai lavoratori di sesso femminile. Le cause Griesmar (2) e Leone (3) riguardavano tuttavia regimi pensionistici occupazionali per dipendenti pubblici, che rientravano nell’ambito del principio della parità delle retribuzioni, sancito dall’articolo 157 TFUE. Nella presente causa, la Corte è chiamata a precisare se un approccio analogo dovrebbe altresì applicarsi a cause relative a prestazioni facenti parte di un regime pensionistico generale di previdenza sociale.

II.    Contesto normativo

A.      Diritto dell’Unione

4.        Secondo il terzo considerando della direttiva 79/7/CEE, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (4), «l’attuazione del principio della parità di trattamento in materia di sicurezza sociale non crea ostacoli alle disposizioni relative alla protezione della donna a causa della maternità e (…), in questo contesto, talune disposizioni specifiche destinate a rimediare alle ineguaglianze di fatto possono essere adottate dagli Stati membri in favore delle donne».

5.        Scopo della direttiva 79/7 è, secondo il suo primo articolo, «la graduale attuazione, nel campo della sicurezza sociale e degli altri elementi di protezione sociale di cui all’articolo 3, del principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, denominato qui appresso “principio della parità di trattamento”».

6.        Ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, la direttiva 79/7 si applica:

«a)      ai regimi legali che assicurano una protezione contro i rischi seguenti:

(…)

–        invalidità

(…)».

7.        L’articolo 4 della direttiva 79/7 così dispone:

«1.      Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, specificamente per quanto riguarda:

(…)

–        il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni.

2.      Il principio della parità di trattamento non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna a motivo della maternità».

8.        Ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva 79/7, detta direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escludere dal suo campo di applicazione «i vantaggi accordati in materia di assicurazione vecchiaia alle persone che hanno provveduto all’educazione dei figli» e «l’acquisto di diritti alle prestazioni a seguito di periodi di interruzione del lavoro dovuti all’educazione dei figli».

B.      Diritto spagnolo

9.        L’articolo 60, paragrafo 1, della Ley General de la Seguridad Social (legge generale sulla previdenza sociale; in prosieguo: «LGSS») (5) prevede quanto segue:

«È riconosciuta un’integrazione della pensione, per il loro apporto demografico alla previdenza sociale, alle donne che abbiano avuto figli biologici o adottivi e siano titolari, nell’ambito di un regime del sistema di previdenza sociale, di pensioni contributive di vecchiaia, per vedove o di invalidità permanente.

Detta integrazione, che avrà a tutti gli effetti natura giuridica di pensione contributiva, sarà costituita da un importo risultante dall’applicazione all’importo iniziale delle suddette prestazioni di un determinato coefficiente, che dipenderà dal numero di figli secondo la scala seguente:

(a)      in caso di 2 figli: 5 per cento.

(b)      in caso di 3 figli: 10 per cento.

(c)      in caso di 4 o più figli: 15 per cento.

Al fine di determinare il diritto all’integrazione e il relativo importo saranno computati soltanto i figli nati o adottati prima del fatto che dà titolo alla pensione corrispondente».

III. Fatti, procedimento e questione pregiudiziale

10.      Con decisione dell’Instituto Nacional de la Seguridad Social (Istituto nazionale di previdenza sociale, Spagna; in prosieguo: l’«INSS») del 25 gennaio 2017, al ricorrente è stata riconosciuta una pensione di invalidità assoluta e permanente, pari al 100% della base di calcolo, di EUR 1 603,43 mensili più rivalutazioni.

11.      Il ricorrente ha presentato un ricorso amministrativo avverso tale decisione, facendo valere, in sostanza che, essendo padre di due figlie, ha diritto a un’integrazione del 5% della pensione al pari delle donne.

12.      Con decisione del 9 giugno 2017, l’INSS ha respinto detto ricorso e confermato il provvedimento del 25 gennaio 2017. L’INSS ha dichiarato che l’integrazione per maternità, come indica la sua stessa denominazione, è un’integrazione che viene riconosciuta esclusivamente alle donne che percepiscono una prestazione contributiva della previdenza sociale e sono madri di due o più figli, in ragione del loro apporto demografico alla previdenza sociale.

13.      Il 23 maggio 2017, il ricorrente ha intentato un procedimento avverso la decisione dell’INSS dinanzi allo Juzgado de lo Social n. 3 de Gerona (Tribunale del lavoro n. 3 di Girona, Spagna), giudice del rinvio. Egli chiedeva che gli fosse riconosciuto il diritto a percepire un incremento della pensione del 5% sulla base di calcolo della pensione di invalidità assoluta e permanente a titolo equivalente all’integrazione per maternità riconosciuta dall’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS.

14.      Il 18 maggio 2018, il giudice del rinvio ha appreso che il ricorrente era deceduto il 9 dicembre 2017. La moglie è subentrata nella posizione processuale del ricorrente, portando avanti il procedimento principale (6).

15.      Secondo il giudice del rinvio, la nozione di apporto demografico è una qualità tanto delle donne quanto degli uomini, dato che sia la procreazione sia la responsabilità per la cura, l’attenzione, l’alimentazione e l’educazione dei figli sono attribuibili a chiunque abbia la qualità di padre o di madre e a prescindere dal sesso. Inoltre, l’interruzione del lavoro in conseguenza della nascita o dell’adozione di figli, o per la cura dei figli, naturali o adottivi, può pregiudicare allo stesso modo gli uomini e le donne. Il giudice del rinvio ritiene che, sotto tale profilo, la disciplina dell’integrazione per maternità di cui all’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS introduca una differenza ingiustificata in favore delle donne, a detrimento degli uomini che si trovano in una situazione equivalente.

16.      Tuttavia, il giudice del rinvio riconosce che, sotto il profilo biologico, esiste una differenza innegabile, dato che la procreazione comporta per le donne un sacrificio personale molto maggiore che per gli uomini. Esse devono affrontare un periodo di gravidanza e un parto che implicano evidenti sacrifici biologici e fisiologici, con gli svantaggi che ne derivano per le donne, non solo nella sfera fisica, ma altresì per quanto riguarda il lavoro. Il giudice del rinvio ritiene che, da tale punto di vista biologico, l’integrazione per maternità disciplinata dall’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS costituisca un’integrazione a favore delle donne giustificata. Nessun uomo si troverebbe in una situazione equivalente. La situazione di un lavoratore di sesso maschile non è comparabile a quella di un lavoratore di sesso femminile che deve affrontare gli svantaggi professionali derivanti dall’interruzione del lavoro a causa della gravidanza e della nascita di un figlio. Il giudice in parola, tuttavia, nutre dubbi circa le implicazioni esercitate sul caso di specie dalla giurisprudenza della Corte, in particolare dalla sentenza nella causa Griesmar (7).

17.      In tali circostanze, lo Juzgado de lo Social n.o3 de Gerona (Tribunale del lavoro n. 3 di Girona) ha sospeso il procedimento e ha sottoposto alla Corte la seguente questione pregiudiziale:

«Se una norma nazionale (in concreto, l’articolo 60, paragrafo 1, della [LGSS] che riconosca il diritto a un’integrazione di pensione, per il loro apporto demografico alla previdenza sociale, alle donne che abbiano avuto figli biologici o adottivi e siano titolari, nell’ambito di uno dei regimi del sistema di previdenza sociale, di pensioni contributive di vecchiaia, per vedove o di invalidità permanente, ma non riconosca tale diritto agli uomini che si trovino in una situazione identica, leda il principio della parità di trattamento che vieta qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, sancito dall’articolo 157 del [TFUE], dalla direttiva 76/207/CEE del Consiglio, del 9 febbraio 1976, quale modificata dalla direttiva 2002/73, del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002, rifusa dalla direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego».

18.      Hanno presentato osservazioni scritte il ricorrente, l’INSS e la Commissione europea. Le parti interessate, nonché il governo spagnolo, il quale ha anche risposto ai quesiti scritti della Corte, hanno svolto osservazioni orali nel corso dell’udienza tenutasi il 13 giugno 2019.

IV.    Analisi

19.      Le presenti conclusioni sono articolate come segue. In primo luogo, inizierò con l’individuazione del pertinente atto del diritto dell’Unione applicabile alla prestazione di cui al caso di specie (A). Procederò quindi all’interpretazione delle disposizioni pertinenti che si applicano alla presente causa, contenute nella direttiva 79/7 (B). Infine, poiché concluderò che tale direttiva deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una misura come quella di cui trattasi nel caso di specie, analizzerò se la disposizione nazionale possa comunque rientrare nella deroga generale della «discriminazione positiva» prevista dall’articolo 157, paragrafo 4, TFUE (C).

A.      Atto del diritto dell’Unione applicabile

20.      La decisione di rinvio pone la questione della compatibilità dell’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS con il principio della parità di trattamento sancito dall’articolo 157 TFUE e dalla direttiva 2006/54/CE riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (8).

21.      Il ricorrente approva il contesto normativo dell’Unione individuato nell’ordinanza di rinvio. Al contrario, l’INSS, il governo spagnolo e la Commissione dissentono da tale posizione e sostengono che l’atto del diritto dell’Unione applicabile alla presente causa è la direttiva 79/7. Il ricorrente afferma, in subordine, che la direttiva in parola è comunque applicabile.

22.      Concordo sul fatto che l’atto normativo applicabile sia la direttiva 79/7.

23.      La Corte è naturalmente vincolata ai fatti di causa come stabiliti dal giudice nazionale, nonché alla portata delle questioni e al contesto generale della causa come definiti dal giudice nazionale nella decisione di rinvio. Tuttavia, ciò non vale in relazione al diritto dell’Unione applicabile. La Corte ha il compito di interpretare tutte le norme pertinenti del diritto dell’Unione che possano essere utili ai giudici nazionali al fine di dirimere le controversie di cui sono investiti, anche qualora tali norme non siano espressamente indicate nelle questioni ad essa sottoposte (9). Iura (Europaea) novit Curia (Europaea).

24.      Il diritto dell’Unione distingue tra sistemi pensionistici professionali, che rientrano nella nozione di «retribuzione» di cui all’articolo 157, paragrafi 1 e 2, TFUE (10), e regimi pensionistici previdenziali legali, che non vi rientrano (11).

25.      La giurisprudenza della Corte ha costantemente confermato che «i regimi o le prestazioni previdenziali, come le pensioni di vecchiaia, direttamente disciplinati dalla legge al di fuori di qualsiasi concertazione nell’ambito dell’impresa o della categoria professionale interessata e obbligatori per categorie generali di lavoratori» non si possono ricomprendere nella nozione di «retribuzione» di cui all’articolo 157 TFUE. Ciò perché «questi regimi permettono (…) ai lavoratori di fruire di un sistema legale al cui finanziamento i lavoratori, i datori di lavoro ed eventualmente la pubblica amministrazione contribuiscono non tanto in funzione del rapporto di lavoro tra il datore di lavoro e il lavoratore, quanto in base a considerazioni di politica sociale» (12).

26.      All’udienza il ricorrente ha affermato che la presente causa riguarda una pensione contributiva che dipende dal precedente rapporto di lavoro. Un salario maggiore conduce a una pensione maggiore. Per detto motivo, a suo giudizio, la prestazione in oggetto dovrebbe essere considerata «retribuzione» ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 2, TFUE.

27.      È vero, come sostiene il ricorrente, che la giurisprudenza ha individuato nel criterio dell’impiego il fattore determinante per qualificare un regime pensionistico come «retribuzione» (13). Tuttavia, il fatto che un regime pensionistico sia finanziato mediante contributi il cui calcolo dipende dal salario non trasforma automaticamente detto regime pensionistico in «retribuzione». Infatti, il test elaborato dalla Corte comporta un’analisi complessiva che non si basa su un singolo criterio, come il carattere contributivo di una prestazione (14). Se le prestazioni previdenziali possono riguardare la nozione di retribuzione ed essere collegate al rapporto di lavoro per effetto dei contributi, sono state ritenute estranee alla nozione di «retribuzione» le prestazioni disciplinate dalla legge al di fuori di qualsiasi concertazione nell’ambito dell’impresa o della categoria applicabile a categorie generali di lavoratori (15).

28.      La Corte ha già avuto modo di affrontare le diverse prestazioni che rientrano nel regime generale spagnolo di previdenza sociale. Essa ha costantemente affermato che le prestazioni contributive, quali le pensioni di vecchiaia e le prestazioni di disoccupazione, nonché la pensione di invalidità permanente, cui si applica l’integrazione di cui trattasi, non rientrano nella nozione di «retribuzione», ma ricadono nell’ambito della direttiva 79/7 (16).

29.      A mio avviso, non vi è motivo di discostarsi da detto approccio nella presente causa. Non vi sono dubbi circa il fatto che la prestazione in parola faccia parte di un regime previdenziale disciplinato dalla legislazione – al di fuori di qualsiasi concertazione – applicabile alla generalità della popolazione attiva e non ad una specifica categoria di lavoratori.

30.      La direttiva 2006/54 segue la stessa distinzione stabilita dalla giurisprudenza sull’articolo 157, paragrafo 2, TFUE in relazione alla nozione di «retribuzione». L’ambito applicativo della direttiva è specificamente limitato ai «regimi professionali di sicurezza sociale», che vengono definiti al di fuori dei regimi legali di sicurezza sociale (17).

31.      Di conseguenza, la prestazione in parola non rientra nella nozione di «retribuzione» ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 2, TFUE. Essa non è pertanto regolata neppure dalla direttiva 2006/54.

32.      L’atto del diritto dell’Unione applicabile al caso di specie è dunque la direttiva 79/7. La prestazione in oggetto integra una pensione di invalidità permanente della previdenza sociale, che fa parte di un regime legale di protezione contro uno dei rischi indicati nell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a) della citata direttiva, ossia l’invalidità. Come la stessa pensione, l’integrazione è direttamente ed effettivamente connessa alla protezione contro il rischio di invalidità. Essa è intrinsecamente collegata alla materializzazione di tale rischio e mira a garantire che i suoi beneficiari siano adeguatamente protetti contro il rischio di invalidità (18), riducendo il divario di genere (19).

33.      Tutte le considerazioni in parola mi portano a concludere che è necessario riformulare la questione pregiudiziale facendo riferimento alla direttiva 79/7.

B.      La direttiva 79/7 osta ad una misura come quella di cui trattasi?

34.      L’analisi della compatibilità della disposizione nazionale in parola con la direttiva 79/7 si compone di tre fasi. In primo luogo, uomini e donne sono in una situazione comparabile ai fini dell’applicazione della disposizione nazionale di cui trattasi (1)? In secondo luogo, la disposizione nazionale in parola costituisce una discriminazione ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7 (2)? In terzo luogo, in caso affermativo, l’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS potrebbe rientrare in una delle deroghe previste dall’articolo 7 della citata direttiva (3)?

1.      Comparabilità

35.      Sussiste una discriminazione quando si applicano norme diverse a situazioni comparabili oppure la stessa norma a situazioni diverse (20). Secondo la costante giurisprudenza della Corte, l’analisi circa la comparabilità deve essere effettuata non in modo globale e astratto, bensì in modo specifico, in riferimento alla prestazione di cui trattasi. Ciò implica che si tengano nella giusta considerazione gli obiettivi della specifica misura o prestazione nazionale in oggetto (21). Pertanto, gli obiettivi legislativi (dichiarati) sono di particolare importanza quando occorre accertare la comparabilità tra lavoratori di sesso femminile e lavoratori di sesso maschile.

36.      La giurisprudenza della Corte, nonché la normativa derivata, hanno individuato situazioni in cui i lavoratori di sesso femminile e i lavoratori di sesso maschile semplicemente non sono comparabili a causa della condizione biologica delle donne, che comprende la gravidanza, il parto e il periodo immediatamente successivo al parto.

37.      Da un lato, per quanto concerne la situazione del congedo di maternità, la Corte ha dichiarato che le donne si trovano «in una situazione specifica che implica che venga loro concessa una tutela speciale, ma che non può venir assimilata a quella di un lavoratore maschio né a quella di una donna effettivamente presente sul posto di lavoro» (22). Risulta dalla giurisprudenza della Corte che «la situazione di un lavoratore di sesso maschile non è paragonabile a quella di un lavoratore di sesso femminile qualora il vantaggio concesso al solo lavoratore di sesso femminile sia destinato a compensare svantaggi professionali derivanti ad un tale lavoratore in seguito all’allontanamento dal posto di lavoro che il congedo di maternità comporta» (23).

38.      D’altro lato, la Corte ha dichiarato che le posizioni di lavoratrici madri e lavoratori padri sono comparabili in relazione a molte altre circostanze relative a genitorialità e cura dei figli. Donne e uomini si trovano in una situazione comparabile in quanto genitori e per quanto attiene all’educazione dei propri figli (24). Di conseguenza, le loro situazioni sono equiparabili, ad esempio, sotto il profilo della necessità di ridurre il loro orario di lavoro giornaliero per occuparsi dei bambini (25) o relativamente alla necessità in cui possono trovarsi di dover far ricorso a servizi di asili nido per il fatto che svolgono un’attività (26).

39.      È pertanto essenziale determinare, nel caso di specie, se le disposizioni nazionali di cui trattasi siano collegate alle particolari caratteristiche biologiche delle donne, concernenti gravidanza, parto e maternità (a). Se così non è, diviene cruciale individuare le finalità oggettive della misura in oggetto per stabilire se a tale riguardo i lavoratori di sesso femminile e i lavoratori di sesso maschile si trovino in una situazione comparabile (b).

a)      Misura relativa alla protezione a motivo della maternità ai sensi dellarticolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7?

40.      L’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7 prevede che «il principio della parità di trattamento non pregiudica le disposizioni relative alla protezione della donna a motivo della maternità». In base al terzo considerando di tale direttiva, «l’attuazione del principio della parità di trattamento in materia di sicurezza sociale non crea ostacoli alle disposizioni relative alla protezione della donna a causa della maternità» e «in questo contesto, talune disposizioni specifiche destinate a rimediare alle ineguaglianze di fatto possono essere adottate dagli Stati membri in favore delle donne».

41.      Detta disposizione può essere considerata come un riconoscimento dell’incomparabilità di uomini e donne sotto il profilo della loro condizione biologica, in linea con la giurisprudenza evidenziata nel paragrafo 37 delle presenti conclusioni.

42.      La misura in parola può essere considerata una disposizione «relativa alla protezione della donna a motivo della maternità» ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7?

43.      Il governo spagnolo e l’INSS affermano che l’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7. L’INSS sostiene che la misura è intrinsecamente connessa alla maternità, dal momento che le donne cui la medesima si riferisce sono madri: se non vi è maternità, non si configura affatto la situazione cui la disposizione nazionale è diretta a porre rimedio. All’udienza il governo spagnolo ha sostenuto che l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7 dovrebbe essere inteso nel senso che esso ammette misure di discriminazione positiva a motivo della maternità e dovrebbe essere interpretato in senso ampio, alla luce dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE e dell’articolo 23 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (in prosieguo: la «Carta»).

44.      Al contrario, il ricorrente e la Commissione ritengono che la misura di cui trattasi non possa rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7. Tali parti interessate difendono una lettura restrittiva di detta disposizione, nel senso che essa si riferisce soltanto agli aspetti connessi alla condizione biologica delle donne. Ciò si verificherebbe, in particolare, in relazione al periodo coperto dal congedo di maternità.

45.      L’espressione «a motivo della maternità» non viene definita nella direttiva 79/7. A quanto mi consta, l’articolo 4, paragrafo 2, di detta direttiva non è stato ad oggi interpretato dalla Corte. Tuttavia, in più occasioni la Corte ha interpretato disposizioni analoghe nell’ambito dell’articolo 2, paragrafo 3, della direttiva 76/207/CEE (27), le quali, in termini alquanto simili a quelli dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7, stabilivano che tale direttiva «non pregiudica le misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità».

46.      Nell’ambito dell’articolo 2, paragrafo 3, della direttiva 76/207, la Corte ha ritenuto che la deroga relativa alla «maternità» vada interpretata in senso restrittivo (28). La Corte ha costantemente collegato l’applicazione della stessa alla condizione biologica delle donne e alla particolare relazione esistente tra una donna e il suo bambino. Pertanto, si è ritenuto che soltanto le misure connesse alla protezione della donna durante la gravidanza, il parto e il congedo di maternità rientrassero nell’ambito di applicazione di detta disposizione (29). Al contrario, le misure non strettamente connesse alla protezione delle donne in siffatte situazioni sono state considerate escluse dalla deroga relativa alla «maternità» (30).

47.      Tale approccio restrittivo alla nozione di «maternità» è stato applicato dalla Corte anche per stabilire se lavoratori di sesso femminile e lavoratori di sesso maschile siano comparabili ai fini dell’applicazione del principio della parità delle retribuzioni di cui all’articolo 157 TFUE nel settore delle pensioni professionali. Nella sentenza Griesmar, la Corte ha dichiarato che una misura potrebbe essere accettata se fosse diretta a «compensare svantaggi professionali derivanti ai dipendenti pubblici di sesso femminile dalla loro lontananza dal posto di lavoro durante il periodo successivo al parto, nel qual caso la situazione di un lavoratore di sesso maschile non è paragonabile a quella di un lavoratore di sesso femminile» (31). Tuttavia, la Corte ha esplicitamente rifiutato di ritenere collegati al «congedo di maternità» o ad altri svantaggi incontrati in conseguenza della lontananza dal lavoro dopo il parto gli svantaggi che le donne subiscono nello sviluppo della propria carriera lavorativa a seguito del ruolo preponderante loro assegnato nell’educazione dei figli (32). Ciò dipende, in parte, dal fatto che la maggiorazione controversa in tale causa era stata riconosciuta anche per figli adottivi, senza essere connessa alla previa concessione alla madre di un congedo di adozione (33).

48.      La nozione di «maternità», pertanto, così come interpretata dalla Corte, si riferisce alla specifica realtà biologica che rende donne e uomini non comparabili: gravidanza, parto e congedo di maternità. Ciò circoscrive l’oggetto di tale speciale protezione non soltanto ratione materiae, ma anche, logicamente, ratione temporis, in quanto non si può ritenere che la deroga relativa alla maternità si estenda ad eventi o situazioni successivi per il solo fatto di essere stata una madre. La maternità deve pertanto essere intesa in senso restrittivo. Non può essere assimilata alle più generali nozioni dell’essere madri o dell’essere genitori.

49.      L’INSS e il governo spagnolo suggeriscono di prendere le distanze da tale approccio nell’ambito della direttiva 79/7 e di abbracciare un concetto più ampio di «maternità» in quanto «essere madre». Interrogato sulle ragioni che lo inducono a suggerire l’ampia lettura in parola, il governo spagnolo ha affermato che l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7 dovrebbe essere interpretato, alla luce dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE e dell’articolo 23 della Carta, come un’apertura alle misure di discriminazione positiva che riguardano l’essere madre in senso ampio.

50.      Detto argomento non mi persuade. Come spiegherò dettagliatamente di seguito (34), una potenziale base giuridica per un’azione positiva nell’ambito della presente causa potrebbe forse trovarsi al di fuori della direttiva 79/7, nell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE. In questa sede è sufficiente rilevare che le misure le quali consentono un trattamento differenziato per donne e uomini, che sono misure protettive a motivo della maternità nell’ambito di applicazione della direttiva 79/7, si basano su una premessa e una logica diverse rispetto alle norme generali in materia di azione positiva di cui all’articolo 157, paragrafo 4, TFUE. Proporre che disposizioni generali successive in materia di azione positiva debbano poter distorcere a livello interpretativo il concetto di comparabilità in una precedente normativa settoriale specifica, di fatto privando di efficacia una delle sue disposizioni fondamentali, non mi pare una buona ricetta per l’interpretazione di una legge.

51.      In breve, non vedo alcuna valida ragione per attribuire alla nozione di «motivo della maternità» un significato diverso e più ampio nell’ambito della direttiva 79/7. È piuttosto vero il contrario, come la Commissione correttamente ammonisce: un’interpretazione ampia della deroga relativa alla «maternità» consentirebbe trattamenti differenti in situazioni in cui lavoratrici madri e lavoratori padri si trovano in realtà in una situazione comparabile, vanificando così l’obiettivo stesso della direttiva.

52.      Sulla base di siffatta interpretazione ragionevolmente restrittiva di «motivo della maternità», che, a mio avviso, deve altresì applicarsi nel contesto della direttiva 79/7, non comprendo come si possa ritenere che la misura in oggetto rientri nell’ambito di applicazione della deroga contenuta nell’articolo 4, paragrafo 2, della medesima.

53.      Un’occhiata alle caratteristiche specifiche della misura di cui trattasi conferma tale conclusione. L’integrazione per maternità prevista dall’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS non è connessa ad alcuna delle situazioni specifiche di gravidanza, parto e congedo di maternità. Essa non presuppone di fatto alcuna delle situazioni in parola quale condizione per beneficiare dell’integrazione per maternità.

54.      In primo luogo, come rileva il ricorrente, non tutti i lavoratori di sesso femminile che hanno accesso all’integrazione per maternità potrebbero aver effettivamente fruito di un periodo di congedo di maternità. Dal momento che, secondo il diritto nazionale, sia gli uomini che le donne possono egualmente usufruire del congedo per adozione (35), è possibile che una donna possa beneficiare dell’integrazione per maternità pur non avendo usufruito di tale congedo o, a tal fine, pur non avendo vissuto né la gravidanza né il parto. In secondo luogo, quando un bambino ha due madri (36), entrambe avranno diritto all’integrazione di maternità ma soltanto una può aver effettivamente usufruito del congedo di maternità. Dal momento la misura di cui trattasi non contiene condizioni in base alle quali le donne devono aver smesso di lavorare al momento in cui hanno avuto figli, la connessione con il congedo di maternità mancherebbe anche, ad esempio, in situazioni in cui una donna ha avuto un figlio prima di iniziare a lavorare. In terzo luogo, il fatto che la misura non si applichi alle madri con un solo figlio conferma che essa non è collegata alla protezione della maternità.

55.      Nel complesso, pertanto, la misura esclude situazioni chiaramente e oggettivamente connesse alla maternità, mentre comprende situazioni che non lo sono. Un siffatto modello normativo non può rientrare nei limiti dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7.

56.      Parrebbe inoltre che sia l’INSS sia il governo spagnolo abbiano infine riconosciuto che l’obiettivo specifico dell’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS è molto più ampio dell’obiettivo di protezione delle donne a motivo della maternità nel senso (restrittivo) di cui sopra.

57.      Tutte le considerazioni in parola confermano che l’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS non contiene elementi che stabiliscano una relazione tra l’integrazione e gli svantaggi professionali collegati alla nozione di «maternità» ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7.

b)      Quali sono gli obiettivi della misura in questione?

58.      Ai sensi dell’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS, l’integrazione per maternità è stata introdotta a titolo di riconoscimento per l’«apporto demografico» alla previdenza sociale. Come sottolinea la Commissione, la premessa della legge che adotta la misura non contiene giustificazioni più specifiche di quella (37).

59.      Se ci si concentrasse sull’obiettivo dichiarato dello stesso articolo 60, paragrafo 1, della LGSS, sarebbe difficile comprendere in che modo donne e uomini non si trovino in una posizione comparabile in relazione al loro «apporto demografico» al sistema di previdenza sociale, dal momento che entrambi sembrano essere ancora necessari per la procreazione (38).

60.      Tuttavia, come risulta dai lavori preparatori e dal contesto politico descritti da Commissione, INSS e governo spagnolo, la misura di cui trattasi è stata ispirata da un obiettivo molto più ampio e persegue siffatto obiettivo.

61.      Dalle osservazioni della Commissione, nonché dalla risposta scritta del governo spagnolo al quesito posto dalla Corte, risulta che l’emendamento parlamentare che è all’origine della misura di cui trattasi indicava la necessità di riconoscere la dimensione legata al genere delle pensioni e di eliminare o almeno di ridurre il divario di genere nelle pensioni (39). Ciò è dovuto al fatto che le donne rinunciano più spesso al lavoro per occuparsi dei figli, il che ha un impatto diretto sul loro reddito nonché sulle loro pensioni, dando luogo al fenomeno noto come «doppia penalizzazione» (40). La misura mira pertanto ad introdurre la nozione di «apporto demografico» al fine di riconoscere l’impegno delle donne nella cura e nell’educazione dei figli a scapito della loro attività professionale (41). Ciò è stato altresì considerato l’obiettivo di fondo della misura da parte della Corte costituzionale spagnola: l’obiettivo consiste nel compensare le madri che, pur desiderando una vita professionale più lunga, si sono dedicate alla cura dei figli, con il risultato di aver potuto pagare i contributi per un numero inferiore di anni rispetto agli altri lavoratori (42).

62.      L’INSS ha inoltre prodotto prove statistiche da cui emerge che i contributi previdenziali sono direttamente collegati al sesso e al numero di figli. Il divario di genere in materia di pensioni ha, secondo tali elementi, un impatto maggiore sulle donne che hanno due o più figli.

63.      Dagli elementi appena citati può essere ricavata una prima conclusione preliminare. È chiaro che la misura in parola di fatto non è finalizzata a proteggere le donne che si assumono responsabilità di cura dei figli. Infatti, l’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS non prevede alcuna condizione che connetta la prestazione in oggetto all’effettiva cura dei figli. Esso non richiede la dimostrazione di un periodo di congedo, un’interruzione dell’impiego o almeno una riduzione dell’orario di lavoro. Indubbiamente, anche se quello fosse l’obiettivo dichiarato, sarebbe di scarsa utilità, in quanto la Corte ha costantemente dichiarato che padri e madri si trovano in una situazione comparabile per quanto riguarda la cura dei figli (43).

64.      La seconda conclusione preliminare è che il vero obiettivo della misura di cui trattasi sembra essere la riduzione del divario di genere in materia di pensioni, sulla base di dati statistici generali da cui emerge che le donne che hanno più di un figlio sono particolarmente svantaggiate nei relativi diritti pensionistici.

65.      Quest’ultimo obiettivo solleva immediatamente la questione se una siffatta strutturale situazione di disuguaglianza sia sufficiente a rendere donne e uomini non comparabili in una determinata situazione.

66.      A mio avviso, la risposta è negativa. È vero che, in alcuni casi, la giurisprudenza della Corte ha tenuto conto delle differenze che interessano gruppi diversi di persone per negare la loro comparabilità (44). Tuttavia, la Corte ha ritenuto comparabile la situazione di persone, appartenenti a diverse fasce d’età, che siano state colpite da problemi strutturali, come la disoccupazione (45). Inoltre, la Corte ha messo in guardia contro la presa in considerazione di generalizzazioni e dati statistici, in quanto essa è idonea a condurre ad un trattamento discriminatorio di uomini e donne in una situazione analoga (46). Infatti, l’esistenza di solide prove statistiche che dimostrino le differenze strutturali che interessano le donne non esclude che vi siano situazioni in cui le donne e gli uomini si trovano in una situazione comparabile.

67.      Non vedo alcuna ragione per non seguire il medesimo approccio nel caso di specie. Inoltre, gli argomenti relativi alle diverse situazioni in cui si trovano i gruppi, a condizione che una differenza siffatta non sia talmente significativa da rendere i gruppi del tutto incomparabili tra loro, devono quindi essere adeguatamente valutati nella fase delle giustificazioni (47) o, se pertinenti, nell’ambito della valutazione relativa all’«azione positiva». In particolare, l’«azione positiva» consente di discostarsi da un approccio individuale all’uguaglianza per prendere in considerazione la situazione di svantaggio di un gruppo, al fine di raggiungere un’uguaglianza sostanziale (48).

68.      Di conseguenza, devo concludere che l’esistenza di una diseguaglianza generale e strutturale in materia di pensioni non esclude che lavoratori di sesso femminile e lavoratori di sesso maschile che siano genitori di due o più figli si trovino in una situazione comparabile per quanto riguarda la prestazione in oggetto, vale a dire l’accesso a (un’integrazione a) una pensione contributiva di invalidità.

2.      Discriminazione

69.      Data la natura della misura di cui trattasi, l’analisi del carattere discriminatorio dell’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS deve essere estremamente breve. La disposizione riserva la prestazione dell’integrazione esclusivamente alle donne. Costituisce pertanto una discriminazione diretta basata sul sesso, che incide sul calcolo delle prestazioni ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7.

70.      Come correttamente sottolineato dalla Commissione, nell’ambito della direttiva 79/7 non è possibile giustificare un simile caso di discriminazione diretta (49). Una deroga al divieto di discriminazione diretta fondata sul sesso è possibile soltanto nelle situazioni tassativamente previste dalla direttiva (50). È pertanto necessario esaminare se la misura in parola potrebbe rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 79/7.

3.      Articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 79/7

71.      A causa della natura particolarmente sensibile della previdenza sociale e delle diffuse differenze di trattamento tra donne e uomini all’epoca in cui è stata discussa la direttiva 79/7, l’articolo 7, paragrafo 1 ha permesso agli Stati membri di escludere determinate materie dall’ambito di applicazione della direttiva. Infatti, la direttiva 79/7 aveva per «solo» scopo la «graduale» attuazione del principio di parità di trattamento tra uomini e donne (51). Le eccezioni di cui all’articolo 7, paragrafo 1, non possono pertanto essere logicamente collegate ad un tentativo sistematico di protezione delle donne o di discriminazione positiva. Esse sono piuttosto finalizzate a preservare taluni elementi dei sistemi di previdenza sociale che esistevano al momento dell’adozione della direttiva (52).

72.      Tra le materie che gli Stati membri possono escludere dall’ambito di applicazione della direttiva 79/7, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b) fa riferimento ai «vantaggi accordati in materia di assicurazione vecchiaia alle persone che hanno provveduto all’educazione dei figli» e all’«acquisto di diritti alle prestazioni a seguito di periodi di interruzione del lavoro dovuti all’educazione dei figli».

73.      L’INSS e il governo spagnolo affermano, in termini generali, che la misura di cui al caso di specie rientra nell’ambito di tale eccezione.

74.      Il ricorrente, al contrario, sostiene che l’eccezione prevista dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b) non sia applicabile. Detta eccezione si può applicare, ad avviso del ricorrente, soltanto alle pensioni di vecchiaia, non alle pensioni di invalidità come quella di cui trattasi.

75.      Non ravviso obiezioni all’applicazione dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b) ad una pensione di invalidità permanente. Infatti, la prima parte della disposizione si riferisce ad un’assicurazione «vecchiaia», mentre ciò non avviene nella seconda parte, in cui si fa riferimento in generale all’acquisto di diritti alle prestazioni a seguito di periodi di interruzione del lavoro dovuti all’educazione dei figli. Di fatto, la Corte ha già applicato l’eccezione prevista dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b) nell’ambito delle pensioni spagnole di invalidità permanente (53).

76.      L’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), tuttavia, non si può applicare alla presente causa per un motivo diverso. Come correttamente evidenziato dal ricorrente, l’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS non è collegato ad alcuna interruzione effettiva del lavoro per occuparsi dei figli. L’integrazione per maternità viene concessa a prescindere dal fatto che si sia verificata un’interruzione del lavoro sotto forma di congedo di maternità o di congedo parentale o in qualsiasi altra forma (54).

77.      Vorrei aggiungere, a titolo di chiarimento, che anche se una misura come quella in oggetto fosse effettivamente collegata ad un’interruzione del lavoro per occuparsi dei figli, non significherebbe, a mio avviso, che essa potrebbe ricadere nell’eccezione prevista dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b).

78.      Come correttamente sostenuto dalla Commissione e dal ricorrente, le deroghe di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 79/7 sono state concepite nell’ambito della graduale eliminazione delle disparità di trattamento (55) e devono essere interpretate in senso restrittivo (56). Sebbene gli articoli 7, paragrafo 2, e 8, paragrafo 2, di detta direttiva facciano riferimento alla possibilità per gli Stati membri di «mantenere» disposizioni esistenti, l’articolo 7, paragrafo 1 non è stato interpretato dalla Corte come una rigorosa clausola di standstill. La giurisprudenza ammette che l’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva 79/7 possa applicarsi alla successiva adozione di misure inscindibili da misure preesistenti che rientrano nell’ambito di tale deroga, nonché alle modifiche apportate a tali misure (57).

79.      Tuttavia, non si può ritenere, sulla base di un’interpretazione ragionevole, che la norma di cui trattasi nella presente causa sia connessa ad un graduale avanzamento verso la piena applicazione del principio di parità tra uomini e donne nel campo della sicurezza sociale. La misura è stata adottata nel 2015, parecchi decenni dopo l’entrata in vigore della direttiva 79/7. Essa è stata inserita in un contesto giuridico nazionale in cui non esisteva alcuna disposizione simile a cui avrebbe potuto collegarsi. Non è pertanto possibile considerare la misura necessaria per un regime preesistente che si avvalesse della deroga prevista dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), o inscindibile da detto regime. Essa non è, inoltre, connessa all’obiettivo generale dell’articolo 7, paragrafo 1, che consiste nel preservare l’equilibrio finanziario del sistema di previdenza sociale.

80.      Di conseguenza, devo concludere che non si può ritenere che la misura di cui al caso di specie rientri nell’ambito di applicazione della deroga prevista dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b) della direttiva 79/7.

C.      Articolo 157, paragrafo 4, TFUE

81.      Nonostante io abbia concluso che la direttiva 79/7 osta all’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS, resta da analizzare se la misura in parola possa comunque essere ammissibile ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE, disposizione che è stata ampiamente discussa dalle parti interessate che hanno presentato osservazioni nella presente causa.

82.      L’articolo 157, paragrafo 4, TFUE dispone che «[a]llo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio della parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali». Detta disposizione offre pertanto la possibilità di «salvare» o di rendere nuovamente compatibili misure del diritto dell’Unione che non rientrano nell’ambito delle specifiche eccezioni o deroghe previste dalla normativa derivata in materia di parità di genere (58).

83.      Tuttavia, l’ambito di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE resta poco chiaro. In primo luogo, resta irrisolta la questione se l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE si limiti alla sfera della «parità di retribuzione» o se esso abbia un ambito applicativo più ampio (1). In secondo luogo, che tipo di misure può essere considerato coperto da detta disposizione, in particolare per quanto riguarda le misure dirette a «compensare svantaggi nelle carriere professionali» (2)? Dopo aver analizzato detti punti chiave in generale e suggerito che talune misure nazionali attentamente elaborate in materia di sicurezza sociale potrebbero rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE, devo ancora concludere che la misura di cui alla presente causa non è una di quelle, in quanto non soddisfa i fondamentali requisiti di proporzionalità (3).

1.      Ambito di applicazione dellarticolo 157, paragrafo 4, TFUE e «parità di retribuzione»

84.      La prestazione controversa non rientra nella nozione di «retribuzione» ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 2, TFUE (59). L’articolo 157, paragrafo 4, TFUE potrebbe dunque salvare una misura nazionale che non rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 2, TFUE?

85.      Interrogata all’udienza su tale punto, la Commissione ha affermato che, tenendo presente che la nozione di «carriere professionali» di cui all’articolo 157, paragrafo 4, TFUE è molto ampia, l’ambito di applicazione di detta disposizione non è limitato alla nozione di «parità di retribuzione». Potrebbe pertanto applicarsi anche al campo della sicurezza sociale.

86.      Concordo con la Commissione sul fatto che non vi sia alcuna ragione per limitare l’ambito di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE al settore della «parità di retribuzione».

87.      Indubbiamente, la particolare disposizione che consente agli Stati membri di adottare misure di «azione positiva» è collocata nell’articolo 157 TFUE, che è stato storicamente collegato alla «parità di retribuzione». Tuttavia, vari elementi avvalorano la tesi secondo cui il paragrafo 4 di detta disposizione si estende oltre il campo specifico della «parità di retribuzione».

88.      In primo luogo, la formulazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE è chiaramente piuttosto ampia. Essa prevede un’eccezione al «principio della parità di trattamento» tra uomini e donne, non alla «parità di retribuzione», senza porre limiti espliciti ai settori in cui si applica (60). Le misure ammesse dalla disposizione in parola sono descritte, in termini altrettanto ampi, come «misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato ovvero a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali». Gli obiettivi dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE sono analogamente indicati facendo riferimento allo scopo molto ampio di «assicurare l’effettiva e completa parità (…) nella vita lavorativa».

89.      In secondo luogo, sotto un profilo sistematico, qualsiasi potenziale complessiva limitazione dell’articolo 157 TFUE allo specifico settore della «parità di retribuzione» è già superata dall’articolo 157, paragrafo 3, TFUE, il quale costituisce un’ampia base giuridica che va ben oltre il principio della parità di retribuzione e comprende l’adozione di «misure che assicurino l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di occupazione e impiego» (61).

90.      In terzo luogo, è vero che in passato la Corte ha abbracciato un’interpretazione «restrittiva» dell’eccezione dell’azione positiva sancita dall’articolo 2, paragrafo 4, della direttiva 76/207, affermando che detta disposizione costituiva una deroga al principio della parità di trattamento (62). Siffatta posizione è stata tuttavia progressivamente abbandonata (63). Essa non figura nella giurisprudenza concernente la più ampia e generica eccezione dell’azione positiva, contenuta nell’articolo 157, comma 4, TFUE. A mio avviso, non è un caso. L’articolo 157, paragrafo 4, TFUE costituisce il consolidamento, nel diritto primario, di un’idea di uguaglianza sostanziale in materia di parità tra i sessi e non una mera deroga che dovrebbe essere interpretata restrittivamente.

91.      Ritengo pertanto che l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE debba essere interpretato nel senso che esso ammette, nell’ambito della «discriminazione positiva», misure che sarebbero altrimenti vietate dal principio della parità di trattamento sancito dalla direttiva 79/7, sempre che tali misure mirino di fatto ad assicurare «l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa» e a prevedere «vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato» ovvero a «evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali».

92.      Vi è, tuttavia, un altro problema preliminare: l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE si applica al settore della previdenza sociale? In realtà, tale settore resta sottoposto ad un regime specifico, in qualche modo escluso da tutti gli altri strumenti concernenti la parità di genere in materia di condizioni lavorative e di retribuzione ed è disciplinato dall’unica superstite delle «vecchie» direttive, adottate sulla base dell’articolo 235 CEE (attuale articolo 352 TFUE) (64).

93.      Tuttavia, da un punto di vista più ampio, si deve sottolineare che escludere il settore disciplinato dalla direttiva 79/7 dall’ambito di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE comporterebbe, come conseguenza alquanto paradossale, l’isolamento del settore della sicurezza sociale e la sua esclusione dall’obiettivo, perseguito da tale disposizione, di realizzare nella pratica l’uguaglianza sostanziale. Ciò è dovuto al fatto che le disposizioni della direttiva 79/7 che prevedono la possibilità di una deroga, l’articolo 4, paragrafo 2, e l’articolo 7, non sono particolarmente idonee a fungere da veicoli di discriminazione positiva. Ciò dipende principalmente dall’interpretazione restrittiva che entrambi meritano, ma anche e soprattutto dalle loro strutture e dai loro obiettivi di carattere diverso.

94.      Come già indicato, inoltre, la direttiva 79/7 è l’«ultimo dei Mohicani» della legislazione in materia di parità degli anni ’70 e ’80 ancora in vigore. La bellezza, la chiarezza e la semplicità del suo linguaggio che, alla luce della redazione legislativa di oggi, può solo essere oggetto di ammirazione, non deve togliere nulla al fatto che la realtà sociale affrontata e gestita nel 1978 è necessariamente diversa da quella affrontata una quarantina d’anni più tardi.

95.      Tuttavia, pur con tutte le concessioni effettuate, continuo a ritenere che ammettere, a determinate condizioni, l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE come giustificazione per misure ben mirate nel settore della previdenza sociale che rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 79/7, ma apparentemente in contrasto con le sue disposizioni, è, sotto il profilo sistematico e logico, preferibile all’alternativa perorata dall’INSS e dal governo spagnolo, vale a dire iniziare ad interpretare e, di fatto, modificare in modo le nozioni contenute nella direttiva 79/7 alla luce dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE e di una qualsiasi idea di uguaglianza (sostanziale) (65).

96.      Come già sottolineato in precedenza, l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7 ammette che uomini e donne non siano comparabili nella specifica situazione della maternità, ma non stabilisce, di per sé, una specifica possibilità di «azione positiva» (66). È vero che i fondamenti concettuali dell’azione positiva condividono alcuni elementi del ragionamento sottostante alle conclusioni circa la non comparabilità relativa alla maternità proprio a causa della specifica situazione di svantaggio subita da uno dei gruppi individuati e lo scopo costituito dal raggiungimento dell’uguaglianza sostanziale (67). Tuttavia, almeno in materia di discriminazione tra i sessi, le due categorie concettuali in parola – la maternità come una delle caratteristiche che escludono la comparabilità e la possibilità di adottare un’azione positiva per porre rimedio o compensare gli svantaggi subiti dalle donne – sono mantenute separate nella legislazione e nella giurisprudenza (68).

97.      Non è una semplice coincidenza. Infatti, la logica sottostante le due deroghe è diversa: una deroga riguardante misure di protezione delle donne a motivo della maternità, come l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7, si basa sulla non comparabilità in relazione ad una realtà biologica molto specifica che non cambierà mai. Non mira a porre rimedio o a compensare uno squilibrio preesistente o una situazione strutturale svantaggiosa, che possono venir meno con il progresso sociale. Di fatto, l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 79/7 opera indipendentemente da qualsiasi situazione preesistente di svantaggio o di sottorappresentazione.

98.      Sotto il profilo delle funzioni e degli obiettivi della deroga della maternità e dell’azione positiva, inoltre, la distinzione è di notevole importanza. Molti degli svantaggi subiti dalle donne derivano da un ruolo costruito a livello sociale che viene loro attribuito e un’ampia interpretazione della deroga relativa alla «maternità» in cui rientri l’«essere madre» rischia di perpetuare e cristallizzare ulteriormente tali ruoli, contrastando l’obiettivo stesso dell’azione positiva.

99.      Nel caso dell’articolo 7 della direttiva 79/7, il suo ambito di applicazione limitato, collegato al carattere progressivo della direttiva, rappresenta già un’importante obiezione all’interpretazione di detta disposizione come un’adeguata possibilità di azione positiva nel campo della previdenza sociale. Inoltre, come già rilevato, l’obiettivo di tale disposizione è collegato non tanto all’idea di uguaglianza sostanziale, quanto alla logica di mantenimento di alcune preesistenti differenze a «vantaggio» delle donne, preservando al contempo anche l’equilibrio fiscale dei sistemi di previdenza sociale (69).

100. In sintesi, escludere la previdenza sociale dal campo di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE significherebbe che la direttiva 79/7 sarebbe l’unico strumento specifico di diritto derivato nel settore della politica sociale ad attuare il principio dell’Unione di parità tra donne e uomini, escluso dall’approccio sostanziale all’uguaglianza sancito dall’articolo 157, paragrafo 4, TFUE in qualità di disposizione generale dell’«azione positiva» fondata sul sesso.

101. Ritengo tale conseguenza difficile da accettare. Pertanto, l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE dovrebbe altresì servire a giustificare una misura nazionale che altrimenti sarebbe discriminatoria nello specifico contesto giuridico stabilito dal diritto derivato applicabile dell’Unione, compresa la direttiva 79/7, nella misura in cui una siffatta misura sia conforme ai requisiti di tale disposizione del trattato, ossia, che dette misure mirino ad assicurare «l’effettiva e completa parità tra uomini e donne nella vita lavorativa» e a prevedere «vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato» ovvero «a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali».

2.      Compensazione per gli svantaggi nelle carriere professionali

102. La Commissione, pur avendo ammesso che l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE potrebbe potenzialmente applicarsi al campo della previdenza sociale, afferma che la misura di cui alla presente causa non può essere fatta rientrare nella deroga dell’«azione positiva» prevista da detto articolo sulla base dell’interpretazione che la Corte ha dato dei predecessori di tale disposizione nelle sentenze Griesmar e Leone.

103. Nella sentenza Griesmar, la Corte ha interpretato l’articolo 6, paragrafo 3, dell’accordo sulla politica sociale (70) in una causa riguardante una maggiorazione di anzianità legata ai figli, riconosciuta ai dipendenti pubblici di sesso femminile in base ad un regime pensionistico professionale. La Corte ha ritenuto che detta misura non rientrasse nelle misure di azione positiva previste dall’articolo 6, paragrafo 3, dell’accordo sulla politica sociale. Il provvedimento non appariva «idoneo a compensare gli svantaggi ai quali sono sottoposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando tali donne nella propria vita lavorativa». La Corte ha rilevato che «[a]l contrario, esso si limita a concedere ai dipendenti pubblici di sesso femminile una maggiorazione di anzianità al momento del collocamento a riposo, senza porre rimedio ai problemi che essi possono incontrare nel corso della loro carriera lavorativa» (71). Ciò è stato confermato nella sentenza Leone (72), nonché in varie sentenze per violazione del trattato concernenti taluni svantaggi cui erano sottoposti i dipendenti pubblici di sesso femminile in relazione all’età pensionabile e al numero di anni di servizio necessari per il collocamento a riposo (73).

104. A prima vista, le considerazioni contenute in tali sentenze sono perfettamente valide anche ai fini della discussione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE nel caso di specie. Infatti, l’integrazione per maternità incide sui diritti pensionistici dopo il riconoscimento di una situazione di invalidità permanente assoluta e non nel corso della carriera professionale del ricorrente.

105. Un secondo sguardo rivela, tuttavia, due problemi relativi a tale analogia: uno più tecnico, uno di principio.

106. Anzitutto, l’argomento più tecnico: la giurisprudenza di Griesmar e Leone non deve essere necessariamente letta nel senso che essa esclude in maniera completa la possibilità di ricorrere all’articolo 157, paragrafo 4, TFUE in qualsiasi situazione connessa all’esigenza di compensare svantaggi passati. Le dichiarazioni di cui alle sentenze in parola devono essere considerate nel contesto delle circostanze degli specifici casi in oggetto. Infatti, laddove l’unica misura esistente per affrontare un problema strutturale come il divario di genere sia costituita dalla compensazione dopo il pensionamento, è in realtà legittimo suggerire che le disposizioni nazionali non prevedono un rimedio ai problemi incontrati dalle donne nelle loro carriere professionali. In siffatte circostanze, fornire soltanto una compensazione dopo il pensionamento potrebbe addirittura perpetuare una distribuzione tradizionale dei ruoli tra uomini e donne mantenendo gli uomini in un ruolo sussidiario a quelle delle donne per quanto riguarda l’esercizio della loro funzione genitoriale (74), mentre le donne ricevono effettivamente soltanto un «pagamento» al termine della loro carriera.

107. La situazione è alquanto diversa, a mio avviso, qualora una misura nazionale, come quella di cui al caso di specie, faccia parte di un più ampio sistema di diritto nazionale che comprende diverse misure volte a porre effettivamente rimedio ai problemi incontrati dalle donne nel corso delle loro carriere professionali. In un caso del genere, non si può escludere che, in linea di principio, se esiste un generale contesto normativo che mira a compensare gli svantaggi cui le donne sono esposte supportandole nel corso della loro vita professionale, una misura che abbia l’effetto di compensare svantaggi passati potrebbe essere legittimamente concepita ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE. Una siffatta misura sarebbe di fatto accessoria rispetto al sistema principale di misure compensative che producono effetti durante la vita professionale. Essa avrebbe carattere correttivo e temporaneo, allo scopo di affrontare, in nome della giustizia intergenerazionale, la situazione di coloro che non potrebbero beneficiare del progresso verso la parità nel sistema di previdenza sociale.

108. Se tale interpretazione, ragionevole e di fatto orientata all’uguaglianza sostanziale, dell’ambito di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE non venisse accolta, sarebbe il momento, a mio avviso, di ripensare l’approccio della Corte a livello di principio.

109. In primo luogo, vi è il testo dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE. Esso fa un chiaro riferimento all’obiettivo di assicurare l’effettiva parità includendovi non soltanto misure dirette a facilitare l’accesso e ad evitare svantaggi (75), ma anche la compensazione per tali svantaggi. Tale disposizione supera, a mio avviso, l’attenzione forse non del tutto utile sulla dicotomia tra pari opportunità e uguaglianza di risultati, che ha dominato gran parte della precedente giurisprudenza che ha interpretato disposizioni giuridiche diverse (76).

110. In secondo luogo, l’interpretazione del campo di applicazione dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE deve logicamente adattarsi alle specificità del settore in oggetto. Se si ammette che l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE si applichi al settore regolato dalla direttiva 79/7, la compensazione per gli svantaggi nelle carriere professionali deve necessariamente comprendere le conseguenze nel presente degli svantaggi passati. Non vedo come potrebbe essere altrimenti nel campo della sicurezza sociale, in cui gli svantaggi nelle pensioni vengono percepiti soprattutto una volta che il soggetto lascia il mercato del lavoro. È difficile comprendere come la questione del divario di genere nelle pensioni attualmente esistente possa essere fronteggiata facilitando l’accesso delle donne al mercato del lavoro o mediante misure adottate quando esse sono ancora attive nel mercato del lavoro (tali misure eviterebbero un futuro, potenziale divario di genere nelle pensioni), al contempo escludendo categoricamente qualsiasi misura che diverrebbe applicabile dopo che hanno lasciato il mercato del lavoro (dove risiede il problema reale e più urgente).

111. In terzo luogo, un siffatto approccio all’articolo 157, paragrafo 4, TFUE porterebbe di fatto ad un risultato troppo restrittivo e preclusivo, in quanto comporterebbe il protrarsi degli svantaggi subiti dalle donne nel corso della loro vita lavorativa nel periodo della pensione (77). Il risultato pratico sarebbe moralmente discutibile: dal momento che l’effettiva e completa parità si applica soltanto alle pari opportunità nella vita lavorativa, dopo la loro uscita dal mercato del lavoro nulla può essere mai compensato, anche se lo svantaggio deriva evidentemente dall’inuguaglianza sperimentata nel corso della loro vita lavorativa e si manifesterà, logicamente, in un momento successivo. In un simile scenario, le pari opportunità sarebbero una nozione utile soltanto se comprendessero una pari opportunità di cambiare il passato.

112. Suggerisco pertanto che non soltanto l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE possa servire a giustificare una misura nazionale che sarebbe altrimenti discriminatoria nello specifico contesto giuridico stabilito dal diritto derivato applicabile, ivi compresa la direttiva 79/7, ma che il medesimo articolo possa essere invocato in relazione a misure dirette a compensare gli svantaggi subiti durante la carriera professionale, che, pur avendo origine nel corso della vita lavorativa, si manifestano soltanto successivamente, al momento dell’uscita dal mercato del lavoro.

113. Tuttavia, il diritto dell’Unione sottopone costantemente le misure di azione positiva alla verifica di proporzionalità, la quale richiede che le deroghe non eccedano quanto è adeguato e necessario per raggiungere lo scopo perseguito. Si deve conciliare, per quanto possibile, il principio della parità di trattamento con le esigenze del fine così perseguito (78).

114. Passo ora a tali esigenze nel contesto della presente causa.

3.      Presente causa

115. L’INSS e il governo spagnolo insistono sulla natura correttiva integrativa della prestazione in parola. Secondo tali parti interessate, il «supplemento per maternità» si inserisce nel contesto normativo più ampio che mira a compensare gli effetti che gli svantaggi subiti dalle donne nella loro vita professionale hanno sulle pensioni. Sono state descritte diverse misure, ivi comprese le misure che compensano i contributi durante il periodo che segue il parto, il congedo di maternità e il congedo parentale, nonché misure in materia di impiego, come la garanzia di periodi più lunghi per il congedo di paternità. Tuttavia, tali misure non si applicano retroattivamente e non possono pertanto porre rimedio alla situazione delle generazioni più anziane, che non potrebbero beneficiarne. Inoltre, alla luce delle misure in parola, il governo spagnolo sostiene che la necessità di mantenere in futuro l’«integrazione per maternità» verrebbe periodicamente riesaminata.

116. Tutti gli elementi sopra menzionati dovrebbero essere considerati dal giudice nazionale, al fine di valutare se la misura di cui trattasi abbia davvero carattere compensativo e integrativo nel contesto di un sistema più vasto che mira di fatto a compensare gli svantaggi subiti dalle donne nel corso della loro carriera professionale.

117. Sebbene sia teoricamente possibile applicare l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE al caso di specie, devo tuttavia concludere che, sulla base delle informazioni presentate alla Corte, la prestazione in oggetto, nella sua forma attuale, non supererebbe affatto la verifica di proporzionalità richiesta da detta disposizione. Su tale punto non posso che concordare con la Commissione: la misura di cui trattasi non è conforme al principio di proporzionalità.

118. In primo luogo, sotto il profilo della sua adeguatezza, va osservato che la misura di cui trattasi non si applica alle pensioni non contributive, che sono probabilmente più colpite dal divario di genere, se si tiene conto del fatto che saranno le donne di generazioni precedenti che avranno meno probabilità di raggiungere perfino il numero di anni necessario per richiedere pensioni contributive.

119. In secondo luogo, come rilevato dalla Commissione, la misura si applica unicamente alle pensioni che hanno iniziato ad essere versate nel 2016, escludendo pertanto le donne delle generazioni più facilmente colpite dal divario di genere. A mio avviso, tale fatto crea una dissonanza tra l’obiettivo (ufficialmente dichiarato) della misura e i mezzi scelti per realizzarlo, talmente forte da renderla inadatta al conseguimento di tale obiettivo dichiarato (79).

120. In terzo luogo, la misura di cui trattasi non soddisfa il requisito della necessità. L’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS si basa sul criterio esclusivo ed automatico del sesso. Esso si applica soltanto alle donne e non ammette alcun tipo di considerazione in relazione alla situazione di uomini in situazioni comparabili. Non vi è alcuna possibilità di applicare la medesima misura a uomini che abbiano subito interruzioni alla propria carriera o riduzioni di contributi per essersi occupati dell’educazione dei figli (80).

121. È d’obbligo un’osservazione conclusiva: né la legittimità dell’obiettivo perseguito dalla misura nazionale né gli elementi statistici prodotta dalle autorità nazionali, attestanti l’esistenza del divario di genere quale problema strutturale, sono stati messi in discussione. Inoltre, le norme nazionali in materia di sicurezza sociale volte a colmare il divario di genere mediante compensazione potrebbero, a mio avviso, essere attuate ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE. Tuttavia, l’articolo 60, paragrafo 1, della LGSS nella sua forma attuale non si conforma ai due requisiti di adeguatezza e di necessità e non soddisfa i criteri del principio di proporzionalità, che deve essere rispettato per rendere ammissibile una siffatta misura ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE.

122. Dette considerazioni mi portano a concludere che la misura di cui al caso di specie non è ammissibile ai sensi dell’articolo 157, paragrafo 4 TFUE ed è pertanto incompatibile con il diritto dell’Unione.

V.      Conclusione

123. Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di rispondere come segue alla questione sollevata dallo Juzgado de lo Social n.o3 de Gerona (Tribunale del lavoro n. 3 di Girona, Spagna):

L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7/CEE, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale deve essere interpretato nel senso che osta ad una misura nazionale come quella di cui trattasi nel caso di specie, che, da un lato, conferisce il diritto a percepire un’integrazione della pensione a donne che hanno due o più figli e acquisiscono il diritto ad una pensione contributiva di invalidità permanente dopo la sua entrata in vigore, ma, dall’altro lato, non prevede alcuna possibilità di riconoscere tale diritto agli uomini in alcuna situazione.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      Sentenza del 29 novembre 2001 (C‑366/99, EU:C:2001:648).


3      Sentenza del 17 luglio 2014 (C‑173/13, EU:C:2014:2090).


4      Direttiva del Consiglio, del 19 dicembre 1978 (GU 1979, L 6, pag. 24).


5      Approvata dal Real Decreto Legislativo 1/1994 (regio decreto legislativo 1/1994) del 20 giugno 1994 (BOE n. 154, del 29 giugno 1994, pag. 20658) nel testo consolidato approvato dal Real Decreto Legislativo 8/2015 (regio decreto legislativo 8/2015) del 30 ottobre 2015 (BOE n. 261 del 31 ottobre 2015, pag. 103291), come modificato dalla Ley 48/2015, de 29 de octubre, de Presupuestos generales del Estado para el año 2016 (Legge 48/2015 sui bilanci generali dello Stato per il 2016) (BOE n. 260 del 30 ottobre 2015, pag. 101965).


6      I riferimenti al ricorrente contenuti nelle presenti conclusioni dovrebbero essere interpretati di conseguenza.


7      Sentenza del 29 novembre 2001 (C‑366/99, EU:C:2001:648).


8      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006 (rifusione) (GU 2006, L 204, pag. 23).


9      V. in tal senso, ad esempio, sentenza del 19 settembre 2013, Betriu Montull (C‑5/12, EU:C:2013:571, punti 40 e 41 e giurisprudenza ivi citata).


10      V., ad esempio, sentenza del 17 maggio 1990, Barber (C‑262/88, EU:C:1990:209, punti da 25 a 28).


11      V., ad esempio, sentenza del 25 maggio 1971, Defrenne (80/70, EU:C:1971:55, punti 7 e 8).


12      V., ad esempio, sentenza del 25 maggio 1971, Defrenne (80/70, EU:C:1971:55, punti 7 e 8).


13      V., ad esempio, sentenza del 28 settembre 1994, Beune (C‑7/93, EU:C:1994:350, punto 43) o del 29 novembre 2001, Griesmar (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 28).


14      Sul tema del carattere contributivo di una prestazione e della qualificazione di quest’ultima come «retribuzione», v. le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa Espadas Recio (C‑98/15, EU:C:2017:223, paragrafi da 34 a 38).


15      V., in tal senso, ad esempio, sentenza del 25 maggio 1971, Defrenne (80/70, EU:C:1971:55, punti 7 e 8) o del 28 settembre 1994, Beune (C‑7/93, EU:C:1994:350, punto 24).


16      Per quanto riguarda le pensioni di vecchiaia contributive, anch’esse rientranti nell’integrazione della pensione di cui trattasi nel caso di specie, v. ad esempio, sentenze del 22 novembre 2012, Elbal Moreno (C‑385/11, EU:C:2012:746, punto 6), e dell’8 maggio 2019, Villar Láiz (C‑161/18, EU:C:2019:382, punto 56). Per quanto concerne le prestazioni di disoccupazione, v. sentenza del 9 novembre 2017, Espadas Recio (C‑98/15, EU:C:2017:833, punti 33 e 34). Quanto alle pensioni di invalidità permanente, v. sentenze del 16 luglio 2009, Gómez-Limón Sánchez-Camacho (C‑537/07, EU:C:2009:462, punto 63), e del 14 aprile 2015, Cachaldora Fernández (C‑527/13, EU:C:2015:215, punti 26 e 34).


17      V. considerando 13 e 14. In base all’articolo 1, lettera c), la direttiva 2006/54 si applica ai «regimi professionali di sicurezza sociale», laddove detti regimi sono espressamente definiti, nell’articolo 2, paragrafo 1, lettera f), come «regimi non regolati dalla direttiva 79/7 (…)».


18      V., in tal senso, con riguardo ai meccanismi di perequazione, sentenza del 20 ottobre 2011, Brachner (C‑123/10, EU:C:2011:675, punti 42 e seg.).


19      V., sugli obiettivi della misura, la sezione B, paragrafo 1, lettera b) delle presenti conclusioni.


20      V., ad esempio, sentenza del 14 luglio 2016, Ornano (C‑335/15, EU:C:2016:564, punto 39 e giurisprudenza ivi citata).


21      V., in tal senso, sentenze del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punto 33), e del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566, punto 25 e giurisprudenza ivi citata). V., più dettagliatamente, sull’analisi di comparabilità, le mie conclusioni nella causa Cresco Investigation (C‑193/17, EU:C:2018:614, paragrafi da 64 a 79).


22      V., ad esempio, sentenze del 13 febbraio 1996, Gillespie e a. (C‑342/93, EU:C:1996:46, punto 17), e del 14 luglio 2016, Ornano (C‑335/15, EU:C:2016:564, punto 39).


23      Sentenza del 29 novembre 2001, Griesmar (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 41). V. altresì sentenza del 16 settembre 1999, Abdoulaye e a. (C‑218/98, EU:C:1999:424, punti 18, 20 e 22).


24      V., ad esempio, sentenze del 25 ottobre 1988, Commissione/Francia (312/86, EU:C:1988:485, punto 14); del 29 novembre 2001, Griesmar (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 56); del 26 marzo 2009, Commissione/Grecia (C‑559/07, non pubblicata, EU:C:2009:198, punto 69); e del 16 luglio 2015, Maïstrellis (C‑222/14, EU:C:2015:473, punto 47).


25      Sentenza del 30 settembre 2010, Roca Álvarez (C‑104/09, EU:C:2010:561, punto 24).


26      Sentenza del 19 marzo 2002, Lommers (C‑476/99, EU:C:2002:183, punto 30).


27      Articolo 2, paragrafo 7, come modificato, della direttiva del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU 1976, L 39, pag. 40), modificata dalla direttiva 2002/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 settembre 2002 (GU 2002, L 269, pag. 15). Detto articolo è stato abrogato dall’articolo 28 della direttiva 2006/54.


28      V., ad esempio, sentenza del 15 maggio 1986,  Johnston (222/84, EU:C:1986:206, punto 44).


29      V., ad esempio, sul congedo di maternità, sentenza del 18 novembre 2004, Sass (C‑284/02, EU:C:2004:722, punto 33); su un periodo supplementare di congedo di maternità, sentenza del 12 luglio 1984, Hofmann (184/83, EU:C:1984:273, punti 25 e 26); e su accordi particolari circa il possibile utilizzo di un periodo di congedo da parte di lavoratrici madri o lavoratori padri, sentenza del 19 settembre 2013, Betriu Montrull (C‑5/12, EU:C:2013:571, punti da 61 a 65).


30      V., ad esempio, sentenze del 25 ottobre 1988, Commissione/Francia (312/86, EU:C:1988:485, punti 13 e 14) in relazione a vari «diritti speciali alle donne» che proteggono le donne in qualità di lavoratore anziano o di genitore, e del 30 settembre 2010, Roca Álvarez (C‑104/09, EU:C:2010:561, punti da 26 a 31), concernente un periodo di permesso che, sebbene detto «permesso per allattamento», era di fatto svincolato dall’allattamento in quanto tale e poteva essere considerato tempo dedicato alla cura di un figlio. V. altresì, in tal senso, sentenza del 16 luglio 2015, Maïstrellis (C‑222/14, EU:C:2015:473, punto 51), in materia di congedo parentale.


31      Sentenza del 29 novembre 2001 (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 46).


32      Ibidem, punto 51.


33      Ibidem, punto 52.


34      V. sezione C, paragrafi 93 e da 96 a 98.


35      Ai sensi dell’articolo 48, paragrafo 5, della Ley del Estatuto de los Trabajadores (legge sullo Statuto dei lavoratori), nella versione derivante dal Real decreto legislativo 2/2015 (regio decreto legislativo 2/2015) del 23 ottobre 2015 (BOE n. 255 del 24 ottobre 2015).


36      Il ricorrente precisa che ciò è possibile ai sensi dell’articolo 44, paragrafo 5, della Ley 20/2011, de 21 de julio, del Registro Civil (legge 20/2011 del 21 luglio 2011 del registro civile) (BOE n. 175 del 22 luglio 2011).


37      Ley 48/2015 de 29 de octubre, de Presupuestos Generales del Estado para el año 2016 (Legge 48/2015 sui bilanci generali dello Stato per il 2016) (BOE n. 260 del 10 ottobre 2015).


38      Nonostante alcune iniziali esitazioni circa la possibilità che l’attivazione partenogenetica degli ovociti dia inizio al processo di sviluppo di un essere umano in un ovulo umano non fecondato (v. sentenza del 18 ottobre 2011, Brüstle, C‑34/10, EU:C:2011:669, punto 36, ma cfr. anche sentenza del 18 dicembre 2014, International Stem Cell Corporation, C‑364/13, EU:C:2014:2451, punto 38), sembrerebbe che, anche ai sensi del diritto dell’Unione, entrambi i sessi siano ancora necessari per il concepimento.


39      Boletín Oficial de las Cortes Generales – Congreso de los Diputados (1.9.2015, Serie A, n. 163-4, pagg. da 2812 a 2814).


40      Plan Integral de Apoyo a la Familia (PIAF) 2015-2017, (Piano integrale di sostegno alle famiglie 2015-2017), approvato dal consiglio dei ministri il 14 maggio 2015 (disponibile sul sito www.mscbs.gob.es/novedades/docs/PIAF‑2015-2017.pdf).


41      Informe sobre el complemento de maternidad en las pensiones contributivas (Relazione sull’integrazione per maternità delle pensioni contributive) inviata a giugno del 2015 alla Comisión de Seguimiento y Evaluación de los Acuerdos del Pacto de Toledo (Commissione di valutazione e di controllo degli accordi del patto di Toledo) da parte del governo spagnolo.


42      Ordinanza del Tribunal Constitucional (Corte costituzionale, Spagna) del 16 ottobre 2018, n. 3307-2018, ES:TC:2018:114A, punto 3, lettera b).


43      V. la giurisprudenza citata nelle note 29 e 30.


44      Sentenza del 1o ottobre 2015, O (C‑432/14, EU:C:2015:643, punti da 37 a 39).


45      V. sentenza del 19 luglio 2017, Abercrombie & Fitch Italia (C‑143/16, EU:C:2017:566, punti 26 e 27).


46      V., in tal senso, sentenza del 3 settembre 2014, X (C‑318/13, EU:C:2014:2133, punto 38). V. altresì, per quanto riguarda argomenti alquanto simili a quelli presentati dal governo spagnolo e dall’INSS nel caso di specie, sentenza del 29 novembre 2001, Griesmar (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 56).


47      Sulla transitorietà intrinseca tra le categorie, v. le mie conclusioni nella causa Cresco Investigation (C‑193/17, EU:C:2018:614, paragrafi 61 e 62).


48      V., a tale riguardo, conclusioni dell’avvocato generale Tesauro nella causa Kalanke (C‑450/93, EU:C:1995:105, paragrafo 8). V. in merito alla mia proposta in tal senso, la sezione C delle presenti conclusioni.


49      V., per analogia, sentenze del 18 novembre 2010, Kleist (C‑356/09, EU:C:2010:703, punto 41), e del 12 settembre 2013, Kuso (C‑614/11, EU:C:2013:544, punto 50).


50      V., in tal senso, sentenza del 26 giugno 2018, MB (Cambiamento di sesso e pensione di fine lavoro) (C‑451/16, EU:C:2018:492, punto 50 e giurisprudenza ivi citata).


51      V. sentenze dell’11 luglio 1991, Johnson  (C‑31/90, EU:C:1991:311, punto 25), e del 16 luglio 2009, Gómez-Limón Sánchez-Camacho (C‑537/07, EU:C:2009:462, punto 60).


52      Come evidenziato dalla giurisprudenza, anche se detti obiettivi non sono dichiarati nei considerando della direttiva 79/7, «[d]alla natura delle deroghe di cui all’art. 7, n. 1, della direttiva, risulta che il legislatore comunitario ha inteso autorizzare gli Stati membri a mantenere temporaneamente, in materia di pensioni, i benefici riconosciuti alle donne, al fine di consentire loro di procedere gradualmente ad una modifica dei sistemi pensionistici su tale punto senza perturbare il complesso equilibrio finanziario di questi sistemi, di cui non poteva disconoscere l’importanza». V., ad esempio, sentenze del 30 aprile 1998, De Vriendt e a. (da C‑377/96 a C‑384/96, EU:C:1998:183, punto 26), e del 27 aprile 2006, Richards (C‑423/04, EU:C:2006:256, punto 35).


53      Sentenza del 16 luglio 2009, Gómez-Limón Sánchez-Camacho (C‑537/07, EU:C:2009:462, punti 60 e 63).


54      V. punto 63.


55      V., ad esempio, sentenza del 7 luglio 1992, Equal Opportunities Commission (C‑9/91, EU:C:1992:297, punto 14).


56      V., ad esempio, per quanto riguarda l’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), sentenza del 21 luglio 2005, Vergani (C‑207/04, EU:C:2005:495, punto 33 e giurisprudenza ivi citata).


57      V., sentenze del 7 luglio 1994, Bramhill (C‑420/92, EU:C:1994:280), e del 23 maggio 2000, Hepple e a. (C‑196/98, EU:C:2000:278, punto 23), nonché le conclusioni dell’avvocato generale Saggio nella causa Hepple e a. (C‑196/98, EU:C:1999:495, paragrafi da 21 a 24) e dell’avvocato generale Mischo nella causa Taylor (C‑382/98, EU:C:1999:452, paragrafi da 66 a 69).


58      V., ad esempio, sentenze del 28 marzo 2000, Badeck e a. (C‑158/97, EU:C:2000:163, punto 14); del 6 luglio 2000, Abrahamsson e Anderson (C‑407/98, EU:C:2000:367, punti 40, 54 e55); e del 30 settembre 2004, Briheche (C‑319/03, EU:C:2004:574, punti 29 e 30), le quali suggeriscono che l’articolo 157, paragrafo 4, TFUE possa applicarsi a situazioni in cui una misura nazionale è stata dichiarata incompatibile con le norme specifiche della normativa derivata dell’Unione che ammette un’azione positiva.


59      V. paragrafi da 27 a 31 delle presenti conclusioni.


60      V. Tobler, C., «Sex Equality Law under the Treaty of Amsterdam», European Journal of Law Reform (2000), vol. 1, n. 1, Kluwer Law International, 2000, pagg. 135-151, in particolare pag. 142.


61      Langenfeld, C., «AEUV Art. 157 Gleiches Entgelt für Männer und Frauen» in Grabitz, E., Hilf, M., e Nettesheim, M., Das Recht der Europäischen Union, C.H. Beck, Monaco, 2019, Werkstand: 66. Rn. 84. V. altresì Krebber, S., «Art. 157 AEUV» in Callies, C., e Ruffert, M., EUV/AEUV. Das Verfassungsrecht der Europäischen Union mit Europäischer Grundrechtecharta, C.H. Beck, Monaco, 2016, Rn. 73.


62      V. sentenza del 17 ottobre 1995, Kalanke (C‑450/93, EU:C:1995:322, punto 21).


63      V., in tal senso, sentenza dell’11 novembre 1997, Marschall (C‑409/95, EU:C:1997:533, punto 32), che non fa più riferimento all’obbligo di «interpretazione restrittiva», o sentenze del 19 marzo 2002, Lommers (C‑476/99, EU:C:2002:183, punto 39), e del 30 settembre 2004, Briheche (C‑319/03, EU:C:2004:574, punto 24). V. altresì, per analogia, sentenza del 22 gennaio 2019, Cresco Investigation (C‑193/17, EU:C:2019:43, punto 65).


64      Altre «vecchie» direttive in materia sono state oggetto di rifusione con la direttiva 2006/54 – la cui base giuridica è l’articolo 157, paragrafo 3, TFUE – o modificate da atti giuridici adottati sulla stessa base giuridica [è questo il caso della direttiva del Consiglio 76/207, cit., nonché della direttiva 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio 1975, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio di parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (GU 1975, L 45, pag. 19); direttiva 86/378/CEE del Consiglio, del 24 luglio 1986, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale (GU 1986, L 225, pag. 40); e direttiva 86/613/CEE del Consiglio, dell’11 dicembre 1986, relativa all’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma, ivi comprese le attività nel settore agricolo, e relativa altresì alla tutela della maternità (GU 1986, L 359, pag. 56)].


65      Cfr. paragrafo 50.


66      V. paragrafi 41 e 50 delle presenti conclusioni.


67      V., ad esempio, sentenza del 18 marzo 2004, Merino Gómez (C‑342/01, EU:C:2004:160, punto 37), in cui l’articolo 2, paragrafo 3, della direttiva 76/207 è collegato allo scopo del «conseguimento di un’uguaglianza sostanziale e non formale». V. altresì sentenza del 30 aprile 1998, Thibault (C‑136/95, EU:C:1998:178, punto 26).


68      Ciò è confermato dal fatto che le misure di protezione delle donne a motivo della maternità e l’azione positiva hanno basi giuridiche diverse, come ha sostenuto la Commissione all’udienza. La deroga relativa alla «maternità» è prevista dall’articolo 28, paragrafo 1, della direttiva 2006/54, mentre la disposizione generale in materia di azione positiva è all’articolo 3 della medesima direttiva. Ciò valeva anche per la direttiva 76/207, in cui due diverse disposizioni erano altresì dedicate a tali diverse categorie (l’articolo 2, paragrafi 3 e 4 – dopo la modifica, l’articolo 2, paragrafi 7 e 8). Disposizioni diverse sono inoltre dedicate alla deroga relativa alla «maternità» e all’«azione positiva» (l’articolo 4, paragrafo 2, e l’articolo 6) nella direttiva 2004/113/CE del Consiglio, del 13 dicembre 2004, che attua il principio della parità di trattamento tra uomini e donne per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura (GU 2004, L 373, pag. 37). Cfr. tuttavia le conclusioni dell’avvocato generale Tesauro nella causa Kalanke (C‑450/93, EU:C:1995:105, paragrafo 17), che sembra rappresentare l’articolo 2, paragrafo 3, della direttiva 76/207 come una misura di «azione positiva».


69      V. nota 52 e giurisprudenza ivi citata.


70      L’origine dell’articolo 157, paragrafo 4, TFUE è il terzo paragrafo dell’articolo 6 dell’accordo sulla politica sociale tra gli Stati membri della Comunità europea, ad esclusione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord (GU 1992, C 191, pag. 91), integrato nel diritto comunitario con il protocollo n. 14 sulla politica sociale allegato al Trattato di Maastricht.


71      Sentenza del 29 novembre 2001 (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 65). Il corsivo è mio.


72      Sentenza del 17 luglio 2014 (C‑173/13, EU:C:2014:2090, punti da 100 a 103).


73      Sentenze del 13 novembre 2008, Commissione/Italia (C‑46/07, non pubblicata, EU:C:2008:618, punto 57), e del 26 marzo 2009, Commissione/Grecia (C‑559/07, non pubblicata, EU:C:2009:198, punti da 66 a 68).


74      V., in tal senso, sentenze del 19 marzo 2002, Lommers  (C‑476/99, EU:C:2002:183, punto 41), e del 30 settembre 2010, Roca Álvarez (C‑104/09, EU:C:2010:561, punto 36).


75      Occorre rilevare che anche l’articolo 23 della Carta sembra riferirsi soltanto al lato dell’equazione costituito dall’«accesso», ma si spinge oltre: «il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sottorappresentato».


76      V., in particolare, per quanto riguarda l’esclusione di approcci all’«azione positiva» che possano comprendere un approccio «orientato ai risultati» finalizzato ad una compensazione per il passato, le conclusioni dell’avvocato generale Tesauro nella causa Kalanke (C‑450/93, EU:C:1995:105, paragrafo 9). V. altresì, su tale discussione, le conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro nella causa Briheche (C‑319/03, EU:C:2004:398, paragrafi da 48 a 50).


77      Concordo sul punto con le conclusioni dell’avvocato generale Jääskinen nella causa Amédée (C‑572/10, EU:C:2011:846, paragrafi 58 e 59) e nella causa Leone (C‑173/13, EU:C:2014:117, paragrafo 57).


78      V., per quanto riguarda l’articolo 2, paragrafo 4, della direttiva 76/207, sentenze del 19 marzo 2002, Lommers  (C‑476/99, EU:C:2002:183, punto 39), e del 30 settembre 2004, Briheche (C‑319/03, EU:C:2004:574, punto 24). In generale, v. le mie conclusioni nella causa Cresco Investigation (C‑193/17, EU:C:2018:614, paragrafo 111).


79      Di fatto, si potrebbe ragionevolmente supporre che una siffatta misura di politica sociale da un lato non rimedierebbe al passato, dall’altro lato avrebbe piuttosto l’effetto di rinforzare e cristallizzare proprio la ripartizione tradizionale dei ruoli ai cui effetti essa dichiara di voler porre rimedio per il futuro.


80      V., in tal senso, sentenza del 29 novembre 2001, Griesmar (C‑366/99, EU:C:2001:648, punto 57). Per quanto riguarda il ruolo delle «clausole di riserva» nell’aprire alle misure di azione positiva agli uomini in determinate circostanze, v. sentenze dell’11 novembre 1997, Marschall (C‑409/95, EU:C:1997:533, punto 33); del 28 marzo 2000, Badeck e a. (C‑158/97, EU:C:2000:163, punto 36); e del 19 marzo 2002, Lommers (C‑476/99, EU:C:2002:183, punto 45).