Le ricorrenti sono alcune società di capitali che hanno versato, in conformità alle leggi italiane in materia, somme notevoli a titolo di tassa annuale di concessione governativa per l'iscrizione della società nel registro delle imprese. Detta tassa, istituita sin dal 1972 per il solo atto di iscrizione, ed il cui importo dipendevava dal tipo di società e dall'entità del capitale sociale (fino a 120 milioni di Lire per le spa con capitale superiore ai 10 miliardi), variava nel corso degli anni; dal 1984 poi, la tassa era dovuta non solo al momento dell'iscrizione, ma anche il 30 giugno di ogni anno.
Nel 1993, in seguito ad una sentenza della Corte di giustizia (nota come "Ponente Carni"), che rispondeva ad alcune domande poste dal Tribunale di Genova e dal Tribunale di Milano in merito all'interpretazione della direttiva sulle imposte indirette sulla raccolta dei capitali, il legislatore italiano aboliva la tassa annuale e riduceva a 500 000 lire l'importo dell'iscrizione. Anche i giudici italiani (la Corte costituzionale nel 1995 e la Corte di Cassazione nel 1994 e nel 1996) dichiaravano la tassa annuale incompatibile con il diritto comunitario e non dovuto quanto versato a tal titolo.
Innumerevoli sono quindi stati i ricorsi delle società dinanzi ai giudici italiani, ai fini della restituzione di quanto pagato; alcuni hanno dato ádito a rinnovate domande pregiudiziali dinanzi alla Corte di giustizia, in merito - in sostanza - alla normativa nazionale sulle condizioni in materia dell'esercizio del diritto alla restituzione. In particolare, si chiede se siano operanti le regole generali sulla prescrizione decennale o quelle di decadenza triennale, che decorre dal giorno del pagamento.
L'Avvocato generale ha il compito di assistere la Corte, presentando conclusioni motivate sulle cause in esame, corredate da un suggerimento sul come la Corte debba risolvere le questioni sottoposte dai giudici nazionali. Egli agisce in assoluta imparzialità ed in piena indipendenza; le sue conclusioni non sono vincolanti per la Corte.
L'Avvocato generale ritiene innanzitutto che l'applicazione della normativa italiana sui termini di decadenza non configura una limitazione nel tempo degli effetti della sentenza Ponente Carni. Infatti, la limitazione nel tempo è una misura eccezionale adottata dalla Corte di giustizia in una specifica controversia, ed opera su un piano completamente diverso da quello della disciplina processuale dell'esercizio dei diritti, la cui definizione rientra nelle competenze di ciascuno Stato. Pertanto, il fatto che la Corte non abbia limitato gli effetti nel tempo della sua prima sentenza sulla tassa di concessione governativa, non impedisce che i giudici nazionali assoggettino le domande di restituzione della tassa alle norme dell'ordinamento italiano che riguardano tali domande.
La seconda questione riguarda l'ammissibilità - dal punto di vista comunitario - dell'applicazione del termine di decadenza triennale, a decorrere dal pagamento, e non invece del generale termine di prescrizione decennale.L'Avvocato generale sottolinea come il termine triennale riguardi generalmente tutte le azioni volte alla restituzione di qualsiasi tassa di concessione governativa indebitamente versata. La giurisprudenza della Corte di giustizia ammette che - in assenza di una disciplina comunitaria uniforme in materia - i vari sistemi giuridici nazionali prevedano termini e condizioni diverse per la restituzione, a seconda che si tratti di rapporti tributari o di rapporti privati. Le sole condizioni che debbono essere rispettate sono quella della non discriminazione a seconda dell'origine dell'obbligo di rimborso (nazionale o comunitario) e quella dell'effettività del diritto comunitario (nel senso che la normativa interna non deve rendere in pratica impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto comunitario).
In merito poi alla compatibilità con il diritto comunitario di una normativa nazionale che stabilisce che il termine per la restituzione di quanto indebitamente pagato a titolo di tributi decorre dal giorno del pagamento, anche qualora in quel momento la direttiva comunitaria da applicarsi non fosse ancora stata correttamente trasposta nella norma interna dal legislatore nazionale, l'Avvocato generale si richiama ad una giurisprudenza della Corte che conferma l'applicabilità di termini nazionali di prescrizione o decadenza, anche quando le direttive da cui derivano le domande di restituzione non siano state ancora correttamente trasposte. Questo ragionamento si basa ancora una volta - in mancanza di una disciplina comunitaria uniforme in materia - sui principi di equivalenza e di effettività dell'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario e sottolinea l'importanza che vengano fissati dei termini di ricorso ragionevoli, ossia non tali da rendere l'esercizio di diritti praticamente impossibile o eccessivamente difficile.
Pertanto, il termine per la restituzione dell'indebito fiscale può cominciare a decorrere dal momento in cui il tributo è stato pagato, indipendentemente dal momento in cui lo Stato ha trasposto correttamente la direttiva. Il decorso di un termine di questo tipo impedisce di ottenere la restituzione, ma questo rientra nella natura stessa del termine di decadenza, finalizzato a garantire il principio della certezza del diritto.
L'Avvocato generale, pur riconoscendo che il legislatore ha effettivamente abolito la tassa annuale ed i giudici hanno ammesso il diritto al rimborso, critica le difficoltà opposte dalle autorità italiane alle azioni introdotte, difficoltà più gravi di quelle ragionevolmente ipotizzabili. Ciononostante, non ritiene che il termine di decadenza renda inefficace il diritto alla tutela giurisdizionale, dal momento che per il tre anni successivi al pagamento, i contribuenti erano in misura di impugnare la norma che imponeva il pagamento della tassa.
Documento non ufficiale, ad uso dei media, che non impegna la Corte di
giustizia.
Lingue disponibili: l'italiano
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