CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
VERICA TRSTENJAK
presentate il 13 settembre 2007 1(1)
Causa C‑319/06
Commissione delle Comunità europee
contro
Granducato di Lussemburgo
«Inadempimento di uno Stato – Art. 226 CE – Libera prestazione dei servizi – Artt. 49 CE e 50 CE – Art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 16 dicembre 1996, 96/71/CE, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi – Disposizioni di ordine pubblico – Applicazione delle disposizioni nazionali relative alle condizioni di lavoro e di occupazione – Obbligo di designare un mandatario ad hoc residente in Lussemburgo»
Indice
I – Introduzione
II – Contesto normativo
A – Normativa comunitaria
B – Normativa nazionale
III – Procedimento precontenzioso
IV – Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti
V – Argomenti sostanziali delle parti
A – Sulla prima censura: errata trasposizione dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71
VI – Valutazione giuridica
A – Considerazioni introduttive
1. Finalità legislative della direttiva 96/71
2. Ambito di valutazione giuridico
B – Analisi dei motivi di ricorso
1. La nozione di ordine pubblico di cui all’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71
2. Le disposizioni dell’art. 1, n. 1, punti 1, 2, 8 e 11, della legge 20 dicembre 2002
VII – Sulle spese di causa
VIII – Conclusione
I – Introduzione
1. La presente causa ha per oggetto un ricorso per inadempimento proposto dalla Commissione delle Comunità europee ai sensi dell’art. 226 CE, con il quale quest’ultima chiede alla Corte di dichiarare che il Granducato di Lussemburgo, a causa delle condizioni che impone alle imprese aventi sede in un altro Stato membro e che distaccano lavoratori ai fini della prestazione di servizi in Lussemburgo, è venuto meno agli obblighi che gli incombono in forza dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio 16 dicembre 1996, 96/71/CE, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (2) (in prosieguo: la «direttiva 96/71»), nonché degli artt. 49 CE e 50 CE.
II – Contesto normativo
A – Normativa comunitaria
2. Ai sensi dell’art. 49, primo comma, CE, le restrizioni alla libera prestazione di servizi all’interno della Comunità sono vietate nei confronti dei cittadini degli Stati membri stabiliti in un paese della Comunità che non sia quello del destinatario della prestazione.
3. L’art. 50, primo comma, CE definisce tali servizi come le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, in quanto non siano regolate, tra l’altro, dalle disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali e delle persone. Ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 50 CE, il prestatore può, per l’esecuzione della sua prestazione, esercitare, a titolo temporaneo, la sua attività nel paese ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte dal paese stesso ai propri cittadini.
4. L’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71, sotto la rubrica «Condizioni di lavoro e di occupazione», prevede quanto segue:
«1. Gli Stati membri provvedono affinché, qualunque sia la legislazione applicabile al rapporto di lavoro, le imprese di cui all’articolo 1, paragrafo 1, garantiscano ai lavoratori distaccati nel loro territorio le condizioni di lavoro e di occupazione relative alle materie in appresso indicate che, nello Stato membro in cui è fornita la prestazione di lavoro, sono fissate:
– da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, e/o
– da contratti collettivi o da arbitrati dichiarati di applicazione generale, a norma del paragrafo 8, sempreché vertano sulle attività menzionate in allegato:
a) periodi massimi di lavoro e periodi minimi di riposo;
b) durata minima delle ferie annuali retribuite;
c) tariffe minime salariali, comprese le tariffe maggiorate per lavoro straordinario; il presente punto non si applica ai regimi pensionistici integrativi di categoria;
d) condizioni di cessione temporanea dei lavoratori, in particolare la cessione temporanea di lavoratori da parte di imprese di lavoro temporaneo;
e) sicurezza, salute e igiene sul lavoro;
f) provvedimenti di tutela riguardo alle condizioni di lavoro e di occupazione di gestanti o puerpere, bambini e giovani;
g) parità di trattamento fra uomo e donna nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione.
Ai fini della presente direttiva, la nozione di tariffa minima salariale di cui al primo comma, lettera c) è definita dalla legislazione e/o dalle prassi nazionali dello Stato membro nel cui territorio il lavoratore è distaccato.
(…)
10. La presente direttiva non osta a che gli Stati membri, nel rispetto del trattato, impongano alle imprese nazionali ed a quelle di altri Stati, in pari misura:
– condizioni di lavoro e di occupazione riguardanti materie diverse da quelle contemplate al paragrafo 1, primo comma del presente articolo laddove si tratti di disposizioni di ordine pubblico,
– condizioni di lavoro e di occupazione stabilite in contratti collettivi o arbitrati a norma del paragrafo 8 riguardanti attività diverse da quelle contemplate dall’allegato».
5. Al momento dell’adozione della direttiva è stato dichiarato (dichiarazione 10) che con il termine «disposizioni di ordine pubblico» «si deve intendere che [vengano] abbraccia[te] le disposizioni vincolanti cui non si può derogare e che, per la loro natura ed il loro obiettivo, rispondono alle esigenze imperative dell’interesse pubblico. Dette disposizioni possono comprendere, in particolare, il divieto del lavoro forzato o il coinvolgimento di autorità pubbliche nella sorveglianza del rispetto della legislazione concernente le condizioni di lavoro» (3).
B – Normativa nazionale
6. L’art. 1 della legge lussemburghese 20 dicembre 2002, relativa alla trasposizione della direttiva 96/71 ed al controllo dell’applicazione del diritto del lavoro (4) (in prosieguo: la «legge 20 dicembre 2002») prevede quanto segue:
«(1) Costituiscono disposizioni imperative di ordine pubblico nazionale – in particolare per quanto riguarda le norme di natura pattizia o contrattuale ai sensi della legge 27 marzo 1986 relativa all’attuazione della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali – e valgono come tali per tutti i lavoratori che esercitano un’attività nel Granducato di Lussemburgo, inclusi quelli ivi distaccati a titolo temporaneo, a prescindere dalla durata e dalla natura del loro distacco, tutte le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative, nonché tutte quelle derivanti da accordi collettivi dichiarati di applicazione generale o da decisioni arbitrali aventi un ambito di applicazione analogo a quello degli accordi collettivi di applicazione generale, riguardanti:
1. il contratto di lavoro scritto o il documento formato in base alla direttiva del Consiglio 14 ottobre 1991, 91/533/CEE, relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro;
2. il salario sociale minimo e l’adeguamento automatico della retribuzione al costo della vita;
3. l’orario di lavoro e il periodo di riposo settimanale;
4. le ferie retribuite;
5. le ferie aziendali;
6. i giorni festivi legali;
7. la disciplina del lavoro interinale e della cessione temporanea di lavoratori;
8. la disciplina del lavoro a tempo parziale e dei contratti di lavoro a tempo determinato;
9. le misure di protezione relative alle condizioni di lavoro e di occupazione di bambini e giovani, nonché di gestanti e puerpere;
10. la non discriminazione;
11. gli accordi collettivi di lavoro;
12. l’inattività obbligatoria in base alla legislazione sulla disoccupazione dovuta a motivi tecnici o alle intemperie;
13. il lavoro clandestino o illegale, incluse le disposizioni sui permessi di lavoro per i lavoratori che non provengono da uno Stato membro dello Spazio economico europeo;
14. la sicurezza e la salute dei lavoratori sul luogo di lavoro in generale e, più in particolare, le prescrizioni sulla prevenzione degli infortuni dell’Associazione assicurativa contro gli infortuni emanate ai sensi dell’art. 154 del Codice delle assicurazioni sociali, nonché le prescrizioni minime in tema di sicurezza e di salute stabilite con regolamento granducale, da adottarsi previo parere obbligatorio del Consiglio di Stato e con l’accordo della Conferenza dei Presidenti della Camera dei deputati ai sensi dell’art. 14 della legge 17 giugno 1994 relativa alla sicurezza e alla salute dei lavoratori durante l’attività lavorativa.
(2) Le previsioni contenute nel primo paragrafo del presente articolo si applicano a tutti i lavoratori, senza riguardo alla loro cittadinanza, che sono alle dipendenze di qualsiasi impresa, a prescindere dalla nazionalità e dalla sede legale od effettiva di quest’ultima».
7. L’art. 2 della medesima legge dispone quanto segue:
«(1) Le disposizioni dell’art. 1 della presente legge si applicano anche alle imprese che, nel quadro di una prestazione di servizi transnazionale, distacchino lavoratori nel territorio del Granducato di Lussemburgo, ad eccezione del personale navigante della marina mercantile marittima.
(2) Con il termine “distacco” ai sensi del paragrafo 1 che precede s’intendono le attività di seguito indicate, che vengono effettuate dalle imprese interessate, se ed in quanto durante il periodo del distacco esista un rapporto di lavoro tra l’impresa distaccante ed il lavoratore:
1. il distacco di un lavoratore, anche per un periodo breve o predeterminato, per conto e sotto la direzione delle imprese individuate al paragrafo 1 del presente articolo, nel territorio del Granducato di Lussemburgo, nell’ambito di un contratto concluso tra l’impresa distaccante ed il destinatario della prestazione di servizi stabilito o esercente la propria attività in Lussemburgo;
2. il distacco di un lavoratore, anche per un periodo breve o predeterminato, nel territorio del Granducato di Lussemburgo, presso una filiale dell’impresa distaccante o presso un’impresa appartenente allo stesso gruppo di cui fa parte l’impresa distaccante;
3. il distacco di un lavoratore, senza pregiudizio dell’applicazione della legge 19 maggio 1994 che disciplina il lavoro interinale e la cessione temporanea di lavoratori, da parte di un’impresa di lavoro interinale o nell’ambito di una cessione temporanea di lavoratori, presso un’impresa beneficiaria avente la propria sede o esercente la propria attività nel Granducato di Lussemburgo, anche per un periodo breve o predeterminato.
(3) Per lavoratore distaccato si intende qualsiasi lavoratore che lavori abitualmente all’estero e che fornisca le proprie prestazioni di lavoro, per un periodo limitato, nel territorio del Granducato di Lussemburgo.
(4) La nozione di “rapporto di lavoro” viene definita in conformità al diritto lussemburghese».
8. L’art. 7 della legge 20 dicembre 2002 recita:
«(1) Ai fini dell’applicazione della presente legge, un’impresa, anche avente la propria sede all’infuori del Granducato di Lussemburgo o esercitante abitualmente la propria attività all’infuori del territorio lussemburghese, della quale uno o più lavoratori forniscano le proprie prestazioni lavorative in Lussemburgo, inclusi quelli che sono oggetto di un distacco temporaneo in conformità a quanto previsto dagli artt. 1 e 2 della presente legge, deve, prima di iniziare i lavori, rendere accessibili all’Ispettorato del lavoro, a semplice richiesta e nel più breve termine possibile, le indicazioni essenziali indispensabili per un controllo, tra le quali in particolare:
– cognome, nome, data e luogo di nascita, stato civile, nazionalità e professione dei lavoratori;
– l’esatta qualificazione professionale dei lavoratori;
– la qualifica con la quale essi sono inseriti nell’impresa e l’attività che vi svolgono regolarmente;
– il domicilio ed, eventualmente, la residenza abituale dei lavoratori;
– eventualmente il permesso di soggiorno o di lavoro;
– il luogo o i luoghi di lavoro in Lussemburgo e la durata dei lavori;
– la copia del formulario E 101 o, eventualmente, l’indicazione precisa degli organismi di assicurazione sociale cui sono iscritti i lavoratori durante il loro soggiorno sul territorio lussemburghese;
– la copia del contratto di lavoro o del documento formato ai sensi della direttiva 14 ottobre 1991, 91/533/CEE, relativa all’obbligo del datore di lavoro di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro.
(2) Un regolamento granducale potrà successivamente precisare l’applicazione del presente articolo».
9. L’art. 8 della stessa legge prevede quanto segue:
«Ogni impresa stabilita e avente la propria sede legale all’estero, ovvero non avente una sede stabile in Lussemburgo ai sensi della legge fiscale, uno o più lavoratori della quale esercitino, a qualsiasi titolo, un’attività lavorativa in Lussemburgo, è tenuta a conservare in Lussemburgo, presso un mandatario ad hoc ivi residente, i documenti necessari per il controllo degli obblighi che le incombono in applicazione della presente legge ed in particolare dell’art. 7.
Tali documenti devono essere presentati nel più breve termine possibile all’Ispettorato del lavoro, a semplice richiesta di quest’ultimo. L’Ispettorato del lavoro deve essere informato in anticipo, a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno da parte dell’impresa o del mandatario nominato ai sensi del comma che precede, in merito al luogo esatto di deposito dei documenti, al più tardi prima dell’inizio della prevista attività di lavoro dipendente».
III – Procedimento precontenzioso
10. Con lettera di diffida in data 1° aprile 2004 la Commissione ha denunciato al governo lussemburghese alcune incoerenze nella trasposizione della direttiva 96/71 effettuata con la legge 20 dicembre 2002. Riguardo ad una possibile violazione della direttiva 96/71 e degli artt. 49 CE e 50 CE, la Commissione ha sollevato le seguenti censure:
– la legge 20 dicembre 2002 costringerebbe le imprese con sede in un altro Stato membro e che distaccano lavoratori per l’esecuzione di servizi in Lussemburgo a rispettare condizioni di lavoro e di occupazione che vanno oltre quanto prescritto dall’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71;
– la legge 20 dicembre 2002 avrebbe trasposto in maniera incompleta la direttiva 96/71, in quanto il diritto nazionale avrebbe limitato la nozione di «periodi minimi di riposo» al riposo settimanale, escludendo altri periodi di riposo come il riposo giornaliero o le pause;
– l’art. 7 della legge 20 dicembre 2002 – che impone alle imprese, un cui dipendente eserciti in maniera duratura o a titolo temporaneo un’attività in Lussemburgo, l’obbligo di fornire all’Ispettorato del Lavoro «prima dell’inizio dei lavori», «su semplice richiesta» e «nel più breve termine possibile» le informazioni essenziali ed indispensabili per un controllo – non mostrerebbe la chiarezza necessaria per garantire la certezza del diritto;
– l’art. 8 della legge 20 dicembre 2002 limiterebbe la libera prestazione dei servizi, costringendo quelle imprese a nominare un mandatario ad hoc residente in Lussemburgo, il cui compito sarebbe quello di conservare i documenti necessari ai controlli degli obblighi incombenti a tali imprese.
11. Nella sua replica del 30 agosto 2004 il governo lussemburghese ha sostenuto che le disposizioni di legge contestate dalla Commissione relative all’applicabilità delle condizioni di lavoro e di occupazione rappresentano disposizioni di ordine pubblico ai sensi dell’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71.
12. Con riferimento alla seconda censura, il governo lussemburghese ha riconosciuto l’incompleta trasposizione della direttiva 96/71.
13. Per quanto riguarda la terza e la quarta censura della Commissione, il governo lussemburghese ha indicato come compatibili con il diritto comunitario le disposizioni contenute nell’art. 7 della legge 20 dicembre 2002, poiché l’obbligo di nominare un mandatario ad hoc residente in Lussemburgo, il cui compito consiste nel conservare i documenti necessari al controllo degli adempimenti incombenti a tali imprese, non obbligherebbe queste ultime ad una dichiarazione preventiva né costituirebbe un requisito discriminante. Si tratterebbe piuttosto di misure senza le quali le competenti autorità nazionali non potrebbero adempiere la loro funzione di controllo.
14. La Commissione non ha considerato soddisfacente questa risposta e in data 18 ottobre 2005 ha pertanto deciso di inviare al governo lussemburghese un parere motivato, con il quale ha contestato al Granducato di Lussemburgo che esso,
– dichiarando che le disposizioni di cui all’art. 1, n. 1, punti 1, 2, 8 e 11, della legge 20 dicembre 2002 costituiscono disposizioni amministrative rientranti nell’«ordine pubblico nazionale»,
– trasponendo in modo incompleto le disposizioni dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva 96/71 nell’art. 1, n. 1, punto 3, della legge suddetta,
– stabilendo, all’art. 7, n. 1, di tale legge, condizioni formulate in modo privo della chiarezza necessaria per garantire la certezza del diritto,
– imponendo, all’art. 8 della medesima legge, la conservazione in Lussemburgo, tra le mani di un mandatario ad hoc ivi residente, dei documenti necessari per il controllo,
sarebbe venuto meno agli obblighi che gli incombono in forza dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71, nonché degli artt. 49 CE e 50 CE.
15. La Commissione ha inoltre invitato il Granducato di Lussemburgo ad adottare, entro due mesi dalla notifica, le misure necessarie per conformarsi al parere motivato.
16. Con lettera del 22 dicembre 2005 il governo lussemburghese ha chiesto un differimento di tale termine, per presentare le proprie osservazioni. Il parere motivato della Commissione è rimasto tuttavia senza risposta. La Commissione ha pertanto presentato ricorso.
IV – Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti
17. Con atto introduttivo depositato in cancelleria il 20 luglio 2006 la Commissione chiede che la Corte voglia:
– constatare che il Granducato di Lussemburgo,
1. dichiarando che le disposizioni di cui all’art. 1, n. 1, punti 1, 2, 8 e 11, della legge 20 dicembre 2002 costituiscono disposizioni amministrative rientranti nell’«ordine pubblico nazionale»,
2. trasponendo in modo incompleto le disposizioni dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva 96/71 nell’art. 1, n. 1, punto 3, della legge suddetta,
3. stabilendo, all’art. 7, n. 1, di tale legge, condizioni formulate in modo privo della chiarezza necessaria per garantire la certezza del diritto,
4. imponendo, all’art. 8 della medesima legge, la conservazione in Lussemburgo, tra le mani di un mandatario ad hoc ivi residente, dei documenti necessari per il controllo,
è venuto meno agli obblighi che gli incombono in forza dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71, nonché degli artt. 49 CE e 50 CE;
– condannare il Granducato di Lussemburgo alle spese del procedimento.
18. Con il suo controricorso presentato il 5 ottobre 2006 il governo lussemburghese chiede che il ricorso venga respinto perché infondato e che la Commissione venga condannata a sopportare le spese del procedimento.
19. Con il deposito della replica della Commissione in data 10 novembre 2006 e della controreplica del governo lussemburghese in data 12 gennaio 2007 si è conclusa la fase scritta del procedimento. Non si è svolta udienza di trattazione orale.
V – Argomenti sostanziali delle parti
20. La Commissione fonda il proprio ricorso su quattro censure, rivolte contro le norme di trasposizione lussemburghesi.
A – Sulla prima censura: errata trasposizione dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71
21. La Commissione contesta al Granducato di Lussemburgo un’errata trasposizione della direttiva 96/71, censurando con il primo motivo di ricorso quattro disposizioni contenute nella legge 20 dicembre 2002. Secondo la Commissione, il Lussemburgo, dichiarando erroneamente come norme di ordine pubblico tutte le disposizioni nazionali, ha imposto alle imprese che distaccano lavoratori nel Granducato obblighi che vanno oltre quanto previsto dalla direttiva 96/71. Ad avviso della detta istituzione, la trasposizione si fonda su un’interpretazione troppo estesa del concetto di «disposizioni di ordine pubblico» ai sensi dell’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71. Simili disposizioni dovrebbero poter essere valutate alla luce della dichiarazione 10 relativa alla detta direttiva, che precisa tale nozione.
– Requisito relativo all’esistenza di un contratto di lavoro scritto o di un documento equivalente ai sensi della direttiva 91/533 (art. 1, n. 1, punto 1, della legge 20 dicembre 2002)
22. Questa censura ha per oggetto innanzitutto l’obbligo di legge di distaccare soltanto lavoratori che siano vincolati all’impresa in base ad un contratto di lavoro scritto o ad un documento equivalente ai sensi della direttiva 91/533. La Commissione ritiene che, in caso di distacco, il controllo sul rispetto degli obblighi di cui alla direttiva 91/533 spetti solo alle autorità dello Stato di stabilimento dell’impresa, al quale spetta la trasposizione della direttiva, e non invece allo Stato ospitante.
– Adeguamento automatico della retribuzione all’evoluzione del costo della vita (art. 1, n. 1, punto 2, della legge 20 dicembre 2002)
23. La Commissione è dell’opinione che la legislazione lussemburghese, imponendo l’adeguamento automatico della retribuzione all’evoluzione del costo della vita, sia in contrasto con la direttiva 96/71, che prevede solamente una regolamentazione delle tariffe minime salariali da parte dello Stato del distacco.
– Rispetto della disciplina del lavoro a tempo parziale e a tempo determinato (art. 1, n. 1, punto 8, della legge 20 dicembre 2002)
24. Secondo la Commissione, in base alla direttiva 96/71 non spetta allo Stato membro ospitante imporre la propria legislazione in tema di lavoro a tempo parziale e a tempo determinato alle imprese che distaccano i lavoratori.
– Rispetto degli accordi collettivi di lavoro (art. 1, n. 1, punto 11, della legge 20 dicembre 2002)
25. La Commissione sostiene che gli accordi collettivi di lavoro non possono, indipendentemente dal loro contenuto, costituire disposizioni amministrative rientranti nell’«ordine pubblico nazionale».
26. Il governo lussemburghese fa riferimento, in ampia misura, alle considerazioni svolte nella sua lettera di risposta del 30 agosto 2004, secondo le quali le norme contenute nell’art. 1 della legge 20 dicembre 2002 rappresentano disposizioni di ordine pubblico, avendo come finalità la tutela dei lavoratori. Il governo lussemburghese, pur ritenendo in linea di principio corretto il riferimento della Commissione alla dichiarazione 10 relativa alla direttiva 96/71, ricorda che tale dichiarazione non è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee e non può dunque essere presa in considerazione quale ausilio interpretativo. In ogni caso, il governo lussemburghese ritiene le disposizioni di cui all’art. 1 della legge 20 dicembre 2002 giustificate da ragioni imperative di interesse generale. A sostegno della sua tesi esso rinvia, infine, al procedimento legislativo che ha portato alla proposta della Commissione per una direttiva relativa ai servizi nel mercato interno (5).
B – Sulla seconda censura: incompleta trasposizione dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva 96/71
27. Il governo lussemburghese riconosce la trasposizione incompleta della direttiva 96/71 e fa presente l’avvenuta adozione di una modifica legislativa in data 19 maggio 2006.
28. La Commissione afferma di non aver ricevuto informazioni su tale modifica.
C – Sulla terza censura: mancanza di chiarezza relativamente alle misure di controllo
29. Secondo la Commissione l’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 non è stato formulato in maniera sufficientemente chiara per garantire alle imprese che intendano distaccare lavoratori in Lussemburgo la necessaria certezza del diritto. Aumentando il rischio per queste imprese di infrangere la legge, la detta disposizione rappresenterebbe una restrizione ingiustificata alla libera prestazione dei servizi. In ogni caso, l’obbligo di mettere a disposizione dell’autorità di sorveglianza sul lavoro, a richiesta della stessa e nel più breve termine possibile, prima dell’inizio dei lavori, le indicazioni assolutamente indispensabili per un controllo, equivale ad una denuncia preventiva incompatibile con l’art. 49 CE.
30. Il governo lussemburghese ritiene invece il testo della legge sufficientemente chiaro. In ogni caso, la formulazione dell’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 non comporterebbe la necessità di una denuncia preventiva.
D – Sulla quarta censura: necessità di un mandatario ad hoc
31. La Commissione ritiene che la nomina di un mandatario ad hoc residente in Lussemburgo, prescritta dall’art. 8 della legge 20 dicembre 2002, il cui compito sarebbe quello di conservare i documenti necessari ai controlli degli obblighi incombenti a tali imprese per un periodo anche successivo alla prestazione effettiva dei servizi, rappresenti una restrizione alla libera prestazione dei servizi stessi. Quest’obbligo non solo sarebbe superfluo alla luce della cooperazione in materia di informazione prevista dall’art. 4 della direttiva 96/71, ma comporterebbe anche dei costi per le imprese interessate.
32. Il governo lussemburghese ritiene invece che il sistema della cooperazione in materia di informazione, cui fa riferimento la Commissione, non permetta alle competenti autorità amministrative di eseguire i controlli con la necessaria efficienza. Inoltre, la legge 20 dicembre 2002 non prevedrebbe nessuna specifica forma giuridica per l’esercizio della funzione di mandatario. Del resto, il deposito dei documenti richiesti presso un mandatario sarebbe necessario solamente a partire dal giorno dell’inizio dei lavori, a prescindere dal momento del distacco.
VI – Valutazione giuridica
A – Considerazioni introduttive
1. Finalità legislative della direttiva 96/71
33. La direttiva 96/71 prescrive l’applicazione ai lavoratori distaccati di determinate condizioni imperative di lavoro e di occupazione dello Stato ospitante. Con la fissazione di tali condizioni minime di lavoro e di occupazione si intendono realizzare tre obiettivi molto differenti l’uno dall’altro: evitare distorsioni di concorrenza, garantire i diritti dei lavoratori distaccati ed eliminare gli ostacoli e le incertezze che pregiudicano la libera prestazione dei servizi.
34. Al riguardo, punto di partenza delle riflessioni della Commissione e del Consiglio era la libera prestazione dei servizi di cui all’art. 49 CE, la quale induce un numero crescente di imprese a distaccare lavoratori per un periodo limitato di tempo nel territorio di uno Stato membro diverso da quello in cui questi ultimi esercitano normalmente la loro attività lavorativa. Presupposto per lo sviluppo della libera prestazione dei servizi era, secondo le riflessioni del legislatore comunitario, un clima di leale concorrenza e l’adozione di misure atte a garantire il rispetto dei diritti dei lavoratori (6). A causa delle differenze esistenti tra gli Stati membri quanto al contenuto delle condizioni di lavoro applicabili in ciascuno di essi, sarebbe potuto accadere che ai lavoratori distaccati venissero applicate condizioni di lavoro diverse e retribuzioni inferiori rispetto a quelle dello Stato ospitante. Tutto questo avrebbe avuto dei riflessi sulla leale concorrenza tra le imprese e sul principio della parità di trattamento tra imprese nazionali e straniere, il che, considerato sotto un aspetto sociale, sarebbe stato inaccettabile. Con l’applicazione di un «nocciolo duro» del diritto del lavoro dello Stato ospitante anche alle imprese straniere si intendevano evitare simili distorsioni della concorrenza.
35. Si mirava inoltre a risolvere i problemi in ordine alla legislazione applicabile al rapporto di lavoro che erano sorti con la transnazionalizzazione dei rapporti di lavoro (7). Stabilendo quali norme nazionali dovessero valere come norme imperative ai sensi dell’art. 7 della Convenzione di Roma del 19 giugno 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali (Convenzione di Roma) nell’ambito del distacco dei lavoratori, la direttiva 96/71 mirava a rendere prevedibili le condizioni di lavoro applicabili e ad aumentare così la certezza del diritto (8).
2. Ambito di valutazione giuridico
36. Per quanto riguarda la disciplina sostanziale alla luce della quale la Corte è chiamata a valutare la compatibilità con il diritto comunitario delle norme lussemburghesi contestate, rilevo come la direttiva 96/71 realizzi soltanto un’armonizzazione parziale della materia del distacco dei lavoratori (9). Essa deve essere considerata innanzitutto come una disciplina comunitaria per la soluzione dei conflitti di leggi in materia di lavoro, la quale riguarda le particolarità e le condizioni del rapporto di lavoro dei lavoratori distaccati (10). Non sono invece compresi negli scopi della direttiva 96/71 l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato membro ospitante (11), di modo che le restrizioni alla libera prestazione di servizi nell’ambito del distacco di lavoratori transfrontaliero devono essere valutate fondamentalmente anche alla luce delle pertinenti disposizioni del Trattato CE, prima fra tutte l’art. 49 CE.
37. Ciò ha come conseguenza, ai fini del controllo giurisdizionale di conformità al diritto comunitario di una misura nazionale, effettuato nell’ambito di un procedimento per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, che occorre valutare nel caso specifico se la violazione contestata riguardi soltanto la direttiva 96/71 o piuttosto direttamente l’art. 49 CE. Qualora una normativa nazionale in materia di prestazioni di lavoro transfrontaliere violi la direttiva, è esclusa l’applicazione del Trattato, anche se, essendo quest’ultimo il fondamento giuridico della direttiva, ogni violazione di quest’ultima implica necessariamente una violazione del Trattato medesimo. Tuttavia, qualora una normativa nazionale violi direttamente il Trattato, per il fatto che fuoriesce dalla minuziosa disciplina dettata dalla direttiva che dà ad esso esecuzione, l’unico riferimento possibile va rinvenuto nel Trattato stesso (12).
38. Per quanto riguarda la ripartizione processuale dell’onere di allegazione e di prova, occorre osservare che, nell’ambito di un procedimento per inadempimento ai sensi dell’art. 226 CE, spetta alla Commissione fornire la prova dell’esistenza di un tale inadempimento. Essa deve inoltre fornire alla Corte gli elementi necessari per la verifica, da parte di quest’ultima, dell’esistenza di tale inadempimento, senza potersi basare su alcuna presunzione (13). Spetta poi allo Stato membro convenuto contestare in modo approfondito e dettagliato i dati prodotti e le conseguenze che ne derivano (14).
B – Analisi dei motivi di ricorso
Sulla prima censura
39. Nella misura in cui la Commissione contesta un’errata trasposizione dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71, questa censura riguarda principalmente una violazione di tale norma di diritto derivato.
1. La nozione di ordine pubblico di cui all’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71
40. Il governo lussemburghese sostiene che, dichiarando tutte le disposizioni relative ai settori indicati nell’art. 1, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 norme imperative di diritto nazionale, esso ha fatto uso del potere conferito dall’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71. Questa disposizione permette agli Stati membri di estendere la previsione normativa ad altre condizioni di lavoro e di occupazione, qualora le disposizioni aggiunte costituiscano norme di ordine pubblico (15). Essa rende inoltre possibile estendere ad ulteriori attività, diverse da quelle del settore edilizio elencate nell’allegato, le disposizioni sulle condizioni di lavoro e di occupazione regolamentate in contratti collettivi o decisioni arbitrali aventi efficacia erga omnes.
41. Gli Stati membri non possono tuttavia esercitare senza limiti il potere suddetto, ed in particolare hanno l’obbligo di tenere in considerazione le libertà fondamentali nonché lo scopo della direttiva (16). Ciò risulta sia dalla preminenza del principio della libera prestazione di servizi, alla cui realizzazione vuole appunto contribuire la direttiva 96/71 a tenore del suo quinto ‘considerando’, sia dal principio dell’interpretazione restrittiva delle disposizioni che prevedono deroghe alle libertà fondamentali (17). Quanto sopra è stato dalla Corte più volte ed espressamente sottolineato con riferimento alla deroga attinente all’ordine pubblico (18).
42. La nozione di ordine pubblico costituisce una nozione autonoma del diritto comunitario, la quale contribuisce a definire l’ambito di applicazione delle libertà fondamentali e va, pertanto, precisata in maniera autonoma e non ispirandosi ad uno o più ordinamenti giuridici nazionali (19). Come tale, questa nozione è sottoposta all’interpretazione della Corte, di modo che è vietato agli Stati membri determinare la sua portata unilateralmente e senza il controllo delle istituzioni comunitarie (20). Questo però non esclude che circostanze particolari possano giustificare il richiamo all’ordine pubblico, così che, se del caso, risulti necessario riconoscere agli Stati membri un certo potere discrezionale entro i limiti imposti dal Trattato (21).
43. A prescindere da questi principi comuni, possono però essere attribuiti al concetto di ordine pubblico significati differenti a seconda della collocazione sistematica della norma in questione nell’ordinamento giuridico comunitario e della sua funzione (22). Nel presente caso la nozione di ordine pubblico, quale risultante dalla formulazione dell’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71, spiega gli effetti di una clausola derogatoria, poiché essa consente solo a determinate condizioni un ampliamento del nucleo minimo di disposizioni di tutela garantito dall’art. 3, n. 1, della direttiva 96/71.
44. Con riferimento agli specifici requisiti necessari per il ricorso a questa facoltà, la nozione di ordine pubblico ha ricevuto una precisazione con la dichiarazione 10 del Consiglio e della Commissione, effettuata in occasione dell’emanazione della direttiva 96/71, secondo la quale, tra l’altro, con tale nozione «si deve intendere che [vengano] abbraccia[te] le disposizioni vincolanti cui non si può derogare e che, per la loro natura e per il loro obiettivo, rispondono alle esigenze imperative dell’interesse pubblico».
45. Sono dell’opinione che nulla osti ad un’interpretazione dell’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71 effettuata alla luce della citata dichiarazione. Con riferimento alla possibilità di prendere in considerazione le dichiarazioni del Consiglio contenute nei verbali delle sedute al fine di interpretare il diritto derivato, la Corte ha affermato che ciò non è consentito solo quando il contenuto della dichiarazione non trovi alcun riscontro nel testo della disposizione di cui trattasi e pertanto non rivesta alcuna rilevanza giuridica (23). A tal riguardo occorre sottolineare che la dichiarazione 10 non è in contrasto con la nozione di ordine pubblico, ma contribuisce piuttosto a determinare il contenuto della disposizione derogatoria. Rinviando alle «esigenze imperative dell’interesse pubblico», la succitata dichiarazione risulta conforme anche alla giurisprudenza sviluppata dalla Corte sui limiti immanenti alle libertà fondamentali, applicabile anche ai casi di distacco transfrontaliero di lavoratori. Contrariamente alle argomentazioni del governo lussemburghese, la mancata pubblicazione della dichiarazione 10 nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee non sminuisce la sua rilevanza giuridica, tanto più che al detto governo, quale legittimo rappresentante di uno Stato membro presente in Consiglio, può opporsi una presunzione di conoscenza delle dichiarazioni interpretative che vengono adottate da questo organo nell’ambito del procedimento legislativo (24). Ne consegue che è possibile utilizzare la dichiarazione 10 come ausilio interpretativo.
46. In base a quanto sopra esposto, ritengo che gli Stati membri non siano liberi di pretendere dalle imprese fornitrici di servizi stabilite in altri Stati membri l’osservanza di tutte le norme imperative della loro normativa sul lavoro (25). Nell’interesse di una realizzazione quanto più ampia possibile della libera prestazione dei servizi, occorre concordare con la Commissione sul fatto che possono considerarsi rientranti nella suddetta categoria di norme imperative solo quelle condizioni di lavoro e di occupazione previste dalla legge che risultino indispensabili per l’ordinamento giuridico di uno Stato membro (26). Occorre verificare attentamente se le disposizioni contestate soddisfino tale requisito.
2. Le disposizioni dell’art. 1, n. 1, punti 1, 2, 8 e 11, della legge 20 dicembre 2002
– Requisito relativo all’esistenza di un contratto di lavoro scritto o di un documento equivalente ai sensi della direttiva 91/533
47. Per quanto riguarda il requisito relativo all’esistenza di un contratto di lavoro scritto o di un documento analogo ai sensi della direttiva 91/533, quale stabilito dall’art. 1, n. 1, punto 1, della legge 20 dicembre 2002, si deve convenire con la tesi della Commissione secondo cui, in linea di principio, non spetta allo Stato ospitante il controllo del rispetto delle disposizioni della direttiva 91/533.
48. La direttiva 91/533 è volta all’armonizzazione di quelle disposizioni sulla forma dei rapporti di lavoro che sono state adottate da alcuni Stati membri, alla luce della crescente varietà dei rapporti di lavoro, per tutelare i lavoratori dalla mancata conoscenza dei loro diritti e per un’organizzazione trasparente dei rapporti di lavoro (27). In tale finalità di armonizzazione rientra la prova, citata dalle parti, relativa all’adempimento dell’obbligo del datore di lavoro, di cui all’art. 2, n. 1, in combinato disposto con l’art. 3, n. 1, della direttiva 91/533, di comunicare per iscritto al lavoratore subordinato gli elementi essenziali del contratto o del rapporto di lavoro, nonché le condizioni del suo distacco all’estero ai sensi dell’art. 4, n. 1, della medesima direttiva 91/533. Il datore di lavoro adempie al proprio obbligo di prova preparando i documenti contenenti le informazioni necessarie e consegnandoli al lavoratore prima della sua partenza (28).
49. Secondo l’ultimo ‘considerando’ della direttiva, «gli Stati membri adottano le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla presente direttiva o provvedono a che le parti sociali attuino le disposizioni necessarie mediante accordo; (...) gli Stati membri devono prendere ogni disposizione necessaria per consentire loro di essere ad ogni momento in grado di garantire i risultati imposti dalla presente direttiva». Come risulta già dal tenore letterale, l’obbligo di trasposizione degli Stati membri va oltre una semplice attività legislativa, arrivando a comprendere l’attuazione di queste disposizioni, incluso il controllo del loro rispetto. Lo stesso obbligo incombe agli Stati membri di volta in volta coinvolti in caso di distacco di lavoratori, laddove, ai sensi dell’art. 4, n. 1, della direttiva 91/533, deve essere garantito che il lavoratore riceva delle indicazioni ulteriori sulle condizioni del distacco prima che questo abbia luogo. Qualora lo Stato del distaccante abbia già fatto uso dei propri poteri di controllo, alla luce dell’armonizzazione perseguita dalla direttiva 91/533 non esiste alcun margine per una qualsiasi competenza dello Stato ospitante.
50. Ugualmente non può farsi discendere una simile competenza dalla direttiva 91/533. La stessa non può neppure venire fondata sulla circostanza che il Lussemburgo dichiara come normativa per la tutela dell’ordine pubblico quella relativa al rispetto dei sunnominati obblighi di informazione. Un simile requisito, come previsto dall’art. 1, n. 1, punto 1, della legge 20 dicembre 2002, non può rientrare nel nucleo minimo di condizioni di lavoro e di occupazione comunitarie stabilito dall’art. 3, n. 1, della direttiva 96/71. Deve essere rispettata la decisione del legislatore di non inserire nell’elenco di cui all’art. 3, n. 1, della direttiva 96/71 gli obblighi di informazione fissati dalla direttiva 91/533 (29).
51. Vanno infine respinte siccome irrilevanti per l’esame di questa censura le considerazioni del governo lussemburghese sul procedimento legislativo che ha portato all’adozione della direttiva 2006/123. La legge lussemburghese 20 dicembre 2002 controversa non ha, infatti, alcun collegamento fattuale o temporale con la direttiva 2006/123. La legge suddetta infatti traspone esclusivamente la direttiva 96/71 nell’ordinamento interno.
– Adeguamento automatico della retribuzione all’evoluzione del costo della vita
52. In rapporto all’adeguamento della «retribuzione» all’evoluzione del costo della vita, previsto all’art. 1, n. 1, punto 2, della legge 20 dicembre 2002, il governo lussemburghese sostiene che esso serve alla tutela dei lavoratori e contribuisce al mantenimento della pace sociale in Lussemburgo. Il detto governo afferma che un simile adeguamento automatico è implicitamente previsto dall’art. 3, n. 1, della direttiva 96/71.
53. La censura della Commissione si rivolge tuttavia non contro il carattere di automaticità di questo meccanismo, bensì contro la circostanza, non contestata, secondo cui, in base al diritto lussemburghese, esiste un generale adeguamento della «retribuzione», che comprende tanto i salari reali quanto i salari minimi. Già nella sua lettera del 30 agosto 2004 il governo lussemburghese aveva sostenuto che, secondo il diritto interno, il salario minimo è parimenti sottoposto al meccanismo di adeguamento generale. Tuttavia, secondo la Commissione, ciò non corrisponde alle prescrizioni di cui all’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 96/71, nel quale si parla esclusivamente di «tariffe minime salariali».
54. Occorre concordare con la Commissione sul fatto che la normativa di trasposizione lussemburghese si discosta dal testo della direttiva 96/71. Nell’analisi della questione se una disposizione del diritto nazionale sia in contrasto con il diritto comunitario deve essere tenuta in considerazione l’interpretazione di questa disposizione assunta a fondamento dai giudici nazionali (30). Il testo dell’art. 1, n. 1, punto 2, della legge 20 dicembre 2002 non è tuttavia ambiguo, né offre spazio ad un’interpretazione contraria al diritto comunitario. Infatti, nella misura in cui la legge 20 dicembre 2002 va interpretata secondo criteri oggettivi nel senso che si verifica un adeguamento generale della retribuzione all’evoluzione del costo della vita che si ripercuote al tempo stesso a vantaggio dei salari minimi, l’art. 1, n. 1, punto 2, della legge suddetta soddisfa le prescrizioni comunitarie di cui all’art. 3, n. 1, lett. c), della direttiva 96/71. Sotto questo profilo occorre respingere la censura della Commissione in quanto infondata.
– Rispetto della disciplina del lavoro a tempo parziale e a tempo determinato
55. Il requisito del rispetto della disciplina del lavoro a tempo parziale e a tempo determinato di cui all’art. 1, n. 1, punto 8, della legge 20 dicembre 2002 non può essere inserito in nessuna delle categorie elencate all’art. 3, n. 1, della direttiva 96/71, ma va oltre il nucleo minimo di condizioni di lavoro e di occupazione comunitarie. Essendo basato sulla facoltà prevista dall’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71, tale requisito deve essere oggetto di una valutazione alla luce della nozione di ordine pubblico ai sensi della dichiarazione 10, il cui contenuto riprende essenzialmente la giurisprudenza della Corte sull’art. 49 CE (31).
56. Secondo una costante giurisprudenza, l’art. 49 CE impone non solo l’eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione, anche qualora essa si applichi indistintamente ai prestatori nazionali e a quelli degli altri Stati membri, quando sia tale da vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le attività del prestatore stabilito in un altro Stato membro, ove fornisce legittimamente servizi analoghi (32). Secondo questa definizione è sufficiente, perché si configuri una restrizione alla libera circolazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE, che le norme lussemburghesi sul lavoro a tempo parziale e a tempo determinato siano più rigide rispetto a quelle vigenti nello Stato del distaccante e rendano così meno attraente per le imprese straniere la fornitura di servizi in Lussemburgo.
57. La Corte ha inoltre statuito che la libera prestazione di servizi, in quanto principio fondamentale del Trattato, può essere limitata solo da norme giustificate da ragioni imperative di interesse generale e applicabili a tutte le persone o imprese che esercitino un’attività nel territorio dello Stato membro ospitante, qualora tale interesse non sia tutelato dalle norme cui il prestatore è soggetto nello Stato membro in cui è stabilito (33).
58. Secondo il governo lussemburghese, l’art. 1, n. 1, punto 8, della legge 20 dicembre 2002 ha come finalità la parità di trattamento e la parità di retribuzione dei lavoratori, risultando così inteso a realizzare l’obiettivo, legittimo in base al diritto comunitario, della tutela del lavoratore. Come affermato dal governo lussemburghese, la citata normativa mira alla tutela di quei diritti dei lavoratori che sono già garantiti nell’ordinamento giuridico comunitario dalle direttive 97/81/CE (34) e 99/70/CE (35). Inoltre, essa trasporrebbe solamente principi che hanno la loro origine nell’ordine pubblico della Comunità.
59. Non posso condividere tale tesi. Il fatto che il legislatore comunitario non abbia ripreso nell’art. 3, n. 1, della direttiva 96/71 l’oggetto normativo delle citate direttive, e cioè la disciplina del lavoro a tempo parziale e a tempo determinato, depone nel senso che questo settore del diritto del lavoro europeo non appartiene affatto all’ordine pubblico della Comunità. Si tratta inoltre di normative che, come riconosce lo stesso governo lussemburghese, sono già oggetto, a livello comunitario, delle direttive 97/81 e 99/70 e che pertanto devono essere trasposte da tutti gli Stati membri (36). Conseguentemente gli interessi in esse incorporati vengono tutelati già dalle disposizioni alle quali il prestatore d’opera è sottoposto nello Stato membro dove è stabilito. Il governo lussemburghese non può, pertanto, appellarsi a ragioni imperative di interesse generale per attribuire alle norme interne controverse la qualifica di disposizioni di ordine pubblico.
– Rispetto degli accordi collettivi di lavoro
60. Con riferimento al rinvio operato dall’art. 1, n. 1, punto 11, della legge 20 dicembre 2002 alle «disposizioni imperative del diritto nazionale contenute in accordi collettivi di lavoro», si pone anzitutto la questione della compatibilità di tale norma con l’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71. La Commissione nutre dubbi circa la correttezza della trasposizione e contesta essenzialmente al Lussemburgo di voler elevare a disposizioni imperative di diritto nazionale una categoria di atti, indipendentemente dalla loro natura giuridica e dal loro contenuto sostanziale, in violazione dei limiti del potere conferito dall’art. 3, n. 10, della direttiva 96/71.
61. La Commissione contesta così due aspetti della disciplina suddetta, che occorre analizzare separatamente. Si deve innanzitutto concordare con la Commissione sul diverso significato che la nozione di «accordi collettivi di lavoro» presenta, da un lato, nella frase introduttiva dell’art. 1, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 e, dall’altro, nel paragrafo 11 del medesimo articolo. Mentre nel primo caso si parla di «accordi collettivi di lavoro dichiarati di applicazione generale», al paragrafo 11 si fa riferimento agli «accordi collettivi di lavoro» in generale. In quest’ultimo caso si tratta, però, solo di quegli accordi collettivi che non sono stati dichiarati vincolanti erga omnes. Come tali non possono però rientrare nell’ambito di applicazione dell’art. 3, n. 1, secondo trattino, della direttiva 96/71, il cui testo non equivocabile fa riferimento solo agli «accordi collettivi dichiarati di applicazione generale»; ciò ha come conseguenza che i sunnominati accordi collettivi non possono essere considerati come appartenenti al nucleo minimo di condizioni di lavoro e di occupazione comunitarie (37).
62. Un altro aspetto riguarda l’innalzamento a disposizioni di ordine pubblico di una determinata categoria di atti, indipendentemente dalla loro natura giuridica e dal loro contenuto sostanziale. Per poter valutare se una determinata normativa della contrattazione collettiva possa essere considerata vincolante ai sensi della dichiarazione 10, occorre a mio avviso che lo Stato membro interessato individui in maniera precisa le norme collettive (38). Il generico rinvio ad «accordi collettivi di lavoro» di cui all’art. 1, n. 1, punto 11, della legge 20 dicembre 2002 riveste invece il carattere di una norma in bianco, che manca del minimo necessario di determinazione e di chiarezza. Tale misura minima è assolutamente indispensabile, poiché non si può escludere che vi siano delle circostanze che rendano incompatibile con la libera prestazione di servizi l’applicazione di norme contrattuali collettive ai lavoratori distaccati (39). È pertanto sempre necessaria una valutazione riferita al caso concreto, intesa a stabilire se, ad un’analisi obiettiva, la normativa contestata garantisca la tutela dei lavoratori distaccati e procuri ai lavoratori interessati un effettivo vantaggio atto a contribuire in maniera significativa alla loro tutela sociale. Tuttavia, con il generico rinvio ad «accordi collettivi di lavoro» viene appunto impedita alla Corte una valutazione accurata.
63. Sotto il profilo processuale, il governo lussemburghese, rinviando nel proprio controricorso agli accordi collettivi di lavoro allegati alla lettera di risposta del 30 agosto 2004, non ha soddisfatto l’obbligo che gli incombe di replicare in modo approfondito e dettagliato ai motivi di contestazione sollevati (40). Si tratta infatti, come osservato giustamente dalla Commissione, di accordi collettivi dichiarati di applicazione generale con un regolamento granducale ai sensi della frase introduttiva dell’art. 1, n. 1, della legge 20 dicembre 2002, e non dei controversi «accordi collettivi di lavoro» di altro tipo cui fa riferimento l’art. 1, n. 1, punto 11, della medesima legge.
64. Pertanto, l’art. 1, n. 1, punto 11, della legge 20 dicembre 2002 non risulta conforme all’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71.
Sulla seconda censura
65. Nella sua lettera di diffida la Commissione ha fatto presente per la prima volta al governo lussemburghese che l’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva 96/71 obbliga gli Stati membri a far sì che le imprese stabilite in un altro Stato membro rispettino i periodi massimi di lavoro e i periodi minimi di riposo. Essa ha fatto presente che l’art. 1, n. 1, punto 3, della legge 20 dicembre 2002 limita la tutela dei periodi minimi di riposo al riposo settimanale. La nozione di «periodi minimi di riposo» comprenderebbe tuttavia non solo i periodi di riposo nello spazio settimanale, ma anche altri periodi di riposo, come ad esempio il riposo giornaliero o le pause, previste dagli artt. 3 e 4 della direttiva 2003/88/CE (41).
66. Già nella propria lettera di risposta del 30 agosto 2004 il governo lussemburghese ha riconosciuto la non completa trasposizione della direttiva 96/71 (42).
67. In tal modo però il governo lussemburghese ha adempiuto al proprio obbligo solo dopo il decorso del termine di due mesi fissatogli dalla Commissione nel suo parere motivato del 12 ottobre 2005. Secondo una costante giurisprudenza della Corte, l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato (43). Poiché il governo lussemburghese non contesta la tardività della trasposizione, la censura è fondata già solo per questo motivo.
Sulla terza censura
68. La censura della Commissione relativa ad una ingiustificata restrizione della libera circolazione dei servizi a causa dell’obbligo imposto alle imprese stabilite all’estero ai sensi dell’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 di «rendere accessibili all’Ispettorato del lavoro, a semplice richiesta e nel più breve tempo possibile, le indicazioni essenziali indispensabili per un controllo», non riguarda invece la trasposizione della direttiva 96/71, bensì direttamente l’art. 49 CE.
69. Come già illustrato, l’art. 49 CE impone non solo l’eliminazione di qualsiasi discriminazione nei confronti del prestatore di servizi stabilito in un altro Stato membro basate sulla sua cittadinanza, ma anche la soppressione di qualsiasi restrizione (44). Secondo una consolidata giurisprudenza, l’applicazione di una normativa nazionale dello Stato membro ospitante al prestatore di servizi è idonea a vietare, ostacolare o rendere meno attraenti le prestazioni di servizi e a essere così considerata come una restrizione alla libera prestazione di servizi, nella misura in cui comporta costi ed oneri amministrativi ed economici supplementari (45).
70. La norma di cui all’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 mira a rendere possibile all’autorità ispettiva del lavoro lussemburghese la verifica dell’identità e del regolare soggiorno dei lavoratori nell’ambito di un distacco. Essa sottopone le imprese stabilite al di fuori del territorio del Granducato di Lussemburgo ad un procedimento amministrativo obbligatorio anticipato, che impone la presentazione di documenti relativi allo status giuridico, sotto il profilo sociale, lavorativo e di soggiorno, dei lavoratori distaccati prima dell’inizio dei lavori, cosicché una simile disciplina comporta in ogni caso delle formalità amministrative per le imprese interessate, formalità che sono idonee a rendere meno attraente il distacco di lavoratori in Lussemburgo rispetto al trattamento riservato a livello nazionale. In base alla succitata, ampia definizione fornita dalla giurisprudenza è sufficiente già questa circostanza per affermare il carattere restrittivo di tale disciplina (46).
71. Bisogna tuttavia ricordare che la Corte ha riconosciuto agli Stati membri la facoltà di verificare l’osservanza delle disposizioni nazionali e comunitarie in materia di prestazione di servizi. Del pari, essa ha riconosciuto la legittimità di misure di controllo che risultino necessarie per verificare l’osservanza di condizioni a loro volta giustificate da ragioni di interesse generale (47). Il governo lussemburghese motiva la disciplina di cui all’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 sia con l’esigenza di tutela dei lavoratori sia con la necessità di effettuare controlli per la lotta agli abusi ed alle attività illegali transfrontaliere. Tanto la tutela sociale dei lavoratori quanto la lotta ai casi di abuso costituiscono finalità legittime secondo la giurisprudenza (48).
72. Tuttavia, la Corte ha parimenti ritenuto che i controlli delle autorità nazionali di sorveglianza devono rispettare i limiti imposti dal diritto comunitario e non debbono rendere illusoria la libertà di prestazione dei servizi (49). In particolare, tali controlli devono essere idonei a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non devono andare oltre quanto necessario per il suo raggiungimento (50).
73. Ciò che caratterizza la normativa lussemburghese è soprattutto l’obbligo previsto dalla legge a carico delle imprese di mettere a disposizione dell’autorità di controllo del lavoro, ancor «prima dell’inizio dei lavori», i documenti necessari, la qual cosa fa supporre un controllo preventivo di eventuali abusi fondamentalmente non compatibile con il diritto comunitario. Il governo lussemburghese eccepisce invece che la circostanza che l’impresa sia tenuta ad adempiere il proprio obbligo di denuncia solo «su richiesta» renderebbe meno oneroso quest’obbligo di legge. Non vi sarebbe dunque alcun obbligo per l’impresa di rilasciare di propria iniziativa una dichiarazione alle autorità.
74. Ritengo nondimeno che vi siano elementi per ritenere che la normativa lussemburghese sia organizzata in maniera del tutto simile ad un controllo preventivo di eventuali abusi. L’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 va infatti letto in collegamento con gli artt. 13‑17 della legge 4 aprile 1974 relativa alla riorganizzazione dell’autorità di sorveglianza sul lavoro (51) (in prosieguo: la «legge 4 aprile 1974»), che autorizza tale autorità, in caso di violazione dell’obbligo di denuncia incombente all’impresa, ad ordinare l’arresto con effetto immediato dell’attività lavorativa dei lavoratori distaccati nel territorio del Granducato di Lussemburgo. La ripresa del lavoro può venire autorizzata dall’autorità di sorveglianza sul lavoro solo dopo che siano stati forniti tutti i necessari documenti (52), tenendo presente che le violazioni di questa ordinanza vengono punite ai sensi dell’art. 28 della legge 4 aprile 1974 con pene detentive e ammende. Se però, in primo luogo, è necessaria un’«autorizzazione» per riprendere i lavori e, in secondo luogo, il mancato rispetto dell’obbligo di documentazione viene imposto con i mezzi del diritto amministrativo e del diritto penale, allora la disciplina di cui all’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 può essere intesa soltanto nel senso che la prestazione di servizi in Lussemburgo mediante distacco di lavoratori è soggetta ad un divieto, salvo concessione di un permesso in deroga (53).
75. Connotazione aggravante assume il fatto che la formulazione di questa norma non soddisfa i requisiti di certezza del diritto e di chiarezza. Secondo una costante giurisprudenza, la necessità di garantire la piena applicazione del diritto comunitario impone agli Stati membri non solo di conformare le proprie leggi al diritto comunitario, ma anche di farlo mediante disposizioni giuridiche atte a delineare una situazione sufficientemente precisa, chiara e trasparente, per consentire ai singoli di conoscere pienamente i loro diritti e di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali (54). Questo principio deve valere a maggior ragione nel caso in cui il diritto nazionale dello Stato membro imponga obblighi ai singoli e minacci sanzioni in caso di violazione.
76. Occorre rilevare come il tenore letterale ambiguo della normativa rimetta in ampia misura il rilascio dell’autorizzazione alla discrezionalità della pubblica amministrazione e aumenti inoltre in modo inaccettabile il rischio per le imprese di incorrere in sanzioni amministrative e penali. Infatti, alla luce dei mezzi di prova presentati alla Corte dalla Commissione, l’Ispettorato del lavoro interpreta in maniera visibilmente rigida l’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002, pretendendo l’inoltro completo di tutti i documenti prima della prestazione dei servizi (55), cosicché, contrariamente alle deduzioni del governo lussemburghese, non è sufficiente che i documenti vengano consegnati il giorno stesso poco prima dell’inizio dei lavori. Potrebbero poi derivare delle difficoltà nell’attuazione pratica dell’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002 dal fatto che l’obbligo di denuncia – e dunque il procedimento amministrativo vero e proprio – prende vita in linea di principio solo dopo la ricezione di una «richiesta» da parte dell’autorità di sorveglianza sul lavoro, rimanendo non chiarito quale ruolo spetti all’impresa prima dell’inizio di tale procedimento e se sia eventualmente l’impresa stessa a dover provocare tale «richiesta». Poiché in mancanza di una simile «richiesta» un’impresa non può in definitiva godere della libera prestazione di servizi senza esporsi a sanzioni amministrative e penali, questa restrizione produce gli effetti di un divieto assoluto, che, vista la possibilità di adottare mezzi meno restrittivi, non può essere ritenuto necessario per garantire la tutela dei lavoratori.
77. Ritengo infine indispensabile ricordare in questo contesto che la Corte, da ultimo nella sentenza Commissione/Lussemburgo (56), ha statuito, quanto al carattere sproporzionato di un’autorizzazione richiesta per lo svolgimento di un’attività lavorativa e all’applicazione di mezzi meno restrittivi, quanto segue: «Ora, l’obbligo imposto ad un’impresa prestatrice di servizi di segnalare preventivamente alle autorità locali la presenza di uno o più lavoratori dipendenti distaccati, la durata prevista di tale presenza e la/le prestazione/i di servizi che giustificano il distacco costituirebbe una misura altrettanto efficace e meno restrittiva rispetto alla condizione controversa. [Questa misura] sarebbe tale da consentire alle autorità di controllare il rispetto della normativa sociale lussemburghese durante il periodo di distacco, tenendo conto degli obblighi ai quali l’impresa è già soggetta per effetto delle norme di diritto del lavoro vigenti nello Stato membro di origine». In tali circostanze è più opportuno che lo Stato membro ospitante limiti il proprio intervento alla verifica delle informazioni prescritte fornite dal prestatore di servizi all’inizio delle attività in detto Stato e adotti provvedimenti repressivi solo qualora ciò si dimostri necessario (57). Pertanto, con l’introduzione, di fatto, di una riserva di autorizzazione nell’art. 7, n. 1, della legge 20 dicembre 2002, il governo lussemburghese va oltre quanto ritenuto proporzionato dalla Corte.
78. Da tutte le suesposte considerazioni emerge che questa disciplina configura un controllo preventivo per la lotta agli abusi che non è compatibile con l’art. 49 CE. Pertanto, anche questa censura è fondata.
Sulla quarta censura
79. Come ulteriore requisito amministrativo idoneo a rendere più difficoltoso il distacco di lavoratori per le imprese con sede in un altro Stato membro, la nomina di un mandatario ad hoc residente in Lussemburgo, prevista dall’art. 8 della legge 20 dicembre 2002, rappresenta una restrizione della libera circolazione dei servizi ai sensi dell’art. 49 CE (58). Occorre pertanto verificare se le restrizioni alla libera prestazione di servizi derivanti da questa disposizione nazionale siano giustificate da un obiettivo di interesse generale e, in caso di risposta affermativa, se siano necessarie per perseguire tale obiettivo, e ciò con mezzi idonei.
80. Il governo lussemburghese si richiama alla tutela dei lavoratori, alla lotta contro gli abusi ed alla necessità di un controllo efficace. Come già esposto, sia la tutela sociale dei lavoratori sia la lotta agli abusi sono riconosciuti come finalità legittime (59), mentre l’effettuazione di controlli al fine di garantire il rispetto delle disposizioni di tutela nazionali è considerata compatibile con il diritto comunitario nella misura in cui questa sorveglianza avvenga entro i limiti tracciati dal diritto comunitario (60).
81. Occorre rilevare innanzitutto che uno Stato membro non può subordinare l’esecuzione della prestazione di servizi nel suo territorio all’osservanza di tutte le condizioni prescritte per lo stabilimento di imprese, perchè altrimenti priverebbe di qualsiasi effetto utile le norme del Trattato dirette appunto a garantire la libera prestazione dei servizi (61).
82. Conformemente a ciò, nella sentenza Commissione/Italia (62) la Corte ha considerato incompatibile con la libera prestazione dei servizi l’obbligo, richiesto alle imprese fornitrici di lavoro temporaneo che intendono fornire lavoratori a utenti stabiliti in Italia, di avere la sede legale o una dipendenza nel territorio nazionale, in quanto rende impossibile, in tale Stato membro, la prestazione di servizi da parte di imprese con sede in altri Stati membri.
83. Il governo lussemburghese sostiene essenzialmente che l’art. 8 della legge 20 dicembre 2002 non specifica in alcun modo le esatte caratteristiche del controverso mandatario ad hoc. Non sarebbe richiesto né che si tratti di una persona fisica o giuridica, né che debba essere un organismo che agisce a titolo oneroso. Sarebbe solo importante che l’autorità ispettiva del lavoro conosca il nome della persona presso la quale sono depositati i necessari documenti. Mandatario ad hoc ai sensi di questa disposizione potrebbe essere, ad esempio nel settore edilizio, l’appaltatore principale, il preposto o una società di gestione immobiliare.
84. A tali argomenti occorre replicare che questa interpretazione non trova alcun sostegno nel testo dell’art. 8 della legge 20 dicembre 2002. Essa contraddice addirittura le prescrizioni di legge. Dal tenore letterale del testo risulta piuttosto in maniera non equivoca che il controverso mandatario ad hoc deve essere «residente» in Lussemburgo, e cioè deve avere nel territorio nazionale il suo «centro degli interessi vitali» e/o la sua «residenza abituale». Come osserva correttamente la Commissione, questo elemento della fattispecie normativa presuppone una «residenza stabile» o in ogni caso un soggiorno eccedente il tempo destinato alla fornitura della prestazione di servizi. Ne consegue che non risultano soddisfatti i requisiti di cui all’art. 8 della legge 20 dicembre 2002 qualora la necessaria documentazione venga custodita, ad esempio, da uno dei lavoratori distaccati.
85. Questo risultato non mi sembra compatibile con la giurisprudenza della Corte. Nella sentenza Arblade (63) la Corte ha infatti stabilito che un obbligo di tenere a disposizione e di conservare taluni documenti presso il domicilio di una persona fisica residente nello Stato membro ospitante, che li tenga in quanto incaricato o mandatario del datore di lavoro che lo ha designato, anche dopo che il datore di lavoro ha smesso di occupare lavoratori in tale Stato, è da considerasi lecito solo se le autorità di questo Stato non siano in grado di adempiere in modo efficace il loro compito di controllo in assenza di un simile obbligo.
86. Occorre, da un lato, concordare con il governo lussemburghese sul fatto che l’effettuazione di controlli in loco è indispensabile per garantire il rispetto delle disposizioni di tutela degli Stati membri. Dall’altro lato, al detto governo va addebitato di non aver allegato e provato in maniera sufficiente che le autorità lussemburghesi non avrebbero potuto adempiere ai loro compiti di sorveglianza senza la partecipazione di un mandatario ad hoc residente in Lussemburgo. Per giustificare una restrizione così incisiva della libera prestazione dei servizi quale quella presente, non è infatti sufficiente esprimere, senza una motivazione dettagliata, dubbi critici o mere perplessità sull’efficienza del sistema organizzativo di collaborazione previsto dall’art. 4 della direttiva 96/71 e dello scambio di informazioni tra Stati membri (64). Come tutti gli altri Stati membri, il Granducato di Lussemburgo è tenuto a far parte del succitato sistema di cooperazione amministrativa per vigilare sul rispetto delle relative condizioni di lavoro e di occupazione. A tale riguardo il governo lussemburghese non ha soddisfatto l’onere processuale di allegazione e di prova che gli incombe.
87. Ad ogni modo, il controllo del rispetto delle norme connesse con la tutela sociale dei lavoratori può ben esser garantito con misure meno restrittive. In linea di principio occorre infatti presupporre che per l’adempimento di questo compito di sorveglianza sia sufficiente la designazione di uno dei lavoratori distaccati, ad esempio di un preposto, il quale curi il collegamento tra l’impresa straniera e l’autorità di sorveglianza sul lavoro ed eventualmente tenga a disposizione i documenti necessari presso il cantiere o in un altro luogo accessibile e indicato in maniera chiara nel territorio dello Stato membro ospitante (65). Una tale misura per la garanzia della tutela sociale dei lavoratori, in quanto meno restrittiva per la libera prestazione di servizi, sarebbe conforme al principio di proporzionalità.
88. Ne concludo pertanto che i requisiti di cui all’art. 8 della legge 20 dicembre 2002 sono sproporzionati e violano l’art. 49 CE. Di conseguenza anche la quarta censura è fondata.
VII – Sulle spese di causa
89. Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese. Il Granducato di Lussemburgo, essendo risultato sostanzialmente soccombente, va dunque condannato alle spese.
VIII – Conclusioni
90. Alla luce delle considerazioni che precedono propongo che la Corte voglia:
– constatare che il Granducato di Lussemburgo,
1) avendo dichiarato che le disposizioni di cui all’art. 1, n. 1, punti 1, 8 e 11, della legge 20 dicembre 2002 costituiscono disposizioni amministrative rientranti nell’«ordine pubblico nazionale»,
2) avendo trasposto in modo incompleto le disposizioni dell’art. 3, n. 1, lett. a), della direttiva 96/71 nell’art. 1, n. 1, punto 3, della legge suddetta,
3) avendo enunciato, all’art. 7, n. 1, di tale legge, condizioni formulate in modo privo della chiarezza necessaria per garantire la certezza del diritto,
4) avendo imposto, all’art. 8 della medesima legge, la conservazione in Lussemburgo, tra le mani di un mandatario ad hoc ivi residente, dei documenti necessari per il controllo,
è venuto meno agli obblighi che gli incombono in forza dell’art. 3, nn. 1 e 10, della direttiva 96/71, nonché degli artt. 49 CE e 50 CE;
– per il resto, respingere il ricorso perché infondato;
– condannare il Granducato di Lussemburgo alle spese.