Language of document : ECLI:EU:C:2005:373

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

F.G. JACOBS

presentate il 9 giugno 2005 1(1)

Causa C-120/04

Medion AG

contro

Thomson multimedia Sales Germany & Austria GmbH






1.     Nella presente causa, l’Oberlandesgericht Düsseldorf (Corte d’appello di Düsseldorf) ha sottoposto alla Corte una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva sui marchi d’impresa (2).

2.     Tale disposizione attribuisce al titolare del marchio d’impresa il diritto di vietare ai terzi di usare nel commercio «un segno che, a motivo dell’identità o della somiglianza di detto segno col marchio di impresa e dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi contraddistinti dal marchio di impresa e dal segno, possa dare adito a un rischio di confusione per il pubblico, comportante anche un rischio di associazione tra il segno e il marchio d’impresa».

3.     In sostanza, il giudice del rinvio chiede se vi sia un rischio di confusione per il pubblico ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. b), nel caso in cui un segno denominativo composito o un segno denominativo/figurativo (nella fattispecie, THOMSON LIFE) includa un nome commerciale seguito da un marchio anteriore (nella fattispecie, LIFE) consistente di un’unica parola dotata di «normale efficacia distintiva», e che, sebbene non sia tale da caratterizzare o plasmare l’impressione generale destata dal segno composito, vi conserva una certa autonomia distintiva. La questione sollevata dal giudice a quo si ispira in particolare alla «Prägetheorie» (3), una dottrina sviluppata nell’ambito del diritto tedesco sui marchi dal Bundesgerichtshof (Corte federale di cassazione), illustrata più avanti.

 Fatti e procedimento nella causa principale

4.     L’attrice, Medion AG, è titolare del marchio denominativo tedesco «LIFE», registrato per apparecchi elettronici di intrattenimento.

5.     La convenuta, Thomson multimedia Sales Germany & Austria GmbH, definita dal giudice del rinvio come una delle maggiori imprese al mondo nel settore dell’elettronica di intrattenimento, contraddistingue parte dei suoi prodotti in tale settore merceologico con il sintagma «THOMSON LIFE», talvolta come semplice segno denominativo, talaltra come segno denominativo/figurativo in cui la parola «THOMSON» appare con differente dimensione, colore o forma.

6.     In primo grado, non avendo riscontrato alcun rischio di confusione con il marchio «LIFE», il Landgericht Düsseldorf (Tribunale locale) ha respinto la domanda dell’attrice volta a inibire alla convenuta l’uso del segno «THOMSON LIFE».

7.     L’attrice ha interposto gravame innanzi al giudice del rinvio, il quale ha sospeso il procedimento e sottoposto alla Corte di giustizia la predetta questione pregiudiziale.

8.     Il giudice del rinvio espone la giurisprudenza del Bundesgerichtshof che si rifà alla «Prägetheorie» nei seguenti termini. Allorché si valuta la somiglianza dei marchi d’impresa nei casi in cui singole componenti di marchi concorrenti coincidono, occorre prendere le mosse dall’impressione generale destata dai marchi; si deve accertare se l’elemento coincidente caratterizzi il marchio composito al punto che, nell’impressione generale, gli altri elementi restano ampiamente marginali. Per ravvisare un rischio di confusione non è dunque sufficiente che l’elemento coincidente semplicemente concorra all’impressione generale del segno. Né rileva che un segno incorporato in un segno composito vi abbia conservato una sua autonomia distintiva. Tuttavia, le singole componenti possono avere un ruolo autonomo, indipendente dalla funzione caratterizzante delle altre, rispetto all’immagine generale del prodotto; le componenti devono quindi essere considerate singolarmente e confrontate. In generale, non si attribuisce valore pregnante a quell’elemento di un segno che, nel mondo commerciale, contraddistingue non già il prodotto in sé, bensì l’azienda da cui proviene. Qualora il segno indicativo di un’azienda sia riconoscibile in quanto tale, di norma dovrebbe soccombere nell’impressione generale, poiché il mercato interessato identifica la vera e propria designazione del prodotto rispetto all’altra componente del segno.

9.     Occorre comunque accertare, ogni volta, se eccezionalmente non valga altro e se, dal punto di vista del mercato interessato, non venga invece in primo piano l’indicazione del produttore. Decisive sono le circostanze specifiche e gli usi nel settore di mercato in questione. Il Bundesgerichtshof ha ammesso che, nei settori della birra e della moda, si attribuisce particolare importanza al nome del produttore, per cui i riferimenti al produttore in tali settori sono sempre caratterizzanti dell’impressione d’insieme suscitata dal segno; di conseguenza, nel caso di incorporazione di un marchio anteriore in un segno composito contenente l’indicazione del produttore, non sussisterebbe alcun rischio di confusione. Se tali sono gli usi nel settore di mercato pertinente, allora l’indicazione del produttore in un segno composito caratterizza l’impressione generale anche nel caso in cui la restante componente abbia una forza distintiva non già debole, bensì normale. Ciò vale a fortiori quando il nome del produttore ha un’efficacia insolitamente distintiva.

10.   Applicando i suddetti principi al caso in esame, il giudice del rinvio perviene ad escludere un rischio di confusione, in quanto il nome del produttore «THOMSON» caratterizzerebbe l’impressione generale destata dal contrassegno controverso «THOMSON LIFE»; l’elemento «LIFE» non sarebbe, dunque, di per sé, caratterizzante. Dalla documentazione prodotta dalle parti risulta che, nel settore commerciale interessato, segnatamente quello degli apparecchi elettronici di intrattenimento, gli usi in materia di denominazione attribuiscono maggior risalto al nome del produttore. In tale settore, il prodotto è solitamente indicato col nome del produttore insieme a una combinazione alfanumerica difficile da memorizzare.

11.   Il giudice del rinvio aggiunge che neppure l’analisi del rischio di confusione con riferimento al suono, alla grafica e al significato del contrassegno controverso, condurrebbe a risultati diversi; sotto ogni profilo, il nome del produttore «THOMSON» influenza in maniera essenziale l’impressione complessiva del segno «THOMSON LIFE».

12.   Nondimeno, il giudice del rinvio rileva che, in casi come quello in esame, l’interpretazione della nozione di rischio di confusione data dal Bundesgerichtshof non è pacificamente accettata in Germania. Viene avvertito infatti come iniquo che un segno anteriore, quand’anche dotato di una normale efficacia distintiva, possa essere usurpato da un terzo attraverso l’aggiunta del nome della sua impresa. Secondo questa opposta tesi, nel caso di specie sussisterebbe un rischio di confusione. Nel segno composito «THOMSON LIFE», il marchio conteso «LIFE» conserva una sua autonomia distintiva. Le due parole stanno l’una accanto all’altra senza un collegamento. Non c’è alcun nesso concettuale tra «THOMSON» e «LIFE». Dal punto di vista figurativo, le due parole sono rappresentate diversamente, per colore e anche per grafica, in tre delle quattro forme di utilizzo contestate. I prodotti contraddistinti da tale segno composito possono essere intesi come prodotti «LIFE» della ditta «THOMSON»: ciò può far sorgere l’equivoco che i prodotti dell’attrice recanti il solo contrassegno «LIFE» provengano dalla convenuta.

13.   Da ultimo, il giudice del rinvio osserva che nella sentenza Sabel (4) la Corte di giustizia ha dichiarato che la valutazione del rischio di confusione in caso di somiglianza dei segni deve basarsi sull’impressione generale che questi destano. Tuttavia, la Corte non ha ancora esaminato la situazione in cui, applicando tale criterio, si possa impedire a un terzo di usurpare un marchio altrui attraverso l’aggiunta del proprio nome commerciale.

14.   L’attrice, la convenuta e la Commissione hanno depositato osservazioni scritte ed erano presenti in udienza.

 Valutazione

15.   In sostanza, il giudice del rinvio chiede se vi sia un rischio di confusione per il pubblico ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva nel caso in cui un segno denominativo composito o un segno denominativo/figurativo includa un nome commerciale seguito da un marchio anteriore consistente di un’unica parola dotata di «normale efficacia distintiva», e che, sebbene non sia tale da caratterizzare o plasmare l’impressione generale destata dal segno composito, vi conserva un’autonomia distintiva.

16.   Stando a quanto esposto nella decisione di rinvio, in primo grado il Landgericht Düsseldorf ha respinto la domanda di accertamento della violazione perché non ha ravvisato alcun rischio di confusione. Esso ha attribuito pari importanza alle componenti del segno composito THOMSON LIFE e ne ha concluso che l’elemento coincidente «LIFE» non fosse pertanto in grado di plasmare né di caratterizzare l’impressione generale del segno in questione.

17.   Dalla decisione di rinvio, nonché dalle osservazioni sottoposte alla Corte, appare evidente che tale giudizio rifletteva la Prägetheorie, sviluppata dal Bundesgerichtshof e sopra sintetizzata ai paragrafi 8 e 9. Il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se detta teoria sia conforme alla direttiva.

18.   Innanzi tutto, non sono convinto che una teoria specifica, che articola formalmente una serie di regole destinate ad applicarsi automaticamente in determinati casi, sia sempre, o necessariamente, un approccio utile al fine di risolvere un dato conflitto tra marchi d’impresa. A mio avviso, i principi che la Corte ha già affermato nelle sentenze sulle disposizioni della direttiva che vengono qui in rilievo, cioè gli artt. 4, n. 1, lett. b), e 5, n. 1, lett. b) (5), costituiscono un quadro concettuale sufficiente per la soluzione di simili controversie. Penso che il ricorso ad una risposta teorica comporti il rischio che i giudici nazionali si sottraggano dall’applicare essi stessi i criteri essenziali della somiglianza e della confusione, previsti dal legislatore comunitario e sviluppati dalla Corte. Qualora invece una teoria fornisca semplicemente indicazioni pertinenti su come applicare questi criteri essenziali in un determinato settore, oppure a particolari categorie di marchi, ritengo che essa possa nondimeno essere utile, a condizione che il giudice nazionale tenga sempre presente che, in definitiva, egli deve assicurare che nel singolo caso siano applicati i principi stabiliti dalla Corte.

19.   Ciò premesso, esporrò di seguito tali principi.

20.   Il decimo ‘considerando’ della direttiva stabilisce che la valutazione del rischio di confusione «dipende da numerosi fattori, e segnatamente dalla notorietà del marchio di impresa sul mercato, dall’associazione che può essere fatta tra il marchio di impresa e il segno (...), dal grado di somiglianza tra il marchio di impresa e il segno e tra i prodotti o servizi designati (...)». Di riflesso, la Corte ha affermato che il rischio di confusione deve essere oggetto di valutazione globale, in considerazione di tutti i fattori pertinenti nel caso di specie (6). Spetta al giudice nazionale l’accertamento positivo dell’esistenza di un rischio di confusione (7).

21.   La somiglianza tra i segni in questione è dunque una condizione necessaria, ma non sufficiente, per il riscontro di un rischio di confusione: i giudici nazionali devono pure valutare una serie di altri fattori, su quali la Corte ha richiamato l’attenzione.

22.   È evidente che vi sia una certa interdipendenza tra i fattori che vengono in considerazione in una valutazione globale del rischio di confusione, e in particolare tra la somiglianza tra marchio e segno e quella dei prodotti o dei servizi designati. Così, un tenue grado di somiglianza tra i prodotti o i servizi può essere compensato da un elevato grado di somiglianza tra i marchi, e viceversa (8).

23.   Peraltro, il rischio di confusione è tanto più elevato, quanto più rilevante è il carattere distintivo del marchio anteriore, sia intrinsecamente, sia grazie alla notorietà di cui esso gode presso il pubblico (9). Compete al giudice nazionale stabilire il grado di autonomia distintiva di un marchio; a tal fine, egli dovrà effettuare una globale valutazione della maggiore o minore attitudine del marchio a identificare i beni o servizi per i quali è stato registrato come provenienti da una determinata impresa, e, quindi, a distinguere tali beni o servizi da quelli di altre imprese (10).

24.   Inoltre, il riferimento dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva al rischio di confusione «per il pubblico» significa che, nella valutazione globale del rischio di confusione, gioca un ruolo decisivo la percezione del marchio da parte del consumatore medio della categoria di beni o servizi in questione. Di norma, il consumatore medio percepisce un marchio come un tutt’uno e non effettua un esame dei suoi singoli elementi (11). Si suppone che il consumatore medio della categoria di prodotti di cui trattasi sia normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto. Tuttavia, occorre tener conto del fatto che il consumatore medio solo raramente ha la possibilità di procedere ad un confronto diretto dei vari marchi, ma deve fare affidamento sulla immagine non perfetta che ne ha mantenuto nella memoria. Occorre anche prendere in considerazione il fatto che il livello di attenzione del consumatore medio può variare in funzione della categoria di prodotti o servizi di cui trattasi (12).

25.   Distillando questi principi può affermarsi che, nella valutazione globale del rischio di confusione in un caso come quello in esame, il giudice nazionale deve tenere presente che a) laddove i prodotti contrassegnati dai marchi siano identici (come nel caso de quo), già un tenue grado di somiglianza tra i marchi potrebbe dare adito a un rischio di confusione, ma che, tuttavia, b) quanto più distintivo è il marchio anteriore, tanto maggiore sarà il rischio di confusione, di modo che, nel caso del termine LIFE, che è descritto dal giudice nazionale come dotato di «un grado normale di efficacia distintiva», il rischio di confusione potrebbe non essere elevato. Il giudice nazionale deve poi considerare che il consumatore medio tenderà a percepire il marchio come un tutt’uno, anziché effettuare un esame dei suoi singoli elementi. Nel presente caso, il livello di attenzione del consumatore medio rispetto al prodotto tenderà ad essere inferiore alla luce della circostanza (rilevata dai giudici nazionali) che nel settore degli apparecchi elettronici di intrattenimento, come nei settori menzionati supra, al paragrafo 9, il consumatore presta particolare attenzione all’indicazione del produttore. Alla luce di tali criteri, il giudice nazionale dovrà accertare se, in concreto, il marchio e il segno sono simili al punto tale da dare luogo a un rischio di confusione.

26.   A questo proposito, occorre che la valutazione globale della somiglianza da parte del giudice nazionale si fondi sull’impressione complessiva destata dai marchi, avuto riguardo, in particolare, alle componenti distintive e dominanti dei marchi medesimi (13). Al fine di valutare il grado di somiglianza esistente tra i marchi di cui trattasi, il giudice nazionale deve determinare il loro grado di somiglianza visuale, auditiva o concettuale, e, eventualmente, ponderare la rilevanza che occorre attribuire a questi diversi elementi, tenendo conto della categoria dei prodotti o servizi in questione e delle condizioni in cui essi sono messi in commercio (14).

27.   Finora la Corte di giustizia non ha avuto modo di pronunciarsi direttamente sui criteri per determinare, in concreto, se un marchio composto da un nome commerciale seguito da un marchio anteriore consistente di un’unica parola sia simile al medesimo marchio anteriore ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. b), della direttiva. Tuttavia, essa ha respinto con ordinanza motivata una sentenza del Tribunale di primo grado, Matratzen Concord/UAMI (15), che affrontava tale questione. La causa riguardava l'art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento sul marchio comunitario (16), le cui disposizioni sono, per quel che qui rileva, sostanzialmente identiche a quelle dell'art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva.

28.   Il Tribunale di primo grado, facendo propria la giurisprudenza sintetizzata ai precedenti paragrafi 20, 22 e 24 (17), ha fissato i seguenti criteri di giudizio:

«(...) un marchio complesso può essere considerato simile ad un altro marchio, identico o simile ad una delle componenti del marchio complesso, solo se quest’ultima costituisce l’elemento dominante nell’impressione complessiva prodotta dal marchio complesso. Ciò si verifica quando tale componente può da sola dominare l’immagine di tale marchio che il pubblico pertinente conserva in memoria, in modo tale che tutte le altre componenti del marchio risultino trascurabili nell’impressione complessiva da questo prodotta.

Occorre precisare che tale approccio non significa prendere in considerazione solo una componente di un marchio complesso e paragonarla con un altro marchio. Occorre invece operare il confronto esaminando i marchi di cui trattasi, considerati ciascuno nel suo complesso. Tuttavia, ciò non esclude che l’impressione complessiva prodotta nella memoria del pubblico pertinente da un marchio complesso possa, in determinate circostanze, essere dominata da una o più delle sue componenti.

Quanto alla valutazione del carattere dominante di una o più componenti determinate di un marchio complesso, occorre tenere conto, in particolare, delle qualità intrinseche di ciascuna di tali componenti paragonandole con quelle di altre componenti. Inoltre ed in via accessoria, può essere presa in considerazione la posizione relativa delle diverse componenti nella configurazione del marchio complesso» (18).

29.   Il Tribunale di primo grado ha quindi effettuato un esame delle diverse componenti del segno composito in causa (MATRATZEN MARKT CONCORD), considerando inter alia il grado di carattere distintivo di ciascun elemento, nonché la sua posizione, dominante oppure marginale, all’interno del segno composito (19). Ne ha concluso che il marchio composito era sufficientemente simile al marchio MATRATZEN per dare adito a un rischio di confusione, dato che i prodotti designati dai marchi in conflitto erano in parte identici e in parte molto simili (20).

30.   Il titolare del marchio composito ha presentato ricorso innanzi alla Corte di giustizia facendo tra l’altro valere che il Tribunale, in sede di interpretazione della nozione di somiglianza, non aveva valutato nel suo insieme il rischio di confusione nella percezione del pubblico né aveva tenuto conto di tutti i fattori pertinenti nel caso di specie, come invece richiesto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia.

31.   Nel respingere tale ricorso, la Corte, facendo riferimento alla sua precedente giurisprudenza, ha dichiarato che il Tribunale di primo grado non era incorso in errori di diritto nell’interpretazione dell’art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento sul marchio comunitario (21). In particolare, la Corte ha affermato che:

«Il Tribunale ha giustamente precisato, al punto 34 della sentenza impugnata, che la valutazione della somiglianza tra due marchi non significa prendere in considerazione solo una componente di un marchio complesso e paragonarla con un altro marchio, ma che occorre invece operare il confronto esaminando i marchi di cui trattasi, considerati ciascuno nel suo complesso. Esso ha altresì dichiarato che ciò non esclude che l’impressione d’insieme prodotta nella memoria del pubblico pertinente da un marchio complesso possa, in determinate circostanze, essere dominata da una o più delle sue componenti.

Inoltre, (...) il Tribunale [di primo grado], per determinare se i due marchi siano simili dal punto di vista del pubblico pertinente, ha dedicato gran parte del suo ragionamento alla valutazione dei loro elementi distintivi e dominanti, nonché del rischio di confusione nel pubblico, rischio valutato nel suo insieme, tenendo conto di tutti i fattori pertinenti del caso di specie» (22).

32.   Di conseguenza, la Corte ha respinto il ricorso in quanto manifestamente infondato.

33.   Sembra dunque che la Corte abbia adottato un approccio simile alla Prägetheorie, che consiste essenzialmente nel confrontare l’impressione generale destata dai due marchi confliggenti, uno dei quali sia una componente dell’altro. Ciò mi pare perfettamente comprensibile, poiché può essere considerato come un’applicazione a una particolare categoria di casi dei principi elaborati dalla precedente giurisprudenza della Corte. Si ricorderà che detta giurisprudenza richiede una valutazione globale fondata sull’impressione complessiva destata dai marchi, in considerazione, in particolare, degli elementi distintivi e dominanti dei marchi medesimi (23). Ciò trova conferma nell’affermazione della Corte nella sentenza Matratzen secondo cui, in particolari circostanze, l’impressione complessiva data da un marchio composito può essere dominata da una o più delle sue componenti. La misura di tale predominanza rispetto all’impressione generale costituisce una questione di fatto di competenza del giudice nazionale.

34.   Il Tribunale di primo grado si è di recente pronunciato su un altro caso per certi versi analogo a quello in esame. Nella sentenza Reemark/UAMI (24), si trattava di stabilire se tra il marchio WEST, registrato in Germania, e il marchio comunitario richiesto WESTLIFE, destinato a designare prodotti e servizi simili o identici, sussistesse una somiglianza tale da dare adito a confusione. La divisione d’opposizione dell’UAMI (25) aveva respinto la domanda per quest’ultimo marchio, in sostanza perché i marchi erano così somiglianti da creare confusione. Detta decisione era stata poi annullata dalla seconda commissione di ricorso dell’UAMI, la quale aveva ritenuto che i segni in conflitto presentassero una scarsa somiglianza sotto il profilo visivo e uditivo, e soltanto una certa somiglianza sotto il profilo concettuale, sicché le differenze tra essi erano sufficientemente significative da permettere la loro coesistenza sul mercato, e non sussisteva alcun rischio di confusione.

35.   In sede d’impugnazione di quest’ultima decisione, il Tribunale di primo grado ha accertato che tra i due segni in conflitto sussisteva un certo grado di somiglianza uditiva, nonché, in particolare, concettuale, e che la sola differenza visiva consisteva nel fatto che uno dei due segni conteneva un elemento ulteriore unito al primo. Il Tribunale ha ravvisato un indizio della somiglianza tra i due marchi nel fatto che il marchio WESTLIFE fosse costituito esclusivamente dal marchio anteriore, WEST, al quale era stata aggiunta un’altra parola, «LIFE». Esso ne ha concluso che l’esistenza del marchio anteriore WEST avrebbe potuto creare un’associazione, nella mente del pubblico di riferimento, tra tale termine e i prodotti distribuiti dal suo titolare, di modo che il nuovo marchio costituito da «WEST» combinato con un altro temine rischiava di essere percepito come una variante del marchio anteriore. Il pubblico di riferimento avrebbe potuto dunque pensare che l’origine dei prodotti e dei servizi commercializzati con il marchio WESTLIFE fosse la stessa dei prodotti e dei servizi commercializzati con il marchio WEST, o che per lo meno vi fosse un nesso economico tra le diverse società o imprese che li commercializzavano. Alla luce di tali argomenti, il Tribunale ha riconosciuto l’esistenza di un rischio di confusione tra i due marchi (26).

36.   Occorre ricordare che il potere decisorio del Tribunale di primo grado in sede di giudizio d’impugnazione su una decisione di una commissione di ricorso dell’UAMI, non ha la medesima estensione di quello attribuito alla Corte di giustizia in materia di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 CE. Il Tribunale di primo grado giudica sull’applicazione, da parte della commissione di ricorso, di determinati principi giuridici a certe fattispecie. La Corte di giustizia, invece, risolve una questione di diritto; in seguito, il giudice nazionale interessato applicherà alla causa innanzi ad esso pendente in principi enucleati dalla Corte nella propria sentenza, mentre spetterà ad esso l’accertamento dei fatti. La differenza di contesto giurisdizionale fra Tribunale e Corte è sottolineata dal fatto che una pronuncia pregiudiziale della Corte deve avere portata assolutamente generale, in modo da essere applicabile in tutta la Comunità; è dunque auspicabile – se non addirittura essenziale – evitare statuizioni dettagliate riferite a casi specifici. Ciò vale forse in particolar modo nel settore dei marchi, in cui l’esito di una data causa può essere ampiamente dettato dal particolare contesto di fatto, che ricomprende il profilo linguistico, il mercato e i consumatori di cui trattasi, con i loro modelli culturali e le loro aspettative.

37.   Per quanto riguarda la fattispecie in esame, non ritengo si possa affermare che, siccome il Tribunale di primo grado ha ritenuto che, alla luce di quel caso concreto, i marchi WESTLIFE e WEST fossero così somiglianti da creare confusione, allora anche i marchi THOMSON LIFE e LIFE dovrebbero necessariamente essere dichiarati così somiglianti da dare adito a confusione, pur in un diverso contesto fattuale. Come si è appena detto, compete al giudice del rinvio applicare i principi enucleati dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza relativa alla direttiva sui marchi d’impresa, nonché decidere se, nel caso ad esso sottoposto, i due marchi in questione siano così simili da creare confusione.

38.   Pertanto, spetta a tale giudice stabilire se i due marchi sono sufficientemente somiglianti da ingenerare un rischio di confusione, prendendo in considerazione i vari fattori individuati dalla Corte, segnatamente il grado di somiglianza tra i beni o i servizi, da un lato, e tra i marchi, dall’altro, nonché la capacità distintiva del marchio anteriore.

39.   Con particolare riguardo alla questione se un marchio composito e un segno che consiste in una delle sue componenti siano sufficientemente somiglianti da ingenerare un rischio di confusione, la valutazione del giudice nazionale deve fondarsi sull’impressione complessiva destata da ciascun marchio, tenendo presenti, in particolare, le loro componenti distintive e dominanti, il tipo di pubblico interessato, la categoria dei prodotti o servizi in questione e le condizioni in cui essi sono messi in commercio. Nel caso di specie, alla luce dei suesposti principi, mi limito a rilevare che il vocabolo «LIFE» non pare, prima facie, particolarmente dominante o distintivo nell’ambito del marchio composito in questione, ma ribadisco che l’accertamento di tale aspetto è di competenza del giudice nazionale.

40.   Da ultimo, vorrei menzionare la preoccupazione espressa dal giudice del rinvio nella presente causa, secondo cui sarebbe iniquo permettere a un terzo di usurpare un segno anteriore attraverso l’aggiunta di un nome commerciale. Appare evidente che simili preoccupazioni trovino più propriamente collocazione nell’ambito del diritto nazionale in materia di concorrenza sleale, e non già in quello del diritto dei marchi d’impresa. Il sesto ‘considerando’ della direttiva sancisce che essa «non esclude che siano applicate ai marchi di impresa norme del diritto degli Stati membri diverse dalle norme del diritto dei marchi di impresa, come le disposizioni sulla concorrenza sleale, la responsabilità civile o la tutela dei consumatori».

I –    Conclusione

41.   Alla luce di queste considerazioni, ritengo che la questione sollevata dall’Oberlandesgericht Düsseldorf debba essere risolta nei seguenti termini:

Allorché è chiamato a decidere se un segno denominativo composito o un segno denominativo/figurativo – costituito da un nome commerciale seguito da un marchio anteriore, quest’ultimo consistente di un’unica parola dotata di «normale efficacia distintiva», e che, sebbene non sia tale da caratterizzare o plasmare l’impressione generale destata dal segno composito, vi conserva un’autonomia distintiva – sia sufficientemente somigliante al marchio anteriore da ingenerare un rischio di confusione per il pubblico ai sensi dell’art. 5, n. 1, lett. b) della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, il giudice nazionale deve fondare la propria valutazione sull’impressione complessiva destata da ciascun marchio, tenendo presenti, in particolare, le componenti distintive e dominanti dei marchi medesimi, il tipo di pubblico interessato, la categoria dei prodotti o servizi in questione, nonché le circostanze in cui essi sono messi in commercio.


1 – Lingua originale: l’inglese.


2 – Prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (GU 1989, L 40, pag. 1).


3 – Il verbo tedesco «prägen» significa letteralmente «coniare, battere moneta, timbrare, imprimere, imprimere in rilievo» e, in senso figurato, «plasmare, modellare, caratterizzare».


4 – Sentenza 11 novembre 1997, causa C-251/95, Sabel (Racc. pag. I-6191).


5 – I termini dell’art. 4, n. 1, lett. b), della direttiva, che definisce i motivi per cui un marchio d’impresa può essere escluso dalla registrazione o, se registrato, dichiarato nullo, sono sostanzialmente identici a quelli utilizzati all’art. 5, n 1, lett. b). Di conseguenza, l’interpretazione data dalla Corte all’art. 4, n. 1, lett. b), vale anche per l’art. 5, n. 1, lett. b): sentenza 22 giugno 2000, causa C-425/98, Marca Mode (Racc. pag. I-4861, punti 26-28).


6 – Sentenza Sabel, citata alla nota 4, punto 22.


7 – Sentenza Marca Mode, citata alla nota 5, punto 39.


8 – Sentenza 29 settembre 1998, causa C-39/97, Canon Kabushiki Kaisha (Racc. pag. I‑5507, punto 17).


9 – Sentenza Sabel, citata alla nota 4, punto 24.


10 – Sentenza 22 giugno 1999, causa C‑342/97, Lloyd Schuhfabrik Meyer (Racc. pag. I‑3819, punto 22).


11 – Sentenza Sabel, citata alla nota 4, punto 23.


12 – Sentenza Lloyd , citata alla nota 10, punto 26.


13 – Sentenza Sabel, citata alla nota 4, punto 23.


14 – Sentenza Lloyd, citata alla nota 10, punto 27.


15 – Sentenza 23 ottobre 2002, causa T-6/01 (Racc. pag. II‑4335). È attualmente pendente dinanzi alla Corte un procedimento pregiudiziale promosso dalla Audiencia Provincial, Barcelona, avente ad oggetto una questione diversa sorta nel corso di una causa dinanzi a quel giudice in merito agli stessi marchi (causa C‑421/04, Matratzen Concord).


16  – Regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU 1994, L 11, pag. 1).


17 – V. punti 24-26 della sentenza.


18 –      Punti 33-35.


19 – Punti 38-43.


20 – Punti 44-48.


21 – Ordinanza 28 aprile 2004, causa C-3/03 P, Matratzen Concord/UAMI.


22 –      Punti 32 e 33.


23 – Sentenza Sabel, citata alla nota 4, punto 23.


24 – Sentenza 4 maggio 2005, causa T-22/04.


25 – Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli).


26 – Punti 39, 40, 42 e 43.