Language of document : ECLI:EU:C:2008:98

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

M. POIARES MADURO

presentate il 20 febbraio 2008 1(1)

Cause riunite C‑120/06 P e C‑121/06 P

Fabbrica italiana accumulatori motocarri Montecchio SpA (FIAMM),

Fabbrica italiana accumulatori motocarri Montecchio Technologies Inc. (FIAMM Technologies)

contro

Consiglio dell’Unione europea,

Commissione delle Comunità europee


e

Giorgio Fedon & Figli SpA,

Fedon America, Inc.

contro

Consiglio dell’Unione europea,

Commissione delle Comunità europee

«Impugnazione – OMC – Relazioni commerciali CE/USA – Regime europeo di importazione di banane dichiarato contrario al GATT – Applicazione di misure di ritorsione ad una serie di prodotti comunitari – Ricorso per risarcimento danni»





1.        «Mangiare la banana per le due estremità»: così potrebbe essere metaforicamente descritto il contenzioso che ha visto americani ed europei fronteggiarsi in quella che viene comunemente chiamata la «guerra delle banane». Innumerevoli sono già gli episodi di questo conflitto. La presente controversia, che solleva il problema delle vittime collaterali di tale guerra, costituisce null’altro che un ulteriore capitolo della vicenda. Essa non è tuttavia priva di interesse giuridico. Al contrario. La Corte è chiamata a pronunciarsi su questioni inedite e di notevole portata giuridica.

2.        La controversia sottoposta alla Corte scaturisce da due ricorsi di impugnazione proposti, l’uno, dalla Fabbrica italiana accumulatori motocarri Montecchio SpA e dalla Fabbrica italiana accumulatori motocarri Montecchio Technologies LLC (in prosieguo congiuntamente denominate: la «FIAMM») avverso la sentenza del Tribunale di primo grado delle Comunità europee 14 dicembre 2005, causa T‑69/00, FIAMM e FIAMM Technologies/Consiglio e Commissione (2), e, l’altro, dalla Giorgio Fedon & Figli SpA e dalla Fedon America, Inc. (in prosieguo congiuntamente denominate: la «FEDON») avverso la sentenza pronuciata dal detto Tribunale in pari data nella causa T‑135/01, Fedon & Figli e a./Consiglio e Commissione (3) (in prosieguo, congiuntamente: le «sentenze impugnate»). Con tali sentenze, il Tribunale ha respinto i ricorsi proposti dalla FIAMM e dalla FEDON intesi ad ottenere il risarcimento del danno da esse asseritamente subito in ragione di una sovrattassa doganale imposta dagli Stati Uniti sulle importazioni di batterie stazionarie e di astucci per occhiali provenienti da vari Stati membri, per ritorsione alla mancata esecuzione, da parte della Comunità europea, della decisione con la quale l’Organo per la risoluzione delle controversie dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) (in prosieguo: l’«ORC») aveva constatato l’incompatibilità con gli accordi OMC del regime comunitario di importazione delle banane.

3.        I motivi dedotti dalle parti ricorrenti a sostegno dei presenti ricorsi di impugnazione invitano la Corte a pronunciarsi, da un lato, sugli effetti che una decisione dell’ORC che constata l’incompatibilità della normativa comunitaria con gli accordi OMC produce sulla possibilità di invocare le norme dell’OMC, e, dall’altro, sul principio e sui presupposti di una responsabilità senza colpa della Comunità.

I –    Contesto giuridico‑normativo e situazione di fatto

A –    Fatti all’origine della controversia

4.        La causa trae origine da un contenzioso tra la Comunità europea e gli Stati Uniti relativo al regime comunitario di importazione delle banane istituito dal regolamento (CEE) del Consiglio 13 febbraio 1993, n. 404, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore della banana (4). A seguito di denunce presentate da vari membri dell’OMC, tra i quali gli Stati Uniti, l’ORC ha constatato, il 25 settembre 1997, che tale regime degli scambi con gli Stati terzi, prevedendo disposizioni preferenziali a vantaggio delle banane originarie degli Stati ACP, era incompatibile con gli accordi OMC ed ha raccomandato alla Comunità di procedere alla sua regolarizzazione entro la scadenza di un termine ragionevole fissato al 1º gennaio 1999.

5.        A tal fine, le istituzioni hanno emendato, con effetto a tale data del 1º gennaio 1999, il regime degli scambi di banane con gli Stati terzi mediante il regolamento (CE) del Consiglio 20 luglio 1998, n. 1637, integrato dal regolamento (CE) della Commissione 28 ottobre 1998, n. 2362. Ritenendo che tale nuovo regime di importazione delle banane conservasse i profili di illegittimità del regime precedente, gli Stati Uniti hanno ottenuto dall’ORC, in data 19 aprile 1999, l’autorizzazione a imporre sulle importazioni provenienti dalla Comunità dazi doganali fino a concorrenza di un importo annuo di scambi di USD 191,4 milioni, corrispondente al grado dell’annullamento o della riduzione di vantaggi da essi subito. Di conseguenza, le autorità americane hanno applicato, a partire dal 19 aprile 1999, un dazio ad valorem del 100% sull’importazione di prodotti originari della Comunità figuranti in un elenco da esse a tal fine predisposto. Fra tali prodotti rientravano le batterie stazionarie e gli astucci per occhiali esportati rispettivamente dalle società italiane FIAMM e FEDON.

6.        A seguito di negoziati condotti con tutte le parti interessate, la Comunità ha adottato modifiche della nuova organizzazione comune dei mercati delle banane mediante il regolamento (CE) del Consiglio 29 gennaio 2001, n. 216. Successivamente, l’11 aprile 2001, la Comunità ha concluso con gli Stati Uniti un memorandum d’intesa che definisce gli strumenti atti a risolvere la controversia tra le parti. In tale prospettiva la Commissione delle Comunità europee, con regolamento (CE) 7 maggio 2001, n. 896, ha definito le modalità di applicazione del nuovo regime comunitario di importazione delle banane istituito dal regolamento n. 216/2001. Gli Stati Uniti hanno dunque sospeso l’applicazione della loro sovrattassa doganale con effetto al 30 giugno 2001.

7.        Con ricorsi depositati nella cancelleria del Tribunale rispettivamente il 23 marzo 2000 e il 18 giugno 2001, la FIAMM e la FEDON hanno chiesto, sulla base degli artt. 235 CE e 288, secondo comma, CE, il risarcimento del danno derivante dalla maggiorazione dei dazi all’importazione prelevati, dal 19 aprile 1999 al 30 giugno 2001, dalle autorità americane sui loro prodotti, in conformità dell’autorizzazione concessa dall’ORC a seguito della constatazione dell’incompatibilità con gli accordi OMC del regime comunitario di importazione delle banane.

B –    Sentenze impugnate

8.        A sostegno delle loro richieste di risarcimento del danno, le ricorrenti si erano essenzialmente basate sul comportamento illecito degli organi della Comunità. Esse avevano fatto valere che la circostanza che il Consiglio dell’Unione europea e la Commissione non avessero, entro il termine di quindici mesi impartito dall’ORC, conformato il regime comunitario di importazione delle banane agli obblighi incombenti alla Comunità in forza degli accordi OMC, malgrado che l’incompatibilità del detto regime con le norme dell’OMC fosse stata constatata dall’ORC, costituiva un atto illecito idoneo a far sorgere la responsabilità extracontrattuale della Comunità. Esse avevano precisato che se gli accordi OMC avessero dovuto essere considerati come incapaci di produrre effetto diretto, ciò che avrebbe costituito un ostacolo al profilarsi di tale illiceità, tale efficacia diretta avrebbe dovuto essere riconosciuta alla decisione dell’ORC che aveva condannato la Comunità.

9.        Pronunciandosi sul punto, il Tribunale ha anzitutto osservato che la verifica della legittimità del comportamento delle istituzioni comunitarie presuppone preliminarmente risolta la questione dell’invocabilità delle norme dell’OMC, vale a dire la questione «se gli accordi OMC conferiscano ai soggetti dell’ordinamento comunitario il diritto di farli valere in giudizio per contestare la validità di una normativa comunitaria nell’ipotesi in cui l’ORC abbia dichiarato che tanto quest’ultima quanto la normativa successiva adottata dalla Comunità, in particolare al fine di conformarsi alle norme dell’OMC in questione, erano incompatibili con queste norme» (5). A questo proposito il Tribunale ha ricordato la costante giurisprudenza secondo cui, in considerazione della loro natura e della loro economia generale, gli accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali il giudice comunitario controlla la legittimità dell’operato delle istituzioni comunitarie, e ne ha dedotto che l’eventuale violazione delle norme dell’OMC non può, di norma, far sorgere la responsabilità extracontrattuale della Comunità. Un’illegittimità di questo tipo può eccezionalmente essere addebitata alle istituzioni convenute soltanto in due casi. Il Tribunale ha statuito che tali ipotesi non sussistevano nel caso di specie: a suo giudizio, malgrado fosse intervenuta una constatazione di incompatibilità promanante dall’ORC, le norme dell’OMC, in assenza di obblighi particolari cui la Comunità avesse inteso dare esecuzione ovvero di un espresso rinvio a precise disposizioni degli accordi OMC, non costituivano norme alla luce delle quali fosse possibile valutare la legittimità del comportamento delle istituzioni.

10.      In primo luogo, infatti, la Comunità non ha inteso dare esecuzione ad un obbligo particolare assunto nell’ambito dell’OMC (6), impegnandosi, dopo l’adozione della decisione dell’ORC del 25 settembre 1997, a conformarsi alle norme dell’OMC. Secondo il Tribunale, tale conclusione deriva dal fatto che dall’Intesa per la risoluzione delle controversie (in prosieguo: l’«IRC») non scaturisce un obbligo particolare a carico del membro dell’OMC di conformarsi, entro un certo termine, alle decisioni dell’ORC. In ogni caso l’IRC, rendendo possibili per il membro dell’OMC coinvolto varie modalità di attuazione di una decisione dell’ORC che stabilisca l’incompatibilità di una misura con le norme dell’OMC, riserva un ruolo importante ai negoziati tra i membri dell’OMC parti di una controversia, anche dopo la scadenza del termine impartito per rendere la misura dichiarata incompatibile conforme alle norme dell’OMC. Ne consegue che un controllo da parte del giudice comunitario della liceità del comportamento delle istituzioni convenute alla luce delle norme dell’OMC avrebbe l’effetto di rendere più fragile la posizione degli organi legislativi ed esecutivi comunitari nella ricerca di una soluzione negoziata della controversia; inoltre, imporre ad esso giudice l’obbligo di disapplicare le norme comunitarie, in caso di palese incompatibilità, priverebbe gli organi suddetti della possibilità di trovare una soluzione concordata. Peraltro – rileva il Tribunale – attraverso le successive modifiche del regime comunitario di importazione delle banane il Consiglio e la Commissione non hanno, in realtà, inteso dare esecuzione ad un obbligo particolare derivante dalle norme dell’OMC alla luce delle quali l’ORC aveva accertato l’incompatibilità di tale regime; le dette istituzioni hanno cercato di conciliare il rispetto degli impegni sottoscritti dalla Comunità nell’ambito dell’OMC con gli obblighi assunti nei confronti degli altri firmatari della quarta Convenzione di Lomé, assicurando altresì la salvaguardia degli obiettivi dell’Organizzazione comune di mercato (OCM) nel settore delle banane (in prosieguo: l’«OCM banane»). E in definitiva, il contenzioso ha avuto termine grazie ad una soluzione negoziata con gli Stati Uniti.

11.      In secondo luogo, la normativa comunitaria relativa al regime di importazione delle banane non contiene, in alcuna delle sue successive modifiche, alcun espresso riferimento a precise disposizioni degli accordi OMC e non può dunque ritenersi che contenga un rinvio espresso a disposizioni siffatte, atto a conferire ai singoli il diritto di avvalersene (7).

12.      Il Tribunale ne ha concluso che le ricorrenti non possono utilmente sostenere, ai fini della loro domanda di risarcimento, che il comportamento contestato al Consiglio e alla Commissione sia contrario alle norme dell’OMC. Non potendo essere dimostrata l’illegittimità del detto comportamento, risulta mancante uno dei tre presupposti necessari per il sorgere della responsabilità extracontrattuale della Comunità per comportamento illecito dei propri organi.

13.      In via subordinata, le ricorrenti facevano valere che sussistevano comunque i presupposti per il nascere della responsabilità extracontrattuale della Comunità per i danni causati dal comportamento, ancorché non illecito, degli organi di quest’ultima, vale a dire l’effettiva esistenza del danno subito, un nesso di causalità tra il danno e il comportamento adottato dalle istituzioni, nonché il carattere anormale e speciale di tale danno. Il Tribunale concorda che «il fatto che (...) l’illiceità del comportamento imputato alle istituzioni comunitarie non sia accertata non comporta che le imprese le quali, in quanto categoria di operatori economici, devono sopportare una parte sproporzionata degli oneri derivanti da una restrizione dell’accesso a mercati d’esportazione non possano in alcun caso ottenere una compensazione facendo valere la responsabilità extracontrattuale della Comunità» (8). E riconosce l’esistenza, in quanto principio generale comune ai diritti degli Stati membri, di una responsabilità extracontrattuale della Comunità in assenza di comportamento illecito degli organi di quest’ultima, la quale si perfeziona subordinatamente al ricorrere dei presupposti indicati dalle ricorrenti, in quanto – osserva il giudice comunitario di primo grado – «i diritti nazionali della responsabilità extracontrattuale consentono ai singoli, anche se in misura variabile, in settori specifici e secondo modalità diverse, di ottenere in via giudiziale il risarcimento di taluni danni, anche in assenza di un’azione illecita dell’autore del danno» (9).

14.      Verificando la sussistenza di tali presupposti nel caso di specie, il Tribunale reputa dimostrato il carattere effettivo e certo del danno asserito dalle ricorrenti. Il detto giudice constata altresì l’esistenza di un nesso sufficientemente diretto di causa ed effetto tra il comportamento delle istituzioni comunitarie ed il danno. Vero è che gli Stati Uniti sono semplicemente stati autorizzati dall’ORC ad adottare misure di ritorsione, e che tanto l’istituzione dell’elenco dei prodotti gravati quanto la fissazione dell’aliquota di maggiorazione dei dazi all’importazione rientravano nella loro scelta discrezionale. Ciò non toglie che, senza la previa constatazione da parte dell’ORC dell’incompatibilità del regime comunitario di importazione delle banane con le norme dell’OMC, gli Stati Uniti non avrebbero potuto né sollecitare né ottenere dall’ORC un’autorizzazione di questo tipo. È infatti basandosi sull’importo del danno subito dall’economia americana a motivo del mantenimento in vigore del regime comunitario di importazione delle banane giudicato incompatibile con le norme dell’OMC che l’ORC ha stabilito l’ammontare degli scambi fino a concorrenza del quale l’amministrazione americana era autorizzata a sospendere le proprie concessioni tariffarie nei confronti della Comunità. Ne consegue che il comportamento delle istituzioni convenute ha necessariamente indotto l’adozione della misura di ritorsione da parte dell’amministrazione americana nel rispetto delle procedure istituite dall’IRC e accettate dalla Comunità. Tale comportamento deve dunque essere considerato come la causa determinante del danno subito dalle ricorrenti a seguito dell’introduzione della sovrattassa doganale americana.

15.      Alle ricorrenti restava da dimostrare l’anormalità e la specialità del danno da esse subito. Esse sostenevano a tal fine di essere vittime di una discriminazione rispetto alle altre imprese europee esportatrici i cui prodotti non figuravano nell’elenco stabilito dalle autorità americane e, per quanto riguarda la FIAMM, di essere altresì vittima di una discriminazione rispetto alle altre imprese colpite dalla sovrattassa doganale, in quanto essa si trovava a sopportare da sola il 6% dell’importo complessivo delle misure di ritorsione. Inoltre, l’interesse al mantenimento delle norme dell’OCM banane non poteva essere considerato come un obiettivo di interesse generale di importanza tale da giustificare siffatte conseguenze negative. Le ricorrenti aggiungevano infine che l’eventualità di sovrattasse introdotte da Stati terzi a motivo di un contenzioso insorto in un settore completamente differente dal loro ambito di attività non poteva essere considerata come un rischio normale per un operatore. Il Tribunale ha però rifiutato di riconoscere al danno subito dalle ricorrenti un carattere anormale in quanto esso non ha ecceduto i limiti dei rischi economici inerenti alla loro attività di esportazione. Infatti, la sospensione delle concessioni tariffarie, che è una misura prevista dagli accordi OMC, non può essere considerata estranea alla normale alea del commercio internazionale, allo stato attuale della sua organizzazione. Tale eventualità deve dunque essere necessariamente sopportata da qualsiasi operatore che decida di immettere la sua produzione sul mercato di uno dei membri dell’OMC. Deve dunque escludersi nella fattispecie qualsiasi diritto a risarcimento a titolo di responsabilità senza colpa.

II – Analisi delle impugnazioni proposte

16.      Contro la sentenza Fiamm e la sentenza Fedon, pronunciate il 14 dicembre 2005, sono dirette le impugnazioni rispettivamente proposte dinanzi alla Corte dalla FIAMM e dalla FEDON. A sostegno dei loro ricorsi, le ricorrenti deducono identici motivi di impugnazione. Esse deducono anzitutto un difetto di motivazione, relativo al fatto che le sentenze impugnate non si pronuncerebbero su uno degli argomenti da esse addotti in via principale riguardo all’invocabilità della decisione adottata dall’ORC per dimostrare, ai fini dell’azione di risarcimento, l’illiceità del comportamento tenuto dalla Comunità. Esse deducono altresì un errore di diritto che vizierebbe l’iter logico seguito dal Tribunale per giungere alla conclusione dell’assenza di carattere anormale del danno. Esse reclamano infine un equo indennizzo per la durata irragionevole del procedimento di primo grado. Occorre altresì notare come il Consiglio e il Regno di Spagna, che concludono per il rigetto delle impugnazioni principali, abbiano altresì proposto impugnazioni incidentali con le quali chiedono l’annullamento delle sentenze impugnate, per il fatto che il Tribunale avrebbe erroneamente sancito l’esistenza di una responsabilità della Comunità per atto lecito, avrebbe statuito che questa poteva trovare applicazione in un caso di omesso esercizio di un potere normativo di natura discrezionale e avrebbe riconosciuto un nesso di causalità diretto tra il comportamento delle istituzioni e il danno.

17.      L’esame della fondatezza di tali differenti motivi ci porterà anzitutto a verificare se e a quali condizioni una decisione dell’ORC che constata l’incompatibilità della normativa comunitaria con le norme dell’OMC possa essere invocata nell’ambito di un’azione per responsabilità extracontrattuale della Comunità fondata sull’illiceità del comportamento delle istituzioni di quest’ultima. Passeremo poi a esaminare il principio e i presupposti di una responsabilità senza colpa della Comunità. Valuteremo infine il carattere ragionevole della durata del procedimento in questione dinanzi al Tribunale di primo grado.

A –    Invocabilità di una decisione dell’ORC a sostegno di un’azione per responsabilità extracontrattuale della Comunità per fatto illecito

18.      Con il loro primo motivo, le due ricorrenti deducono formalmente un difetto di motivazione delle sentenze impugnate, in quanto il Tribunale non si sarebbe pronunciato sui loro argomenti intesi a dimostrare che una decisione dell’ORC di condanna della Comunità costituisce un’eccezione alla regola della non invocabilità in linea di principio degli accordi OMC diversa da quelle di cui alle cause Nakajima e Fediol, la quale consente agli interessati di avvalersi di tali accordi per dimostrare, ai fini del riconoscimento della responsabilità della Comunità, l’illiceità del comportamento di quest’ultima. Il Tribunale si sarebbe limitato a verificare l’applicabilità nel caso di specie delle due eccezioni al principio della mancanza di effetto diretto degli accordi OMC elaborate nelle sentenze Fediol e Nakajima.

19.      Tale motivo potrebbe essere agevolmente respinto per il fatto che la tesi suddetta, lungi dall’aver costituito la parte essenziale dell’argomentazione delle ricorrenti in merito all’illiceità del comportamento della Comunità, è stata evocata in via del tutto incidentale dinanzi al Tribunale, in una nota a piè di pagina del ricorso introduttivo della FEDON e unicamente in due dei 177 punti che compongono il ricorso introduttivo della FIAMM. Orbene, «l’obbligo per il Tribunale di motivare le proprie decisioni non può essere interpretato nel senso che quest’ultimo sia tenuto a replicare in dettaglio a tutti gli argomenti invocati da una parte» (10), né che il detto giudice sia tenuto a «fornire una spiegazione che segua esaustivamente e uno per uno tutti i ragionamenti svolti dalle parti della controversia» (11). Al di là di ciò, il Tribunale ha implicitamente respinto la tesi delle ricorrenti, in quanto ha valutato l’eventuale incidenza di una decisione dell’ORC unicamente in rapporto all’applicabilità delle due tradizionali eccezioni al principio della mancanza di effetto diretto delle norme dell’OMC (12).

20.      Tuttavia le ricorrenti, dietro il paravento di un vizio formale di insufficienza di motivazione, contestano in realtà la fondatezza stessa di tale ragionamento del Tribunale, secondo il quale l’incidenza di una decisione di condanna emessa dall’ORC può essere esaminata e valutata soltanto nell’ambito del controllo della sussistenza dei presupposti di applicazione delle due tradizionali eccezioni al principio della non invocabilità delle norme dell’OMC. Secondo le società impugnanti, al di fuori delle eccezioni sancite dalla giurisprudenza Fediol e Nakajima, una decisione dell’ORC che abbia constatato l’incompatibilità del diritto comunitario con le norme dell’OMC dovrebbe poter essere invocata al fine di dimostrare l’illiceità del comportamento della Comunità qualora risultino cumulativamente presenti le seguenti circostanze: l’illiceità consista nella mancata esecuzione, da parte della Comunità, della detta decisione dell’ORC entro il termine ragionevole impartito per conformarvisi; l’illiceità venga invocata nell’ambito di un’azione per responsabilità extracontrattuale; tale ricorso per risarcimento danni miri a ottenere la riparazione del pregiudizio subito a motivo dell’adozione, da parte di partner commerciali della Comunità, di misure di ritorsione autorizzate dall’ORC in conseguenza alla suddetta mancata esecuzione.

21.      Al fine di valutare la pertinenza degli argomenti addotti dalle ricorrenti in ordine a tale punto, mi sembra indispensabile riprendere in esame la giurisprudenza della Corte riguardante l’invocabilità degli accordi internazionali in generale e delle norme dell’OMC nel caso specifico. Soltanto ricordando la portata e le motivazioni che sorreggono tale giurisprudenza sarà possibile stabilire se occorra farne applicazione nel caso in esame, negando alle ricorrenti, ai fini del ricorso per risarcimento e nelle specifiche circostanze delle presenti fattispecie, la possibilità di avvalersi della decisione dell’ORC di condanna della Comunità.

1.      La giurisprudenza della Corte relativa all’invocabilità degli accordi internazionali

22.      La giurisprudenza comunitaria in merito all’azionabilità in sede contenziosa delle norme dell’OMC è stata ed è oggetto di vivaci critiche. Le contestazioni provengono, mi sembra, almeno in parte dal fatto che tale giurisprudenza viene spesso fraintesa. Forse l’illustrazione qui di seguito delle soluzioni da essa sviluppate consentirà di dissipare taluni malintesi.

23.      Tali soluzioni altro non sono che l’applicazione al caso particolare degli accordi OMC dei principi elaborati dalla Corte riguardo all’invocabilità nell’ordinamento giuridico comunitario degli accordi internazionali in generale. Ricordo anzitutto che gli accordi regolarmente stipulati dalla Comunità con Stati terzi o con organizzazioni internazionali «sono vincolanti per le istituzioni della Comunità e per gli Stati membri», secondo il tenore letterale stesso dell’art. 300, n. 7, CE. Tale formulazione rappresenta al tempo stesso un richiamo dell’efficacia obbligatoria dell’accordo alla luce del diritto internazionale e l’enunciazione della forza vincolante di tali accordi nel diritto comunitario. La Corte ne ha logicamente dedotto che le clausole di un accordo siffatto (13), al pari di quelle degli atti unilaterali adottati dagli organi istituiti da un accordo esterno vincolante per la Comunità (14), «formano, dal momento della sua entrata in vigore, parte integrante dell’ordinamento giuridico comunitario». In altri termini, gli accordi esterni adottati in conformità del diritto comunitario (15), e dunque vincolanti per le Comunità, costituiscono una fonte del diritto comunitario. La Corte ne ha espressamente dedotto il loro primato sugli atti di diritto derivato (16) ed il riconoscimento della propria competenza in linea di principio a conoscere della questione relativa alla validità di un atto comunitario alla luce di un accordo esterno vincolante per le Comunità (17).

24.      Può dunque sembrare contraddittoria la costante giurisprudenza relativa alle norme dell’OMC, secondo la quale «gli accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la Corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie» (18). Come può infatti un accordo internazionale costituire una norma dell’ordinamento giuridico comunitario e, al tempo stesso, non essere un parametro per la verifica della legittimità degli atti comunitari?

a)      Il presupposto stabilito per l’invocabilità degli accordi internazionali

25.      Invero, per poter servire quale norma di riferimento alla cui luce valutare la legittimità di un atto comunitario e, più in generale, perché l’applicazione delle clausole di un trattato possa essere utilmente invocata dinanzi al giudice, occorre anche che l’accordo internazionale sia suscettibile di applicazione giurisdizionale. In altri termini, è altresì necessario che la norma dell’accordo in questione sia giudizialmente azionabile, vale a dire «[idonea ad] attribuire ai soggetti dell’ordinamento comunitario il diritto di farla valere in giudizio» (19) o, in altri termini ancora, che sia dotata di «effetto diretto» (20).

26.      Si era potuto pensare che tale presupposto dell’effetto diretto fosse collegato, e limitato, al procedimento pregiudiziale per giudizio di validità nel cui ambito esso era stato inizialmente enunciato. Nella citata sentenza International Fruit Company, la Corte aveva espressamente affermato la necessità del presupposto dell’effetto diretto «qualora tale motivo d’invalidità sia addotto dinanzi al giudice nazionale» (21). Tale formulazione non ha mancato di contribuire ad una certa confusione tra la questione dell’invocabilità degli accordi internazionali e quella dell’effetto diretto del diritto comunitario (22), spiegando così senza dubbio alcuni dei malintesi. Nondimeno, le nozioni di effetto diretto degli accordi internazionali e di effetto diretto del diritto comunitario divergono tra loro.

i)      La nozione di effetto diretto di un accordo internazionale

27.      Le due nozioni di effetto diretto degli accordi internazionali e di effetto diretto del diritto comunitario vengono valutate diversamente. È noto come dalla finalità e dall’economia generale del Trattato istitutivo della Comunità risulti che il diritto comunitario nel suo insieme possiede un’attitudine a produrre un effetto diretto, la quale risulta confermata allorché la norma comunitaria in questione è chiara, precisa e incondizionata (23). Nulla di tutto ciò per gli accordi internazionali che vincolano le Comunità. Essi possono vedersi attribuito un effetto diretto dalle parti firmatarie dell’accordo che abbiano convenuto in tal senso, così come queste possono anche stabilire il contrario. Infatti, «in conformità ai principi del diritto internazionale, le istituzioni comunitarie, che sono competenti a negoziare e concludere un accordo con paesi terzi, sono libere di convenire con questi degli effetti che le disposizioni dell’accordo devono produrre nell’ordinamento interno delle parti contraenti» (24). Se l’accordo non disciplina esplicitamente tale questione, spetta al giudice competente di ciascuna parte contraente risolverla (25). Risulta dunque dalla giurisprudenza della Corte che un accordo internazionale ha effetto diretto nell’ordinamento giuridico comunitario soltanto alla duplice condizione che il tenore letterale, la natura e l’economia generale dell’accordo stesso non si oppongano alla sua invocabilità e che le clausole fatte valere appaiano, alla luce tanto dell’oggetto e della finalità dell’accordo quanto del suo contesto, sufficientemente precise e incondizionate, vale a dire comportino un obbligo chiaro e preciso non subordinato, nella sua esecuzione o nei suoi effetti, all’intervento di un atto successivo (26).

ii)    La portata del presupposto dell’effetto diretto degli accordi internazionali

28.      Le due nozioni differiscono anche per la loro portata. Risulta infatti dalla sentenza Germania/Consiglio (27) che l’effetto diretto di un accordo internazionale condiziona non soltanto la possibilità di invocare tale accordo dinanzi al giudice nazionale, ma anche quella di farlo valere davanti al giudice comunitario, vale a dire che tale condizione si applica indipendentemente dalla natura del ricorso a sostegno del quale viene dedotto un motivo relativo alla violazione di un accordo internazionale. Risulta inoltre dalla detta sentenza che tale condizione vale a prescindere dalla qualità del ricorrente, senza riguardo al fatto che questi sia un singolo oppure un ricorrente privilegiato.

29.      Per tale motivo, in relazione agli accordi OMC, il giudice comunitario ne ha negato l’invocabilità tanto nell’ambito di un rinvio pregiudiziale per giudizio di validità (28) quanto nel contesto di un ricorso di annullamento (29) o di un ricorso per risarcimento danni (30). Il detto giudice ha rifiutato di esaminare il motivo relativo alla violazione delle norme dell’OMC, tanto che venisse sollevato da un singolo quanto da uno Stato membro.

30.      Pur essendo stata spesso criticata da una parte della dottrina, l’attribuzione di tale portata all’effetto diretto degli accordi internazionali è pienamente giustificata. In quanto custode dell’ordinamento giuridico comunitario, la Corte deve, nel caso in cui venga invocata una norma scaturente dall’ordinamento giuridico internazionale, definire gli effetti di quest’ultima in modo globale e uniforme, valido per l’intero ordinamento giuridico comunitario. Si capisce allora facilmente che il presupposto dell’effetto diretto di un accordo internazionale sia richiesto quali che siano il tipo di ricorso e la qualità del ricorrente, tanto che la controversia sia stata portata dinanzi al giudice nazionale quanto che sia giunta davanti al giudice comunitario (31).

31.      Pertanto, atteso che il presupposto dell’effetto diretto degli accordi internazionali e quello dell’effetto diretto del diritto comunitario si distinguono nettamente, tanto sotto il profilo concettuale quanto per il loro ambito applicativo, sarebbe senz’altro ragionevole in futuro, al fine di evitare qualsiasi indebita confusione, usare termini differenti per designarli e continuare a parlare soltanto di invocabilità degli accordi internazionali.

iii) L’invocabilità delle norme dell’OMC

32.      Applicando tale schema di valutazione al GATT, la Corte aveva statuito che la grande flessibilità di tale accordo e il principio di negoziati da condursi su una base di reciprocità e di mutui vantaggi ad esso sotteso costituivano un ostacolo alla sua invocabilità (32). Detto altrimenti, dallo spirito, dall’economia generale e dalla formulazione dell’Accordo non risultava un obbligo di riconoscere un effetto diretto alle sue disposizioni (33). È noto che la Corte è giunta alla medesima conclusione relativamente agli accordi OMC (34), malgrado qualcuno pensasse che la soluzione dovesse essere diversa, dato il meccanismo rafforzato di risoluzione delle controversie che tali accordi hanno istituito. Al fine di negare un effetto diretto alle norme dell’OMC globalmente considerate, la Corte si è basata sulle due seguenti considerazioni.

33.      In primo luogo, malgrado la giurisdizionalizzazione del sistema di risoluzione delle controversie, l’accordo lascia ancora un ampio spazio al negoziato tra le parti, anche in caso di mancata esecuzione, da parte del membro interessato, delle decisioni e raccomandazioni dell’ORC. Di conseguenza, imporre agli organi giurisdizionali l’obbligo di escludere l’applicazione delle norme interne incompatibili con le clausole dell’accordo priverebbe gli organi comunitari di tale possibilità di soluzioni negoziate.

34.      In secondo luogo, alcuni partner commerciali della Comunità rifiutano qualsiasi invocabilità agli accordi OMC. Occorre lasciare la stessa libertà agli organi legislativi ed esecutivi della Comunità, a pena di creare uno squilibrio nell’applicazione delle norme dell’OMC, tenuto conto che gli accordi suddetti si caratterizzano per essere fondati su un principio di reciprocità e di mutui vantaggi.

35.      Insomma, risulta da tali considerazioni che gli accordi OMC devono essere interpretati nel senso che lasciano un margine di libertà politica alle istituzioni comunitarie nell’ambito dell’OMC, margine che il riconoscimento di un effetto diretto agli accordi stessi sarebbe idoneo a compromettere. E la Corte ritiene di non potere, in tale settore, interferire nelle prerogative della politica senza pregiudicare l’equilibrio istituzionale.

36.      La congruità di tale argomentazione è stata, come è noto, intensamente dibattuta in dottrina (35) e talvolta contestata dagli avvocati generali (36). Essa è parsa in contraddizione con precedenti ragionamenti sviluppati dalla Corte riguardo all’effetto diretto di questo o quell’accordo internazionale (37). La soluzione scaturitane di mancanza di effetto diretto delle norme dell’OMC è stata nondimeno da allora ribadita dalla giurisprudenza con costanza incrollabile.

37.      Ma il fatto che le norme dell’OMC non siano giudizialmente azionabili non significa che esse non facciano parte dell’ordinamento giuridico comunitario. Da tale punto di vista, la formulazione impiegata dalla Corte nella citata sentenza Portogallo/Consiglio è senza dubbio infelice. Essa lascia credere che un accordo internazionale non faccia parte del sistema delle fonti del diritto comunitario, quando invece si tratta unicamente di una questione di giustiziabilità delle norme suddette, di competenza del giudice a conoscerne. Ma ciò è del resto quanto la Corte ha in verità inteso dire, seppur maldestramente. Essa rifiuta infatti di collocare gli accordi OMC tra le norme alla luce delle quali verifica la legittimità degli atti comunitari, in quanto, considerate le caratteristiche delle norme dell’OMC, non si può «ammettere che il compito di assicurare la conformità del diritto comunitario a tali norme incomb[a] direttamente al giudice comunitario» (38). Bisogna dunque intendere tale giurisprudenza non nel senso che neghi la qualità di fonte del diritto comunitario alle norme dell’OMC, bensì come incidente sulla loro portata in sede contenziosa. Come spiegare altrimenti che la privazione di portata contenziosa sia soltanto parziale? Infatti, l’impossibilità di invocare utilmente le norme dell’OMC dinanzi alla Corte di giustizia viene affermata unicamente nella misura in cui la loro applicazione giurisdizionale pregiudicherebbe la libertà politica delle istituzioni comunitarie nel quadro dell’OMC.

b)      I temperamenti al principio di non invocabilità delle norme dell’OMC

38.      La giurisprudenza comunitaria ha elaborato un certo numero di temperamenti al principio della non invocabilità delle norme dell’OMC, i quali risultano possibili soltanto per il fatto che queste ultime fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario. E sono proprio le stesse considerazioni che giustificano il diniego, in linea di principio, dell’invocabilità delle norme dell’OMC a fornire il fondamento per tali temperamenti. Questi sono di tre tipi.

39.      In primo luogo, gli atti comunitari (39), al pari delle misure nazionali (40), devono costituire l’oggetto di un’interpretazione conforme alle norme dell’OMC. Tale obbligo non è infatti idoneo a pregiudicare le possibilità di negoziazione delle istituzioni in caso di controversia con i loro partner dell’OMC. Ciò è evidente quando tale obbligo riguarda il diritto nazionale. Ed è altrettanto vero quando si applica agli atti comunitari. L’interpretazione conforme è infatti necessaria soltanto nella misura ed entro i limiti del possibile. Risulta così aperta la possibilità per le istituzioni di preferire, mediante l’adozione o il mantenimento di un atto chiaramente contrario alle norme dell’OMC, la strada di una soluzione negoziata.

40.      In secondo luogo, gli accordi possono altresì servire quale base per la condanna di uno Stato membro per inadempimento (41). Anche tale soluzione si comprende agevolmente. La mancanza di un atto comunitario contrario alle norme dell’OMC rivela la volontà delle istituzioni di conformarsi a tali norme. Pertanto, uno Stato membro non può sottrarsi unilateralmente agli obblighi che ne discendono. E la sua condanna non ipoteca in alcun modo la possibilità per le istituzioni di discostarsi in futuro dalla norma dell’OMC, fondamento della condanna al prezzo di una soluzione negoziata.

41.      In ultimo luogo, il motivo relativo alla violazione delle norme dell’OMC è ricevibile – anche quando venga dedotto per contestare la legittimità di un atto comunitario – in due casi (42): nel caso in cui la Comunità abbia inteso dare esecuzione ad un obbligo particolare assunto nell’ambito dell’OMC (43), nonché nell’eventualità in cui l’atto comunitario, rinviando espressamente a precise disposizioni degli accordi OMC, abbia conferito ai singoli il diritto di farle valere (44). Infatti, posto che gli accordi OMC non obbligano le parti firmatarie – né espressamente, né alla luce di un’interpretazione conforme al loro oggetto e al loro obiettivo – a riconoscere ad essi un effetto diretto negli ordinamenti giuridici delle parti stesse, spetta a ciascuna di queste stabilire liberamente i mezzi giuridici idonei a garantire la leale e corretta esecuzione di tali accordi nel proprio ordinamento giuridico (45), vale a dire decidere se essa intende conferire ai singoli il diritto di avvalersi delle clausole degli accordi in questione. I due casi sopra menzionati costituiscono l’espressione di una volontà in tal senso della Comunità. In tal modo, essa fa sapere che intende conformarsi alle norme dell’OMC, privandosi così volontariamente del margine di manovra nell’applicazione delle medesime del quale godono alcune delle parti contraenti che negano qualsiasi effetto diretto a tali norme.

2.      L’incidenza di una decisione dell’ORC di condanna della Comunità

42.      È all’interno di tale cornice tracciata dalla giurisprudenza che si colloca l’argomentazione delle ricorrenti. Esse invitano la Corte a stabilire se e in quale misura una decisione l’ORC che constata l’incompatibilità di una normativa comunitaria con una clausola degli accordi OMC sia idonea ad incrinare il principio della non invocabilità di questi ultimi con conseguente esclusione di qualsiasi controllo della compatibilità del diritto comunitario derivato rispetto a tali accordi. A tal fine, le ricorrenti insistono sul carattere vincolante della decisione dell’ORC per sostenere che esse debbono poterla invocare e dolersi della sua mancata esecuzione, malgrado che gli accordi OMC non siano di per sé invocabili. Così prospettata, la tesi è indiscutibilmente maldestra. Come giustamente obiettato dal Consiglio, una decisione dell’ORC non può produrre effetti più ampi di quelli delle norme dell’OMC delle quali essa abbia constatato la violazione. Pertanto, la questione alla quale la Corte è invitata a rispondere consiste più esattamente nel stabilire se – per riprendere i termini utilizzati dal Tribunale nelle sentenze impugnate – «gli accordi OMC conferiscano ai soggetti dell’ordinamento comunitario il diritto di farli valere in giudizio per contestare la validità di una normativa comunitaria nell’ipotesi in cui l’ORC abbia dichiarato che tanto quest’ultima quanto la normativa successiva adottata dalla Comunità, in particolare al fine di conformarsi alle norme dell’OMC in questione, erano incompatibili con queste norme» (46).

43.      Le società ricorrenti addebitano al Tribunale di aver risposto, nelle sentenze impugnate, in senso negativo. Tuttavia, statuendo in tal modo, il giudice di primo grado si è limitato a seguire l’orientamento giurisprudenziale precedente. La Corte aveva infatti già lasciato intendere che non può esservi invocabilità di una decisione dell’ORC indipendentemente dall’invocabilità delle norme dell’OMC (47). Vero è che la questione se una decisione di condanna della Comunità emessa dall’ORC possa incrinare il principio della non invocabilità delle norme dell’OMC era rimasta in sospeso. Ed è altrettanto vero che sul punto la Corte era apparsa in un primo momento offrire uno spiraglio, in quanto aveva censurato il Tribunale per aver lasciato senza risposta un argomento secondo cui gli effetti giuridici di una decisione dell’ORC nei confronti della Comunità europea «erano tali da rimettere in discussione la sua valutazione relativa alla mancanza di effetti diretti delle norme dell’OMC e da giustificare l’esercizio da parte del giudice comunitario del controllo della legittimità delle direttive (...) alla luce di tali norme, nell’ambito dell’azione di risarcimento proposta dalla ricorrente» (48). Ma lo spiraglio è stato presto richiuso, avendo il giudice comunitario statuito che l’incompatibilità di un atto comunitario con le norme dell’OMC, quand’anche constatata da una decisione dell’ORC, poteva essere evocata nell’ambito di un rinvio pregiudiziale per giudizio di validità (49) o a sostegno di un ricorso per risarcimento danni (50), malgrado l’assenza di effetto diretto delle norme dell’OMC, unicamente entro i rigorosi confini tracciati dalle sentenze Nakajima e Fediol.

44.      La FIAMM e la FEDON non ignorano tale giurisprudenza. Esse insistono tuttavia sulle particolarità del loro caso rispetto alle fattispecie precedenti al fine di rivendicare una soluzione differente. In tale ottica, esse fanno valere che la Corte è chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di invocare una decisione dell’ORC dopo la scadenza del termine ragionevole previsto per conformarvisi al fine di ottenere il risarcimento di danni effettivamente subiti a seguito di misure di ritorsione. Si tratterebbe dunque di una fattispecie inedita, considerato che la sentenza Van Parys ha affrontato la questione dell’invocabilità di una decisione dell’ORC al fine di valutare, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale, la validità di un atto comunitario; inedita altresì per il fatto che anche nella citata causa Chiquita Brands e a. veniva in questione una domanda di risarcimento del danno subito a motivo di una violazione di norme dell’OMC perdurante malgrado la decisione dell’ORC che la constatava, ma la ricorrente si era limitata a reclamare l’applicazione dell’eccezione Nakajima.

45.      La valutazione della fondatezza dell’argomentazione delle ricorrenti impone di ritornare alle basi del principio stesso della non invocabilità delle norme dell’OMC. Mi permetto di ricordare ancora che è stata esclusa in linea di principio qualsiasi possibilità di invocare gli accordi OMC, in considerazione della loro natura e della loro economia generale, e che un’applicazione in sede contenziosa delle norme dell’OMC può aver luogo soltanto nella misura in cui ciò non pregiudichi né le possibilità di negoziazione concesse dagli accordi OMC alle parti firmatarie anche in caso di controversia, né la reciprocità e l’equilibrio nell’applicazione degli impegni assunti nell’ambito dell’OMC; vale a dire, insomma, nella misura in cui ciò non limiti la libertà politica che la natura e l’economia generale degli accordi OMC concedono alle parti contraenti riguardo all’applicazione delle clausole di questi ultimi. Occorre dunque stabilire se, nel particolare contesto delle presenti cause, la libertà politica degli organi legislativi ed esecutivi comunitari nell’ambito dell’OMC subirebbe pregiudizio qualora venisse riconosciuta alle ricorrenti la possibilità di far valere la decisione dell’ORC per dimostrare l’illiceità del comportamento della Comunità allo scopo di ottenere un risarcimento del danno subito per effetto della sovrattassa doganale applicata dagli Stati Uniti in ritorsione alla mancata esecuzione, da parte della Comunità, della detta decisione dell’ORC.

46.      In tale prospettiva, il primo quesito verte sul persistere di tale libertà politica nelle specifiche circostanze delle fattispecie in esame. La risposta sarebbe sicuramente positiva nel caso in cui il termine ragionevole per eseguire la decisione dell’ORC non fosse ancora scaduto. La Corte ha già precisato che «il giudice comunitario, salvo privare di effetto la concessione di un termine ragionevole per conformarsi alle raccomandazioni o alle decisioni del[l’ORC], previsto nell’ambito del sistema di regolamento delle controversie istituito dagli accordi OMC, non poteva svolgere un controllo di legittimità degli atti comunitari di cui trattasi, in particolare nell’ambito di un ricorso per risarcimento proposto ai sensi dell’art. 178 del Trattato» (51). In particolare però, come giustamente sottolineato dalla FIAMM e dalla FEDON, il termine ragionevole che era stato accordato alla Comunità per conformarsi alla decisione dell’ORC era venuto a scadenza il 1° gennaio 1999 e, con la decisione del 19 aprile 1999, l’ORC aveva constatato che a tale data del 1° gennaio l’incompatibilità della normativa comunitaria con le norme dell’OMC persisteva. Pertanto – sostengono le ricorrenti – a partire dal momento in cui nessuna compensazione soddisfacente era stata concordata nei venti giorni successivi alla data di scadenza del termine ragionevole, così come ne è data facoltà dall’art. 22, n. 2, dell’IRC, la Comunità non poteva più ricorrere a soluzioni negoziate. Essa non aveva altra scelta che conformarsi alla decisione dell’ORC oppure esporsi a misure di ritorsione rifiutandosi di provvedere in tal senso. La discussione verte in definitiva, come è evidente, sulla forza vincolante della decisione dell’ORC. Vale a dire: l’IRC impone l’attuazione integrale delle decisioni e raccomandazioni dell’ORC?

47.      Per essere molto chiari, non condivido la valutazione delle ricorrenti in ordine a tale punto (52). Certo, l’art. 22, n. 1, dell’IRC privilegia l’attuazione integrale di una raccomandazione volta alla messa in conformità di una misura con gli accordi OMC e l’IRC, ai sensi del suo art. 3, n. 7, si propone di norma quale obiettivo primario, in assenza di una soluzione reciprocamente concordata tra le parti e compatibile con gli accordi contemplati, il ritiro delle misure di cui sia stata constatata l’incompatibilità. Ma non si può per questo concluderne che – per riprendere la formula giurisprudenziale (53) – l’IRC stabilisca i mezzi idonei a provvedere all’adempimento in buona fede, nell’ordinamento giuridico interno delle parti contraenti, della decisione dell’ORC e, dunque, delle norme dell’OMC delle quali tale decisione ha constatato la violazione. La Comunità conserva la libertà di fare la scelta politica di esporsi in un primo momento a misure di ritorsione eventualmente autorizzate dall’ORC sulla base dell’art. 22, n. 2, dell’IRC. Inoltre, come la Corte ha già rilevato (54) e il Tribunale ha ricordato nelle sentenze impugnate (55), anche dopo la scadenza del termine impartito per rendere conforme la misura dichiarata incompatibile con le norme dell’OMC ed anche dopo l’autorizzazione e l’adozione di misure di ritorsione, un posto importante resta comunque riservato al negoziato tra le parti della controversia. L’art. 22, n. 8, dell’IRC sottolinea infatti il carattere temporaneo della sospensione di concessioni e ne limita la durata «finché non viene abolita la misura giudicata incompatibile con un accordo contemplato o finché il membro che deve applicare le raccomandazioni o le decisioni non trova una soluzione all’annullamento o al pregiudizio dei benefici, o finché non si trova una soluzione reciprocamente soddisfacente», con l’unica condizione, enunciata dall’art. 3, n. 5, della medesima IRC, che tale soluzione sia compatibile con gli accordi OMC. Del resto, con le successive modifiche del regime comunitario di importazione delle banane, del quale era stata constatata l’incompatibilità con le norme dell’OMC, il Consiglio e la Commissione non hanno cercato di eliminare le disposizioni giudicate contrarie; essi si sono sforzati, al tempo stesso, di tener conto delle constatazioni dell’ORC, di rispettare gli impegni assunti dinanzi agli altri firmatari della quarta Convenzione di Lomé e di salvaguardare gli obiettivi dell’OCM banane; e la controversia è stata infine risolta mediante la conclusione, in data 19 aprile 2001, di un accordo con gli Stati Uniti. Si potrebbe invero obiettare che l’applicazione delle raccomandazioni e decisioni dell’ORC non può essere aggirata e che una simile soluzione negoziata costituisce ancora una forma di esecuzione della decisione dell’ORC (56). Tuttavia, indipendentemente dal fatto che si consideri la persistente possibilità di una soluzione negoziata della controversia come una libertà limitata alla scelta delle modalità di esecuzione delle decisioni dell’ORC oppure come la libertà di privilegiare un’alternativa all’esecuzione di tali decisioni, sempre di libertà si tratta.

48.      Viene dunque da chiedersi: la possibilità di invocare, ai fini dell’insorgere della responsabilità della Comunità per fatto illecito, le norme dell’OMC la cui violazione sia stata constatata dalla decisione dell’ORC sarebbe idonea a rendere più fragile la libertà politica di cui la Comunità stessa comunque dispone nel contesto giuridico‑normativo dell’OMC? In altri termini: la constatazione da parte del giudice comunitario, nell’ambito di un ricorso per risarcimento danni, dell’illiceità del comportamento della Comunità, quale sarebbe resa possibile dal riconoscimento della detta invocabilità, avrebbe l’effetto di limitare tale libertà politica? Le ricorrenti censurano il Tribunale per aver risolto in senso affermativo tale questione (57). Esse fanno valere che la constatazione dell’illiceità non mira ad ottenere – come nell’ambito di un rinvio pregiudiziale per giudizio di validità, quale quello della causa Van Parys, o nell’ambito di un ricorso per annullamento – che la misura comunitaria contraria alle norme dell’OMC venga dichiarata invalida o annullata; decisione giurisdizionale questa che sarebbe senza dubbio idonea a pregiudicare la possibilità per gli organi legislativi ed esecutivi della Comunità di ricercare una soluzione negoziata, in quanto obbligherebbe le istituzioni a cancellare dall’ordinamento giuridico dell’Unione la misura dichiarata invalida o annullata. La declaratoria di illegittimità mirerebbe nel caso di specie unicamente a soddisfare uno dei tre presupposti cui è subordinata la responsabilità extracontrattuale della Comunità per fatto illecito, e non avrebbe alcuna incidenza sull’efficacia della misura comunitaria giudicata incompatibile con gli accordi OMC.

49.      Anche in tal caso la tesi delle ricorrenti non mi convince. Indubbiamente l’illegittimità, messa in evidenza dal giudice comunitario nell’ambito di un ricorso per risarcimento, della normativa comunitaria la cui incompatibilità con le norme dell’OMC sia stata constatata dall’ORC non conduce formalmente né al suo annullamento né alla sua invalidazione. La detta normativa rimane dunque parte integrante dell’ordinamento giuridico e continua in teoria ad essere applicabile. La constatazione dell’illegittimità effettuata dal giudice comunitario ha nondimeno autorità di giudicato. Pertanto, gli organi politici della Comunità non possono lasciar perdurare tale illegittimità, a pena di violare il principio di una comunità di diritto. Sarebbe loro obbligo eliminare tale illegittimità procedendo all’abrogazione o al ritiro della normativa in questione. Pertanto, diverrebbe per essi impossibile ricercare – così come hanno fatto nel caso di specie attraverso le ultime modifiche normative del regime comunitario di importazione delle banane – una soluzione negoziata che consenta loro di equilibrare al meglio i diversi interessi in gioco. Verrebbe dunque messo incontestabilmente in discussione il loro margine di manovra politico.

50.      Inoltre, il riconoscimento di una responsabilità per fatto illecito della Comunità offrirebbe la possibilità a tutte le imprese colpite proprio dalla misura comunitaria incompatibile con le norme dell’OMC oppure da misure di ritorsione di ottenere, su ricorso, il risarcimento di tutti i danni da esse subiti. Anche la prospettiva di un simile onere finanziario sarebbe idonea a costringere gli organi politici della Comunità ad eliminare la misura comunitaria giudicata incompatibile con le norme dell’OMC e dunque a restringere la libertà di comportamento ad essi consentita nell’ambito giuridico di tale organizzazione internazionale.

51.      Le ricorrenti obiettano infine che il riconoscimento della possibilità di invocare la decisione dell’ORC ai fini della riparazione del danno subito a causa delle misure di ritorsione adottate in seguito alla mancata esecuzione di tale decisione non avrebbe più alcuna incidenza sulla libertà politica degli organi della Comunità, in quanto nella fattispecie la domanda di risarcimento è stata presentata, nella causa Fedon, dopo la risoluzione della controversia commerciale o quanto meno, nella causa Fiamm, è stata esaminata in un momento successivo. Tuttavia, la consacrazione del principio di una responsabilità per comportamento illecito della Comunità, per non essersi questa conformata ad una decisione dell’ORC entro il termine ragionevole impartito, costituirebbe una spada di Damocle che peserebbe in futuro sulla libertà degli organi politici della Comunità in seno all’OMC.

52.      Risulta dalle considerazioni che precedono che occorre senz’altro convalidare il rifiuto del Tribunale di verificare nell’ambito dell’azione per risarcimento danni, al di fuori delle eccezioni Fediol e Nakajima, la legittimità del comportamento delle istituzioni convenute alla luce delle norme dell’OMC la cui violazione da parte della Comunità era stata constatata dall’ORC.

B –    La responsabilità senza colpa della Comunità

53.      Le ricorrenti censurano il Tribunale per aver accolto una nozione erronea di danno anormale, che l’ha portato a negare ingiustamente l’esistenza di quest’ultimo nel caso di specie. Sul lato opposto, il Consiglio, la Commissione e il Regno di Spagna, pur condividendo la valutazione del Tribunale quanto all’assenza di carattere anormale del danno subito dalle ricorrenti e pur approvando il dispositivo delle sentenze impugnate che nega qualsiasi responsabilità senza colpa della Comunità, addebitano però al giudice di primo grado di aver sancito il principio stesso di una responsabilità per atto lecito, di averlo ritenuto applicabile nelle presenti cause, di averlo circondato di condizioni insufficientemente restrittive e di aver erroneamente riconosciuto che alcune di queste fossero soddisfatte, in particolare quella relativa al nesso di causalità diretta. Essi suggeriscono dunque alla Corte di sostituire alcune parti della motivazione delle sentenze impugnate, od anche, per quanto riguarda il Consiglio ed il governo spagnolo, che hanno a tal fine proposto impugnazioni incidentali, di annullare parzialmente le sentenze impugnate. Valuterò la rilevanza dell’argomentazione delle varie parti esaminando in successione la questione del principio di una responsabilità senza colpa della Comunità, quella relativa all’ambito di applicazione di tale tipo di responsabilità e, infine, quella dei presupposti per il suo insorgere.

1.      Il principio della responsabilità senza colpa della Comunità

54.      Il Consiglio, la Commissione ed il Regno di Spagna negano l’esistenza, a loro avviso affermata dal Tribunale senza sufficiente motivazione, di un principio di responsabilità della Comunità in assenza di comportamento illecito dei suoi organi quale principio generale comune ai diritti degli Stati membri. Assai meno della metà degli Stati membri avrebbero sancito un principio siffatto nei loro ordinamenti giuridici e il loro numero si ridurrebbe persino a due qualora l’atto generatore del danno sia un atto legislativo. Vero è che il Tribunale, senza scrupolo eccessivo di dimostrazione, si è limitato a fondare il principio della responsabilità della Comunità in assenza di comportamento illecito dei suoi organi sull’affermazione secondo cui «i diritti nazionali della responsabilità extracontrattuale consentono ai singoli, anche se in misura variabile, in settori specifici e secondo modalità diverse, di ottenere in via giudiziale il risarcimento di taluni danni, anche in assenza di un’azione illecita dell’autore del danno» (58). Orbene, l’art. 288, secondo comma, CE esige che il risarcimento da parte della Comunità dei danni causati dalle sue istituzioni obbedisca ai «principi generali comuni ai diritti degli Stati membri».

55.      Ma occorre leggere l’art. 288, secondo comma, CE nel senso che autorizza il recepimento nel diritto comunitario di una soluzione in materia di responsabilità extracontrattuale dei pubblici poteri soltanto qualora essa sia condivisa da tutti gli Stati membri? La scoperta di un «principio generale comune ai diritti degli Stati membri» può derivare soltanto da una sovrapposizione quasi meccanica dei diritti di ciascuno Stato membro per poi mantenerne soltanto gli elementi che coincidono esattamente? Ritengo di no. Una simile logica matematica del minimo comune denominatore porterebbe all’istituzione di un regime di responsabilità della Comunità in cui le possibilità delle vittime di un danno imputabile alle istituzioni di ottenere un risarcimento sarebbero singolarmente ridotte (59). Se certo la Corte deve ispirarsi agli istituti più caratteristici dei sistemi giuridici nazionali, essa deve però prima di tutto fare in modo di adottare una soluzione che sia adatta ai bisogni ed ai tratti specifici dell’ordinamento giuridico comunitario. Detto altrimenti, spetta alla Corte ispirarsi alle tradizioni giuridiche degli Stati membri per trovare una soluzione delle questioni giuridiche analoghe che si pongono nel diritto comunitario, che sia al tempo stesso rispettosa delle tradizioni giuridiche suddette e adatta al contesto proprio dell’ordinamento giuridico comunitario. In tale ottica, può essere privilegiata anche una soluzione minoritaria, qualora essa soddisfi al meglio le esigenze del sistema comunitario. Basti, per convincersene, ricordare l’esempio del «Vertrauensschutzprinzip» sancito dal diritto comunitario malgrado fosse noto soltanto al diritto tedesco. Pertanto, il fatto che soltanto i diritti spagnolo e francese prevedano una responsabilità dei pubblici poteri per un atto legislativo lecito non può costituire un ostacolo al riconoscimento di quest’ultima nel diritto comunitario.

56.      Ciò che è determinante è sapere se una tale soluzione soddisfi al meglio i bisogni specifici dell’ordinamento giuridico comunitario. Ciò non vuol dire che il principio di responsabilità dei pubblici poteri per un atto legislativo lecito debba essere consacrato nell’ordinamento giuridico comunitario qualora appaia come la soluzione giuridica migliore, in quanto tale da adottarsi necessariamente nell’ordinamento comunitario medesimo. Il suo recepimento in quest’ultimo non può essere che il risultato di un raffronto delle soluzioni adottate in materia dai diversi sistemi giuridici nazionali al fine di sviluppare la soluzione più adatta possibile alle esigenze proprie dell’ordinamento giuridico comunitario (60).

57.      Ora, mi sembra proprio che tali condizioni sussistano nel caso di specie. La consacrazione di un principio di responsabilità senza colpa della Comunità consentirebbe, in un intento di giustizia, di compensare il rigore dei presupposti per l’insorgere della responsabilità per fatto illecito della Comunità, determinato in particolare dall’esigenza di una violazione sufficientemente qualificata di una norma giuridica intesa a tutelare i singoli (61), al fine di dare alle vittime di un danno particolarmente grave subito per effetto del comportamento delle istituzioni comunitarie la possibilità di ottenere un risarcimento. L’adeguatezza di una simile soluzione spiega senza dubbio il fatto che la Corte non ha mai escluso la possibilità di accoglierla (62). Inoltre, sebbene tale soluzione giuridica si rinvenga soltanto in alcuni ordinamenti giuridici nazionali, la preoccupazione che essa esprime e la tutela degli interessi giuridici che essa garantisce vengono prese in considerazione anche in altri ordinamenti giuridici, seppure, come si vedrà (63), attraverso meccanismi giuridici differenti.

58.      Nel particolare contesto del caso di specie, la detta soluzione appare ancora più adeguata. In difetto di invocabilità delle norme dell’OMC, i singoli che si trovino a dolersi di un comportamento delle istituzioni della Comunità contrario agli accordi OMC non possono infatti, come si è visto, far valere l’illiceità del medesimo. Di conseguenza, tanto la strada del ricorso di annullamento quanto quelle del rinvio pregiudiziale per giudizio di validità o del ricorso per risarcimento danni da atto illecito sono ad essi precluse. In mancanza di riconoscimento del principio di una responsabilità senza colpa della Comunità, anche coloro che avessero subito, a causa di tale atto illecito, un danno particolarmente grave si vedrebbero privati di qualsiasi tutela giurisdizionale. Nello stesso ordine di idee, si può rilevare come la consacrazione da parte del Conseil d’État francese di una responsabilità senza colpa per atti legislativi venga spesso presentata come una compensazione a fronte dell’impossibilità per il giudice amministrativo francese di ergersi, mediante l’esercizio di un controllo di costituzionalità, a giudice delle leggi.

59.      Inoltre, il recepimento di un principio di responsabilità senza colpa servirebbe anche alle esigenze di buon governo. Esso costringerebbe il potere politico, allorché intende mantenere una normativa comunitaria malgrado la scadenza del termine ragionevole impartito per conformarsi ad una decisione dell’ORC che abbia giudicato la detta normativa incompatibile con le norme dell’OMC, a valutare meglio i costi che potrebbero derivarne per i cittadini dell’Unione e a metterli in bilanciamento con i vantaggi per il settore o i settori economici interessati dal mantenimento della disciplina comunitaria. Si avrebbe così non già una riduzione del potere discrezionale delle istituzioni nell’ambito dell’OMC, bensì la garanzia di un esercizio avveduto di tale potere discrezionale.

60.      Infine, il riconoscimento di un principio di responsabilità senza colpa avrebbe l’effetto di lasciare all’ordinamento giuridico comunitario il controllo della ripartizione interna delle conseguenze della libertà di comportamento delle istituzioni nell’ambito dell’OMC. Non sarebbero più i partner commerciali a scegliere discrezionalmente, mediante l’adozione di misure di ritorsione, su quali categorie di operatori economici debba pesare il costo della detta libertà, bensì sarebbe la Comunità a decidere se tale costo debba essere sopportato unicamente dalle imprese colpite dalle misure di ritorsione oppure essere suddiviso sulla collettività nel suo insieme.

61.      Pertanto, per le ragioni che ho appena indicato, mi sembra che le cause in questione offrano l’occasione, o addirittura impongano, di far fare un passo ulteriore alla giurisprudenza della Corte. Si tratta, con la consacrazione di un principio di responsabilità senza colpa della Comunità, di far passare la suddetta giurisprudenza dallo stadio dell’eventualità a quello della certezza, dal tempo delle esitazioni a quello delle soluzioni (64).

62.      La consacrazione di un principio di responsabilità senza colpa della Comunità potrebbe essere ispirata all’idea di uguaglianza dei cittadini dinanzi agli oneri pubblici, sulla quale il diritto amministrativo francese ha fondato la responsabilità per atto legislativo. Il ragionamento può essere sommariamente presentato nei seguenti termini: dal momento che si presume che qualsiasi attività pubblica vada a vantaggio dell’intera collettività, è normale che i cittadini debbano sopportare senza compensazioni gli oneri che ne derivano; ma se, nell’interesse generale, i pubblici poteri infliggono un danno particolarmente gravoso a taluni individui che restano i soli a subirlo, ne deriva un onere che questi normalmente non sono tenuti a sopportare, per il quale deve essere riconosciuto un indennizzo; quest’ultimo, sopportato dalla collettività tramite le imposte, ristabilisce l’uguaglianza violata.

63.      Quest’idea non è molto distante dalla «Sonderopfertheorie» del diritto tedesco, secondo la quale gli individui che, per effetto di un intervento pubblico lecito, subiscono un «sacrificio particolare», vale a dire un danno equivalente ad un’espropriazione, debbono ottenere un risarcimento. Così presentata, la responsabilità senza colpa della Comunità potrebbe trovare un fondamento anche nel diritto di proprietà, che, conformemente alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, è tutelato nell’ordinamento giuridico comunitario quale principio generale del diritto. Una responsabilità di questo tipo espliciterebbe l’idea che non può esserci pregiudizio equivalente ad un’espropriazione derivante dall’intervento, anche lecito, del potere normativo comunitario senza che ciò dia luogo ad un indennizzo (65).

2.      L’ambito di applicazione della responsabilità senza colpa della Comunità

64.      Quanto all’ambito di applicazione di tale principio di responsabilità senza colpa, la Commissione, in particolare, si duole che il Tribunale, dopo aver riconosciuto che esso può operare soltanto «in settori specifici» (66), non abbia ritenuto di dover precisare di quali settori si trattasse. Ma ciò non era necessario ai fini della soluzione delle controversie in questione. Per il Tribunale era sufficiente assicurarsi che la responsabilità senza colpa fosse suscettibile di applicazione nelle cause suddette, come esso ha implicitamente riconosciuto, avendo verificato la sussistenza dei relativi presupposti di applicazione. Ma questo è ciò che tanto la Commissione quanto il Consiglio pure addebitano al giudice di primo grado. Occorre dunque svolgere al riguardo le seguenti osservazioni.

65.      In primo luogo, contrariamente alla presentazione che tendono a farne sia la Commissione che il Consiglio, non si tratta tanto di un principio di responsabilità per atto lecito che il Tribunale ha sancito, a mio avviso giustamente, nelle sentenze impugnate. Si tratta più in generale di una responsabilità oggettiva, anche senza colpa. In altri termini, la responsabilità sorge indipendentemente dall’esigenza di un atto illecito all’origine del danno del quale spetterebbe al ricorrente dimostrare l’esistenza. Essa può persino comprendere ipotesi di atti che, seppur illeciti, non configurino una violazione sufficientemente qualificata.

66.      In secondo luogo, a differenza del Consiglio, non vedo per quale motivo tale regime di responsabilità oggettiva non possa applicarsi anche ad ipotesi di omissione normativa. Il parallelo istituito dal Consiglio con il ricorso per carenza contemplato dall’art. 232 CE è inconferente trattandosi di una responsabilità senza colpa. Ad ogni modo, nelle presenti cause non viene in questione una mancata attività normativa. Tanto il Consiglio quanto la Commissione hanno adottato, entro il termine ragionevole impartito, svariate iniziative (adeguamento del regime comunitario di importazione delle banane, negoziati), del resto evidenziate dallo stesso Consiglio nella propria memoria difensiva, ma tali iniziative si sono rivelate inadatte a garantire una corretta esecuzione della decisione dell’ORC.

67.      In terzo luogo, non sussistono valide ragioni per limitare, come sostiene la Commissione, la responsabilità senza colpa della Comunità alle sole ipotesi in cui all’origine del pregiudizio si ponga un atto non legislativo. L’art. 288, secondo comma, CE impone l’obbligo per la Comunità di risarcire i «danni cagionati dalle sue istituzioni», senza distinguere in base alla natura, amministrativa o legislativa, della loro attività. Inoltre, un danno particolarmente oneroso può, nell’interesse generale, essere inflitto a taluni operatori tanto dal potere legislativo quanto dal potere esecutivo. Del resto, nel caso di specie, l’adeguamento giudicato insufficiente del regime comunitario di importazione delle banane è avvenuto tanto mediante un regolamento di base del Consiglio quanto tramite un regolamento di esecuzione della Commissione. Infine, e a titolo accessorio, una simile limitazione mi sembra poco appropriata tenuto conto dell’insufficiente distinzione tra atti legislativi ed atti amministrativi allo stato attuale del diritto comunitario. In definitiva, soltanto un danno scaturito dall’applicazione di una disposizione di diritto primario non può dar luogo a risarcimento (67).

68.      In ultimo luogo, nel particolare contesto del rispetto degli accordi OMC, che è quello delle controversie in esame, i cittadini dell’Unione sarebbero i soli a poter invocare tale regime di responsabilità senza colpa per reclamare la riparazione di un danno particolarmente oneroso ad essi causato, nell’interesse generale, dalle istituzioni comunitarie. Infatti, non si potrebbe esigere dal potere politico, né sarebbe possibile per esso, valutare, ai fini dell’esercizio della sua libertà di comportamento nell’ambito dell’OMC, anche i costi che dalle scelte compiute deriverebbero per gli operatori dei paesi terzi. Pertanto, nell’ambito delle competenze comunitarie esercitate dalle istituzioni nel settore della politica commerciale esterna, l’idea di violazione dell’uguaglianza di fronte agli oneri pubblici è concepibile soltanto tra cittadini dell’Unione. Non si può dunque validamente inferire, come fa il Consiglio, che il riconoscimento di una responsabilità senza colpa nell’ambito dell’applicazione delle norme dell’OMC violerebbe il principio di reciprocità, nella misura in cui i principali partner commerciali della Comunità ignorano una responsabilità di questo tipo.

69.      Una volta fissato, fondato e delimitato in questi termini il principio di responsabilità senza colpa della Comunità, la funzione del medesimo appare chiara. Non si tratta assolutamente di costringere le istituzioni comunitarie a conformarsi alle norme dell’OMC limitando la loro libertà politica. Si tratta unicamente di garantire che i costi derivanti dalle scelte politiche compiute non pregiudichino l’uguaglianza dei cittadini dell’Unione dinanzi agli oneri pubblici.

70.      Le prevenzioni del Consiglio e della Commissione nei riguardi della consacrazione di un principio di responsabilità senza colpa della Comunità sono comprensibili. Si dovrebbe evitare, per effetto della creazione di un meccanismo di responsabilità troppo generoso, di far pesare sull’esercizio dell’attività legislativa e amministrativa una minaccia capace di inibire lo svolgimento stesso di tale attività. Ma per legittima che sia, tale preoccupazione non può costituire un ostacolo al riconoscimento di un principio di responsabilità senza colpa della Comunità. La presa in considerazione di tale esigenza e il suo bilanciamento con la necessità di una ripartizione equilibrata a fronte degli oneri pubblici imposti devono riflettersi nella portata attribuita a tale responsabilità e ai presupposti fissati per il suo riconoscimento.

3.      I presupposti della responsabilità senza colpa della Comunità

71.      Il Consiglio e la Commissione contestano anzitutto la fondatezza delle valutazioni del Tribunale relative al soddisfacimento dei presupposti inerenti a qualsiasi meccanismo di responsabilità, che non sono dunque peculiari del regime di responsabilità senza colpa. Essi deducono una violazione della nozione di danno reale e certo e delle regole sull’onere della prova. Ma il Tribunale ha potuto correttamente constatare che i convenuti non contestavano l’effettiva esistenza del danno commerciale subito dalle ricorrenti a motivo del rincaro dei loro prodotti causato dalla sovrattassa doganale, bensì addebitavano ai ricorrenti stessi soltanto di non aver saputo farvi fronte con misure adeguate. Ed il giudice di primo grado si è fondato sulle statistiche presentate dalla Commissione che rivelano un ribasso del volume complessivo delle importazioni di batterie e di astucci per occhiali negli Stati Uniti durante il periodo di applicazione della detta sovrattassa, al fine di ritenere dimostrata l’effettiva esistenza del danno (68).

72.      I convenuti censurano più vigorosamente il Tribunale anche per il fatto di aver violato la condizione che vuole che il danno derivi in maniera sufficientemente diretta dal comportamento dell’istituzione coinvolta (69). Non esisterebbe infatti alcun automatismo tra la mancata esecuzione, da parte della Comunità, della decisione di condanna pronunciata dall’ORC e l’istituzione della sovrattassa doganale, in quanto il comportamento discrezionale delle autorità americane avrebbe spezzato il nesso di causa ad effetto tra l’operato delle istituzioni comunitarie e il danno lamentato. Da un lato, le dette autorità hanno rifiutato le compensazioni che erano state loro offerte dalla Comunità in applicazione dell’art. 22, nn. 1 e 2, dell’IRC. Dall’altro, esse hanno liberamente scelto di richiedere all’ORC l’autorizzazione ad adottare misure di ritorsione e ad utilizzare l’autorizzazione ottenuta ed hanno, in tale ottica, discrezionalmente stabilito l’elenco dei prodotti colpiti e l’importo dei dazi. È vero che gli Stati Uniti non erano in alcun modo tenuti a reagire in questi termini alla mancata esecuzione da parte della Comunità della decisione dell’ORC entro il termine ragionevole impartito. Ciò non toglie che la reazione delle autorità americane costituisce una delle opzioni consentite dall’IRC in caso di mancata esecuzione di una decisione o di una raccomandazione dell’ORC ed era dunque prevedibile. Come il Tribunale ha giustamente rilevato, «la revoca delle concessioni nei confronti della Comunità sotto forma di sovrattassa doganale all’importazione va considerata una conseguenza derivante oggettivamente, secondo l’evoluzione normale e prevedibile del sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC accettato dalla Comunità, dal mantenimento in vigore da parte delle istituzioni convenute di un regime d’importazione delle banane incompatibile con gli accordi OMC» (70). Pertanto, lungi dal rompere la catena causale tra il comportamento della Comunità e il danno lamentato, le iniziative adottate dalle autorità americane appaiono piuttosto come maglie di tale catena. Giustamente pertanto il Tribunale ha considerato il comportamento della Comunità come la «causa determinante» (71) del danno subito dalle ricorrenti.

73.      Veniamo ora ai presupposti propri del regime di responsabilità senza colpa. Secondo le ricorrenti, il Tribunale avrebbe accolto e applicato una nozione errata di danno anormale. Sul fronte opposto, i convenuti, pur aderendo alla concezione di danno anormale sviluppata dal Tribunale, reputano insufficienti i presupposti per il riconoscimento della responsabilità senza colpa da esso enunciati e chiedono dunque alla Corte di completare la motivazione delle sentenze impugnate aggiungendovi un requisito supplementare attinente alla mancanza di un interesse assolutamente generale perseguito mediante il comportamento delle istituzioni generatore del danno.

74.      La valutazione del merito di queste diverse allegazioni di parte impone di precisare quali debbano essere le condizioni alle quali subordinare la responsabilità senza colpa della Comunità. Mi pare che esse debbano essere dettate dai fondamenti stessi sui quali si basa tale regime di responsabilità. Come mi sono sforzato di evidenziare, il principio della responsabilità senza colpa può essere basato al tempo stesso sull’idea di rottura dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi agli oneri pubblici e sulla protezione dovuta al diritto fondamentale di proprietà. Pertanto, i soli danni per i quali la responsabilità senza colpa apre la strada ad un diritto al risarcimento sono quelli che presentano un carattere al contempo anormale e speciale.

75.      Difatti, così come beneficiano dei vantaggi che ne derivano, tutti gli individui devono sopportare senza compensazioni gli ordinari inconvenienti che risultano dall’organizzazione della vita sociale e dall’intervento a tal fine dei pubblici poteri. Si tratta in qualche modo di oneri pubblici che devono essere considerati come incombenti normalmente agli interessati. Anche se tali oneri non gravano in modo uniforme su tutti i cittadini, il giudice non è in condizione di ristabilire un’uguaglianza perfetta. Significherebbe attribuirgli un compito smisurato e inappropriato. Sebbene asimmetrici, gli oneri pubblici devono pertanto, in linea di principio, essere considerati come incombenti normalmente agli individui e inidonei dunque a dar luogo ad un diritto al risarcimento. La questione si pone però diversamente qualora l’intervento pubblico cagioni un danno anormale e speciale.

76.      Un danno deve essere qualificato anormale qualora appaia tale a motivo tanto delle circostanze del suo insorgere quanto delle sue caratteristiche intrinseche. Costituisce danno anormale anzitutto quello che eccede i limiti dei rischi economici inerenti alle attività nel settore interessato, vale a dire quello che deriva dal concretizzarsi di un rischio che la vittima non poteva ragionevolmente prevedere, contro il quale essa non poteva premunirsi. Ma ciò non è sufficiente. È necessario anche che esso presenti carattere grave. In caso contrario, l’onere non potrebbe essere considerato anormale e il danno non potrebbe confinare con un’espropriazione, che la protezione dovuta al diritto di proprietà non può lasciare senza indennizzo. Ciò non vuol dire che il danno debba equivalere ad una privazione totale e definitiva della proprietà. Esso deve nondimeno comportare un pregiudizio di gravità sufficiente agli elementi costitutivi del diritto di proprietà (usus, fructus e abusus). Va ribadito che il fatto che tale lesione del diritto di proprietà sia lecita o illecita è indifferente quando ci si situa nell’ambito di una responsabilità non fondata sulla colpa.

77.      Per contro, in un regime di responsabilità fondato sull’uguaglianza dinanzi agli oneri pubblici, anche se il danno può essere qualificato anormale nel senso che ho appena definito, non può dar luogo ad un diritto al risarcimento se non presenta anche carattere speciale. Questo avviene soltanto nel caso in cui esso colpisca unicamente un piccolo numero di soggetti o, più precisamente, se tocca una categoria particolare di operatori economici in maniera sproporzionata rispetto agli altri operatori. È infatti soltanto in questa ipotesi che viene infranta l’uguaglianza dinanzi agli oneri pubblici.

78.      Così enunciate e definite, le condizioni per l’anormalità e la specialità del danno sono sufficientemente restrittive affinché, contrariamente a quanto sostiene la Commissione, l’applicabilità di tale regime di responsabilità senza colpa nelle controversie in esame non incida sulla libertà politica delle istituzioni in seno all’OMC, la quale ha portato la Corte a concludere per la non invocabilità delle norme dell’OMC. Il numero delle vittime che potrà dolersi di un danno che soddisfi tali requisiti sarà, comunque, sempre assai limitato, sicché l’onere per il bilancio dell’Unione derivante da eventuali indennizzi non sarà mai tale da influenzare l’operato degli organi politici comunitari nell’ambito dell’OMC.

79.      Si dovrebbe subordinare l’insorgere della responsabilità senza colpa della Comunità alla sussistenza di un presupposto supplementare relativo alla mancanza di un interesse economico generale perseguito mediante l’atto od il comportamento all’origine del danno? Questo è ciò che sia il Consiglio sia la Commissione chiedono e che addebitano al Tribunale di non aver fatto delle sentenze impugnate. A tal fine essi possono trovare conforto in alcune pronunce del giudice comunitario che, discostandosi dalla linea giurisprudenziale generale, hanno aggiunto tale requisito (72). In altri termini, se l’atto o il comportamento generatore del danno è stato adottato nell’interesse dell’intera collettività e non al fine di favorire determinati interessi, qualsiasi risarcimento sarebbe escluso. A mio avviso, non sussistono i presupposti per accogliere tale condizione supplementare richiesta da un orientamento giurisprudenziale minoritario. Essa non mi pare opportuna, in quanto l’uguaglianza dinanzi agli oneri pubblici e la protezione dovuta al diritto di proprietà impongono che gli operatori che abbiano subito un danno anormale e speciale ottengano un indennizzo, quand’anche la misura che ha generato il danno fosse giustificata da un interesse economico generale. E la detta condizione non mi sembra neppure necessaria, dato che i presupposti inerenti all’anormalità e alla specialità del danno sono sufficientemente restrittivi perché il timore di un’eventuale responsabilità non incida sulla libertà di azione della politica nel perseguimento di un interesse economico generale.

80.      I presupposti qui sopra precisati sono quelli che la giurisprudenza maggioritaria, pur lasciando in sospeso la consacrazione della responsabilità senza colpa della Comunità, ha enunciato e definito come condizioni che devono essere necessariamente presenti. La Corte ha così espressamente subordinato la responsabilità senza colpa della Comunità al verificarsi di un danno anormale e speciale (73). Essa ha altresì negato l’esistenza di una responsabilità senza colpa a motivo del fatto che il danno lamentato altro non era che il risultato del rischio commerciale normale al quale si espone l’operatore economico nel settore interessato (74), o anche del fatto che il danno lamentato non superava «i limiti dei rischi economici inerenti alle attività nel settore di cui trattasi» (75). Allo stesso modo il Tribunale, nelle sentenze impugnate, ha subordinato la responsabilità senza colpa della Comunità al requisito del danno anormale e speciale, che ha definito nei seguenti termini: «un pregiudizio è, da una parte, anormale quando supera i limiti dei rischi economici inerenti alle attività nel settore di cui trattasi e, dall’altra, speciale quando riguarda una categoria particolare di operatori economici in maniera sproporzionata rispetto agli altri operatori» (76). Così pronunciandosi, il detto giudice ha seguito la costante giurisprudenza da esso sviluppata (77).

81.      Tuttavia, la FIAMM e la FEDON non mettono in discussione né il requisito dell’anormalità e della specialità del danno, né la definizione che ne hanno fornito le sentenze impugnate. Esse deducono il significato giuridicamente errato della definizione di danno anormale che il Tribunale ha accolto e applicato. Il Tribunale ha infatti statuito che il danno subito dalle ricorrenti non aveva superato i limiti dei rischi economici inerenti alla loro attività di esportazione, in quanto l’eventualità di misure di ritorsione, essendo prevista dall’IRC, non può essere considerata estranea alla normale alea del commercio internazionale allo stato attuale della sua organizzazione, sicché le conseguenze dannose che potrebbero derivarne devono essere necessariamente sopportate da qualsiasi operatore che decida di commercializzare i propri prodotti sul mercato di uno dei membri dell’OMC. In altri termini, in quanto giuridicamente previste dallo strumento che disciplina il commercio internazionale, le misure di ritorsione sono necessariamente prevedibili da qualsivoglia impresa esportatrice. Trattasi di un rischio inerente all’attività di esportazione.

82.      Così statuendo, il Tribunale, come giustamente sostenuto dalle ricorrenti, ha ignorato il fatto che l’anormalità del danno si misura in rapporto ai rischi economici inerenti alle attività nel settore interessato, ossia il fatto che il danno presenta carattere anormale (78) qualora non appaia come la concretizzazione di un rischio inerente alle attività nel settore in questione. Tale ipotesi si configura in mancanza di qualsiasi nesso tra l’atto o il comportamento generatore del danno e il settore economico in cui si colloca l’attività delle imprese vittime del danno stesso. In mancanza di tale nesso, non si può infatti considerare il danno come la concretizzazione di un rischio commerciale normale contro il quale un operatore avveduto avrebbe potuto e dovuto premunirsi. In tal senso è orientata la giurisprudenza. Si è dunque considerato normale: il danno subito da una compagnia di trasporti marittimi a seguito della modifica del regime transitorio di esenzione fiscale dei prodotti gravati da accisa e venduti sulle navi durante le traversate tra gli Stati membri (79); il danno subito da un produttore di mangimi di base per porcellini da latte e pollame ottenuti dal siero di latte, a seguito dell’entrata in vigore di alcuni regolamenti comunitari relativi alla vendita di latte in polvere destinata all’alimentazione dei suini e del pollame (80).

83.      Orbene, nel caso di specie non esiste alcun nesso tra l’adozione e il mantenimento della normativa relativa al regime di importazione comunitario delle banane e il danno subito a seguito di misure di ritorsione dagli esportatori comunitari di astucci per occhiali e di accumulatori industriali. Questo danno non poteva dunque essere considerato normale per tali operatori, posto che, a norma dell’art. 22, n. 3, dell’IRC, le misure di ritorsione devono prioritariamente riguardare lo stesso settore nel quale è stata constatata una violazione delle norme dell’OMC. Per tale motivo, le sentenze impugnate devono essere annullate in quanto viziate da un errore di diritto. Spetterà al Tribunale, dopo aver chiesto alle ricorrenti le necessarie informazioni, valutare se il danno lamentato presenti carattere anormale anche per il fatto che comporta un pregiudizio di gravità sufficiente agli elementi costitutivi del diritto di proprietà, e statuire sulla specialità di tale danno.

C –    La durata irragionevole del procedimento

84.      Le ricorrenti chiedono infine la concessione di un equo risarcimento in considerazione della durata irragionevole del procedimento di primo grado. La domanda della FEDON potrà agevolmente essere dichiarata irricevibile, a norma dell’art. 112, lett. c), del regolamento di procedura della Corte, essendo sprovvista di qualsivoglia motivazione.

85.      Resta la domanda proposta dalla FIAMM, con la quale tale società, rilevando che il Tribunale ha impiegato circa cinque anni e nove mesi per statuire sulla causa, fa valere una violazione del diritto a veder giudicato il proprio caso entro un termine ragionevole, componente del diritto ad un equo processo sancito dall’art. 6, n. 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e garantito nell’ordinamento giuridico comunitario quale principio generale del diritto. La ricorrente richiama a tal fine la sentenza Baustahlgewebe (81), nella quale la Corte ha riconosciuto l’applicabilità del diritto summenzionato ai procedimenti dinanzi al Tribunale ed ha di conseguenza accettato di statuire su un motivo di impugnazione relativo all’irregolarità della procedura seguita dinanzi al Tribunale a motivo della sua durata asseritamente irragionevole. La ricorrente ritiene che la durata del giudizio sia stata eccessiva, tenuto conto della chiarezza delle questioni di fatto, della circostanza che nessuna delle parti ha contribuito con il proprio comportamento a prolungare la durata del procedimento e del fatto che il Tribunale non ha dovuto far fronte a circostanze eccezionali. Da tale irregolarità del procedimento sarebbe derivato un pregiudizio per gli interessi della ricorrente, nella misura in cui, a seguito dei prestiti accesi per far fronte alle sovrattasse doganali, essa si sarebbe ormai pesantemente indebitata e sarebbe stata costretta a negoziare la cessione della maggioranza del capitale ad un fondo di investimento in cambio dell’accollo del debito contratto con le banche.

86.      Sul lato opposto, la Commissione eccepisce anche in tal caso, in primo luogo, l’irricevibilità del motivo, e a tal fine fa valere, in particolare, che l’asserita irregolarità del procedimento non avrebbe avuto alcuna incidenza sulla soluzione della controversia. Tuttavia, l’art. 58 dello Statuto della Corte non esige che l’irregolarità della procedura dinanzi al Tribunale presenti tale caratteristica perché possa essere dedotta; la norma suddetta richiede semplicemente che il vizio procedurale abbia recato «pregiudizio agli interessi della parte ricorrente». Orbene, tale situazione sembra proprio sussistere nel caso di specie, in quanto la lunghezza del tempo impiegato per la decisione ha contribuito ad aggravare il peso del debito della ricorrente. E se, riguardo all’irregolarità del procedimento derivante dalla lunghezza eccessiva del tempo impiegato dal Tribunale per decidere, il presupposto del pregiudizio agli interessi della parte ricorrente è stato talvolta interpretato nel senso che la detta irregolarità deve aver avuto un’incidenza sulla soluzione della controversia, ciò è comunque avvenuto unicamente nella misura in cui il motivo riguardante l’irregolarità era stato sollevato a sostegno di conclusioni dirette ad ottenere l’annullamento della sentenza del Tribunale (82). Ora, nel caso di specie, tale motivo viene invocato unicamente per ottenere un equo risarcimento.

87.      Per contro, le conclusioni dirette ad ottenere un equo risarcimento devono essere interpretate come domanda di riparazione del pregiudizio derivato dalla durata irragionevole del procedimento dinanzi al Tribunale. D’altra parte, andava intesa come domanda di risarcimento anche la richiesta della ricorrente nella causa Baustahlgewebe volta ad ottenere una riduzione dell’importo dell’ammenda inflitta dalla Commissione e confermata dal Tribunale, richiesta fondata sulla durata irragionevole del tempo impiegato dal Tribunale per decidere sulla causa (83). E se, «per ragioni di economia processuale e al fine di garantire un rimedio immediato ed effettivo a tale vizio procedurale» (84), la Corte ha nondimeno accolto le conclusioni della ricorrente ed accettato di detrarre dalla sanzione l’importo del risarcimento, è sufficiente constatare come comunque una tale logica compensativa non sia possibile nel caso di specie.

88.      Le conclusioni dirette ad ottenere un equo risarcimento dovevano dunque essere presentate alla Corte di giustizia (85) nell’ambito di un ricorso per responsabilità extracontrattuale fondato sugli artt. 235 CE e 288 CE, il quale deve essere diretto contro l’istituzione o le istituzioni il cui comportamento si ponga all’origine del danno. Infatti, come statuito dalla Corte, «la buona amministrazione della giustizia (...) richiede che, qualora la Comunità venga chiamata a rispondere di un atto di uno dei suoi organi, debba essere convenuta in giudizio l’istituzione (o le istituzioni) responsabile(i) dell’atto impugnato» (86). Ora, come la Commissione ha fatto osservare giustamente, il presente procedimento vede come convenuti il Consiglio e la Commissione, mentre la durata eccessiva della procedura oggetto di censura è imputabile al Tribunale, facente parte dell’istituzione Corte di giustizia. Pertanto, sia ratione materiae sia ratione personae, la domanda di equo risarcimento deve essere dichiarata irricevibile.

III – Conclusione

89.      Alla luce dei motivi sopra esposti, suggerisco che la Corte voglia:

–        annullare le sentenze del Tribunale di primo grado delle Comunità europee 14 dicembre 2005, causa T‑69/01, FIAMM e FIAMM Technologies/Consiglio e Commissione, e causa T‑135/01, Fedon & Figli e a./Consiglio e Commissione, in quanto viziate da un errore di diritto consistente in un’erronea interpretazione della nozione di danno anormale, e rinviare le cause dinanzi al Tribunale;

–        dichiarare irricevibili le conclusioni della Fabbrica italiana accumulatori motocarri Montecchio SpA (FIAMM) e della Fabbrica italiana accumulatori motocarri Montecchio Technologies Inc. (FIAMM Technologies), nonché della Giorgio Fedon & Figli SpA e della Fedon America Inc., intese ad ottenere un equo risarcimento.


1 – Lingua originale: il francese.


2 – Racc. pag. II‑5393 (in prosieguo: la «sentenza Fiamm»).


3 – in prosieguo: la «sentenza Fedon».


4 – GU L 47, pag. 1.


5 – Sentenze Fiamm (punto 108) e Fedon (punto 101).


6 – Ai sensi della giurisprudenza Nakajima/Consiglio (sentenza 7 maggio 1991, causa C‑69/89, Racc. pag. I‑2069).


7 – Ai sensi della giurisprudenza Fediol/Commissione (sentenza 22 giugno 1989, causa 70/87, Racc. pag. 1781).


8 – Sentenze Fiamm (punto 157) e Fedon (punto 150).


9 – Sentenze Fiamm (punto 159) e Fedon (punto 152).


10 – Sentenze 11 settembre 2003, causa C‑197/99 P, Belgio/Commissione (Racc. pag. I‑8461, punto 81), e 11 gennaio 2007, causa C‑404/04 P, Technische Glaswerke Ilmenau/Commissione (punto 90).


11 – Sentenza 7 gennaio 2004, cause riunite C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P, Aalborg Portland e a./Commissione, Racc. pag. I‑123).


12 – V. sentenze Fiamm (punto 113) e Fedon (punto 108).


13 – V. sentenze 30 aprile 1974, causa 181/73, Haegeman (Racc. pag. 449, punto 5); 30 settembre 1987, causa 12/86, Demirel (Racc. pag. 3719, punto 7); parere 14 dicembre 1991, 1/91 (Racc. pag. I‑6079, punto 37), e sentenza 16 giugno 1998, causa C‑162/96, Racke (Racc. pag. I‑3655, punto 41). Per gli accordi OMC, v. in particolare sentenze 10 gennaio 2006, causa C‑344/04, International Air Transport Association e a. (Racc. pag. I‑403, punto 36); 30 maggio 2006, causa C‑459/03, Commissione/Irlanda (Racc. pag. I‑4635, punto 82), e 11 settembre 2007, causa C‑431/05, Merck Genéricos Produtos Farmacêuticos (Racc. pag. I-7001, punto 31).


14 – V. sentenze 14 novembre 1989, causa 30/88, Grecia/Commissione (Racc. pag. 3711, punto 13); 20 settembre 1990, causa C‑192/89, Sevince (Racc. pag. I‑3461, punto 9), e 21 gennaio 1993, causa C‑188/91, Deutsche Shell (Racc. pag. I‑363, punto 17).


15 – Per un richiamo di tale presupposto, v. le conclusioni da me presentate il 16 gennaio 2008 nella causa C‑402/05 P, Kadi/Consiglio e Commissione (ancora pendente dinanzi alla Corte, paragrafo 23).


16 – V. anche recentemente sentenza 1º aprile 2004, causa C‑286/02, Bellio F.lli (Racc. pag. I‑3465, punto 33). A proposito degli accordi GATT o OMC, v. sentenza 10 settembre 1996, causa C‑61/94, Commissione/Germania (Racc. pag. I‑3989, punto 52 ), e sentenza International Air Transport Association e a., cit. (punto 35).


17 – V. sentenza 12 dicembre 1972, cause riunite 21/72–24/72, International Fruit Company e a. (Racc. pag. 1219, punti 6 e 7).


18 – Sentenze 23 novembre 1999, causa C‑149/96, Portogallo/Consiglio (Racc. pag. I‑8395, punto 47); 9 gennaio 2003, causa C‑76/00 P, Petrotub e Republica (Racc. pag. I‑79, punto 53); 30 settembre 2003, causa C‑93/02 P, Biret International/Consiglio (Racc. pag. I‑10497, punto 52); 1º marzo 2005, causa C‑377/02, Van Parys (Racc. pag. I‑1465, punto 39), e 27 settembre 2007, causa C‑351/04, Ikea Wholesale (Racc. pag. I‑7723, punto 29); sentenze del Tribunale 20 marzo 2001, causa T‑18/99, Cordis/Commissione (Racc. pag. II‑913, punto 50), e 3 febbraio 2005, causa T‑19/01, Chiquita Brands e a./Commissione (Racc. pag. II‑315, punto 114).


19 – Sentenza International Fruit Company e a., cit. (punto 8); v. anche, nello stesso senso, sentenza 14 dicembre 2000, cause riunite C‑300/98 e C‑392/98, Dior e a. (Racc. pag. I‑11307, punto 44); sentenze del Tribunale Cordis/Commissione, cit. (punto 46), e Chiquita Brands e a./Commissione, cit. (punto 114).


20 – Sentenza Dior e a., cit. (punto 45).


21 – Sentenza Arrêt International Fruit Company e a., cit. (punto 8).


22 – Come ricordato in particolare da Rideau, J., «Les accords internationaux dans la jurisprudence de la Cour de justice des Communautés européennes», Revue générale du droit international public, 1990, pag. 289, segnatamente pag. 357.


23 – V. sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62, van Gend & Loos (Racc. pag. 1).


24 – Sentenza Portogallo/Consiglio, cit. (punto 34); v. già sentenza 26 ottobre 1982, causa 104/81, Kupferberg (Racc. pag. 3641, punto 17).


25 – Ibidem.


26 – V. sentenza 29 aprile 1982, causa 17/81, Pabst & Richarz (Racc. pag. 1331, punto 27); sentenze Kupferberg, cit. (punti 22 e 23), e Demirel, cit. (punto 14), nonché le conclusioni presentate dall’avvocato generale Darmon in questa stessa causa, che ricapitolano l’intera giurisprudenza sul punto (paragrafo 18); sentenze Racke, cit. (punto 31), Dior e a., cit. (punto 42), e International Air Transport Association, cit. (punto 39); v. anche le conclusioni presentate dall’avvocato generale Kokott nella causa C‑308/06, The International Association of Independent Tanker Owners e a. (pendente dinanzi alla Corte, paragrafo 48).


27 – Sentenza 5 ottobre 1994, causa C‑280/93 (Racc. pag. I‑4973, punti 103‑112).


28 – V. sentenza Van Parys, cit.; v. già, a proposito del GATT, sentenza International Fruit Company e a., cit.


29 – V. sentenza Portogallo/Consiglio, cit.


30 – V., ad esempio, sentenza Cordis/Commissione, cit. (punti 44‑60).


31 – Come taluni esponenti della dottrina (v. Kovar, R., «Les accords liant les Communautés européennes et l’ordre juridique communautaire», RMC 1974, pag. 352, in particolare pagg. 358‑359) o membri della Corte (Joliet, R., Le droit institutionnel des Communautés européennes ‑ Les institutions ‑ Les sources ‑ Les rapports entre ordres juridiques, Liegi, 1983, in particolare pagg. 256‑257) avevano perfettamente inteso in modo premonitore.


32 – V. sentenza International Fruit Company e a., cit.


33 – V. sentenza Germania/Consiglio, cit. (punto 110).


34 – Nella citata sentenza Portogallo/Consiglio.


35 – Nell’ambito di un’assai copiosa letteratura in materia, ricordiamo in particolare Eeckhout, P., «The domestic legal status of the WTO Agreement: interconnecting legal systems», CMLR 1997, pag. 11; Kuijper, P. J., e Bronckers, M., «WTO law in the European Court of justice», CMLR 2005, pag. 1313; Peers, S., «Fundamental Right or political Whim? WTO Law and the European Court of Justice», in G. de Burca/Scott, The EU and WTO, 2001, pag. 111.


36 – V., in particolare, le conclusioni presentate dall’avvocato generale Saggio nella citata causa Portogallo/Consiglio e quelle presentate dall’avvocato generale Tesauro nella causa Hermès (sentenza 16 giugno 1998, causa C‑53/96, Racc. pag. I‑3606, paragrafi 28‑37).


37 – È sufficiente confrontare tale ragionamento con l’analisi condotta dalla Corte nella sentenza Kupferberg a proposito di un altro accordo internazionale (cit., punti 17‑22).


38 – Sentenze Portogallo/Consiglio, cit. (punti 46 e 47), e Van Parys, cit. (punto 53).


39 – V. sentenze Commissione/Germania, cit. (punto 52); 7 giugno 2007, causa C‑335/05, Řízení Letového Provozu (Racc. pag. I‑4307, punto 16), e Merck Genéricos Produtos Farmacêuticos, cit. (punto 35).


40 – V. sentenze Hermès, cit. (punto 28), e Dior e a., cit. (punto 47).


41 – V. sentenza Commissione/Germania, cit.


42 – Ricordati in particolare dalla sentenza Portogallo/Consiglio, cit. (punto 49).


43 – Trattasi dell’ipotesi Nakajima. Per un’applicazione, v. sentenza 9 gennaio 2003, Petrotub e Republica, cit. (punti 52‑56).


44 – È l’ipotesi Fediol.


45 – V. sentenza Portogallo/Consiglio, cit. (punto 35).


46 – Sentenze Fiamm (punto 108) e Fedon (punto 101).


47 – La Corte ha infatti già precisato che il fatto che un singolo invochi la violazione del carattere obbligatorio, per la Comunità, di una decisione dell’ORC equivale a sostenere la violazione dell’obbligatorietà dell’accordo OMC, ciò che è possibile soltanto in caso di effetto diretto di quest’ultimo (v. sentenza 14 ottobre 1999, causa C‑104/97 P, Atlanta/Comunità europea, Racc. pag. I‑6983, punti 17‑23).


48 – V. sentenza Biret International/Consiglio, cit. (punto 57).


49 – V. sentenza Van Parys, cit.


50 – V. sentenza del Tribunale Chiquita Brands e a./Commissione, cit.


51 – Sentenza Biret International/Consiglio, cit. (punto 65).


52 – Anche se esse trovano sostegno nelle conclusioni di alcuni avvocati generali (v. le conclusioni presentate dall’avvocato generale Alber nella citata causa Biret International/Consiglio e quelle presentate dall’avvocato generale Tizzano nella citata causa Van Parys).


53 – V. sentenza Portogallo/Consiglio, cit. (punto 41).


54 – V. sentenza Van Parys, cit. (punti 42‑51). V. anche sentenza del Tribunale Chiquita Brands e a./Commissione, cit. (punto 164).


55 – V. sentenze Fiamm (punti 125‑129) e Fedon (punti 118‑123).


56 – V., in tal senso, le conclusioni presentate dall’avvocato generale Alber nella citata causa Biret International/Consiglio (paragrafi 74‑88) e quelle dell’avvocato generale Tizzano nella citata causa Van Parys (paragrafi 56 e 57).


57 – V. sentenze Fiamm (punti 130‑135) e Fedon (punti 123‑128).


58 – Sentenze Fiamm (punto 159) e Fedon (punto 152). Per una riproposizione di questa soluzione e di motivazioni identiche, v. sentenza del Tribunale 10 maggio 2006, causa T‑279/03, Galileo International Technology e a./Commissione (Racc. pag. II‑1291, punti 144‑147).


59 – Allo stesso modo, l’avvocato generale Roemer respingeva l’applicazione del «principio del limite inferiore» che deriverebbe dalla scelta di utilizzare solo norme esistenti in tutti gli Stati membri (conclusioni presentate nella causa 5/71, Zuckerfabrik Schöppenstedt/Consiglio, sentenza 2 dicembre 1971, Racc. pag. 975, in particolare pag. 991). Egli sottolineava che ciò che importa «non è tanto la concordanza degli ordinamenti di tutti gli Stati membri o l’accertamento di quale soluzione venga adottata nella maggioranza di essi, quanto piuttosto (...) la valutazione del diritto comparato» (conclusioni presentate nelle cause riunite 63/72–69/72, Werhahn Hansamühle e a./Consiglio e Commissione, sentenza 13 novembre 1973, Racc. pag. 1253, in particolare pag. 1257). L’avvocato generale Roemer evocava persino la possibilità di prendere in considerazione «gli orientamenti degli ordinamenti nazionali più progrediti (“überlegenst”)» (conclusioni nella causa 5/71, citate, v. in particolare pag. 989), di «accertare quale disciplina sia preferibile» (conclusioni nelle cause riunite 63/72–69/72, citate, in particolare pag. 1257). Tuttavia, dal mio punto di vista non si tratta di cercare la migliore soluzione giuridica, bensì di elaborare quella che apparirà la più appropriata al contesto ed ai bisogni dell’ordinamento giuridico comunitario.


60 – Per un’illustrazione di questo metodo in rapporto al diritto di sciopero, che mira a confrontare una soluzione adottata nei diritti nazionali con le esigenze proprie dell’ordinamento giuridico comunitario, v. le conclusioni da me presentate nella causa International Transport Workers’ Federation e Finnish Seamen’s Union (sentenza 11 dicembre 2007, causa C‑438/05, Racc. pag. I‑10779, paragrafo 60).


61 – V. sentenza 4 luglio 2000, causa C‑352/98 P, Bergaderm e Goupil/Commissione (Racc. pag. I‑5291, punti 41 e 42).


62 – V. sentenze 13 giugno 1972, cause riunite 9/71 e 11/71, Compagnie d’approvisionnement, de transport et de crédit e Grands Moulins de Paris/Commissione (Racc. pag. 391, punto 46); 31 marzo 1977, cause riunite 54/76–60/76, Compagnie industrielle et agricole du comté de Loheac e a./Consiglio e Commissione (Racc. pag. 645, punto 19); 6 dicembre 1984, causa 59/83, Biovilac/CEE (Racc. pag. 4057, punto 29); 24 giugno 1986, causa 267/82, Développement e Clemessy/Commissione (Racc. pag. 1907, punto 33); 15 giugno 2000, causa C‑237/98 P, Dorsch Consult/Consiglio e Commissione (Racc. pag. I‑4549, punto 18); sentenze del Tribunale 6 dicembre 2001, causa T‑196/99, Area Cova e a./Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑3597, punto 171); 20 febbraio 2002, causa T‑170/00, Förde‑Reederei/Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑515, punto 56); 10 aprile 2003, causa T‑195/00, Travelex Global and Financial Services e Interpayment Services/Commissione (Racc. pag. II‑1677, punto 161); 2 luglio 2003, causa T‑99/98, Hameico Stuttgart e a./Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑2195, punto 60), e 10 febbraio 2004, cause riunite T‑64/01 e T‑65/01, Afrikanische Frucht‑Compagnie/Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑521, punti 150 e 151).


63 – V. infra, paragrafo 63 delle presenti conclusioni.


64 – Per riprendere una formula utilizzata da Picod, F., e Coutron, L., «La responsabilité de la Communauté européenne du fait de son activité administrative», in Auby, J.‑B., e Dutheil de la Rochère, J., Droit administratif européen, Bruylant 2007, pag. 171, in particolare pagg. 204‑208.


65 – V. già, per un’intuizione di questo tipo, le conclusioni presentate dall’avvocato generale Sir Gordon Slynn nella citata causa Biovilac/CEE, in particolare pag. 4091. Del resto, questa idea si ritrova, in un modo o nell’altro, nella maggior parte degli ordinamenti giuridici (v. Amaral, M. L., Responsabilidade do Estado e dever de indemnizar do legislador, Coimbra Editora, 1998, pagg. 474 e segg.).


66 – Sentenze Fiamm (punto 159) e Fedon (punto 152).


67 – V. sentenza del Tribunale 29 gennaio 1998, causa T‑113/96, Dubois et Fils/Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑125, punti 40‑48).


68 – V. sentenze Fiamm (punti 166‑170) e Fedon (punti 159‑162).


69 – V. sentenza della Corte 4 ottobre 1979, cause riunite 64/76, 113/76, 167/78, 239/78, 27/79, 28/79 e 45/79, Dumortier e a./Consiglio, Racc. pag. 3091, punto 21). V. anche sentenza del Tribunale 24 ottobre 2000, causa T‑178/98, Fresh Marine/Commissione (Racc. pag. II‑3331, punto 118).


70 – Sentenze Fiamm (punto 183) e Fedon (punto 177).


71 – Sentenze Fiamm (punto 185) e Fedon (punto 179).


72 – V. sentenze Compagnie d’approvisionnement, de transport et de crédit e Grands Moulins de Paris/Commissione, cit. (punti 45 e 46); sentenze del Tribunale Förde‑Reederei/Consiglio e Commissione, cit. (punto 56), e Afrikanische Frucht‑Compagnie/Consiglio e Commissione, cit. (punto 151).


73 – V. sentenza Dorsch Consult/Consiglio e Commissione, cit. (punti 18 e 53).


74 – V. sentenza Développement e Clemessy/Commissione, cit. (punto 33).


75 – Sentenza Biovilac/CEE, cit. (punti 28 e 29).


76 – Sentenze Fiamm (punto 202) e Fedon (punto 191).


77 – V. in precedenza, segnatamente, sentenze del Tribunale Afrikanische Frucht‑Compagnie/Consiglio e Commissione, cit. (punti 150 e 151), e poi Galileo International Technology e a./Commissione, cit. (punti 147 e 148).


78 – Qualora esso presenti peraltro gravità sufficiente.


79 – V. sentenza Förde‑Reederei/Consiglio e Commissione, cit. (punti 58‑60).


80 – V. sentenza Biovilac/CEE, cit. (punti 27‑30).


81 – Sentenza 17 dicembre 1998, causa C‑185/95 P (Racc. pag. I‑8417).


82 – V. sentenza Baustahlgewebe/Commissione, cit. (punto 49); ordinanza 13 dicembre 2000, causa C‑39/00 P, SGA/Commissione (Racc. pag. I‑11201, punto 46).


83 – V. l’analisi condotta dall’avvocato generale Léger nelle sue conclusioni nella causa Baustahlgewebe/Commissione, cit. (paragrafi 46‑76).


84 – Sentenza Baustahlgewebe/Commissione, cit. (punto 48).


85 – Sulla competenza della Corte e non del Tribunale a conoscere di tale azione, mi associo agli argomenti presentati dall’avvocato generale Léger (conclusioni nella causa Baustahlgewebe/Commissione, cit., paragrafi 66‑71).


86 – V. sentenza Werhahn Hansamühle e a./Consiglio e Commissione, cit. (punto 7).