Language of document : ECLI:EU:C:2012:340

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

PEDRO CRUZ VILLALÓN

presentate il 12 giugno 2012 (1)

Causa C‑617/10

Åklagaren

contro

Hans Åkerberg Fransson

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Haparanda tingsrätt (Svezia)]

«Ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 51 della Carta – Applicazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri – Regime sanzionatorio nazionale applicabile alle violazioni della normativa in materia di IVA – Articolo 50 della Carta – La regola del “ne bis in idem” quale principio generale del diritto dell’Unione – Cumulo delle sanzioni amministrativa e penale – Definizione di “identità dei fatti” – Interpretazione della Carta alla luce della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo – Articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo – Giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – Determinazione dei diritti fondamentali dell’Unione a partire dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri»




Indice


I – Introduzione

II – Contesto normativo

A – Diritto dell’Unione

B – Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo

C – Diritto nazionale

III – Fatti e procedimento dinanzi al giudice nazionale

IV – Procedimento dinanzi alla Corte di giustizia

V – Competenza della Corte di giustizia

A – Impostazione generale

1. Una «situazione» astratta: l’«attuazione» del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri

2. Una proposta di interpretazione: rapporto tra regola e eccezione

3. Un fondamento: un interesse specifico dell’Unione

4. Un’argomentazione: la sede delle categorie e la sede della casistica

B – La risposta, nella fattispecie, al problema della competenza

1. Il diritto fondamentale in questione

2. Un particolare ambito di esercizio del potere pubblico: il potere sanzionatorio

3. La portata del trasferimento della garanzia del principio del ne bis in idem dagli Stati membri all’Unione

4. Conclusione: un caso che non rientra nella situazione di «attuazione del diritto dell’Unione»

VI – Le questioni pregiudiziali

A – La seconda, la terza, la quarta e la quinta questione pregiudiziale

1. Riformulazione e ricevibilità

2. Analisi della seconda, terza e quarta questione pregiudiziale

a) L’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU e la giurisprudenza rilevante della Corte europea dei diritti dell’uomo

i) Firma e ratifica dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU

ii) La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU

b) Il principio del ne bis in idem nel diritto dell’Unione: l’articolo 50 della Carta e la sua interpretazione alla luce dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU

i) Un’interpretazione parzialmente autonoma dell’articolo 50 della Carta: limiti di un’interpretazione alla luce esclusivamente della CEDU

ii) L’articolo 50 della Carta e la duplice sanzione, amministrativa e penale

c) L’articolo 50 della Carta applicato alla fattispecie

B – Prima questione pregiudiziale

1. Il «chiaro fondamento» come criterio di applicazione della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte del giudice nazionale

2. Il «chiaro fondamento» come criterio di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da parte del giudice nazionale

VII – Conclusione





I –    Introduzione

1.        Dietro un’apparente semplicità del caso, la sanzione dell’inadempimento degli obblighi fiscali da parte di un pescatore operante nel golfo di Botnia, la presente questione pregiudiziale ci mette di fronte a due problemi particolarmente delicati e ad una situazione che suscita una certa perplessità.

2.        Il primo di tali problemi riguarda la ricevibilità della questione, poiché, dato il carattere manifestamente interno della situazione de qua, il riconoscimento della competenza della Corte per risolvere una questione relativa ai diritti fondamentali presuppone qualificare la fattispecie come un caso di applicazione del diritto dell’Unione da parte di uno Stato membro, ai sensi dell’attuale articolo 51, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).

3.        L’altro problema, vertente sul merito della causa, riguarda l’applicabilità del principio del ne bis in idem in caso di cumulo del potere sanzionatorio amministrativo e dello ius puniendi dello Stato membro nell’ambito della repressione di uno stesso comportamento, il che, in definitiva, ci riconduce all’articolo 50 della Carta.

4.        La perplessità suscitata da questo caso deriva dalla prima delle questioni poste dal giudice del rinvio, in cui il problema, di per sé, appare relativamente più semplice rispetto ai precedenti. La questione riguarda la portata del principio del primato del diritto dell’Unione rispetto ad un’esigenza del giudice nazionale di ultima istanza, vale a dire l’esistenza di una base o di un’indicazione «chiara» per disapplicare il diritto nazionale. La perplessità deriva da una situazione in cui, da una parte, il requisito del «chiaro fondamento» sembra oggi ben consolidato nella giurisprudenza più recente della Corte europea dei diritti dell’uomo e, dall’altra, che tale evoluzione non semplifica, bensì complica, la risposta sulla portata del principio del ne bis in idem nel diritto dell’Unione.

5.        Per quanto attiene al problema della ricevibilità, proporrò alla Corte di giustizia di dichiararsi incompetente, in quanto lo Stato membro interessato non starebbe applicando il diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta. Come cercherò di esporre di seguito, ritengo che un attento esame delle circostanze del caso militi a favore di una tale conclusione. È del tutto possibile, tuttavia, che, a tal fine, la Corte debba fare proprie alcune tesi che suggerisco a proposito della presente vexata quaestio. Devo ammettere che tali tesi non seguono la scia della giurisprudenza pronunciata fino ad oggi.

6.        In subordine, per il caso in cui la Corte di giustizia si dichiarasse competente a rispondere nel merito, proporrò a quest’ultima una definizione autonoma del principio del ne bis in idem nel diritto dell’Unione. Come cercherò di spiegare, la regola contenuta nell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, in base alla quale il senso e la portata dei diritti sanciti dalla Carta sono «uguali» ai diritti corrispondenti contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «CEDU»), solleva difficoltà singolari in relazione al principio che qui interessa.

7.        Infine, riguardo alla condizione del «chiaro fondamento» nella CEDU e nel diritto dell’Unione, proporrò un’interpretazione della stessa che sia compatibile con il principio del primato.

II – Contesto normativo

A –    Diritto dell’Unione

8.        Il principio del ne bis in idem è oggi contenuto nell’articolo 50 della Carta, che è del seguente tenore:

«Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge».

9.        La direttiva 2006/112/CE, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto (2), all’articolo 273 così recita:

«Gli Stati membri possono stabilire, nel rispetto della parità di trattamento delle operazioni interne e delle operazioni effettuate tra Stati membri da soggetti passivi, altri obblighi che essi ritengono necessari ad assicurare l’esatta riscossione dell’IVA e ad evitare le evasioni, a condizione che questi obblighi non diano luogo, negli scambi tra Stati membri, a formalità connesse con il passaggio di una frontiera.

(…)».

B –    Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo

10.      A termini dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU, intitolato «Diritto di non essere giudicato o punito due volte»:

«1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato.

2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge ed alla procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta.

3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione».

C –    Diritto nazionale

11.      Gli articoli 1 e 4 del capo 5 della Taxeringslagen (legge in materia di imposizione tributaria, 1990:324) dettano le disposizioni essenziali relative al regime di sanzioni fiscali in Svezia:

«Articolo 1

Se durante il procedimento il contribuente ha comunicato, in forma non orale, un dato inesatto ai fini dell’imposizione tributaria, si applica un’imposta speciale (sovrattassa). Ciò vale anche qualora il contribuente, nell’ambito di un procedimento giurisdizionale tributario, abbia comunicato un dato che, dopo un esame di merito, sia stato respinto.

Il dato è considerato inesatto se è evidente che l’informazione comunicata dal contribuente è errata oppure se il contribuente non ha comunicato un dato obbligatorio ai fini della liquidazione tributaria. Tuttavia, il dato non è considerato inesatto se, congiuntamente agli altri dati comunicati, costituisce una base sufficiente per l’adozione di una decisione corretta. Non è considerato inesatto nemmeno il dato talmente inverosimile da non potere manifestamente costituire la base per una decisione.

Articolo 4

In caso di comunicazione di un dato inesatto, la sovrattassa ammonta al 40% dell’imposta prevista dall’articolo 1, paragrafo 1, commi 1–5, del capo 1 e che non sarebbe stata applicata al contribuente o coniuge, se invece il dato inesatto fosse stato approvato. Nel caso dell’imposta sul valore aggiunto, la sovrattassa ammonta al 20% dell’imposta che il contribuente avrebbe dovuto pagare.

La sovrattassa ammonta al 10%, oppure al 5% nel caso dell’imposta sul valore aggiunto, qualora il dato inesatto sia stato rettificato oppure se avrebbe potuto essere rettificato alla luce delle certificazioni dei redditi solitamente a disposizione dello Skatterverket e quest’ultimo vi abbia effettivamente avuto accesso entro la fine di novembre del periodo di imposta.

(…)».

12.            Gli articoli 2 e 4 della Skattebrottslagen (legge sui reati fiscali, 1971:69) stabilisce nei seguenti termini le disposizioni di natura penale applicabili ai casi di frode fiscale:

«Articolo 2

È condannato per frode fiscale a una pena detentiva massima di due anni colui che, in forma non orale, comunica dolosamente un dato inesatto a un’amministrazione oppure non presenta all’amministrazione dichiarazioni, moduli di certificazione dei redditi o altri dati obbligatori, con conseguente pericolo di sottrazione di imposte all’erario oppure di detrazioni o rimborsi errati a favore proprio o di altri.

(…)

Articolo 4

Se il reato di cui all’articolo 2 è considerato aggravato, è inflitta una pena detentiva per frode fiscale aggravata che va da un minimo di sei mesi a un massimo di sei anni.

Per determinare se il reato è aggravato si considera se l’importo è ingente, se il colpevole ha utilizzato documenti falsi o contabilità fuorviante oppure se il fatto è stato compiuto nell’ambito di criminalità su vasta scala oppure abituale oppure è particolarmente pericoloso sotto altri aspetti».

III – Fatti e procedimento dinanzi al giudice nazionale

13.      Il sig. Fransson è un lavoratore indipendente che si dedica principalmente alla pesca e alla vendita del pesce bianco (coregonus albula). Egli esercita la propria attività di pesca nelle acque del rio Kalix, sebbene i prodotti della sua pesca siano venduti tanto in territorio svedese quanto in Finlandia.

14.      L’amministrazione fiscale svedese accusa il sig. Fransson di non aver adempiuto i propri obblighi di informazione fiscale durante gli esercizi 2004 e 2005, con la conseguente perdita di gettito fiscale derivante da varie imposte. Riguardo alla liquidazione dell’IVA relativa ai suddetti esercizi, le autorità svedesi calcolano che i dati forniti dal sig. Franssen abbiano sottratto all’erario entrate per un totale di 60 000 corone svedesi per l’esercizio 2004 e di 87 550 corone svedesi per l’esercizio 2005.

15.      Il 24 maggio 2007, in applicazione del regime svedese di sanzioni fiscali, lo Skatteverket irrogava un’ammenda al sig. Fransson, a titolo di oneri fiscali supplementari, per gli illeciti fiscali commessi relativamente all’esercizio 2004, di cui un importo pari a 4 872 corone svedesi era dovuto per il reato relativo all’IVA. Con riferimento all’esercizio 2005, lo Skatteverket infliggeva un’altra ammenda, della quale 3 255 corone erano dovute per l’illecito relativo all’IVA. Né la sanzione relativa all’esercizio 2004 né quella relativa al 2005 formavano oggetto di ricorso, diventando pertanto definitive, rispettivamente, il 31 dicembre 2010 ed il 31 dicembre 2011.

16.      Il 9 giugno 2009, su richiesta del Pubblico Ministero, lo Haparanda tingsrätt avviava un procedimento penale nei confronti del sig. Fransson. Il Pubblico Ministero accusa il sig. Fransson del reato di frode fiscale per gli esercizi relativi al 2004 e al 2005. Secondo il Pubblico Ministero, l’inadempimento degli obblighi di informazione fiscale, compresi quelli attinenti all’IVA, ha causato all’erario una perdita considerevole di gettito fiscale, che giustificava l’avvio di un procedimento penale. Ai sensi degli articoli 2 e 4 dello Skattebrottslagen, il reato contestato al sig. Fransson è punito con una pena detentiva fino a sei anni.

17.      Secondo le dichiarazioni del giudice del rinvio, i fatti a sostegno delle accuse formulate dal Pubblico Ministero sono gli stessi sui quali è stata basata la sanzione amministrativa imposta dallo Skatteverket il 24 maggio 2007.

18.      Il 23 dicembre 2010 lo Haparanda tingsrätt ha sospeso il procedimento penale a carico del sig. Fransson, avendo riscontrato l’esistenza di un nesso con il diritto dell’Unione e, in particolare, con l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che sancisce il diritto fondamentale al ne bis in idem.

IV – Procedimento dinanzi alla Corte di giustizia

19.      Il 27 dicembre 2010 è pervenuta alla Corte di Giustizia la domanda di pronuncia pregiudiziale sollevata dallo Haparanda tingsrätt, che è formulata nei seguenti termini:

«1)      Considerato che, conformemente alla legislazione svedese, il giudice nazionale deve rinvenire un chiaro fondamento nella [CEDU] oppure nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, per poter disapplicare disposizioni nazionali che potrebbero essere in contrasto con il principio del ne bis in idem di cui all’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU e, quindi, in contrasto anche con l’articolo 50 della [Carta], se siffatta condizione contenuta nella legislazione nazionale per la disapplicazione delle disposizioni nazionali sia compatibile con il diritto dell’Unione e, in particolare, con i suoi principi generali, fra tutti, i principi del primato e dell’efficacia diretta.

2)      Se sia ammessa l’imputazione per reati fiscali, nell’ambito di applicazione del principio del ne bis in idem di cui all’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU e all’articolo 50 della Carta, qualora all’imputato sia già stata inflitta una pena pecuniaria (sovrattassa) nell’ambito di un precedente procedimento amministrativo, a seguito di una stessa comunicazione di dati inesatti.

3)      Se sia rilevante ai fini della soluzione della seconda questione la circostanza che dette sanzioni debbano essere coordinate in modo che un giudice ordinario possa ridurre la sanzione nel procedimento penale tenendo conto che all’imputato sono già state applicate sovrattasse a seguito del medesimo atto di comunicazione di dati inesatti.

4)      Nel quadro del principio del “ne bis in idem” (...), poiché in alcune circostanze è ammesso infliggere ulteriori sanzioni in un nuovo procedimento per uno stesso fatto, che sia già stato oggetto di esame e che abbia comportato sanzioni a carico della persona, se, in caso di risposta affermativa alla seconda questione, le condizioni previste da siffatto principio per l’applicazione di più sanzioni in procedimenti distinti siano soddisfatte qualora nel secondo procedimento sia svolto un esame dei fatti nuovo e autonomo rispetto a quello avvenuto nel primo procedimento.

5)      Poiché il sistema svedese che prevede l’imposizione di sovrattasse e l’esame della responsabilità per frode fiscale in procedimenti distinti, si basa su una serie di motivi di interesse generale (...), in caso di risposta affermativa alla seconda questione, se sia compatibile con il principio del “ne bis in idem” un regime come quello svedese, qualora fosse possibile introdurre un sistema non rientrante nell’ambito di applicazione di detto principio, senza necessità di astenersi né dall’imposizione di sovrattasse né dal pronunciarsi sulla responsabilità per frode fiscale, mediante trasferimento, nell’ambito di procedimenti penali, della decisione sull’imposizione di sovrattasse dallo Skatteverket (amministrazione tributaria), ed eventualmente dal giudice amministrativo, a un giudice ordinario».

20.      Hanno presentato osservazioni scritte il Regno di Svezia, il Regno dei Paesi Bassi, il Regno di Danimarca, la Repubblica ceca, la Repubblica d’Austria e l’Irlanda, nonché la Commissione.

21.      Il 24 gennaio 2012 si è tenuta un’udienza dinanzi alla Corte di giustizia, in cui hanno presentato osservazioni orali i rappresentanti del sig. Fransson, gli agenti della Repubblica ceca, del Regno di Danimarca, della Repubblica federale di Germania, dell’Irlanda, della Repubblica ellenica, della Repubblica francese, del Regno dei Paesi Bassi e della Commissione.

V –    Competenza della Corte di giustizia

22.      Tanto gli Stati che hanno presentato osservazioni scritte (ad eccezione dell’Austria), quanto quelli che hanno formulato solo osservazioni orali (Germania e Francia) e la Commissione hanno sostenuto, al pari del Pubblico Ministero della causa a qua, che la risposta al problema sollevato dalla garanzia del principio del ne bis in idem non può essere ricercata nel diritto dell’Unione, né può essere richiesta alla Corte di giustizia. Detto più esplicitamente, non è l’articolo 50 che deve disciplinare la questione controversa. Ne deriva che la discussione di merito, ossia sul problema relativo al contenuto e alla portata di tale principio nel diritto dell’Unione, è stata spesso evitata, con il suo conseguente impoverimento.

23.      La questione discussa in via prioritaria è stata indubbiamente quella relativa alla competenza della Corte di giustizia, nei termini delineati. Pertanto, la Corte si trova nuovamente di fronte ad una problematica in cui la richiesta di chiari criteri per determinare la portata dell’espressione «applicazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri» trova un corrispondente solo nella difficoltà di trovarvi una risposta (3).

24.      Nei successivi paragrafi intendo solamente sottoporre all’attenzione della Corte alcune ulteriori considerazioni che si aggiungono alle svariate e numerose impostazioni proposte ultimamente, in particolare, dagli avvocati generali (4). Ritengo che la presente causa offra l’opportunità di includere argomenti in grado di contribuire ad una missione di interpretazione giurisprudenziale che non si esaurirà nell’immediato.

A –    Impostazione generale

1.      Una «situazione» astratta: l’«attuazione» del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri

25.      Come ho accennato, l’argomento di base sul quale concordano tutti gli intervenienti nel presente procedimento è che non ricorre la circostanza o il presupposto, oggi richiesto tassativamente dall’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, secondo il quale le disposizioni di quest’ultima si applicano agli Stati membri «esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione». Il nesso tra tale enunciato ed il fondamento giurisprudenziale – l’unico esistente fino ad allora – di questa stessa regola appare evidente nella corrispondente spiegazione della Carta (5). Le spiegazioni, per quanto possano valere, indicano quindi una continuità e non un contrasto tra detta giurisprudenza e l’estrinsecazione nella Carta. Secondo me, pur con qualche sfumatura, correttamente.

26.      Indipendentemente da ciò, dopo la proclamazione iniziale della Carta, a Nizza, sono state numerose le analisi che hanno rilevato una tensione tra detta giurisprudenza della Corte di giustizia, sia allo stato di quella pronunciata nel 2000 sia di quella pronunciata nel 2007 (6), e la citata disposizione. Le espressioni «attuazione» (quale categoria della Carta) e «ambito di applicazione» (quale categoria giurisprudenziale) sono state interpretate come termini che riassumono siffatta tensione (7).

27.      A questo punto credo che sarebbe opportuno considerare le diverse formulazioni utilizzate come espressioni che non sono qualitativamente distinte. È chiaro che si possono distinguere alcune sfumature tra le une e le altre, ma i contorni restano pur sempre imprecisi. In particolare, le due formulazioni menzionate nel precedente paragrafo segnalano, come mi sembra di capire, una situazione in cui ‑ poiché esiste sempre un margine discrezionale degli Stati, talché un’eventuale violazione del diritto non potrebbe validamente essere imputata all’Unione ‑ la presenza del diritto dell’Unione nella situazione concreta è sufficientemente intensa da giustificarne l’esame alla luce del diritto dell’Unione e pertanto da parte della Corte di giustizia.

28.      Ciò significa, anzitutto, che la legittimità del controllo giurisdizionale in assenza del margine discrezionale (caso «Bosphorus», per intenderci) (8), non è ovviamente in discussione. Si tratta di situazioni di riproduzione piuttosto che di attuazione.

29.      In ogni caso, la situazione di «attuazione» presenta di per sé un orizzonte essenzialmente fluido, per quanto riguarda la ripartizione delle responsabilità nel garantire i diritti fondamentali. Una volta affermato il principio, vale a dire che, in determinati casi, le manifestazioni del potere pubblico degli Stati membri che esprimono un certo grado di autonomia devono essere esaminate alla luce dei diritti fondamentali vigenti nell’ordinamento dell’Unione da parte dell’interprete supremo di tali diritti, la Corte di giustizia, la questione che si pone immediatamente è quella relativa alla portata del suddetto principio.

30.      Mi sembra che siffatta questione, relativa ai casi in cui è necessario effettuare un controllo «centralizzato» del comportamento degli Stati membri per quanto riguarda il rispetto dei diritti fondamentali, sia stata risolta in termini inizialmente specifici dalla Corte di giustizia, il che ha permesso di individuare un numero esiguo di «situazioni» ben note, ripetutamente commentate, e che sono state oggetto di diverse valutazioni (9).

31.      In ogni caso, forse a causa di tale origine puntuale della dottrina, non è mai stata fornita un’argomentazione veramente solida, ossia dotata di un sufficiente grado di astrazione che permetta di spiegarla. Le ragioni possono essere molteplici, e non mi sembra questo il momento adatto per approfondirle.

32.      Del resto, spiegazioni più convincenti non sono state offerte neppure dalla sentenza ERT, che appare come l’elemento cardine tra l’individuazione di una «situazione» più o meno definita (deroga alle libertà fondamentali) e il passaggio al caso generale che avrebbe finito per consolidarsi da ultimo: «ambito» «ambito di applicazione» «applicazione», sempre del diritto dell’Unione.

33.      Una descrizione astratta del fenomeno che ci occupa mi condurrebbe a sostenere che una caratteristica comune delle diverse formulazioni utilizzate risiede nella necessità della presenza del diritto dell’Unione all’origine dell’esercizio dei pubblici poteri: presenza, si deve aggiungere, in quanto «diritto», vale a dire, con capacità di determinare o influenzare in maggiore o minor misura il contenuto di tali manifestazioni del potere pubblico nello Stato membro. «Presenza» che tuttavia non significa mai «predeterminazione», poiché quest’ultima situazione non deve presentare problemi (10).

34.      Infine, nessuna delle summenzionate formulazioni («ambito», «ambito di applicazione», «attuazione») è di per sé atta a limitare la portata di tale affermazione di principio. In un certo senso, le dette formulazioni hanno poco a che vedere con l’idea di lex stricta, ammesso che tale requisito risulti ad esse applicabile. Al contrario, presentano tutte i vantaggi e gli inconvenienti di qualsiasi formulazione essenzialmente aperta. Neppure lo stesso discusso termine «esclusivamente», di cui all’articolo 51, paragrafo 1, della Carta, porta molto più lontano: probabilmente indica un ammonimento contro un’interpretazione estensiva in futuro, forse esprime un’idea ottimista del potere semantico del verbo «attuare».

2.      Una proposta di interpretazione: rapporto tra regola e eccezione

35.      A mio giudizio, se interpretiamo correttamente la struttura costituzionale essenziale del complesso costituito dall’Unione europea e dagli Stati membri, ciò che è stato definito il «Verfassungsverbund» europeo (11), di regola il controllo degli atti dei pubblici poteri degli Stati membri dotati di margine discrezionale spetta agli Stati stessi, nell’ambito del loro ordinamento costituzionale e degli obblighi internazionali che hanno assunto.

36.      Tale regola, tuttavia, ammette un’eccezione, che ha acquistato una portata innegabile, per i casi in cui i pubblici poteri nazionali stiano attuando il diritto europeo, come risulta attualmente dal testo della Carta. La percezione del rapporto dialettico tra le due fattispecie in termini di regola e di eccezione continua ad essere, secondo me, tuttora giustificata.

37.      Ne consegue che l’assunzione, da parte dell’Unione, della garanzia dei diritti fondamentali nell’esercizio del potere pubblico degli Stati in tali casi deve essere analizzata in termini di trasferimento, ossia come passaggio dalla responsabilità originaria degli Stati membri alla responsabilità dell’Unione, per quanto concerne tale garanzia.

38.      È certamente vero che il diritto dell’Unione è, per il suo contenuto, una realtà che varia nel tempo, e tale variazione determinerà inesorabilmente e giustamente la portata dell’eccezione. Tuttavia il principio, in quanto tale e fintantoché il termine «Verfassungsverbund» continui a descrivere l’assetto costituzionale dell’Unione, costituisce strutturalmente un’eccezione alla regola. Concepire tale eccezione nel senso che essa comprenda la possibilità di convertirsi in regola non risponde, secondo me, all’idea fondamentale che ho appena esposto.

39.      Pertanto, ritengo che l’idea fondamentale, ma indefinita, che gli Stati membri siano assoggettati alla Carta «quando attuano il diritto dell’Unione» richieda ormai uno sforzo supplementare di razionalizzazione da parte del giudice dell’Unione. Tale sforzo viene sollecitato da molto tempo, e non sono mancati i suggerimenti da parte della dottrina scientifica (12).

3.      Un fondamento: un interesse specifico dell’Unione

40.      A mio giudizio, la competenza dell’Unione ad assumere la garanzia dei diritti fondamentali in relazione alle manifestazioni del potere degli Stati membri nell’attuazione del diritto comunitario deve spiegarsi con l’interesse specifico dell’Unione a che tale esercizio si conformi alla sua interpretazione dei diritti fondamentali. Il solo fatto che l’origine ultima di tale esercizio risieda nel diritto dell’Unione non è, di per sé sola, sufficiente per ritenere che si tratti di una situazione di «attuazione».

41.      Ritengo legittimo, in ultima analisi, che in determinate occasioni, che sono difficilmente definibili a priori, conti l’interesse dell’Unione a lasciare la propria impronta e ad affermare la sua concezione dei diritti fondamentali prevalendo sulla posizione dei singoli Stati membri, come ho già indicato. Siffatto interesse dell’Unione si fonda principalmente sulla presenza o persino sul ruolo preponderante del diritto dell’Unione all’interno dell’ordinamento nazionale, in ciascun caso specifico. In definitiva, si tratta di casi in cui la legittimità della res publica europea può essere in questione, e tale questione deve ricevere una risposta adeguata.

4.      Un’argomentazione: la sede delle categorie e la sede della casistica

42.      Alla Corte di giustizia spetta essenzialmente il compito prioritario di motivare e, in particolare, di proporre criteri che favoriscano la legittimità di ogni attività giurisdizionale.

43.      Detto in altri termini, la categoria «attuazione del diritto dell’Unione» come base per avocare a sé il controllo secondo il diritto fondamentale dell’attività dei poteri pubblici nazionali esige, secondo me, una giurisprudenza che completi e, in definitiva, imponga un enunciato di carattere proteiforme come quello che ci occupa.

44.      Più in particolare, se il mero fatto di sostenere o dichiarare che una determinata situazione giuridica rientra nell’«attuazione del diritto dell’Unione» non sembra soddisfacente, ciò si spiega, secondo me, perché dietro tale constatazione manca un elemento o un fattore che qualifichi una situazione così identificata. In definitiva, la considerazione anteriore equivale alla richiesta di una motivazione espressa, e in ogni caso più articolata di quella fornita fino ad ora, per i casi in cui si imponga il trasferimento della funzione e della responsabilità di garantire i diritti fondamentali dagli Stati all’Unione.

45.      Al contempo, e anche se sembra paradossale, ritengo necessario rafforzare parallelamente l’esame delle caratteristiche del caso, vale a dire, dei casi specifici propriamente detti. In concreto, la questione di stabilire se una determinata fattispecie debba essere considerata un caso di applicazione del diritto dell’Unione presuppone frequentemente la ponderazione di una serie di fattori che caratterizzano il caso stesso. In tal senso, quanto più limitata è la tipizzazione giurisprudenziale dei casi di trasferimento della responsabilità, tanto maggiore sarà l’attenzione che l’organo giurisdizionale dovrà prestare alle circostanze del caso specifico.

46.      Riassumendo, ritengo che occorra precisare il significato di una clausola tendenzialmente aperta come quella contenuta nell’attuale articolo 51, paragrafo 1, della Carta. Tale precisazione implica, in primo luogo, la determinazione delle diverse situazioni in cui il trasferimento della garanzia dei diritti fondamentali dagli Stati all’Unione possa essere, in via di principio, giustificato. In secondo luogo, la ponderazione delle circostanze concrete di ciascun caso deve, secondo me, consentire di formulare un giudizio finale e definitivo circa l’attribuzione della responsabilità della garanzia, vuoi all’Unione, vuoi agli Stati membri.

B –    La risposta, nella fattispecie, al problema della competenza

47.      Per cercare di applicare al caso presente i suggerimenti poc’anzi esposti, ritengo che si debba anzitutto esaminare il diritto fondamentale dell’Unione in materia e le misure adottate dai poteri pubblici nazionali, che dovrebbero essere analizzate alla luce di tale diritto, prima ancora di esaminare il grado di collegamento che li unisce.

1.      Il diritto fondamentale in questione

48.      A questo punto vorrei richiamare l’attenzione su una considerazione di ordine sistematico, ma che permette di orientare il ragionamento. Si deve tenere conto del fatto che, attualmente, la fonte del principio del ne bis in idem è diventata la Carta, e in particolare l’articolo 50. La codificazione dei diritti fondamentali dell’Unione, sebbene coesista con le altre componenti dell’articolo 6 TUE, ha conseguenze specifiche. In particolare, la Carta rende visibili alcuni «collegamenti di significato» (Sinnzusammenhänge) che, in un sistema di diritti a carattere principalmente giurisdizionale, rimangono in qualche modo in penombra.

49.      Ancora più in concreto, il sistema della Carta complica considerevolmente il compito di stabilire una differenza di trattamento tra la garanzia riconosciuta dall’articolo 50 e le altre numerose garanzie sostanziali e formali enunciate negli articoli contenuti nel titolo VI della Carta, ossia negli articoli 47‑50, enunciati sotto i titoli, rispettivamente, «Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale» (articolo 47), «Presunzione di innocenza e diritti della difesa» (articolo 48), «Principi della legalità e della proporzionalità dei reati e delle pene» (articolo 49).

2.      Un particolare ambito di esercizio del potere pubblico: il potere sanzionatorio

50.      Come punto di partenza conviene sottolineare che l’ambito, frequentemente riconosciuto come tale, dell’esercizio del potere sanzionatorio degli Stati membri con una causa efficiente nel diritto dell’Unione, presenta titoli che difficilmente potrebbero essere messi in discussione per quanto riguarda l’interesse dell’Unione.

51.      Ci troviamo in un ambito del «potere sanzionatorio» degli Stati membri che trae inizialmente origine dal diritto dell’Unione, una fattispecie in cui già la giurisprudenza offre non poche linee direttrici, come è stato possibile rilevare all’udienza. Così, la Corte di giustizia ha ripetutamente affermato che nell’esercizio del potere sanzionatorio gli Stati membri devono rispettare i principi generali del diritto dell’Unione, la cui portata deve essere necessariamente interpretata dalla Corte di giustizia (13). E sarebbe difficile ritenere che attualmente tali principi non includano i diritti fondamentali contenuti nella Carta.

3.      La portata del trasferimento della garanzia del principio del ne bis in idem dagli Stati membri all’Unione

52.      Posta in tali termini, la questione da risolvere è se tale appello al rispetto dei suddetti principi nell’esercizio del potere sanzionatorio possa essere considerato come il riconoscimento del trasferimento generale, a favore della giurisdizione dell’Unione, di tutte le garanzie menzionate all’inizio che, unitamente al principio del ne bis in idem, compongono il titolo VI della Carta.

53.      A mio giudizio, l’attività sanzionatoria degli Stati membri che trae origine dal diritto dell’Unione configura un principio di legittimazione del trasferimento della responsabilità di garantire i diritti in parola. Se è vero che la sanzione dei comportamenti individuali contrari al diritto dell’Unione è rimasta spesso nelle mani degli Stati membri, non per questo potremmo concludere per la totale assenza di interesse da parte della stessa Unione a che l’esercizio di tale potere sanzionatorio avvenga nel rispetto dei principi fondamentali che reggono una comunità di diritto quale è l’Unione.

54.      Ciò detto, il principio di legittimazione appena ricordato deve essere inevitabilmente completato e integrato da una serie di argomenti ricavati dalle circostanze del caso. In altri termini, ritengo che la mera constatazione che un determinato esercizio del potere sanzionatorio nazionale trae origine inizialmente da una disposizione del diritto dell’Unione non sia di per sé sufficiente per trasferire il controllo di qualsiasi garanzia costituzionale applicabile all’esercizio di tale potere dalla sfera degli Stati a quella dell’Unione.

55.      Le precedenti considerazioni mi inducono a sostenere che la determinazione della competenza della Corte di giustizia a stabilire se il principio del ne bis in idem venga sufficientemente rispettato nel caso di specie deve basarsi su una valutazione della materia di cui trattasi, ossia l’attività repressiva degli Stati che trae origine dal diritto dell’Unione, che darebbe un sostegno puramente iniziale e teorico ad una risposta positiva. Ciononostante, è da un’attenta analisi sia del diritto fondamentale invocato, sia delle circostanze del caso specifico che deve scaturire una risposta definitiva.

4.      Conclusione: un caso che non rientra nella situazione di «attuazione del diritto dell’Unione»

56.      Anzitutto, la presentazione e l’argomentazione stessa della questione pregiudiziale da parte del giudice a quo non possono non lasciare perplessi. Le pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione, quali invocate nell’ordinanza di rinvio, si limitano alla menzione degli articoli 6 TUE e 50 della Carta, senza tentare minimamente di identificare le disposizioni del diritto dell’Unione che sarebbero in definitiva «attuate» dallo Stato interessato. Ancor più perplessi ci lasciano le parole del giudice del rinvio, il quale dichiara che il diritto svedese non è stato emanato in applicazione del diritto dell’Unione o che la risposta può essere comunque utile per altri casi, per i quali sarebbe assai vantaggioso poter disporre già di una risposta della Corte di giustizia (14).

57.      Al di là dei dubbi espressi dallo stesso giudice del rinvio, la questione fondamentale da esaminare nel caso presente riguarda il collegamento tra il diritto dell’Unione, in questo caso sicuramente la direttiva IVA, e la situazione che si è creata nello Stato membro in conseguenza della concezione lí prevalente circa la portata del principio del ne bis in idem. Non si deve, in realtà, dimenticare che il grado di collegamento tra il diritto dell’Unione in principio «attuato» e l’esercizio del potere pubblico dello Stato costituisce la premessa della constatazione di un interesse dell’Unione ad assumere la garanzia del diritto fondamentale nel caso di specie. Tale collegamento è, secondo me, assai debole, non essendo in ogni caso sufficiente per dare fondamento ad un interesse chiaramente identificabile dell’Unione ad assumere direttamente la garanzia di questo specifico diritto fondamentale.

58.      Dalla direttiva 2006/112 si può ricavare solo un obbligo di assicurare l’effettiva riscossione dell’IVA (15). È chiaro che, nelle nostre società, la repressione degli inadempimenti degli obblighi fiscali è una condizione ineludibile per l’effettività dell’esercizio della potestà tributaria. Come logica conseguenza di ciò, lo Stato membro dovrà porre al servizio della riscossione dell’IVA il suo regime fiscale generale, compreso quello sanzionatorio e, analogamente, dovrà mettere al servizio di tale riscossione anche la propria amministrazione fiscale.

59.      Le norme giuridiche alla base, rispettivamente, del potere sanzionatorio dell’amministrazione e dello ius puniendi in senso proprio si inseriscono chiaramente in tale logica: in questo caso viene sanzionata in via generale la falsificazione dei dati forniti al fisco dai contribuenti, e ciò come premessa essenziale del detto regime sanzionatorio. È questo tassello del sistema fiscale svedese che si pone al servizio della riscossione dell’IVA.

60.      Posta in tali termini, la questione da risolvere è se l’ipotesi di un’attività normativa statale direttamente motivata dal diritto dell’Unione sia equiparabile all’ipotesi presente nella fattispecie, in cui il diritto nazionale è posto al servizio degli obiettivi fissati dal diritto dell’Unione. Si tratta quindi di sapere se, dal punto di vista dell’interesse qualificato dell’Unione all’assunzione diretta e centralizzata della garanzia di tale diritto, i due casi siano equiparabili.

61.      Credo che nell’analisi di questa delicata materia si debba poter percepire la differenza tra la causa più o meno prossima e la mera occasio. Il problema, se esiste, relativo alla concezione della portata del principio del ne bis in idem nel diritto svedese è un problema generale per l’architettura del suo regime sanzionatorio che è, in quanto tale, assolutamente indipendente dalla riscossione dell’IVA, e nell’ambito del quale il presente caso relativo al sanzionamento di una falsificazione di dati appare come una semplice occasio.

62.      Pertanto si tratta di stabilire se tale occasio debba comportare che sia, in definitiva, il giudice dell’Unione a determinare, con conseguenze inevitabilmente generali, la portata del principio del ne bis in idem nell’ordinamento svedese, con prevalenza rispetto a quella risultante dalle strutture costituzionali e dagli obblighi internazionali di tale paese.

63.      Secondo la mia opinione, sarebbe sproporzionato derivare da tale occasio un trasferimento nella ripartizione della responsabilità nella garanzia dei diritti fondamentali tra l’Unione e gli Stati. Come mi sembrerebbe altrettanto sproporzionato qualora l’oggetto della nostra analisi fossero principi come quello di un’adeguata difesa, della prova sufficiente o altri argomenti contenuti nel titolo VI della Carta. In definitiva, sembra rischioso affermare che, mediante un enunciato come quello di cui all’articolo 273 della direttiva 2006/112, si stesse anticipando un trasferimento dagli Stati all’Unione di tutte le garanzie costituzionali che regolano l’esercizio del potere sanzionatorio degli Stati, compresa la riscossione dell’IVA.

64.      Per tutte le suddette ragioni, ritengo che, ponderate tutte le circostanze del caso, la questione che il giudice del rinvio ha sottoposto alla Corte di giustizia non debba essere considerata come un caso di applicazione del diritto dell’Unione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta. Propongo quindi alla Corte di giustizia di dichiararsi incompetente a rispondere alla presente questione.

65.      Per l’ipotesi in cui la Corte di giustizia ritenesse invece di essere competente a pronunciarsi sul merito della causa, propongo di seguito e in subordine di rispondere alle questioni pregiudiziali poste dallo Haparanda tingsrätt.

VI – Le questioni pregiudiziali

66.      Le cinque questioni pregiudiziali sottoposte dal giudice nazionale del rinvio possono essere ridotte a due. Come esporrò di seguito, la seconda, la terza, la quarta e la quinta questione vertono sull’applicazione del principio del ne bis in idem, enunciato all’articolo 50 della Carta, ai casi in cui gli Stati membri irrogano una duplice sanzione, amministrativa e penale. La prima questione pregiudiziale, che deve essere risolta per ultima, si riferisce alle condizioni imposte dalla Corte suprema svedese per applicare la CEDU e la Carta nelle corti di tali paesi.

A –    La seconda, la terza, la quarta e la quinta questione pregiudiziale

1.      Riformulazione e ricevibilità

67.      Come ho appena detto, la seconda, la terza, la quarta e la quinta questione pregiudiziale formulate dallo Haparanda tingsrätt vertono sull’interpretazione dell’articolo 50 della Carta. In particolare, la seconda questione si riferisce alla qualificazione degli stessi fatti ai fini del principio del ne bis in idem, ossia alla constatazione che gli stessi comportamenti vengono giudicati più volte. La terza e la quarta questione vertono sull’aspetto procedurale del principio del ne bis in idem, che consiste nel divieto del doppio processo. La quinta questione è formulata in termini piuttosto ipotetici, poiché allude, come parametro di riferimento, ad una normativa nazionale alternativa a quella vigente in Svezia.

68.      A mio giudizio, la seconda, la terza e la quarta questione pregiudiziale possono essere risolte congiuntamente. Tutte e tre le questioni si riferiscono a diversi elementi di uno stesso diritto fondamentale, sui quali mi soffermerò nei paragrafi che seguono, ma pur sempre come parti integranti del principio del ne bis in idem. In definitiva, il giudice a quo vuole sapere se tale principio, come appare enunciato all’articolo 50 della Carta, osti a che uno Stato, nell’attuare il diritto dell’Unione, imponga una duplice sanzione, amministrativa e penale, per gli stessi fatti.

69.      La quinta questione è invece irricevibile. Il giudice del rinvio chiede se il regime svedese risulti compatibile con l’articolo 50 della Carta, alla luce di un ipotetico regime alternativo (che attualmente non esiste in Svezia) di pregiudizialità penale. Rispondere a tale quesito porterebbe la Corte a pronunciarsi indirettamente su una misura nazionale inesistente nell’ordinamento svedese. Il carattere ipotetico della questione darebbe luogo ad una decisione da parte della Corte più vicina ad un parere consultivo che non ad una decisione di interpretazione pregiudiziale, ipotesi questa che la giurisprudenza della Corte ha scartato in numerose occasioni (16). Propongo pertanto alla Corte di dichiarare irricevibile la quinta questione.

2.      Analisi della seconda, terza e quarta questione pregiudiziale

70.      La questione sottoposta dallo Haparanda tingsrätt presenta una complessità particolare e risulta non meno delicata della questione appena trattata. Da un lato, l’imposizione di una duplice sanzione, amministrativa e penale, costituisce una pratica piuttosto diffusa negli Stati membri, soprattutto nell’ambito delle politiche fiscali, ambientali o di pubblica sicurezza. Tuttavia, la maniera in cui vengono cumulate le sanzioni varia enormemente tra i diversi ordinamenti e mostra caratteristiche specifiche e proprie di ciascuno Stato membro. Nella maggior parte dei casi, tali specificità sono adottate con il proposito di temperare le conseguenze di una doppia reazione punitiva da parte del potere pubblico. Dall’altro, come vedremo di seguito, la Corte europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata recentemente al riguardo e ha confermato che dette pratiche, contrariamente a quanto potesse sembrare all’inizio, violano il diritto fondamentale del ne bis in idem sancito dall’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU. Tuttavia, risulta che non tutti gli Stati membri hanno ratificato tale disposizione e che, in altri casi, hanno formulato riserve o dichiarazioni interpretative di quest’ultima. Ne deriva che l’obbligo di interpretare la Carta alla luce della CEDU e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (articolo 52, paragrafo 3, della Carta) diventa, per così dire, asimmetrico, ponendo notevoli problemi di applicazione concreta al caso specifico.

a)      L’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU e la giurisprudenza rilevante della Corte europea dei diritti dell’uomo

i)      Firma e ratifica dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU

71.      Il principio del ne bis in idem non è stato espressamente incluso nella CEDU fin dall’inizio. La sua incorporazione nella convenzione è avvenuta, come noto, con il protocollo n. 7, aperto alla firma il 22 novembre 1984 e in vigore dal 1º novembre 1988. Tra gli altri diritti, l’articolo 4 disciplina la garanzia del ne bis in idem con il proposito, secondo le spiegazioni del protocollo elaborate dal Consiglio d’Europa, di dare espressione al principio in virtù del quale nessuno deve essere giudicato in un procedimento penale per un delitto per il quale sia stato già condannato o assolto in precedenza con sentenza passata in giudicato.

72.      A differenza di altri diritti riconosciuti dalla CEDU, il diritto previsto dall’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU non è stato unanimemente accettato dagli Stati firmatari della Convenzione, tra i quali figurano vari Stati membri dell’Unione. Alla data di lettura di queste conclusioni, il protocollo n. 7 non è stato ancora ratificato dalla Germania, dal Belgio, dai Paesi Bassi e dal Regno Unito. Tra gli Stati che lo hanno ratificato, la Francia ha formulato una riserva all’articolo 4 del citato protocollo, limitando la sua applicazione unicamente agli illeciti di natura penale (17). Analogamente, all’atto della firma, la Germania, l’Austria, l’Italia e il Portogallo hanno formulato varie dichiarazioni in merito alla stessa circostanza: la portata limitata dell’articolo 4 del protocollo n. 7, la cui protezione copre unicamente la duplice sanzione «penale» ai sensi dell’ordinamento interno (18).

73.      Tutto ciò mostra chiaramente e inequivocabilmente che i problemi connessi alla duplice sanzione amministrativa e penale sono caratterizzati da una forte mancanza di consenso tra gli Stati membri dell’Unione. Il carattere problematico di tale scenario è confermato dai negoziati in previsione della futura adesione dell’Unione alla CEDU, dai quali, per il momento, gli Stati e l’Unione hanno deciso di escludere i protocolli integrativi della CEDU, compreso quello che qui interessa (19).

74.      Siffatta mancanza di consenso è riconducibile, originariamente, all’importanza che rivestono gli strumenti di repressione amministrativa in molti Stati membri, nonché al singolare rilievo attribuito in tali Stati membri sia al processo sia alla sanzione penali. Da un lato, gli Stati non vogliono rinunciare all’efficacia che caratterizza la sanzione amministrativa, particolarmente nei settori in cui i pubblici poteri intendono garantire una scrupolosa osservanza della legalità, come il diritto fiscale e il diritto di pubblica sicurezza. D’altro lato, il carattere eccezionale dell’azione penale, così come le garanzie riconosciute all’imputato durante il processo, inducono gli Stati a conservare un margine decisionale nella scelta dei comportamenti meritevoli di essere sanzionati penalmente. Siffatto duplice interesse a mantenere un potere punitivo sia amministrativo sia penale spiega perché attualmente siano molti gli Stati membri che rifiutano, in una maniera o nell’altra, di sottomettersi alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che, come esamino di seguito, si è evoluta in un senso che esclude, praticamente, tale dualismo.

ii)    La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU

75.      Il trattamento che hanno ricevuto i casi di duplice sanzione amministrativa e penale nel sistema della CEDU si è notevolmente evoluto da quando è entrato in vigore il protocollo n. 7 e si compone di tre elementi che esamino di seguito: la definizione di procedimento penale, l’identità dei comportamenti tipici e la doppia imputazione.

76.      In primo luogo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha interpretato inizialmente il termine «procedimento penale» servendosi dei cosiddetti «criteri Engel», al fine estendere le garanzie degli articoli 6 e 7 della CEDU a sanzioni applicate dai pubblici poteri e classificate formalmente come amministrative (20). Come è noto, fino dalla pronuncia della sentenza con il suddetto nome, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha utilizzato tre criteri per valutare se una determinata sanzione abbia carattere penale ai sensi degli articoli 6 e 7 della CEDU: la qualificazione dell’infrazione nel diritto nazionale, la natura dell’infrazione e l’intensità della sanzione inflitta al contravventore (21). Tali requisiti sono stati applicati alle sanzioni tributarie pecuniarie, compresa la sanzione prevista dal diritto svedese di cui si discute nel presente procedimento (22), e la Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato che questo tipo di misure rientra nella categoria di una sanzione di carattere «penale» ai sensi degli articoli 6 e 7 della CEDU e, per estensione, dell’articolo 4 del suo protocollo n. 7 (23).

77.      In secondo luogo, e con riferimento specifico al principio del ne bis in idem, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, dopo alcune incertezze iniziali, ha confermato che il divieto della duplice pena si riferisce alla sanzione applicata per gli stessi fatti e non per un comportamento qualificato nello stesso modo dalle norme che definiscono le infrazioni. Sebbene questo secondo approccio, chiaramente formale e riduttivo della portata dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU, sia sotteso a varie sentenze emanate dopo l’entrata in vigore di quest’ultimo (24), nel 2009 la Grande Sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato la prima impostazione, con la sentenza emanata nell’ambito della causa Zolotukhin c. Russia (25). In tale causa la detta Corte ha statuito con chiarezza che l’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU deve essere interpretato nel senso che vieta qualsiasi imputazione per una seconda infrazione, qualora quest’ultima si fondi su fatti identici o sostanzialmente uguali a quelli sui quali è stata basata un’altra infrazione (26). Così, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha accolto un’interpretazione della doppia punizione che è conforme a quella sviluppata dalla nostra giurisdizione nell’ambito della giurisprudenza relativa all’articolo 54 dell’accordo di Schengen (27).

78.      In terzo ed ultimo luogo, per quanto concerne la dimensione procedurale del principio del ne bis in idem, o di quello che suole chiamarsi anche il divieto di perseguire due volte lo stesso fatto, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha statuito che, una volta verificato che è stata inflitta una sanzione per gli stessi fatti, è vietato avviare un nuovo procedimento se la prima sanzione è divenuta definitiva (28). Tale conclusione si applica a quei casi in cui la prima sanzione è di carattere amministrativo e la seconda di natura penale (29), ma anche ai casi in cui la cronologia degli avvenimenti è invertita (30). Infine, in un momento successivo rispetto alla data di presentazione della questione pregiudiziale in esame, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha considerato irrilevante la circostanza che la prima sanzione sia stata detratta dalla seconda al fine di mitigare l’effetto della doppia punizione (31).

79.      Ricapitolando, l’evoluzione della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo mostra che, in questo momento, l’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU osta a provvedimenti che infliggono una duplice sanzione, amministrativa e penale, per gli stessi fatti, e pertanto impedisce di avviare un secondo procedimento, vuoi amministrativo, vuoi penale, quando la prima sanzione è divenuta definitiva. Lo stato attuale della giurisprudenza, specialmente dopo le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo a partire dalla sentenza Zolotukhin c. Russia, evidenzia l’esistenza di una dottrina decisiva offerta da Strasburgo. In linea di principio, tale dottrina dovrebbe fornire al giudice del rinvio elementi più che sufficienti, dal punto di vista della CEDU, per risolvere la controversia tra il sig. Fransson e lo Stato svedese.

80.      I problemi del caso sottoposto al nostro esame non finiscono qui, ma si potrebbe dire, anzi, che cominciano. Infatti l’equiparazione che il giudice a quo sembra dare per scontata tra l’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU e la Carta pone seri problemi, come abbiamo anticipato.

b)      Il principio del ne bis in idem nel diritto dell’Unione: l’articolo 50 della Carta e la sua interpretazione alla luce dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU

i)      Un’interpretazione parzialmente autonoma dell’articolo 50 della Carta: limiti di un’interpretazione alla luce esclusivamente della CEDU

81.      L’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, stabilisce che i diritti riconosciuti da quest’ultima, qualora corrispondano a quelli garantiti dalla CEDU, avranno «il significato e la portata (…) uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione».

82.      Come espongo di seguito, la presente causa solleva una questione inedita che condiziona tanto il mandato di cui all’articolo 52, paragrafo 3 della Carta quanto la proclamazione dei diritti della CEDU quali principi generali del diritto dell’Unione. Sebbene l’articolo 50 della Carta riconosca un diritto che corrisponde a quello previsto dall’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU (32), resta il fatto che l’aspetto del principio del ne bis in idem invocato nel presente procedimento è lungi dall’essere diffuso e consolidato negli Stati firmatari della CEDU. Come ho esposto nel precedente paragrafo 72, sono molti gli Stati membri che non hanno ratificato il protocollo n. 7 della CEDU o che hanno formulato riserve o dichiarazioni precisamente riguardo all’articolo 4, per evitare la sua applicazione alle sanzioni amministrative.

83.      Come ho già avuto modo di rilevare, gli Stati dell’Unione prevedono invariabilmente, anche se con gradi diversi, il potere dell’amministrazione di imporre sanzioni. In molti Stati membri tale potere è compatibile con lo ius puniendi e può comportare una duplice sanzione, amministrativa e penale. Tuttavia, ciò non significa affatto che gli Stati membri che ammettono la duplice sanzione lo facciano con assoluta discrezionalità. Al contrario, nella maggior parte dei casi, gli Stati che dispongono di strumenti per infliggere una duplice sanzione hanno previsto una qualche modalità per evitare un effetto punitivo eccessivo (33). Così, in Francia il Conseil constitutionnel ha stabilito che la somma delle due sanzioni non può superare l’importo più elevato previsto per ciascuna delle infrazioni (34). La giurisprudenza tedesca applica un criterio di proporzionalità, caso per caso, al fine di evitare un cumulo di sanzioni che diventi eccessivo (35). Altri Stati hanno previsto una regola di pregiudizialità penale che obbliga il giudice amministrativo a sospendere il procedimento in attesa della decisione definitiva della giurisdizione penale (36). Anche il diritto dell’Unione prevede una soluzione di questo genere, all’articolo 6 del regolamento finanziario relativo alla tutela degli interessi finanziari dell’Unione (37). In altri ordinamenti, come sembra essere il caso svedese, il giudice penale che conosce del secondo procedimento può dedurre la sanzione amministrativa dall’importo della sanzione penale.

84.      In tali circostanze ritengo che la proclamazione di cui all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta acquisti necessariamente lineamenti propri quando viene trasposta al principio del ne bis in idem. Del resto, utilizzando l’espressione dell’articolo 6, paragrafo 3, TUE, la CEDU non «garantisce» effettivamente il principio del ne bis in idem nello stesso modo in cui garantisce i contenuti essenziali della CEDU, che si impongono a tutti gli Stati parti della citata convenzione. Ritengo che la CEDU, alla quale si fa rinvio nel diritto primario dell’Unione, sia la convenzione in quanto tale, vale a dire, nel suo complesso di disposizioni imperative e di contenuti, in una certa misura, aleatori. L’interpretazione dei riferimenti alla CEDU contenuti nel diritto primario dell’Unione non può prescindere da tale dato.

85.      In considerazione di quanto precede, ritengo che l’obbligo di interpretare la Carta alla luce della CEDU debba essere attenuato quando il diritto fondamentale in questione, o un aspetto dello stesso (come nel caso dell’applicabilità dell’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU alla duplice sanzione amministrativa e penale), non è stato pienamente incorporato dagli Stati membri. E sebbene in tali circostanze il diritto e la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia costituiscano principi ispiratori per il diritto dell’Unione, considero che l’obbligo di equiparare il livello di tutela garantito dalla Carta a quello riconosciuto dalla CEDU non abbia la stessa efficacia.

86.      In definitiva, la presente causa pone in rilievo una situazione in cui la mancanza di consenso rispetto ad un diritto garantito dal sistema della Convenzione si scontra con la forte presenza e con il radicamento dei regimi della duplice sanzione amministrativa e penale negli Stati membri. Una presenza ed un radicamento che, nel caso della duplice sanzione, amministrativa e penale, per la loro intensità potrebbero essere considerati perfino una tradizione costituzionale comune agli Stati membri.

87.      In tali circostanze, ritengo che l’articolo 50 della Carta esiga un’interpretazione parzialmente autonoma (38). Evidentemente si deve tenere conto dello stato attuale della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma la soglia di tutela cui deve attenersi la nostra giurisdizione deve essere frutto di un’interpretazione indipendente e fondata esclusivamente sul tenore e sulla portata del citato articolo 50.

ii)    L’articolo 50 della Carta e la duplice sanzione, amministrativa e penale

88.      Il principio del ne bis in idem è fortemente radicato nel diritto dell’Unione. Prima che l’accordo di Schengen e la decisione quadro sul mandato di arresto europeo lo proclamassero come limite all’esercizio dello ius puniendi degli Stati membri, già prima dell’entrata in vigore del protocollo n. 7 della CEDU, la giurisprudenza della Corte di giustizia applicava tale principio nel campo del diritto della concorrenza e nell’ambito della giurisprudenza sulla funzione pubblica dell’Unione (39). Nelle conclusioni relative alla causa Gözutok e Brügge, l’avvocato generale Ruiz Jarabo Colomer ha descritto tale principio in maniera dettagliata nell’ambito dell’evoluzione storica del diritto dell’Unione (40), come recentemente ha fatto l’avvocato generale Kokott nelle conclusioni relative alla causa Toshiba (41). Non mi dilungo su tale questione, limitandomi pertanto a rinviare ad entrambi i suddetti testi.

89.      Attualmente nella sua giurisprudenza, la Corte di giustizia conferisce al principio del ne bis in idem un trattamento assai più uniforme, con alcune riserve che evidenzio di seguito (42).

90.      Come punto di partenza, la giurisprudenza ha accolto un’ampia definizione del concetto di «sanzione», in linea con la citata dottrina Engel della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il proposito di ricondurre nell’orbita di tale giurisprudenza le sanzioni imposte dalla Commissione in materia di concorrenza (43). Da tale punto di vista, e in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, una sovrattassa applicata al fine di garantire l’esecuzione del diritto dell’Unione deve essere considerata una sanzione materialmente «penale».

91.      Successivamente, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha accolto anche un’interpretazione molto protettiva, sebbene con qualche eccezione, nel definire gli elementi che fondano la duplice sanzione. Nell’interpretare l’articolo 54 dell’accordo di Schengen e la decisione quadro che disciplina il mandato di arresto europeo, la Corte di giustizia ha affermato che l’identità richiesta dal principio del ne bis in idem si riferisce ai «medesimi fatti» e non allo stesso tipo di contravventori o ai medesimi beni giuridici tutelati (44). Il contesto della presente causa riguarda l’esecuzione a livello nazionale del diritto dell’Unione, proprio la sfera cui si applica l’accezione più ampia del principio del ne bis in idem. Pertanto, ritengo che lo stesso trattamento debba ricevere un caso come quello in esame che, a sua volta, ricalca l’impostazione accolta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo dopo la citata sentenza Zolotukhin.

92.      Infine, come ultima questione, ci rimane da stabilire se la previa esistenza di un procedimento sanzionatorio di natura amministrativa, conclusosi con una sentenza di condanna definitiva, impedisca o meno agli Stati membri di avviare un procedimento penale e di infliggere un’eventuale condanna penale.

93.      Riassunta la questione in tali termini e con la necessaria precisazione che aggiungo di seguito, ritengo che l’articolo 50 della Carta non implichi attualmente che la previa esistenza di una sanzione amministrativa definitiva impedisce l’apertura di un procedimento dinanzi alla giurisdizione penale che possa eventualmente concludersi con una condanna. La precisazione che devo aggiungere si riferisce al fatto che il divieto di arbitrarietà, inscindibile dal principio dello Stato di diritto (articolo 2 TUE), impone all’ordinamento nazionale di far sì che il giudice penale abbia la facoltà di tenere conto, in qualche modo, della previa esistenza di una sanzione amministrativa, al fine di attenuare la sanzione penale.

94.      Da una parte, il testo dell’articolo 50 della Carta, di per sé considerato, non contiene alcun elemento che suggerisca che si è inteso vietare qualsiasi caso di convergenza di potestà sanzionatoria dell’amministrazione e della giurisdizione penale riguardo ad un medesimo comportamento. In tal senso, è opportuno richiamare l’attenzione sull’insistenza con cui usa l’aggettivo «penale» il linguaggio dell’articolo 50 della Carta, contrariamente al linguaggio usato dall’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU. Ciò si osserva tanto nel titolo delle relative disposizioni, quanto al momento di riferirsi alla sentenza definitiva, che viene qualificata «penale» nella prima ma non nella seconda disposizione. Si potrebbe considerare non irrilevante tale differenza, poiché nel caso della Carta, si tratta di una disposizione che è stata redatta parecchi anni dopo l’articolo del citato protocollo.

95.      Orbene, d’altra parte, il principio di proporzionalità e, in ogni caso, il divieto di arbitrarietà, come si desume dai contenuti della clausola dello Stato di diritto secondo le tradizioni costituzionali comuni (45) agli Stati membri, osta ad un esercizio della giurisdizione penale che prescinda completamente dalla circostanza che i fatti portati all’attenzione di quest’ultima siano già stati oggetto di una sanzione amministrativa.

96.      Sono pertanto del parere che l’articolo 50 della Carta debba essere interpretato nel senso che non impedisce agli Stati membri di perseguire dinanzi alla giurisdizione penale gli stessi fatti già sanzionati con decisione definitiva nell’ambito di un procedimento amministrativo, purché il giudice penale sia messo in condizione di tenere conto della previa esistenza di una sanzione amministrativa, al fine di mitigare la pena che sarà inflitta in sede penale.

c)      L’articolo 50 della Carta applicato alla fattispecie

97.      A questo punto, e coerentemente con quanto ho proposto finora, ritengo che l’unico aspetto da esaminare, allo stato attuale del diritto dell’Unione, si riferisca alla questione se il diritto nazionale consenta al giudice penale di prendere in considerazione la previa imposizione di una sanzione amministrativa definitiva al fine di non incorrere in un risultato finale sproporzionato e, in ogni caso, contrario al divieto di arbitrarietà intrinseco allo Stato di diritto.

98.      Dal fascicolo risulta che il sig. Fransson ha effettuato il pagamento delle sanzioni pecuniarie amministrative che gli sono state imposte all’epoca dallo Skatteverket e che tali decisioni sono divenute definitive.

99.      Inoltre, come ha spiegato il rappresentante del sig. Fransson all’udienza, l’interessato si trova attualmente imputato in un procedimento penale, per reati previsti dagli articoli 2 e 4 della Skattebrottslagen e punibili con una pena detentiva fino a sei anni.

100. Dagli atti non risulta se la legislazione svedese preveda esplicitamente un sistema di compensazione, ma l’ordinanza di rinvio indica che il giudice svedese «tiene conto» della sovrattassa precedentemente applicata «quando determina la sanzione per frode fiscale».

101. Spetta pertanto al giudice del rinvio e non alla Corte di giustizia valutare le caratteristiche specifiche del sistema di compensazione previsto dall’ordinamento svedese, vuoi sul piano legislativo vuoi nella prassi giurisprudenziale dei giudici di tale paese. Se ci trovassimo dinanzi ad un meccanismo di compensazione che permette di prendere in considerazione la prima sanzione con la conseguenza di ridurre la seconda sanzione, ritengo che lo svolgimento di un secondo procedimento non sarebbe contrario all’articolo 50 della Carta. Qualora, invece, il criterio utilizzato dall’ordinamento svedese non permettesse una compensazione nei termini poc’anzi esposti, lasciando così aperta la possibilità che il sig. Fransson sia esposto ad una seconda sanzione, ritengo che sussista una violazione del citato articolo 50 della Carta.

B –    Prima questione pregiudiziale

102. Con la prima questione pregiudiziale, lo Haparanda tingsrätt comunica alla Corte di giustizia di nutrire dubbi sulla compatibilità con il diritto dell’Unione di un criterio previsto dal diritto svedese, in particolare dalla giurisprudenza della Corte suprema svedese, e in virtù del quale la disapplicazione di una norma svedese contraria ai diritti riconosciuti dalla Carta e dalla CEDU presuppone, come condizione, l’esistenza di un «chiaro fondamento» nel testo della Carta, della CEDU e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.

103. La questione, come appare formulata dal giudice del rinvio, si riferisce a due situazioni diverse: in primo luogo, alla compatibilità con il diritto dell’Unione di un criterio di applicazione della CEDU, quale accordo internazionale i cui diritti formano parte dell’ordinamento giuridico dell’Unione (articolo 6, paragrafo 3, TUE). In secondo luogo, il giudice ci interroga circa la compatibilità di questo stesso criterio quando viene esteso all’applicazione della Carta e quindi al diritto dell’Unione.

1.      Il «chiaro fondamento» come criterio di applicazione della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali da parte del giudice nazionale

104. Lo Haparanda tingsrätt evoca una giurisprudenza della Corte suprema svedese, secondo la quale, prima di disapplicare una norma svedese incompatibile con la CEDU, è necessario rinvenire «un chiaro fondamento» nella citata convenzione o nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Tale condizione è stata applicata dalla Corte suprema svedese in varie cause vertenti sulla problematica che ci occupa, e tutte le volte la detta Corte è pervenuta alla conclusione che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo relativa all’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU non forniva un «chiaro fondamento». Ciononostante, la giurisprudenza più recente della Corte europea dei diritti dell’uomo conferma, come ho esposto nei precedenti paragrafi 75‑79 delle presenti conclusioni, che la pretesa del sig. Fransson trova effettivamente un «chiaro fondamento» in suo favore.

105. La riforma introdotta con il Trattato di Lisbona spiega l’origine della questione posta dallo Haparanda tingsrätt. Come è noto, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non coincide con il tenore dell’ex articolo 6, paragrafo 2, TUE. Anteriormente al 1º dicembre 2009, il citato articolo dichiarava che l’Unione «rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla [CEDU]», mentre la redazione vigente evidenzia il fatto che i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU «fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» (46). Pertanto, i diritti fondamentali garantiti dalla CEDU che in passato erano rispettati dall’Unione sono diventati diritti che fanno parte dell’ordinamento di quest’ultima. Il cambiamento non è irrilevante e il giudice a quo sembra ritenere che, a prescindere da una futura adesione dell’Unione alla CEDU, tale convenzione abbia acquistato dal 2009 un nuovo status nel diritto dell’Unione.

106. Alla luce dei precedenti argomenti, e se i diritti garantiti dalla CEDU fanno parte del diritto dell’Unione, è legittimo che il giudice del rinvio si chieda se il diritto dell’Unione osti ad un criterio come quello elaborato dalla Corte suprema svedese, che richiede l’esistenza di un «chiaro fondamento» per poter disapplicare una norma nazionale contraria alla CEDU.

107. La risposta a tale quesito si deduce dalla sentenza Kamberaj, pronunciata recentemente dalla Corte di giustizia (47). In tale causa si chiedeva se, in caso di conflitto tra una disposizione del diritto nazionale e la CEDU, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE obbligasse il giudice nazionale ad applicare direttamente le disposizioni della CEDU e a disapplicare una disposizione nazionale incompatibile con quest’ultima.

108. Dopo aver ricordato che l’articolo 6, paragrafo 3, TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona, si limita a riprodurre una giurisprudenza costante della Corte di giustizia, il giudice dell’Unione ha statuito che la nuova formulazione di tale disposizione non modifica lo status della CEDU nell’ordinamento dell’Unione e, pertanto, nemmeno negli ordinamenti degli Stati membri (48). Parimenti, ha proseguito la Corte di giustizia, l’articolo 6, paragrafo 3, TUE non determina «le conseguenze che un giudice nazionale deve trarre nell’ipotesi di conflitto tra i diritti garantiti da tale convenzione ed una norma di diritto nazionale» (49).

109. In definitiva, benché i diritti garantiti dalla CEDU formino parte del diritto dell’Unione quali principi generali, detta convenzione non costituisce in quanto tale uno strumento giuridico formalmente integrato nell’ordinamento europeo. La situazione cambierà quando verrà portato a termine il mandato di cui all’articolo 6, paragrafo 2, TUE, che prevede l’adesione dell’Unione alla CEDU. Tuttavia, nella fase attuale del processo di integrazione, i criteri di applicazione del diritto dell’Unione, in particolare i principi dell’effetto diretto e del primato, non sono estensibili alla CEDU quando quest’ultima è applicata dai giudici degli Stati membri. Così, conformemente a quanto stabilito recentemente dalla sentenza Kamberaj, il criterio del «chiaro fondamento», come è stato applicato dalla Corte suprema svedese a casi che si riferivano esclusivamente all’interpretazione ed all’applicazione della CEDU, non può essere esaminato dalla Corte di giustizia.

2.      Il «chiaro fondamento» come criterio di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea da parte del giudice nazionale

110. Lo Haparanda tingsrätt menziona altresì l’estensione del criterio del «chiaro fondamento» ai diritti tutelati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e, in particolare, al suo articolo 50. In tale caso, la questione non riguarda più i rapporti tra la CEDU ed il diritto dell’Unione, ma riguarda esclusivamente quest’ultimo.

111. Ci si deve pertanto chiedere, al pari del giudice a quo, se un requisito come il «chiaro fondamento», imposto dalla Corte suprema svedese, nell’applicare il diritto dell’Unione, condizioni la funzione giurisdizionale dei giudici di istanza inferiore, come è il caso dello Haparanda tingsrätt.

112. Secondo una reiterata giurisprudenza della Corte di giustizia, un giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto dell’Unione, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contraria della legislazione nazionale, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale (50). Questo stesso ragionamento si applica ugualmente alla giurisprudenza nazionale di un tribunale superiore che impedisca o ostacoli la piena efficacia delle disposizioni del diritto dell’Unione, come accade nel presente caso, con il requisito che impone l’esistenza di un «chiaro fondamento», previsto dalla giurisprudenza della Corte suprema svedese, al fine di disapplicare una norma nazionale incompatibile con la Carta.

113. A mio parere, il requisito del «chiaro fondamento» non costituisce a priori un ostacolo che impedisce o rende eccessivamente difficile la disapplicazione di una norma nazionale incompatibile con la Carta. Come formulata nella giurisprudenza della Corte suprema svedese, la dichiarazione di incompatibilità di una norma interna deve essere preceduta da un diritto fondamentale sufficientemente pertinente affinché il giudice nazionale possa pronunciarsi in proposito. In definitiva, la condizione del «chiaro fondamento» opera come un requisito di minima certezza del contenuto normativo, poiché in caso contrario il giudice competente non avrebbe gli elementi necessari per esaminare la norma nazionale controversa. Non è polemico affermare che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, prima della sentenza Zolotukhin c. Russia, soffriva di una considerevole mancanza di «chiarezza», a fortiori se applicata ad un caso come quello svedese che ancora non era stato esaminato dalla Corte di Strasburgo né presentava analogie con altri casi risolti da quest’ultima.

114. Ciò che risulta comunque inammissibile è che il requisito del «chiaro fondamento» si converta in una condizione che incide sull’intensità del controllo effettuato normalmente dai giudici nazionali quando applicano il diritto dell’Unione. Esigere che la norma che funge da parametro di valutazione sia «chiara» non può diventare un requisito in base al quale l’illegittimità della norma nazionale debba essere «manifesta». In altri termini, un requisito di chiarezza del contenuto di una disposizione di diritto dell’Unione non può servire come scusa per diminuire l’intensità del controllo giurisdizionale effettuato dai giudici nazionali quando applicano tal ordinamento. Altrimenti si introdurrebbe un onere probatorio eccessivo per le parti che invocano l’incompatibilità di una norma nazionale con una disposizione dell’Unione, cosa che costituirebbe un ostacolo alla piena efficacia delle disposizioni di diritto dell’Unione direttamente applicabili. Siffatta conclusione è ancor più avvalorata allorché il requisito della «chiarezza» diminuisce l’intensità del controllo giurisdizionale unicamente rispetto al diritto dell’Unione, ma non in relazione a casi puramente interni. In un’ipotesi siffatta, non solo si metterebbe in pericolo l’effettività del diritto dell’Unione, ma sarebbe inoltre disatteso il principio di equivalenza, quale elaborato da una copiosa giurisprudenza della Corte di giustizia (51).

115. In definitiva, ritengo che il diritto dell’Unione debba essere interpretato nel senso che non osta a che un organo giurisdizionale valuti, prima di disapplicare una norma nazionale, se una disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sia «chiara», sempreché tale requisito non renda difficile l’esercizio dei poteri di interpretazione e di disapplicazione che il diritto dell’Unione attribuisce agli organi giurisdizionali nazionali.

VII – Conclusione

116. Alla luce degli argomenti esposti nei paragrafi 48‑64 delle presenti conclusioni, propongo alla Corte di giustizia di dichiararsi incompetente a rispondere alle questioni sottoposte dallo Haparanda tingsrätt.

117. In subordine, per il caso in cui la Corte di giustizia si considerasse competente a pronunciarsi nel merito, propongo di rispondere alle suddette questioni pregiudiziali nel modo seguente:

«1)      Allo stato attuale del processo di integrazione europea, l’articolo 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea deve essere interpretato nel senso che non impedisce agli Stati membri di perseguire dinanzi alla giurisdizione penale i medesimi fatti già sanzionati con decisione definitiva in via amministrativa, sempreché il giudice penale sia in grado di prendere in considerazione la previa esistenza di una sanzione amministrativa al fine di mitigare la pena che sarà inflitta in sede penale.

      Spetta al giudice nazionale stabilire se, nel presente caso e alla luce delle disposizioni nazionali che disciplinano la materia, sia possibile prendere in considerazione la previa sanzione amministrativa in modo tale da mitigare la decisione emessa dal giudice penale.

2)      La Corte di giustizia non è competente a pronunciarsi circa la compatibilità con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo di un requisito del diritto svedese che esige l’esistenza di un “chiaro fondamento” affinché i giudici nazionali possano disapplicare una norma interna.

      Il diritto dell’Unione deve essere interpretato nel senso che non osta a che un giudice nazionale verifichi, prima di disapplicare una norma nazionale, se una disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sia “chiara”, sempreché tale requisito non renda difficile l’esercizio dei poteri di interpretazione e di disapplicazione che il diritto dell’Unione attribuisce ai giudici nazionali».


1 –      Lingua originale: lo spagnolo.


2 –      Direttiva del Consiglio, del 28 novembre 2006 (GU L 347, pag. 1).


3 – V., per tutti, Groussot, X., Pech, L. e Petursson, G.T., «The Scope of Application of EU Fundamental Rights on Member States’ Action: In Search of Certainty in EU Adjudication», Eric Stein Working Paper, 1/2011.


4 – V., per esempio, le conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa Scattolon (sentenza del 6 settembre 2011, C‑108/10, Racc. pag. I‑7491); le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa Ruiz Zambrano (sentenza dell’8 marzo 2011, C‑34/09, Racc. pag. I‑1177); le conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro nella causa Centro Europa 7 (sentenza del 31 gennaio 2008, C‑380/05, Racc. pag. I‑349), e quelle dell’avvocato generale Jacobs nella causa Schmidberger (sentenza del 12 giugno 2003, C‑112/00, Racc. pag. I‑5659).


5 – V. le spiegazioni dell’articolo 51 del presidium della convenzione che ha elaborato la Carta, nella versione rivista, cui si riferisce l’articolo 6, paragrafo 1, terzo comma, TUE.


6 – Si vedano, da un lato, le sentenze del 13 luglio 1989, Wachauf (5/88, Racc. pag. 2609); del 24 marzo 1994, Bostock (C‑2/92, Racc. pag. I‑955), e del 12 giugno 2003, Schmidberger (C‑112/00, Racc. pag. I‑5659) e, dall’altro, le sentenze del 18 giugno 1991, ERT (C‑260/89, Racc. pag. I‑2925), e del 26 giugno 1997, Familiapress (C‑368/95, Racc. pag. I‑3689) e si mettano a confronto con le sentenze del 13 giugno 1996, Maurin (C‑144/95, Racc. pag. I‑2909); del 29 maggio 1997, Kremzow (C‑299/95, Racc. pag. I‑2629), e del 18 dicembre 1997, Annibaldi (C‑309/96, Racc. pag. I‑7493).


7 –      V., tra molti altri, Nusser, J., Die Bindung der Mitgliedstaaten an die Unionsgrundrechte, ed. Mohr Siebeck, Tubinga, 2011, pagg. 54 e segg.; Kokott, J. e Sobotta, C., «The Charter of Fundamental Rights of the European Union after Lisbon», EUI Working Papers, Academy of European Law, n. 2010/06; Alonso García, R., «The General Provisions of the Charter of Fundamental Rights of the European Union», n. 8 European Law Journal, 2002; Groussot, X., Pech, L. e Petursson, G.T., «The Scope of Application (…)», op.cit.; Eeckhout, P., «The EU Charter of Fundamental Rights and the federal question», 39 Common Market Law Review, 2002; Jacqué, J.P., «La Charte des droits fondamentaux de l’Union européenne: aspects juridiques généraux», REDP, vol. 14, n. 1, 2002; Egger, A., «EU-Fundamental Rights in the National Legal Order: The Obligations of Member States Revisited», Yearbook of European Law, vol. 25, 2006; Rosas, A. e Kaila, H., «L’application de la Charte des droits fondamentaux de l’Union européenne par la Cour de justice – un premier bilan», Il Diritto dell’Unione Europea, 1/2011, e Weiler, J. e Lockhart, N., «Taking rights seriously”: The European Court and its Fundamental Rights Jurisprudence – Part I», Common Market Law Review, 1995, n.  32.


8 – Corte eur. D.U., sentenza del 30 giugno 2005, Bosphorus c. Irlanda (Causa 45036/98).


9 – V., tra le altre, le «situazioni» dei casi paradigmatici Wachauf e ERT, cit. supra, nonché i numerosi esempi esposti da Kaila, H., «The Scope of Application of the Charter of Fundamental Rights of the European Union in the Member States», in Cardonnel, P., Rosas, A. e Wahl, N., Constitutionalising the EU Judicial System. Essays in Honour of PernillaLindh, Hart Publishers, Oxford-Portland, 2012


10 – V. Nusser, J., Die Bindung der Migliedstaaten (…), op. cit.


11 – Pernice, I., «Bestandssicherung der Verfassungen: Verfassungsrechtliche Mechanismen zur Wahrung der Verfassungsordnung», in Bieber, R. e Widmer, P., (a cura di), L’espace constitutionnel européen. Der europäische Verfassungsraum.The European constitutional area, Schultess Polygraphischer Verlag, Zurich, 1995, pagg. 261 e segg., e più di recente, dello stesso autore, Das Verhältnis europäischer zu nationalen Gerichten im europäischen Verfassungsverbund, ed. de Gruyter, Berlino, 2006, pagg. 17 e segg.


12 – V., per tutti, Nusser, J., Die Bindung der Migliedstaaten (…), op. cit.


13 – V. tra le altre, le sentenze del 7 luglio 1976, Watson e Belmann (118/75, Racc. pag. 1185); del 14 luglio 1977, Sagulo e a. (8/77, Racc. pag. 1495); del 10 luglio 1990, Hansen (C‑326/88, Racc. pag. I‑2911); del 2 ottobre 1991, Vandevenne e a. (C‑7/90, Racc. pag. I‑4371); del 21 settembre 1989, Commissione/Grecia (68/88, Racc. pag. 2965); v., inoltre, le sentenze del 27 febbraio 1997 Ebony Maritime e Loten Navigation (C‑177/95, Racc. pag. I‑1111); del 31 marzo 2011, Aurubis Balgaria (C‑546/09, Racc. pag. I‑2531), e del 9 febbraio 2012, Urbán (C‑210/10). Più in particolare, riguardo alle sanzioni nazionali applicate in esecuzione delle direttive dell’Unione, v., tra le altre, le sentenze del 12 luglio 2001, Louloudakis (C‑262/99, Racc. pag. I‑5547); dell’11 settembre 2003, Safalero (C‑13/01, Racc. pag. I‑8679); del 2 ottobre 2003, Grilli (C‑12/02, Racc. pag. I‑11585); del 3 maggio 2005, Berlusconi e a. (C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, Racc. pag. I‑3565), e del 5 luglio 2007, Ntionik e Pikoulas (C‑430/05, Racc. pag. I‑5835).


14 – V. il punto 17 dell’ordinanza di rinvio.


15 –      V. articolo 273 della direttiva 2006/112.


16 – V., tra le altre, le sentenze del 12 giugno 2003, Schmidberger (C‑112/00, Racc. pag. I‑5659, punto 32); dell’8 settembre 2009, Budĕjovický Budvar (C‑478/07, Racc. pag. I‑7721, punto 64), e dell’11 marzo 2010, Attanasio Group (C‑384/08, Racc. pag. I‑2055, punto 28).


17 – Nella riserva depositata il 17 febbraio 1986 si legge: «Le Gouvernement de la République française déclare que seules les infractions relevant en droit français de la compétence des tribunaux statuant en matière pénale doivent être regardées comme des infractions au sens des articles 2 à 4 du présent Protocole».


18 – La formulazione di tali dichiarazioni ricalca praticamente quella della Repubblica francese, con alcune varianti. Ciononostante, si deve tenere presente che la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella causa Gradinger c. Austria, ha dichiarato l’invalidità della dichiarazione austriaca relativa all’articolo 4 del protocollo n. 7 della CEDU (punti 49‑51), sebbene per motivi formali e sulla base della giurisprudenza avviata con la nota causa Belilos c. Svizzera. Al riguardo, v. Cameron, I. e Horn, F., «Reservations to the European Convention on Human Rights: The Belilos Case», German Yearbook of International Law, 33, 1990, e Cohen-Jonathan, G., «Les réserves à la Convention Européenne des Droits de l’Homme», Revue Générale de Droit International Public, T. XCIII, 1989.


19 – V. la relazione del Comitato dei ministri sull’elaborazione di strumenti giuridici in previsione dell’adesione dell’Unione europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 14 ottobre 2011, CDDH(2011)009, pag. 17, punti 19 e segg.


20 – Sentenza Engel e a. c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976 (Serie A n. 22, § 82).


21 – V., tra le altre, le sentenze, Öztürk c. Germania del 21 febbraio 1984 (Serie A n. 73); Lauko c. Slovacchia del 2 settembre 1998 (Rep. 1998-VI), e Jussila c. Finlandia del 23 novembre 2006 (n. 73053/01, ECHR 2006-XIV). Gli ultimi due criteri sono alternativi, ma la Corte europea dei diritti dell’uomo può, in funzione delle circostanze del caso, valutarli congiuntamente.


22 – V. le sentenze Västberga Taxi Aktiebolag e Vulic c. Svezia del 23 luglio 2002 (n. 36985/97), e Janosevic c. Svezia del 23 luglio 2002 (ECHR 2002-VII).


23 – V. la sentenza Zolutukhin c. Russia del 10 febbraio 2009 (n. 14939/03, ECHR 2009).


24 – V. le sentenze Oliveira c. Svizzera del 30 luglio 1998 (Rep. 1998-V; fasc. 83); Franz Fischer c. Austria del 29 maggio 2001 (n. 37950/97); Sailer c. Austria del 6 giugno 2002 (n. 38237/97), e Ongun c. Turchia del 23 giugno 2009 (n. 15737/02).


25 –      Sentenza cit. alla nota 23.


26 –      Sentenza Zolutukhin, cit. (punti 82‑84).


27 – V., tra le altre, le sentenze dell’11 febbraio 2003, Gözütok e Brügge (C‑187/01 e C‑385/01, Racc. pag. I‑1345); del 10 marzo 2005, Miraglia (C‑469/03, Racc. pag. I‑2009); del 9 marzo 2006, Van Esbroeck (C‑436/04, Racc. pag. I‑2333); del 28 settembre 2006, Van Straaten (C‑150/05, Racc. pag. I‑9327) e Gasparini e a. (C‑467/04, Racc. pag. I‑9199), e dell’11 dicembre 2008, Bourquain (C‑297/07, Racc. pag. I‑9425).


28 –      V. Corte Eur. D.U., le sentenze Franz Fischer, cit. (punto 22); Gradinger, cit. (punto 53), e Nitikin c. Russia del 2 novembre 2006 (n. 15969/02, punto 37).


29 – Sentenza Zolotukhin, cit.


30 – Sentenza Ruotsalainen c. Finlandia del 16 giugno 2009 (n. 13079/03).


31 – Sentenza Tomasovic c. Croazia, del 18 ottobre 2011 (n. 53785/09), in contraddizione con quanto statuito nella sentenza Oliveira c. Svizzera, il cui verdetto, oggetto di forti critiche, sembra ormai abbandonato. Al riguardo, v. Carpio Briz, D., «Europeización y reconstitución del non bis in idem», in Revista General de Derecho Penal, n. 14, 2010, ed. Iustel, Madrid.


32 – Tale conclusione è confermata dalle spiegazioni elaborate per fornire una guida all’interpretazione della Carta, che devono essere tenute presenti da tutti gli organi giurisdizionali, come esige l’articolo 52, paragrafo 7, della stessa. Alla fine, la spiegazione dell’articolo 50 aggiunge che «[p]er quanto riguarda le situazioni contemplate dall’articolo 4 del protocollo 7 [della CEDU], vale a dire l’applicazione del principio all’interno di uno Stato membro, il diritto garantito ha lo stesso significato e la stessa portata del corrispondente diritto sancito dalla CEDU».


33 – V. l’analisi comparata di Moderne, F., «La sanction administrative. Elements d’analyse comparative», Revue Française de Droit Administratif, n. 3, 2002.


34 – V. le sentenze del Conseil Constitutionnel del 28 luglio 1980, n. 89-260 DC, Loi relative à la sécurité et à la transparence des marchés financiers, considerando 16; del 30 dicembre 1997, n. 97-395 DC, Loi des finances pour 1998, considerando 41. Su tale giurisprudenza, v. Gutmann, D., «Sanctions fiscales et Constitution», in Les noveaux Cahiers du Conseil Constitutionnel, n. 33, 2011.


35 – V., per esempio, la sentenza dell’OLG Celle, del 6 agosto 1970, 1Ss 164/70,


36 – Tale è, per esempio, il caso della Spagna, in cui il Regio decreto 1398/1993, che regola il potere sanzionatorio della pubblica amministrazione, impone, all’articolo 7, la priorità del procedimento penale rispetto al procedimento sanzionatorio amministrativo. Al riguardo, v. Queralt Jiménez, A., La interpretación de los derechos: del Tribunal de Estrasburgo al Tribunal Constitucional, ed. Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, Madrid, 2008, pagg. 263 e segg.; Beltrán de Felipe, M. e Puerta Seguido, F., «Perplejidades acerca de los vaivenes en la jurisprudencia constitucional sobre el "ne bis in idem"», in Revista española de derecho constitucional, n. 71, 2004.


37 – L’articolo 6, paragrafo 1, prevede la possibilità di sospendere il procedimento amministrativo in conseguenza dell’avvio di un procedimento penale in relazione agli stessi fatti. Di seguito, il paragrafo 3 aggiunge: «[a]llorché il procedimento penale è concluso, riprende corso il procedimento amministrativo già sospeso purché ciò non sia contrario ai principi generali del diritto» (il corsivo è mio).


38 – In tal senso, Burgorgue-Larsen, L., «Les interactions normatives en matiere de droits fondamentaux», in Burgorgue-Larsen, Dubout, E. Maitrot de la Motte, A. e Touzé, S., Les interactions normatives. Droit de l’Union Européenne et Droit International, ed. Pedone, 2012, Parigi, pagg. 372 e 373.


39 – V. le risalenti sentenze della Corte del 5 maggio 1966, Gutmann/Commissione CEEA (18/65 e 35/65, Racc. pag. 142), in materia di funzione pubblica, e del 15 luglio 1970, Boehringer Mannheim/Commissione (45/69, Racc. pag. 769), nel settore della concorrenza.


40 – Conclusioni presentate il 19 settembre 2002, Gözütok e Brügge (sentenze dell’11 febbraio 2003, C‑187/01 e C‑385/01, Racc. pag. I‑1345), paragrafi 47 e segg.


41 – Conclusioni presentate l’8 settembre 2011, Toshiba Corporation (sentenza del 14 febbraio 2012, C‑17/10), paragrafi 96 e segg.


42 –      V., per tutte, van Bockel, B., The Ne Bis in Idem Principle in EU Law, ed. Kluwer, L’Aja, 2010, pagg. 205 e segg.


43 – Al riguardo, v. la dettagliata analisi in materia realizzata dall’avvocato generale Kokott nelle sue conclusioni del 15 dicembre 2011, Bonda (sentenza del 5 giugno 2012, C‑489/10, paragrafi 32 e segg.). V., inoltre, le conclusioni dell’avvocato generale Sharpston presentate il 10 febbraio 2011, KME Germania/Commissione (sentenza dell’8 dicembre 2011, C‑272/09 P, Racc. pag. I‑12789, paragrafo 64); le conclusioni dell’avvocato generale Bot, presentate il 26 ottobre 2010, ArcelorMittal Luxembourg/Commissione e a. (sentenza del 29 marzo 2011, C‑201/09 P e C‑216/09 P, Racc. pag. I‑2239, paragrafo 41) e ThyssenKrupp Nirosta/Commissione (sentenza del 29 marzo 2011, C‑352/09 P, Racc. pag. I‑2359, paragrafo 49), nonché le conclusioni dell’avvocato generale Kokott, presentate il 3 luglio 2007, ETI e a. (sentenza dell’11 dicembre 2007, C‑280/06, Racc. pag. I‑10893, paragrafo 71).


44 –      V. le sentenze Van Esbroeck, cit. (punti 27, 32 e 36); Van Straaten, cit. (punti 41, 47 e 48), e del 16 novembre 2010, Mantello (C‑261/09, Racc. pag. I‑11477, punto 39). Orbene, tale impostazione si discosta da quella applicata nell’ambito della concorrenza, in cui la Corte di giustizia continua ad esigere una triplice condizione di identità dei fatti, del contravventore e dell’interesse giuridico tutelato. V., tra le altre, le sentenze del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione (C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P, Racc. pag. I‑123, punto 338), e Toshiba Corporation, cit. (punti 97 e 98). Al riguardo, v., inoltre, la critica mossa dall’avvocato generale Kokott nei confronti del detto regime speciale applicabile in materia di concorrenza, nelle sue conclusioni relative alla causa Toshiba, cit. alla nota 41.


45 –      V. Bingham, T., The Rule of Law, ed. Allen Lane, Londra, 2010, pagg. 66 e segg.


46 –      Il corsivo è mio.


47 –      Sentenza del 24 aprile 2012 (C‑571/10).


48 –      Sentenza Kamberaj, cit. alla nota precedente (punto 61).


49 –      Ibidem, punto 62.


50 –      Sentenze del 9 marzo 1978, Simmenthal (106/77, Racc. pag. 629, punto 24), e del 19 novembre 2009, Filipiak (C‑314/08, Racc. pag. I‑11049, punto 81).


51 –      V., tra le altre, le sentenze del 15 settembre 1998, Deis (C‑231/96, Racc. pag. I‑4951, punto 36); del 1º settembre 1998, Levez (C‑326/96, Racc. pag. I‑7835, punto 41); del 16 maggio 2000, Preston e a. (C‑78/98, Racc. pag. I‑3201, punto 55), e del 19 settembre 2006, i‑21 Germania e Arcor (C‑392/04 e C‑422/04, Racc. pag. I‑8559, punto 62).