Language of document : ECLI:EU:C:2020:945

SENTENZA DELLA CORTE (Sesta Sezione)

19 novembre 2020 (*)

«Rinvio pregiudiziale – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Politica in materia di asilo – Direttiva 2011/95/UE – Condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato – Rifiuto di prestare servizio militare – Articolo 9, paragrafo 2, lettera e) – Diritto del paese di origine che non prevede il diritto all’obiezione di coscienza – Tutela delle persone fuggite dal loro paese di origine dopo la scadenza del termine per il rinvio del servizio militare – Articolo 9, paragrafo 3 – Collegamento tra i motivi di cui all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di detta direttiva – Prova»

Nella causa C‑238/19,

avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Verwaltungsgericht Hannover (Tribunale amministrativo di Hannover, Germania), con decisione del 7 marzo 2019, pervenuta in cancelleria il 20 marzo 2019, nel procedimento

EZ

contro

Bundesrepublik Deutschland,

LA CORTE (Sesta Sezione),

composta da J.–C. Bonichot (relatore), presidente della Prima Sezione, facente funzione di presidente di sezione, C. Toader e M. Safjan, giudici,

avvocato generale: E. Sharpston

cancelliere: R. Schiano, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 5 marzo 2020,

considerate le osservazioni presentate:

–        per EZ, da S. Schröder, Rechtsanwältin;

–        per la Bundesrepublik Deutschland (Repubblica federale di Germania), da A. Horlamus, in qualità di agente;

–        per il governo tedesco, da R. Kanitz, in qualità di agente;

–        per la Commissione europea, da S. Grünheid e M. Condou-Durande, in qualità di agenti,

sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 28 maggio 2020,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

1        La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), e paragrafo 3, della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9).

2        Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra EZ, cittadino siriano, e la Bundesrepublik Deutschland (Repubblica federale di Germania) in ordine alla decisione del Bundesamt für Migration und Flüchtlinge (Ufficio federale per l’immigrazione e i rifugiati, Germania) di negargli lo status di rifugiato.

 Contesto normativo

 Convenzione di Ginevra

3        Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], ed entrata in vigore il 22 aprile 1954, quale integrata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, entrato in vigore a sua volta il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «Convenzione di Ginevra»):

«Ai fini della presente Convenzione, il termine “rifugiato” è applicabile:

(...)

(2)      a chiunque, (…) nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dallo Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.

(...)».

 Direttiva 2011/95

4        I considerando 2, 4, 12, 24 e 29 della direttiva 2011/95 enunciano quanto segue:

«(2)      Una politica comune nel settore dell’asilo, che preveda un sistema comune europeo di asilo, costituisce uno degli elementi fondamentali dell’obiettivo dell’Unione europea relativo all’istituzione progressiva di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione.

(...)

(4)      La convenzione di Ginevra (…) costituisc[e] la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati.

(...)

(12)      Lo scopo principale della presente direttiva è quello, da una parte, di assicurare che gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale e, dall’altra, di assicurare che un livello minimo di prestazioni sia disponibile per tali persone in tutti gli Stati membri.

(...)

(24)      È necessario introdurre dei criteri comuni per l’attribuzione ai richiedenti asilo della qualifica di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 della convenzione di Ginevra.

(...)

(29)      Una delle condizioni per l’attribuzione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra è l’esistenza di un nesso causale tra i motivi di persecuzione, tra cui razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, e gli atti di persecuzione o la mancanza di protezione contro tali atti».

5        Ai sensi dell’articolo 2, lettera d), di tale direttiva, ai fini della stessa, per «rifugiato» si intende il «cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese (...)».

6        L’articolo 4 di detta direttiva, contenuto nel capo II della medesima, intitolato «Valutazione delle domande di protezione internazionale», prevede quanto segue:

«1.      Gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale. Lo Stato membro è tenuto, in cooperazione con il richiedente, a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda.

2.      Gli elementi di cui al paragrafo 1 consistono nelle dichiarazioni del richiedente e in tutta la documentazione in possesso del richiedente in merito alla sua età, estrazione, anche, ove occorra, dei congiunti, identità, cittadinanza/e, paese/i e luogo/luoghi in cui ha soggiornato in precedenza, domande d’asilo pregresse, itinerari di viaggio, documenti di viaggio nonché i motivi della sua domanda di protezione internazionale.

3.      L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:

a)      di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e le relative modalità di applicazione;

b)      delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente che deve anche render noto se ha già subito o rischia di subire persecuzioni o danni gravi;

c)      della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

d)      dell’eventualità che le attività svolte dal richiedente dopo aver lasciato il paese d’origine abbiano mirato esclusivamente o principalmente a creare le condizioni necessarie alla presentazione di una domanda di protezione internazionale, al fine di stabilire se dette attività espongano il richiedente a persecuzione o a danno grave in caso di rientro nel paese;

e)      dell’eventualità che ci si possa ragionevolmente attendere dal richiedente un ricorso alla protezione di un altro paese di cui potrebbe dichiararsi cittadino.

4.      Il fatto che un richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di siffatte persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, a meno che vi siano buoni motivi per ritenere che tali persecuzioni o danni gravi non si ripeteranno.

5.      Quando gli Stati membri applicano il principio in base al quale il richiedente è tenuto a motivare la sua domanda di protezione internazionale e qualora taluni aspetti delle dichiarazioni del richiedente non siano suffragati da prove documentali o di altro tipo, la loro conferma non è comunque necessaria se sono soddisfatte le seguenti condizioni:

a)      il richiedente ha compiuto sinceri sforzi per circostanziare la domanda;

b)      tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una spiegazione soddisfacente dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi;

c)      le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso di cui si dispone;

d)      il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto buoni motivi per ritardarla; e

e)      è accertato che il richiedente è in generale attendibile».

7        L’articolo 9 della medesima direttiva, intitolato «Atti di persecuzione», dispone quanto segue:

«1.      Sono atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1 A della convenzione di Ginevra gli atti che:

a)      sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali [firmata a Roma il 4 novembre 1950]; oppure

b)      costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui alla lettera a).

2.      Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:

(...)

e)      azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nell’ambito dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2;

(...)

3.      In conformità dell’articolo 2, lettera d), i motivi di cui all’articolo 10 devono essere collegati agli atti di persecuzione quali definiti al paragrafo 1 del presente articolo o alla mancanza di protezione contro tali atti».

8        L’articolo 10 della direttiva 2011/95 è così formulato:

«1.      Nel valutare i motivi di persecuzione, gli Stati membri tengono conto dei seguenti elementi:

(...)

e)      il termine “opinione politica” si riferisce, in particolare, alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’articolo 6 e alle loro politiche o metodi, indipendentemente dal fatto che il richiedente abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti.

2.      Nell’esaminare se un richiedente abbia un timore fondato di essere perseguitato è irrilevante che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni».

9        L’articolo 12 di tale direttiva, intitolato «Esclusione», al paragrafo 2 prevede quanto segue:

«Un cittadino di un paese terzo o un apolide è escluso dallo status di rifugiato ove sussistano fondati motivi per ritenere che:

a)      abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

(...)».

 Diritto tedesco

10      L’Asylgesetz (legge in materia di diritto d’asilo), nella versione applicabile ai fatti di cui al procedimento principale (in prosieguo: l’«AsylG»), al suo articolo 3, intitolato «Riconoscimento dello status di rifugiato», prevede quanto segue:

«(1)      Uno straniero è considerato rifugiato ai sensi della [Convenzione di Ginevra] qualora quest’ultimo

1.      per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale,

2.      si trova fuori dal paese (paese di origine)

a)      di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese,

(...)

(2)      Uno straniero non è considerato rifugiato ai sensi del paragrafo 1 ove sussistano fondati motivi per ritenere che:

1.      abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità quali definiti dagli strumenti internazionali relativi a tali crimini;

2.      abbia commesso al di fuori del territorio federale un reato grave di diritto comune prima di essere ammesso come rifugiato, in particolare un atto crudele, anche se quest’ultimo sia stato perpetrato con un dichiarato obiettivo politico, oppure

3.      si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite.

(...)».

11      L’articolo 3a dell’AsylG, intitolato «Atti di persecuzione», prevede quanto segue:

«(1)      Si considerano atti di persecuzione, ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, gli atti che

1.      sono, per loro natura o frequenza, sufficientemente gravi da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (…); oppure

2.      costituiscono la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello di cui al precedente punto 1.

(2)      Gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 possono, tra l’altro, assumere la forma di:

(...)

5.      azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nell’ambito dei motivi di esclusione di cui all’articolo 3, paragrafo 2, della presente legge;

(...)

(3)      I motivi di persecuzione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, punto 1, in combinato disposto con l’articolo 3b, devono essere collegati agli atti di persecuzione quali definiti ai paragrafi 1 e 2 del presente articolo o alla mancanza di protezione contro tali atti».

12      L’articolo 3b dell’AsylG, intitolato «Motivi di persecuzione», così recita:

«(1)      Nel valutare i motivi di persecuzione a norma dell’articolo 3, paragrafo 1, punto 1, occorre tener conto dei seguenti elementi:

(...)

5.      il termine “opinione politica” si riferisce, in particolare, alla professione di un’opinione, un pensiero o una convinzione su una questione inerente ai potenziali persecutori di cui all’articolo 3c e alle loro politiche o metodi, indipendentemente dal fatto che lo straniero abbia tradotto tale opinione, pensiero o convinzione in atti concreti.

(2)      Nell’esaminare se uno straniero abbia un timore fondato di essere perseguitato è irrilevante che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni».

 Procedimento principale e questioni pregiudiziali

13      EZ, cittadino siriano, ha lasciato il suo paese il 6 novembre 2014. Arrivato in Germania il 5 settembre 2015, ha presentato una domanda di asilo il 28 gennaio 2016.

14      Egli ha dichiarato di essere fuggito dalla Siria nel novembre 2014 per non prestare servizio militare, per timore di dover partecipare alla guerra civile. Lo stesso aveva ottenuto un rinvio del servizio militare fino al febbraio 2015 al fine di portare a termine gli studi universitari.

15      L’11 aprile 2017 l’Ufficio federale per l’Immigrazione e i Rifugiati gli ha riconosciuto lo status di protezione sussidiaria, ma ha respinto la sua domanda di asilo in ragione del fatto che lo stesso, di per sé, non avrebbe subìto persecuzioni che lo abbiano spinto alla partenza. Secondo tale autorità, l’interessato, avendo soltanto fuggito la guerra civile, non dovrebbe temere persecuzioni se ritornasse in Siria. In ogni caso, non sussisterebbe alcun collegamento tra le persecuzioni temute e i motivi di persecuzione che possono far sorgere il diritto al riconoscimento dello status di rifugiato.

16      Il 1° maggio 2017 EZ ha proposto ricorso avverso tale decisione dinanzi al giudice del rinvio, il Verwaltungsgericht Hannover (Tribunale amministrativo di Hannover, Germania). Egli ritiene, in sostanza, di essere esposto, a causa della sua fuga dal suo paese di origine per sottrarsi all’obbligo di leva e della sua domanda di asilo presentata in Germania, a un rischio di persecuzione che giustifica il riconoscimento dello status di rifugiato.

17      Il giudice del rinvio rileva che la giurisprudenza nazionale non è univoca per quanto riguarda le domande di asilo presentate da persone di nazionalità siriana soggette all’obbligo di leva che sono fuggite dal loro paese per eludere il servizio militare e sono pertanto esposte a subire azioni giudiziarie o sanzioni penali in caso di ritorno nel loro paese.

18      Ciò premesso, il Verwaltungsgericht Hannover (Tribunale amministrativo di Hannover) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della [direttiva 2011/95] debba essere interpretato nel senso che il “rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto” non richiede che l’interessato abbia rifiutato il servizio militare nell’ambito di un procedimento formale di rifiuto, qualora la legislazione dello Stato di origine non preveda il diritto di rifiutare il servizio militare.

2)      In caso di risposta affermativa alla prima questione:

Se (...) l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva [2011/95] tuteli anche le persone che al termine del periodo di rinvio del servizio militare non si mettono a disposizione dell’amministrazione militare dello Stato di origine e si sottraggono al reclutamento forzato attraverso la fuga.

3)      In caso di risposta affermativa alla seconda questione:

Se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva [2011/95] debba essere interpretato nel senso che, per una persona soggetta all’obbligo di leva che non è a conoscenza dell’ambito dei suoi futuri interventi militari, il servizio militare “comporterebbe” direttamente o indirettamente “la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nell’ambito dei motivi di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2” per il solo fatto che le forze armate del suo Stato di origine commettono ripetutamente e sistematicamente tali crimini, reati o atti impiegando militari di leva.

4)      Se l’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva [2011/95] debba essere interpretato nel senso che, anche in caso di azioni giudiziarie ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di tale direttiva, in conformità dell’articolo 2, lettera d), della medesima, i motivi di cui all’articolo 10 devono essere collegati agli atti di persecuzione quali definiti dall’articolo 9, paragrafi 1 e 2, di tale direttiva o alla mancanza di protezione contro tali atti.

5)      In caso di risposta affermativa alla quarta questione, se il collegamento ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 3, in combinato disposto con l’articolo 2, lettera d), della direttiva [2011/95], tra la persecuzione per azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare e il motivo di persecuzione sussista per il solo fatto che l’azione giudiziaria o la sanzione penale sono collegate al rifiuto».

 Sulle questioni pregiudiziali

 Osservazioni preliminari

19      Occorre ricordare, in primo luogo, che dai considerando 4 e 12 della direttiva 2011/95 risulta che la Convenzione di Ginevra costituisce la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati e che tale direttiva è stata adottata in particolare affinché tutti gli Stati membri applichino criteri comuni per identificare le persone che hanno effettivamente bisogno di protezione internazionale.

20      L’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2011/95 deve pertanto essere effettuata alla luce dell’impianto sistematico e della finalità di quest’ultima, nel rispetto della Convenzione di Ginevra e degli altri trattati pertinenti di cui all’articolo 78, paragrafo 1, TFUE. Tale interpretazione deve inoltre avvenire, come risulta dal considerando 16 di tale direttiva, nel rispetto dei diritti sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 23 e giurisprudenza ivi citata).

21      Si deve ricordare, in secondo luogo, che in conformità all’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, il rifugiato è, in particolare, un cittadino di un paese terzo che si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza «per il timore fondato di essere perseguitato» per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale e non può o, «a causa di tale timore», non vuole avvalersi della «protezione» di detto paese. Il cittadino in questione, quindi, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese di origine, deve trovarsi di fronte al fondato timore di una persecuzione contro la sua persona per almeno uno dei cinque motivi elencati nella direttiva e nella Convenzione di Ginevra (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 24 e giurisprudenza ivi citata).

22      In terzo luogo, si deve sottolineare che l’articolo 9 della direttiva 2011/95 definisce gli elementi che consentono di qualificare taluni atti come atti di persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra. A tale riguardo, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), di tale direttiva precisa che gli atti pertinenti devono essere sufficientemente gravi, per loro natura o frequenza, da rappresentare una violazione grave dei diritti umani fondamentali, in particolare dei diritti assoluti per cui qualsiasi deroga è esclusa a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Peraltro, l’articolo 9, paragrafo 1, lettera b), di detta direttiva precisa che dev’essere considerata una persecuzione anche la somma di diverse misure, tra cui violazioni dei diritti umani, il cui impatto sia sufficientemente grave da esercitare sulla persona un effetto analogo a quello indicato all’articolo 9, paragrafo 1, lettera a), della stessa direttiva. Da tali disposizioni risulta che, affinché una violazione dei diritti fondamentali costituisca una persecuzione ai sensi dell’articolo 1, sezione A, della Convenzione di Ginevra, essa deve raggiungere un determinato livello di gravità (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 25 e giurisprudenza ivi citata).

23      In quarto luogo occorre rilevare che, ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 3, lettere da a) a c), della direttiva 2011/95, in sede di esame, su base individuale, della domanda di protezione internazionale si deve tenere conto di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese di origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente nonché della situazione individuale e delle circostanze personali di quest’ultimo.

24      È alla luce di tali considerazioni che occorre interpretare le disposizioni dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, ai sensi delle quali gli atti di persecuzione che rientrano nella definizione di cui al paragrafo 1 di tale articolo possono, tra l’altro, assumere la forma di azioni giudiziarie o sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto, quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti che rientrano nelle clausole di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2, di tale direttiva.

25      Inoltre, per quanto riguarda la controversia oggetto del procedimento principale, dalle indicazioni fornite dal giudice del rinvio risulta che i crimini che EZ avrebbe potuto essere indotto a commettere in qualità di coscritto nell’ambito della guerra civile siriana sono «crimini di guerra» o «crimini contro l’umanità» di cui all’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2011/95.

 Sulle questioni prima e seconda

26      Con le sue prime due questioni, che occorre esaminare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che osta, qualora la legislazione dello Stato di origine non preveda la possibilità del rifiuto di prestare servizio militare, a che tale rifiuto sia considerato accertato nel caso in cui l’interessato non abbia formalizzato il suo rifiuto seguendo una determinata procedura e sia fuggito dal suo paese di origine senza presentarsi alle autorità militari.

27      Ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, gli atti di persecuzione ai quali sostiene di essere esposto colui che intende ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato ai sensi di tale disposizione devono conseguire al suo rifiuto di prestare servizio militare. Di conseguenza, tale rifiuto deve costituire il solo mezzo che permette all’interessato di evitare la partecipazione ai crimini di cui all’articolo 12, paragrafo 2, lettera a), della medesima direttiva (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 44).

28      Ne consegue che la circostanza che il richiedente lo status di rifugiato si sia astenuto dal ricorrere alla procedura per ottenere lo status di obiettore di coscienza esclude ogni protezione ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, a meno che detto richiedente non dimostri di non aver potuto disporre, nella sua situazione concreta, di nessuna procedura siffatta (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 45).

29      In particolare, qualora la possibilità di rifiutare di prestare servizio militare non sia prevista dal diritto dello Stato di origine e non esista di conseguenza alcuna procedura a tal fine, non si può pretendere che il renitente alla leva formalizzi il suo rifiuto secondo una determinata procedura.

30      Inoltre, in tale ipotesi, data l’illegalità di un tale rifiuto in forza del diritto dello Stato di origine e considerate le azioni giudiziarie e le sanzioni penali alle quali detto rifiuto espone il suo autore, non ci si può ragionevolmente aspettare che quest’ultimo lo abbia espresso dinanzi alle autorità militari.

31      Tuttavia, tali circostanze non sono sufficienti a dimostrare che l’interessato abbia effettivamente rifiutato di prestare servizio militare. Conformemente all’articolo 4, paragrafo 3, lettera da a) a c), della direttiva 2011/95, occorre valutare la sussistenza di tale rifiuto, così come gli altri elementi presentati a sostegno della domanda di protezione internazionale, tenendo conto di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese di origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, delle dichiarazioni e della documentazione pertinenti presentate dal richiedente nonché della situazione individuale e delle circostanze personali di quest’ultimo, come ricordato al precedente punto 23.

32      Di conseguenza, l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che esso non osta, qualora la legislazione dello Stato di origine non preveda la possibilità del rifiuto di prestare servizio militare, a che tale rifiuto sia considerato accertato nel caso in cui l’interessato non abbia formalizzato il suo rifiuto seguendo una determinata procedura e sia fuggito dal suo paese di origine senza presentarsi alle autorità militari.

 Sulla terza questione

33      Con la sua terza questione, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che, per una persona soggetta all’obbligo di leva che rifiuta di prestare servizio militare in un conflitto ma che non sia a conoscenza dell’ambito dei suoi futuri interventi militari, il servizio militare comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti di cui all’articolo 12, paragrafo 2, di detta direttiva per il solo fatto che le forze armate del suo Stato di origine commettono ripetutamente e sistematicamente tali crimini, reati o atti impiegando militari di leva.

34      Spetta alle sole autorità nazionali valutare, sotto il controllo del giudice, se lo svolgimento del servizio militare da parte del richiedente lo status di rifugiato sulla base dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 indurrebbe necessariamente o, quantomeno, molto probabilmente, quest’ultimo a commettere i crimini di cui all’articolo 12, paragrafo 2, della medesima direttiva (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 40).

35      Tale valutazione dei fatti deve basarsi su un insieme di indizi tali da stabilire, tenuto conto di tutte le circostanze di cui trattasi, in particolare di quelle relative agli elementi pertinenti riguardanti il paese di origine al momento dell’adozione della decisione sulla domanda, lo status individuale e la situazione personale del richiedente, che la situazione nel suo complesso rende plausibile la commissione dei crimini di guerra asseriti (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 46).

36      La Corte ha inoltre statuito che non sono escluse, in linea di principio, le situazioni in cui il richiedente parteciperebbe soltanto indirettamente alla commissione di siffatti crimini, poiché, in particolare, egli non apparterrebbe alle truppe da combattimento ma, ad esempio, sarebbe assegnato ad un’unità di logistica o di sostegno (v., in tal senso, sentenza del 26 febbraio 2015, Shepherd, C‑472/13, EU:C:2015:117, punto 37).

37      Nel contesto siriano di aperta guerra civile esistente al momento della pronuncia sulla domanda dell’interessato, vale a dire nell’aprile 2017, e tenuto conto in particolare della commissione ripetuta e sistematica di crimini di guerra da parte dell’esercito siriano, ivi comprese le unità composte da militari di leva, ampiamente documentata secondo il giudice del rinvio, la plausibilità che una persona soggetta all’obbligo di leva sia indotta, a prescindere dall’ambito dei suoi interventi, a partecipare, direttamente o indirettamente, alla commissione dei crimini considerati sembra molto elevata, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare.

38      Di conseguenza, l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che, per una persona soggetta all’obbligo di leva che rifiuta di prestare servizio militare in un conflitto, ma che non è a conoscenza dell’ambito dei suoi futuri interventi militari, in un contesto di aperta guerra civile caratterizzato dalla commissione ripetuta e sistematica di crimini, reati o atti di cui all’articolo 12, paragrafo 2, della medesima direttiva da parte dell’esercito mediante l’impiego di militari di leva, lo svolgimento del servizio militare comporterebbe la partecipazione, diretta o indiretta, alla commissione di tali crimini, reati o atti, a prescindere dall’ambito dei suoi interventi.

 Sulla quarta questione

39      Con la sua quarta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che i motivi di cui all’articolo 10 di tale direttiva devono essere collegati alle azioni giudiziarie e alle sanzioni penali di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della medesima direttiva.

40      Occorre rispondere a tale questione alla luce non solo del testo di detto articolo 9, ma anche del suo contesto e dell’intenzione del legislatore dell’Unione.

41      In primo luogo, dal tenore letterale dell’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 risulta che i motivi di cui all’articolo 10 di tale direttiva devono essere collegati agli atti di persecuzione quali definiti al paragrafo 1 dello stesso articolo di detta direttiva o alla mancanza di protezione contro tali atti. Orbene, l’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva in parola contiene un elenco indicativo di atti di persecuzione quali definiti al paragrafo 1 di tale articolo 9. Di conseguenza, il requisito di un collegamento tra i motivi di cui all’articolo 10 e gli atti di persecuzione quali definiti al paragrafo 1 dell’articolo 9 vale in particolare per gli atti di persecuzione elencati all’articolo 9, paragrafo 2, ivi compresi quelli di cui alla lettera e) di tale disposizione.

42      In secondo luogo, tale interpretazione è conforme alla definizione stessa della nozione di «rifugiato», ai sensi dell’articolo 2, lettera d), della direttiva 2011/95, ossia un cittadino di un paese terzo o un apolide che nutre il timore fondato di essere perseguitato per uno dei cinque motivi elencati in tale disposizione e ulteriormente specificati all’articolo 10 della direttiva e che non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione del paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale.

43      In terzo luogo, come indicato al considerando 24 della direttiva 2011/95, quest’ultima è intesa a introdurre criteri comuni per l’attribuzione dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra. Di conseguenza, conformemente alle disposizioni dell’articolo 1, sezione A, punto 2), di tale Convenzione, tale direttiva limita il beneficio del diritto d’asilo alle persone che abbiano un giustificato timore di essere perseguitate per la loro razza, la loro religione, la loro cittadinanza, la loro appartenenza a un determinato gruppo sociale o le loro opinioni politiche, come risulta altresì dal considerando 29 della direttiva.

44      Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, l’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che esso impone l’esistenza di un collegamento tra i motivi di cui all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di detta direttiva.

 Sulla quinta questione

45      Con la sua quinta questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se il combinato disposto dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), e dell’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 debba essere interpretato nel senso che l’esistenza di un collegamento tra i motivi di cui all’articolo 2, lettera d), nonché all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di detta direttiva debba essere considerata accertata per il solo fatto che le azioni giudiziarie e le sanzioni penali sono collegate a tale rifiuto.

46      Occorre anzitutto rilevare che, facendo riferimento alle azioni giudiziarie o alle sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare in un conflitto quando questo comporterebbe la commissione di crimini, reati o atti rientranti nell’ambito delle clausole di esclusione di cui all’articolo 12, paragrafo 2, della direttiva 2011/95, l’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di quest’ultima definisce determinati atti di persecuzione con il loro motivo e che tale motivo è diverso da quelli elencati tassativamente all’articolo 2, lettera d), e all’articolo 10 di tale direttiva, vale a dire la razza, la religione, la nazionalità, l’opinione politica o l’appartenenza a un determinato gruppo sociale.

47      È vero che, in molti casi, il rifiuto di prestare servizio militare è espressione di opinioni politiche, consistenti nel rifiuto di qualsiasi impiego della forza militare o nell’opposizione alla politica o ai metodi delle autorità del paese di origine, di convinzioni religiose o, ancora, è motivato dall’appartenenza a un determinato gruppo sociale. In tali casi, gli atti di persecuzione ai quali tale rifiuto può dar luogo sono anche riconducibili agli stessi motivi.

48      Tuttavia, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 67 delle sue conclusioni, il rifiuto del servizio militare può anche avere motivi distinti dai cinque motivi di persecuzione summenzionati. In particolare, esso può essere motivato dal timore di esporsi ai pericoli che lo svolgimento del servizio militare comporta in un contesto di conflitto armato.

49      Di conseguenza, ammettere che il rifiuto di prestare il servizio militare alle condizioni definite all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 è collegato, in ogni caso, a uno dei cinque motivi di persecuzione previsti dalla Convenzione di Ginevra equivarrebbe in realtà ad aggiungere a tali motivi altri motivi di persecuzione e a estendere quindi l’ambito di applicazione di tale direttiva rispetto a quello della Convenzione di Ginevra. Orbene, una siffatta interpretazione sarebbe in contrasto con la chiara intenzione del legislatore dell’Unione, esposta al considerando 24 di detta direttiva, di armonizzare all’interno dell’Unione l’attuazione dello status di rifugiato ai sensi della Convenzione di Ginevra.

50      Per questo motivo, l’esistenza di un collegamento tra almeno uno dei motivi di persecuzione di cui all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di quest’ultima non può essere considerata accertata né, di conseguenza, può essere sottratta all’esame delle autorità nazionali responsabili dell’esame della domanda di protezione internazionale.

51      Tale conclusione è confermata dalle modalità di valutazione delle domande di protezione internazionale previste dalla direttiva 2011/95.

52      L’articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva prevede infatti che gli Stati membri possono ritenere che il richiedente sia tenuto a produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale. Tuttavia, le dichiarazioni di un richiedente protezione internazionale costituiscono soltanto il punto di partenza della procedura di esame dei fatti e delle circostanze condotta dalle autorità competenti (v., in tal senso, sentenza del 25 gennaio 2018, F, C‑473/16, EU:C:2018:36, punto 28). La stessa disposizione prevede infatti che lo Stato membro, in cooperazione con il richiedente protezione internazionale, sia tenuto a esaminare tutti gli elementi significativi della domanda.

53      Orbene, tra gli elementi significativi sottoposti all’esame delle autorità nazionali competenti, l’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2011/95 menziona «i motivi della (…) domanda di protezione internazionale», che includono necessariamente il motivo degli atti di persecuzione ai quali il richiedente sostiene di essere esposto. Di conseguenza, ammettere senza esame che le azioni giudiziarie e le sanzioni penali per il rifiuto di prestare servizio militare nelle circostanze di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di tale direttiva si ricolleghino a uno dei cinque motivi di persecuzione indicati dalla Convenzione di Ginevra equivarrebbe a sottrarre alla valutazione delle autorità competenti un elemento essenziale dei «motivi della (…) domanda di protezione internazionale», contrariamente a quanto previsto dall’articolo 4, paragrafo 2, di detta direttiva.

54      Tuttavia, non si può ritenere che spetti al richiedente protezione internazionale fornire la prova del collegamento tra i motivi di cui all’articolo 2, lettera d), nonché all’articolo 10 della direttiva 2011/95 e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali in cui incorre a causa del suo rifiuto di prestare servizio militare alle condizioni previste all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di quest’ultima.

55      Un siffatto onere della prova sarebbe infatti contrario alle modalità di valutazione delle domande di protezione internazionale, quali definite all’articolo 4 della direttiva 2011/95. Da un lato, come ricordato al precedente punto 52, l’articolo 4, paragrafo 1, di tale direttiva consente solamente agli Stati membri di imporre al richiedente l’onere di «produrre quanto prima tutti gli elementi necessari a motivare la domanda di protezione internazionale» e incarica lo Stato membro al quale viene presentata la domanda di valutarne gli elementi significativi. D’altro lato, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 70 delle sue conclusioni, l’articolo 4, paragrafo 5, della direttiva 2011/95 riconosce che un richiedente possa non essere sempre in grado di circostanziare la sua domanda con prove documentali o di altro tipo ed elenca le condizioni cumulative in presenza delle quali tali prove non sono richieste. A tal riguardo, i motivi del rifiuto di prestare servizio militare e, di conseguenza, delle azioni giudiziarie alle quali tale rifiuto espone costituiscono elementi soggettivi della domanda di cui può essere particolarmente difficile fornire una prova diretta.

56      In tali circostanze, spetta alle autorità nazionali competenti valutare, alla luce di tutte le circostanze riferite dal richiedente protezione internazionale, la plausibilità del collegamento tra i motivi di cui all’articolo 2, lettera d), nonché all’articolo 10 della direttiva 2011/95 e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali previste in caso di rifiuto di prestare servizio militare alle condizioni di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di quest’ultima.

57      A tal riguardo, occorre sottolineare che sussiste una forte presunzione che il rifiuto di prestare servizio militare alle condizioni precisate all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di tale direttiva si ricolleghi a uno dei cinque motivi ricordati all’articolo 10 di detta direttiva.

58      In primo luogo, precisando il motivo degli atti di persecuzione quali definiti all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95, è evidente che il legislatore dell’Unione non ha inteso rendere più difficile l’ottenimento dello status di rifugiato da parte degli obiettori di coscienza ponendo una condizione supplementare per l’ottenimento di tale status, ma ha ritenuto invece che tale motivo di persecuzione si ricollegasse, di norma, ad almeno uno dei cinque motivi di persecuzione che conferiscono il diritto allo status di rifugiato. Infatti, il particolare riferimento in tale direttiva agli obiettori di coscienza quando lo svolgimento del servizio militare obbligherebbe questi ultimi a commettere crimini contro la pace, crimini di guerra o crimini contro l’umanità è pienamente coerente con l’esclusione dallo status di rifugiato degli autori dei crimini summenzionati prevista all’articolo 12 della direttiva.

59      In secondo luogo, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 75 delle sue conclusioni, il rifiuto di prestare servizio militare, in particolare quando questo è passibile di sanzioni pesanti, consente di presumere che esista un forte conflitto tra valori e opinioni politiche o religiose tra l’interessato e le autorità del paese di origine.

60      In terzo luogo, in un contesto di conflitto armato, in particolare di guerra civile, e in assenza di una possibilità legale di sottrarsi agli obblighi militari, è altamente probabile che il rifiuto di prestare servizio militare sia interpretato dalle autorità come un atto di opposizione politica, a prescindere dalle motivazioni personali eventualmente più complesse dell’interessato. Orbene, l’articolo 10, paragrafo 2, della direttiva 2011/95, prevede che «[n]ell’esaminare se un richiedente abbia un timore fondato di essere perseguitato è irrilevante che il richiedente possegga effettivamente le caratteristiche razziali, religiose, nazionali, sociali o politiche che provocano gli atti di persecuzione, purché una siffatta caratteristica gli venga attribuita dall’autore delle persecuzioni».

61      Da quanto precede risulta che il combinato disposto dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), e dell’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che l’esistenza di un collegamento tra i motivi di cui all’articolo 2, lettera d), nonché all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare contemplate all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di detta direttiva non può essere considerata come accertata per il solo fatto che tali azioni giudiziarie e tali sanzioni penali sono collegate a tale rifiuto. Tuttavia, sussiste una forte presunzione che il rifiuto di prestare servizio militare alle condizioni precisate all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della medesima direttiva si ricolleghi a uno dei cinque motivi indicati all’articolo 10 di quest’ultima. Spetta alle autorità nazionali competenti verificare, alla luce di tutte le circostanze di cui trattasi, la plausibilità di tale collegamento.

 Sulle spese

62      Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

Per questi motivi, la Corte (Sesta Sezione) dichiara:

1)      L’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta, deve essere interpretato nel senso che esso non osta, qualora la legislazione dello Stato di origine non preveda la possibilità del rifiuto di prestare servizio militare, a che tale rifiuto sia considerato accertato nel caso in cui l’interessato non abbia formalizzato il suo rifiuto seguendo una determinata procedura e sia fuggito dal suo paese di origine senza presentarsi alle autorità militari.

2)      L’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che, per una persona soggetta all’obbligo di leva che rifiuta di prestare servizio militare in un conflitto, ma che non è a conoscenza dell’ambito dei suoi futuri interventi militari, in un contesto di aperta guerra civile caratterizzato dalla commissione ripetuta e sistematica di crimini, reati o atti di cui all’articolo 12, paragrafo 2, della medesima direttiva da parte dell’esercito mediante l’impiego di militari di leva, lo svolgimento del servizio militare comporterebbe la partecipazione, diretta o indiretta, alla commissione di tali crimini, reati o atti, a prescindere dall’ambito dei suoi interventi.

3)      L’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che esso impone l’esistenza di un collegamento tra i motivi di cui all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali di cui all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di detta direttiva.

4)      Il combinato disposto dell’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), e dell’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 deve essere interpretato nel senso che l’esistenza di un collegamento tra i motivi di cui all’articolo 2, lettera d), nonché all’articolo 10 di tale direttiva e le azioni giudiziarie e le sanzioni penali in conseguenza al rifiuto di prestare servizio militare contemplate all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), di detta direttiva non può essere considerata come accertata per il solo fatto che tali azioni giudiziarie e tali sanzioni penali sono collegate a tale rifiuto. Tuttavia, sussiste una forte presunzione che il rifiuto di prestare servizio militare alle condizioni precisate all’articolo 9, paragrafo 2, lettera e), della medesima direttiva si ricolleghi a uno dei cinque motivi indicati all’articolo 10 di quest’ultima. Spetta alle autorità nazionali competenti verificare, alla luce di tutte le circostanze di cui trattasi, la plausibilità di tale collegamento.

Firme


* Lingua processuale: il tedesco.