Language of document : ECLI:EU:T:2007:255

SENTENZA DEL TRIBUNALE (Quarta Sezione)

12 settembre 2007 (*)

«Marchio comunitario – Procedimento di nullità – Marchio comunitario denominativo GRANA BIRAGHI – Protezione della denominazione d’origine “Grana Padano” – Assenza di genericità – Art. 142 del regolamento (CE) n. 40/94 – Regolamento (CEE) n. 2081/92»

Nella causa T‑291/03,

Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano, con sede in Desenzano del Garda (Italia), rappresentato dagli avv.ti P. Perani, P. Colombo, e A. Schmitt,

ricorrente,

sostenuto da

Repubblica italiana, rappresentata dal sig. G. Aiello, avvocato dello Stato,

interveniente,

contro

Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI), rappresentato dai sigg. M. Buffolo e O. Montalto, in qualità di agenti,

convenuto,

controinteressata nel procedimento dinanzi alla commissione di ricorso dell’UAMI e interveniente dinanzi al Tribunale:

Biraghi SpA, con sede in Cavallermaggiore (Italia), rappresentata dagli avv.ti F. Antenucci, F. Giuggia, P. Mayer e J.-L. Schiltz,

avente ad oggetto un ricorso proposto contro la decisione 16 giugno 2003 della prima commissione di ricorso dell’UAMI (procedimento R 153/2002‑1), relativa ad un procedimento di nullità tra il Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano e la Biraghi SpA,

IL TRIBUNALE DI PRIMO GRADODELLE COMUNITÀ EUROPEE (Quarta Sezione),

composto dal sig. H. Legal, presidente, dalla sig.ra I. Wiszniewska‑Białecka e dal sig. E. Moavero Milanesi, giudici,

cancelliere: sig. J. Palacio González, amministratore principale

visto il ricorso depositato nella cancelleria del Tribunale il 21 agosto 2003,

visti i controricorsi depositati dall’interveniente e dall’UAMI nella cancelleria del Tribunale rispettivamente il 23 dicembre 2003 e il 17 febbraio 2004,

viste le osservazioni del ricorrente, dell’UAMI e dell’interveniente sull’istanza d’intervento della Repubblica italiana del 18 dicembre 2003, depositate nella cancelleria del Tribunale rispettivamente il 29, il 16 e il 29 gennaio 2004,

vista l’ordinanza del presidente della Prima Sezione del Tribunale 5 marzo 2004 con cui è stato ammesso l’intervento della Repubblica italiana a sostegno delle conclusioni del ricorrente,

vista la memoria d’intervento della Repubblica italiana e le osservazioni in merito dell’interveniente depositate nella cancelleria del Tribunale rispettivamente il 16 aprile e il 21 maggio 2004,

in seguito all’udienza del 28 febbraio 2007,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

 Ambito normativo

1        L’art. 142 del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (GU 1993, L 11, pag. 1), nella versione applicabile alla presente controversia, stabilisce:

«Il presente regolamento lascia impregiudicate le disposizioni del regolamento (CEE) n. 2081/92 del Consiglio (…), in particolare l’articolo 14».

2        Il regolamento (CEE) del Consiglio 14 luglio 1992, n. 2081, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli ed alimentari (GU L 208, pag. 1), nella versione applicabile alla presente controversia, precisa, all’art. 2, la nozione di «denominazione d’origine» nei seguenti termini:

«2.      Ai fini del presente regolamento si intende per:

a)      “denominazione d’origine”: il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare:

–        originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e

–        la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell’area geografica delimitata;

(…)

3.      Sono altresì considerate come denominazioni d’origine alcune denominazioni tradizionali, geografiche o meno, che designano un prodotto agricolo o alimentare originario di una regione o di un luogo determinato, che soddisfi i requisiti di cui al paragrafo 2, lettera a), secondo trattino».

3        L’art. 3 del regolamento n. 2081/92 dispone in particolare:

«1.      Le denominazioni divenute generiche non possono essere registrate.

Ai fini del presente regolamento, si intende per “denominazione divenuta generica” il nome di un prodotto agricolo o alimentare che, pur collegato col nome del luogo o della regione in cui il prodotto agricolo o alimentare è stato inizialmente ottenuto o commercializzato, è divenuto, nel linguaggio corrente, il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare.

Per determinare se una denominazione sia divenuta generica o meno, si tiene conto di tutti i fattori, in particolare:

–        della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo,

–        della situazione esistente in altri Stati membri,

–        delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie».

4        L’art. 13 del regolamento n. 2081/92 dispone in particolare:

«1.      Le denominazioni registrate sono tutelate contro:

a)      qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto di una denominazione registrata per prodotti che non sono oggetto di registrazione, nella misura in cui questi ultimi siano comparabili ai prodotti registrati con questa denominazione o nella misura in cui l’uso di tale denominazione consenta di sfruttare indebitamente la reputazione della denominazione protetta;

b)      qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, anche se l’origine vera del prodotto è indicata o se la denominazione protetta è una traduzione o è accompagnata da espressioni quali “genere”, “tipo”, “metodo”, “alla maniera”, “imitazione” o simili;

c)      qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all’origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti usata sulla confezione o sull’imballaggio, nella pubblicità o sui documenti relativi ai prodotti considerati nonché l’impiego, per la confezione, di recipienti che possono indurre in errore sull’origine;

d)      qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il pubblico sulla vera origine dei prodotti.

Se una denominazione registrata contiene la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare che è considerata generica, l’uso di questa denominazione generica per il prodotto agricolo o alimentare appropriato non è contrario al primo comma, lettera a) o b).

2.      In deroga al paragrafo 1, lettere a) e b), gli Stati membri possono lasciare in vigore i sistemi nazionali che consentono l’impiego delle denominazioni registrate in virtù dell’articolo 17 per un periodo massimo di cinque anni a decorrere dalla data di pubblicazione della registrazione (…)

3.      Le denominazioni protette non possono diventare generiche».

5        L’art. 14, n. 1, del regolamento n. 2081/92 stabilisce in particolare:

«Qualora una denominazione d’origine o un’indicazione geografica sia registrata conformemente al presente regolamento, la domanda di registrazione di un marchio corrispondente ad una delle situazioni di cui all’articolo 13 e concernente lo stesso tipo di prodotto viene respinta, purché la domanda di registrazione del marchio sia presentata dopo la data della pubblicazione prevista all’articolo 6, paragrafo 2.

I marchi registrati in modo contrario al primo comma sono annullati».

6        Per l’adozione delle misure previste dal regolamento n. 2081/92, l’art. 15, n. 1, di quest’ultimo prevede:

«La Commissione è assistita da un comitato (...)».

7        L’art. 17 del regolamento n. 2081/92 dispone in particolare:

«1.      Entro un termine di sei mesi a decorrere dalla data dell’entrata in vigore del presente regolamento, gli Stati membri comunicano alla Commissione quali denominazioni, tra quelle giuridicamente protette o, negli Stati membri in cui non vige un sistema di protezione, sancite dall’uso, essi desiderano far registrare a norma del presente regolamento. (...)

2.      La Commissione registra, secondo la procedura prevista all’articolo 15, le denominazioni di cui al paragrafo 1 conformi agli articoli 2 e 4. L’articolo 7 non si applica. Tuttavia non vengono registrate le denominazioni generiche.

(…)»

8        L’art. 1 del regolamento della Commissione 12 giugno 1996, n. 1107, relativo alla registrazione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine nel quadro della procedura di cui all’articolo 17 del regolamento n. 2081/92 (GU L 148, pag. 1), dispone in particolare che «[l]e denominazioni figuranti nell’allegato sono registrate quali indicazioni geografiche protette (IGP) o denominazioni di origine protette (DOP) a norma dell’articolo 17 del regolamento [...] n. 2081/92». L’allegato al regolamento n. 1107/96, nella parte A («Prodotti elencati nell’allegato II del Trattato destinati all’alimentazione umana»), considera, sotto «Formaggi», «Italia», in particolare le denominazioni «Grana Padano (DOP)» e «Parmigiano Reggiano (DOP)».

 Fatti

9        Il 2 febbraio 1998, la Biraghi SpA presentava all’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI), ai sensi del regolamento n. 40/94, una domanda di registrazione come marchio comunitario del marchio nominativo GRANA BIRAGHI.

10      I prodotti per cui veniva richiesta la registrazione sono quelli rientranti nella classe 29 ai sensi dell’accordo di Nizza 15 giugno 1957 relativo alla classificazione internazionale dei prodotti e dei servizi per la registrazione dei marchi, come rivisto e modificato, e corrispondono alla seguente descrizione: «formaggio, in particolare formaggio di latte di vacca, formaggio stagionato, formaggio a pasta dura, formaggio in grandi forme, formaggio a pezzi con o senza crosta, formaggio confezionato in varie pezzature, formaggio grattugiato e confezionato».

11      Il marchio richiesto veniva registrato il 2 giugno 1999 e pubblicato sul Bollettino dei marchi comunitari del 26 luglio 1999.

12      Il 22 ottobre 1999, il Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano (in prosieguo: il «Consorzio» o il «ricorrente») proponeva dinanzi all’UAMI, ai sensi dell’art. 55 del regolamento n. 40/94, una domanda di dichiarazione di nullità del marchio comunitario GRANA BIRAGHI. Il Consorzio sosteneva che la registrazione di tale marchio era contraria alla protezione della denominazione d’origine «Grana Padano» ai sensi del regolamento n. 2081/92, nonché all’art. 7, n. 1, lett. g), all’art. 51, n. 1, lett. a), all’art. 8, n. 1, e all’art. 52, n. 1, lett. a), del regolamento n. 40/94, facendo valere, per quanto riguarda quest’ultima disposizione, la registrazione dei marchi anteriori nazionali e internazionali GRANA e GRANA PADANO.

13      Con decisione 28 novembre 2001, la seconda divisione di annullamento dell’UAMI accoglieva la domanda di dichiarazione di nullità del Consorzio sul fondamento dell’art. 14 del regolamento n. 2081/92.

14      Il 24 gennaio 2002, la Biraghi proponeva ricorso contro tale decisione, basandosi sul carattere generico e descrittivo del termine «grana».

15      Con decisione 16 giugno 2003 (procedimento R 153/2002‑1; in prosieguo: la «decisione impugnata»), la prima commissione di ricorso accoglieva il ricorso della Biraghi annullando la decisione della divisione di annullamento e respingendo la domanda di dichiarazione di nullità del marchio comunitario GRANA BIRAGHI. La commissione di ricorso dichiarava che il termine «grana» era generico, nonché descrittivo di una qualità essenziale dei prodotti di cui trattasi. Pertanto, sulla base dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92, l’esistenza della DOP «Grana Padano» non osterebbe in alcun modo alla registrazione come marchio comunitario del segno GRANA BIRAGHI.

 Conclusioni delle parti

16      Il ricorrente, sostenuto dalla Repubblica italiana, chiede che il Tribunale voglia dichiarare nulla la registrazione del marchio comunitario GRANA BIRAGHI.

17      L’UAMI e la Biraghi chiedono che il Tribunale voglia:

–        respingere il ricorso;

–        condannare il ricorrente alle spese.

18      All’udienza il ricorrente ha completato le sue conclusioni chiedendo che l’UAMI sia condannato alle spese. In tale occasione l’UAMI ha, da parte sua, dichiarato che la giurisprudenza più recente del Tribunale gli permetteva di aderire alle conclusioni del ricorrente e che esso chiedeva l’annullamento della decisione impugnata. L’UAMI ha inoltre dichiarato di accettare di sopportare le proprie spese. Il Tribunale ha preso atto di tali dichiarazioni nel verbale d’udienza.

 Sulla ricevibilità

 Sulle conclusioni del ricorrente e dell’UAMI

19      In via preliminare occorre constatare che, benché le conclusioni del ricorrente siano dirette, formalmente, ad ottenere l’annullamento della registrazione del marchio comunitario GRANA BIRAGHI, risulta chiaramente dall’atto introduttivo, come confermato all’udienza, che, con il presente ricorso, il ricorrente intende ottenere in sostanza l’annullamento della decisione impugnata per il motivo che la commissione di ricorso avrebbe considerato, erroneamente, che l’esistenza della denominazione d’origine «Grana Padano» non ostava alla registrazione del detto marchio.

20      Riguardo alle conclusioni dell’UAMI, occorre constatare che, nel suo controricorso, depositato nella cancelleria del Tribunale il 17 febbraio 2004, pur chiedendo il rigetto del ricorso, l’UAMI ha sostenuto che la commissione di ricorso non aveva applicato correttamente i criteri di valutazione del carattere generico di uno dei termini che costituiscono la DOP in questione e ha dichiarato di rimettersi, a tale riguardo, alla valutazione del Tribunale.

21      All’udienza, l’UAMI ha dichiarato che, alla luce delle sentenze del Tribunale 30 giugno 2004, causa T-107/02, GE Betz/UAMI – Atofina Chemicals (BIOMATE) (Racc. pag. II‑1845), 25 ottobre 2005, causa T‑379/03, Peek & Cloppenburg/UAMI (Cloppenburg) (Racc. pag. II‑4633), e 12 luglio 2006, causa T-97/05, Rossi/UAMI – Marcorossi (MARCOROSSI), esso non era tenuto a difendere sistematicamente tutte le decisioni impugnate delle commissioni di ricorso. Esso aderiva quindi alle conclusioni del ricorrente e chiedeva l’annullamento della decisione impugnata.

22      Si deve osservare che l’UAMI può, senza modificare i termini della controversia, chiedere che siano accolte le conclusioni dell’una o dell’altra delle parti, a sua scelta, nonché addurre argomenti a sostegno dei motivi fatti valere da tale parte. Per contro, esso non può formulare autonome conclusioni dirette all’annullamento o presentare motivi di annullamento non sollevati dalle altre parti (sentenza del Tribunale 4 maggio 2005, causa T‑22/04, Reemark/UAMI – Bluenet (Westlife), Racc. pag. II‑1559, punto 18).

23      Nella fattispecie, l’UAMI ha chiaramente espresso la sua volontà di sostenere le conclusioni e i motivi avanzati dal ricorrente, sia nel suo controricorso, sia all’udienza. Nel suo controricorso, l’UAMI ha espressamente segnalato che chiedeva formalmente di respingere il ricorso unicamente perché riteneva che il regolamento n. 40/94 non gli permettesse di chiedere l’annullamento di una decisione delle commissioni di ricorso. Dato che, per le ragioni esposte al punto precedente e conformemente alla giurisprudenza richiamata dall’UAMI all’udienza, tale analisi non corrisponde allo stato del diritto, occorre riqualificare le conclusioni dell’UAMI e considerare che esso ha chiesto l’accoglimento delle conclusioni del ricorrente. Essendo stata effettuata tale riqualificazione, non vi è incoerenza tra le conclusioni e gli argomenti presentati tanto nel controricorso, quanto all’udienza.

24      Da quanto precede risulta che, nella presente fattispecie, occorre esaminare la legittimità della decisione impugnata alla luce dei motivi dedotti nel ricorso, tenendo anche conto degli argomenti esposti dall’UAMI.

 Sui documenti prodotti per la prima volta dinanzi al Tribunale

25      Gli allegati 48 (decisione del Giurì di autodisciplina pubblicitaria 22 ottobre 1993, n. 165/93), 50 (Nota della Direzione Generale Agricoltura della Commissione 20 maggio 1997) e 51 (nota del Ministero italiano dell’Agricoltura e delle Foreste 3 agosto 1993, n. 64969), al ricorso così come gli allegati 1-3 al controricorso della Biraghi (estratti dalle pagine Internet relative alla Valle Grana e al formaggio Castelmagno e dal sito www.granapadano.com), non sono stati prodotti in occasione del procedimento dinanzi alla commissione di ricorso.

26      All’udienza il ricorrente ha dichiarato di rinunciare a che il Tribunale prenda in considerazione gli allegati 48, 50 e 51 annessi al ricorso. L’UAMI, da parte sua, si è rimesso alla decisione del Tribunale.

27      Dall’art. 63, n. 2, del regolamento n. 40/94, si desume che fatti non dedotti dalle parti dinanzi agli organi dell’UAMI non possono più esserlo nella fase del ricorso proposto dinanzi al Tribunale, il quale è, infatti, chiamato a valutare la legittimità della decisione della commissione di ricorso, controllando l’applicazione del diritto comunitario da essa effettuata riguardo, specificamente, agli elementi di fatto che sono stati sollevati dinanzi a tale commissione. Il Tribunale non può, invece, effettuare tale controllo tenendo conto di elementi di fatto prodotti ex novo dinanzi ad esso, a meno che non sia dimostrato che la commissione di ricorso avrebbe dovuto prendere in considerazione tali fatti d’ufficio durante il procedimento amministrativo, prima di adottare qualsiasi decisione nel caso di specie (sentenze della Corte 13 marzo 2007, causa C‑29/05 P, UAMI/Kaul, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 54, e del Tribunale 12 dicembre 2002, causa T‑247/01, eCopy/UAMI (ECOPY), Racc. pag. II‑5301, punto 46).

28      Il Tribunale non può quindi prendere in considerazione i documenti di cui sopra, i quali rinviano a circostanze di fatto ignote alla commissione di ricorso, per controllare la legittimità della decisione impugnata ai sensi dell’art. 63 del regolamento n. 40/94. Di conseguenza, occorre escludere tali documenti senza che sia necessario esaminare il loro valore probante.

 Sul merito

29      A sostegno del suo ricorso, il ricorrente deduce, in sostanza, un motivo unico relativo alla violazione del combinato disposto dell’art. 142 del regolamento n. 40/94 e dell’art. 14 del regolamento n. 2081/92.

 Argomenti delle parti

30      Il ricorrente sostiene, in primo luogo, che «grana» non è un termine generico, e ciò in ragione del suo carattere distintivo risultante dal riconoscimento della DOP «Grana Padano» sia sul piano nazionale, in forza della legge 10 aprile 1954, n. 125, sulla tutela delle denominazioni di origine e tipiche dei formaggi (GURI n. 99 del 30 aprile 1954, pag. 1294; in prosieguo: la «legge n. 125/54»), sia sul piano comunitario, in forza del regolamento n. 1107/96. Tale riconoscimento comporterebbe che tutti i produttori che desiderino utilizzare la DOP «Grana Padano» devono seguire regole specifiche, prescritte dal disciplinare di tale DOP e destinate a garantire la qualità del prodotto venduto al pubblico. Peraltro, il ricorrente fa notare che la Biraghi, la quale fino al 1997 era uno dei 200 produttori membri del Consorzio, non ne fa più parte da allora, di modo che essa non può utilizzare la DOP «Grana Padano» e non è più obbligata a conformarsi a tale disciplinare. La limitazione dell’uso del termine «grana» all’identificazione della DOP «Grana Padano» sarebbe anche confermata dal Decreto del Presidente della Repubblica 26 gennaio 1987, Modificazione al disciplinare di produzione del formaggio «Grana Padano» (GURI n. 137 del 15 giugno 1987, pag. 4), ai sensi del quale la possibilità di utilizzare l’indicazione «Grana Trentino» è accordata solo alla condizione che il disciplinare di produzione della DOP «Grana Padano» sia integralmente rispettato.

31      Il ricorrente e la Repubblica italiana evidenziano che il termine «grana» è, all’origine, un’espressione geografica, che designa un piccolo corso d’acqua, affluente del Po, situato in una valle denominata appunto Valle Grana. La Repubblica italiana rileva che la protezione del termine «grana» per designare un formaggio che beneficia di una DOP trova quindi il suo fondamento giuridico nell’art. 2, n. 3, del regolamento n. 2081/92.

32      Il ricorrente afferma, inoltre, che la tutela della denominazione «grana», anche senza l’aggettivo «padano», era già stata riconosciuta prima del regolamento n. 1107/96. A tale riguardo, esso segnala che dal verbale della riunione del comitato di regolamentazione indicazioni geografiche e denominazioni di origine del 22 novembre 1995 risulta che «gli Stati membri [avevano] indicato che l’art. 13 [del regolamento n. 2081/92] si [doveva] applicare per le denominazioni seguenti: (…), grana, padano, parmigiano, reggiano».

33      Il ricorrente ricorda che la Corte si è già pronunciata contro la tesi della genericità di semplici parti di denominazioni d’origine composte nella sua sentenza 25 giugno 2002, causa C‑66/00, Bigi (Racc. pag. I‑5917), la quale avrebbe escluso il carattere generico della denominazione «parmesan», così come auspicato dal Consorzio del Formaggio Parmigiano Reggiano.

34      Il ricorrente sostiene inoltre che, con l’istituzione in Italia del regime delle denominazioni di origine, il genus «grana», esistente originariamente, fu distinto nelle due species, del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano, ambedue tutelate da una DOP. Il primo sarebbe prodotto nei territori a nord del Po, mentre il secondo sarebbe prodotto nei territori collocati a sud dello stesso fiume.

35      Il ricorrente e la Repubblica italiana sostengono che un riconoscimento esplicito del carattere generico del termine «grana» e un’utilizzazione generalizzata e senza distinzioni di tale termine sarebbero contrari al tenore del regolamento n. 2081/92, in particolare al suo art. 13, n. 1, che vieta qualunque utilizzo di denominazioni, marchi, nomi o indicazioni suscettibili di pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi perseguiti mediante la registrazione delle denominazioni d’origine e delle indicazioni geografiche protette in base al regolamento medesimo.

36      Il ricorrente afferma che l’art. 10 della legge n. 125/54 sanziona persino sotto il profilo penale «chiunque usi le denominazioni di origine o tipiche riconosciute alterandole oppure parzialmente modificandole con aggiunte, anche indirettamente con termini rettificativi, come “tipo”, “uso”, “gusto”o simili».

37      Il ricorrente menziona anche la giurisprudenza dei giudici nazionali e diversi verbali di contestazione d’infrazione emessi tra il 1997 e il 2000 dal Ministero italiano dell’Agricoltura e delle Foreste e notificati a produttori italiani che marchiavano illegittimamente i propri prodotti con la denominazione «grana». Tale conclusione non sarebbe invalidata dalla sentenza della Corte di cassazione 28 novembre 1989, n. 2562, secondo cui l’uso della denominazione «grana» non era oggetto di restrizioni particolari, dato che essa è stata pronunciata prima dell’istituzione delle denominazioni di origine da parte del regolamento n. 2081/92.

38      Infine, la Repubblica italiana si associa in sostanza agli argomenti del ricorrente aggiungendo che il termine «grana» può essere considerato come una forma contratta che tutti i consumatori usano per indicare il formaggio Grana Padano. Inoltre, essa fa notare come il governo italiano, nella sua domanda di registrazione della denominazione «Grana Padano», in base alla procedura prevista all’art. 17 del regolamento n. 2081/92, non aveva fatto ricorso ad una nota in margine che escludesse la protezione di ciascuno dei termini che facevano parte di tale denominazione. Quindi essa considera che occorrerebbe concludere che anche il solo termine «grana» è tutelato e riservato alla DOP.

39      L’UAMI osserva che l’art. 3 del regolamento n. 2081/92 precisa che, per determinare se un nome è divenuto generico, si deve tenere conto di numerosi fattori e procedere in particolare allo studio della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e negli altri Stati membri. Sarebbe altresì necessario procedere allo studio del comportamento e dell’opinione del pubblico di riferimento. A tale riguardo, l’UAMI ricorda, da un lato, che l’organizzazione di sondaggi è uno degli strumenti più utilizzati dalla Commissione e dagli Stati membri e, dall’altro, che, ai sensi dell’art. 76 del regolamento n. 40/94, la commissione di ricorso adita avrebbe potuto chiedere il parere della Commissione o delle autorità nazionali.

40      L’UAMI fa notare che non risulta che la commissione di ricorso abbia proceduto a consultare le competenti autorità italiane o comunitarie, né che essa abbia realizzato un approfondito esame del mercato italiano, così come dei mercati degli altri Stati membri. La commissione di ricorso si sarebbe piuttosto basata sull’esame di dizionari italiani d’uso corrente e su ricerche effettuate su Internet.

41      Inoltre, l’UAMI evidenzia che la stessa commissione di ricorso, citando l’Enciclopedia Zanichelli, il Dizionario della lingua italiana Le Monnier e il Vocabolario della lingua italiana Zingarelli, ha rilevato che per il consumatore italiano il termine «grana» non rinvia soltanto a «un formaggio semigrasso a pasta dura, cotto», ma ad un formaggio avente la caratteristica di essere «originario delle zone tipiche dell’Emilia e della Lombardia». Orbene, il fatto stesso che i dizionari consultati menzionino una regione determinata è in sé sufficiente per escludere la genericità del termine «grana».

42      Peraltro, il fatto che alcuni di tali dizionari, così come alcune ricette culinarie, menzionino alternativamente i due termini «grana» o «Grana Padano» sembrerebbe piuttosto corroborare l’opinione secondo cui per il consumatore italiano il termine «grana» è sinonimo di «Grana Padano».

43      L’UAMI fa notare che, ai sensi dell’art. 13, n. 3, del regolamento n. 2081/92, una volta registrata, una DOP non può diventare generica. Così, fintanto che la Commissione o le autorità giurisdizionali competenti, comunitarie o nazionali, non hanno deciso che una DOP sia diventata generica, gli organi dell’UAMI dovrebbero considerare la registrazione di tale DOP come valida e meritevole di protezione.

44      La Biraghi sostiene che il termine «grana» ha carattere generico e che identifica un tipo di formaggio a lenta maturazione, semigrasso, a pasta cotta, dura e granulosa. Nel suo significato letterale tale termine farebbe riferimento alla struttura granulosa della pasta del formaggio, il quale dovrebbe il suo nome appunto a tale caratteristica e non designerebbe in quanto tale una zona geografica o una precisa zona di provenienza. A tale riguardo, la Biraghi afferma che attualmente nella Valle Grana si produce esclusivamente il formaggio Castelmagno, che fruisce di una DOP.

45      Del resto la Biraghi fa osservare che la citata sentenza Bigi, richiamata dal ricorrente, verteva su una denominazione composta formata da due termini che fanno ciascuno riferimento a luoghi di produzione: «parmigiano» per il formaggio prodotto nella zona limitrofa alla città di Parma, «reggiano» per quello prodotto nella zona limitrofa alla città di Reggio Emilia.

46      La Biraghi sostiene altresì che il formaggio a pasta granulosa si chiamava «grana» ancor prima della creazione dei primi caseifici, avvenuta alla metà del XIX secolo, come spiegherebbe il ricorrente stesso in una delle sue pubblicazioni, nella quale quest’ultimo riconoscerebbe che il formaggio grana è stato prodotto per la prima volta intorno al 1135 e che il suo nome, utilizzato già nel 1750, sarebbe stato ispirato dall’aspetto granuloso della sua pasta.

47      La Biraghi contesta che con l’istituzione in Italia del regime delle DOP il formaggio grana si suddivida in due sole species di uno stesso genus, cioè il Grana Padano e il Parmigiano Reggiano, ambedue tutelate da una DOP. Essa aggiunge che il termine «grana» non identifica neppure una terza specie di formaggio differente da queste DOP. Al contrario, il termine «grana» designerebbe uno stesso genere di formaggio a pasta dura e granulosa del quale farebbero parte, allo stesso tempo, il grana Biraghi e le due DOP citate. Così, il fatto che siano state previste regole specifiche per la produzione e la commercializzazione del Grana Padano e del Parmigiano Reggiano non significherebbe che il formaggio grana non esista più.

48      Dal punto di vista normativo, la Biraghi fa rilevare che la decisione della Commissione 29 luglio 1996, 96/536/CE, che stabilisce l’elenco dei prodotti a base di latte per i quali gli Stati membri sono autorizzati a concedere deroghe individuali o generali ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 2, della direttiva 92/46/CEE, nonché la natura delle deroghe applicabili alla fabbricazione di tali prodotti (GU L 230, pag. 12), menziona in particolare il «Dansk Grana» e il «Romonte – Typ Grana».

49      La Biraghi sostiene che l’esistenza del formaggio grana in quanto genere è confermata da diverse opere e da diversi dizionari, dalle decisioni di rigetto delle domande di registrazione dei marchi Grana Piemontese e Grana Reale adottate dall’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, dalla circolare dell’associazione di categoria Assolatte 4 gennaio 1999, n. 1, la quale prevede, nel suo allegato, tre categorie di grana e precisamente il Grana Padano, il Parmigiano Reggiano e gli «altri grana», nonché dal fatto che tale ultima categoria viene usata anche dall’Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT) per le proprie rilevazioni.

50      La Biraghi sostiene, contrariamente al ricorrente e alla Repubblica italiana, che la denominazione registrata in quanto DOP, ai sensi degli artt. 9 e 10 della legge n. 125/54 e dell’art. 13 del regolamento n. 2081/92, è solamente la denominazione composta «Grana Padano» e non anche il termine «grana». Infatti, secondo la Biraghi, conformemente all’art. 3, n. 1, del regolamento n. 2081/92, il termine «grana», in quanto generico, non avrebbe potuto, da solo, essere registrato come DOP.

51      A tale riguardo, la Biraghi precisa che la questione dell’utilizzo del termine «grana» disgiuntamente dall’aggettivo «padano» è già stata affrontata in Italia dalla Corte di cassazione nella sentenza 28 novembre 1989, n. 2562, in cui questa ha statuito che, «mentre il formaggio “grana padano” gode del riconoscimento di origine e, in conseguenza, della tutela penale in caso di uso improprio della denominazione, il formaggio definito semplicemente grana non ha nella legislazione vigente il riconoscimento di formaggio tipico, sicché l’uso di tale denominazione (…) non è soggetto a particolari restrizioni e non comporta violazione alla legge [n. 125/54]». La Biraghi aggiunge anche che la Corte, nella sentenza 9 giugno 1998, cause riunite C‑129/97 e C‑130/97, Chiciak e Fol (Racc. pag. I-3315), relativa alla DOP «Epoisses de Bourgogne», ha precisato che «nel caso di una denominazione d’origine “composta” [registrata in base alla procedura abbreviata di cui all’art. 17 del regolamento n. 2081/92], il fatto che per [la detta denominazione] non esistano indicazioni sotto forma di note a piè di pagina nell’allegato del regolamento [n. 1107/96], le quali precisino che la registrazione non è stata richiesta per una parte di questa denominazione, non implica necessariamente che ogni sua singola parte sia protetta». La protezione delle denominazioni generiche sarebbe anche stata esclusa dalla Corte nelle sentenze 10 novembre 1992, causa C‑3/91, Exportur (Racc. pag. I‑5529), e 7 maggio 1997, cause riunite da C‑321/94 a C‑324/94, Pistre e a. (Racc. pag. I‑2343).

52      Alla luce di tali considerazioni, la Biraghi ritiene che l’utilizzo del termine generico «grana» non costituisca una violazione né dell’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92, né della normativa nazionale in materia di denominazioni di origine. Infatti, la legge n. 125/54 punirebbe qualsiasi uso di denominazioni di origine mediante alterazione o modifica con termini come «tipo», «uso», «gusto», ma non il semplice uso di un termine generico quale «grana».

 Giudizio del Tribunale

53      L’art. 142 del regolamento n. 40/94 stabilisce che esso lascia impregiudicate le disposizioni del regolamento n. 2081/92, e in particolare il suo art. 14.

54      L’art. 14 del regolamento n. 2081/92 dispone che la domanda di registrazione di un marchio corrispondente ad una delle situazioni di cui all’art. 13 e concernente lo stesso tipo di prodotto viene respinta, purché la domanda di registrazione del marchio sia presentata dopo la data della pubblicazione prevista all’art. 6, n. 2. I marchi registrati in modo contrario a tale disposizione sono annullati.

55      Ne deriva che l’UAMI è tenuto ad applicare il regolamento n. 40/94 in modo da non pregiudicare la tutela concessa alle DOP dal regolamento n. 2081/92.

56      Di conseguenza, l’UAMI deve respingere la domanda di registrazione di ogni marchio che si trovi in una delle situazioni descritte all’art. 13 del regolamento n. 2081/92 e, se il marchio è già stato registrato, deve dichiararne la nullità.

57      Peraltro, da un lato, conformemente all’art. 13, n. 3, del regolamento n. 2081/92, le denominazioni protette non possono diventare generiche, e dall’altro, il fatto che il regolamento n. 1107/96 non contenga un’indicazione sotto forma di una nota a piè di pagina che precisi che la registrazione del termine «grana» non è richiesta non implica necessariamente che ogni singola parte della denominazione «Grana Padano» sia protetta (v., in tal senso, sentenza Chiciak e Fol, cit., punto 39).

58      L’art. 13, n. 1, del regolamento n. 2081/92 dispone inoltre che, «[s]e una denominazione registrata contiene la denominazione di un prodotto agricolo o alimentare che è considerata generica, l’uso di questa denominazione generica per il prodotto agricolo o alimentare appropriato non è contrario al primo comma, lettera a) o b)». Ne consegue che, qualora la DOP sia composta da più elementi, di cui uno costituisce l’indicazione generica di un prodotto agricolo o alimentare, l’uso di tale nome generico in un marchio registrato deve essere considerato conforme all’art. 13, primo comma, lett. a) o b), del regolamento n. 2081/92 e la domanda di annullamento fondata sulla DOP deve essere respinta.

59      A tale riguardo si desume dalla citata sentenza Chiciak e Fol (punto 38) che, nel regime di registrazione comunitaria istituito dal regolamento n. 2081/92, le questioni relative alla protezione da accordare ai singoli elementi di una denominazione, e segnatamente quella di stabilire se si tratti di una denominazione generica o di un elemento protetto contro le prassi menzionate all’art. 13 del detto regolamento, formano oggetto di una valutazione operata sulla base di un’analisi dettagliata del contesto fattuale in questione.

60      A tale riguardo, occorre constatare, a titolo preliminare, che la commissione di ricorso era competente ad effettuare un tale tipo di analisi e, eventualmente, a negare la protezione della parte generica di una DOP. Infatti, dato che non si tratta di dichiarare la nullità di una DOP in quanto tale, il fatto che l’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92 escluda la protezione delle denominazioni generiche contenute in una DOP autorizza la commissione di ricorso a verificare se il termine in causa costituisca effettivamente la denominazione generica di un prodotto agricolo o alimentare.

61      Una tale analisi presuppone la verifica di un certo numero di requisiti, ciò che richiede, in larga parte, conoscenze approfondite tanto di elementi particolari dello Stato membro interessato (v., in tal senso, sentenza della Corte 6 dicembre 2001, causa C-269/99, Carl Kühne e a., Racc. pag. I-9517, punto 53), quanto della situazione esistente negli altri Stati membri (v., in tal senso, sentenza della Corte 16 marzo 1999, cause riunite C-289/96, C-293/96 e C-299/96, Danimarca e a./Commissione, Racc. pag. I-1541, punto 96).

62      Alla luce di ciò, la commissione di ricorso era tenuta ad effettuare un’analisi dettagliata dell’insieme dei fattori che possono determinare il detto carattere generico.

63      L’art. 3 del regolamento n. 2081/92, dopo aver stabilito che le denominazioni divenute generiche non possono essere registrate, prevede che, per determinare se una denominazione è divenuta generica o meno, si tiene conto di tutti i fattori, e in particolare della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo, della situazione esistente in altri Stati membri e delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie.

64      Gli stessi criteri devono essere applicati ai fini dell’applicazione dell’art. 13, n. 1, secondo comma, del regolamento n. 2081/92. Infatti, come constatato dalla Corte, la definizione che fornisce l’art. 3, n. 1, secondo comma, dello stesso regolamento della nozione di «denominazione divenuta generica» è applicabile anche alle denominazioni che sono sempre state generiche (sentenza Danimarca e a. /Commissione, cit., punto 80).

65      Così, gli indizi di ordine giuridico, economico, tecnico, storico, culturale e sociale che permettono di effettuare la richiesta analisi dettagliata sono, segnatamente, le normative nazionali e comunitarie pertinenti, inclusa la loro evoluzione storica, la percezione che il consumatore medio ha della pretesa denominazione generica, incluso il fatto che la notorietà della denominazione resti inerente al formaggio tradizionale stagionato fabbricato in una zona di produzione in conseguenza del fatto che essa non venga utilizzata comunemente in altre regioni dello Stato membro o dell’Unione europea, la circostanza che un prodotto sia stato legalmente commercializzato con la denominazione di cui trattasi in alcuni Stati membri, il fatto che un prodotto sia stato legalmente fabbricato con la denominazione in questione nel paese d’origine della denominazione stessa anche senza rispettarne i metodi tradizionali di produzione, la circostanza che operazioni di tal genere si siano protratte nel tempo, la quantità di prodotti recanti la denominazione in questione e fabbricati senza seguire i metodi tradizionali rispetto alla quantità di prodotti fabbricati secondo tali metodi, la quota di mercato detenuta dai prodotti recanti la denominazione in questione e fabbricati senza seguire i metodi tradizionali rispetto alla quota di mercato detenuta dai prodotti fabbricati secondo tali metodi, il fatto che i prodotti fabbricati senza seguire i metodi tradizionali siano presentati in modo da rinviare ai luoghi di produzione dei prodotti fabbricati secondo tali metodi, la protezione della denominazione controversa mediante accordi internazionali e il numero di Stati membri che, eventualmente, fanno valere il preteso carattere generico della denominazione in questione (v., in tal senso, sentenze Danimarca e a./Commissione, cit., punti 95, 96, 99 e 101; Bigi, cit., punto 20, e 25 ottobre 2005, cause riunite C-465/02 e C-466/02, Germania e Danimarca /Commissione, Racc. pag. I-9115, punti 75, 77, 78, 80, 83, 86, 87, 93 e 94).

66      Peraltro, la Corte non ha escluso la possibilità di tenere conto (sentenza Danimarca e a. /Commissione, cit., punti 85-87), nell’esame del carattere generico di una denominazione, di un sondaggio effettuato presso i consumatori, organizzato al fine di comprendere la loro percezione della denominazione in questione, o di un parere del comitato istituito dalla decisione della Commissione 21 dicembre 1992, 93/53/CEE, che istituisce un comitato scientifico per le denominazioni d’origine, le indicazioni geografiche e le attestazioni di specificità (GU 1993, L 13, pag. 16), che è stato successivamente sostituito dal gruppo scientifico di esperti per le denominazioni d’origine, le indicazioni geografiche e le specialità tradizionali garantite, istituito dalla decisione della Commissione 20 dicembre 2006, 2007/71/CE (GU 2007, L 32, pag. 177). Tale comitato, composto da professionisti altamente qualificati nei settori giuridico e agricolo, ha come funzione di esaminare, segnatamente, il carattere generico delle denominazioni.

67      Infine, è possibile prendere in considerazione altri elementi, segnatamente la definizione di una denominazione come generica nel Codex alimentarius (sul valore indicativo delle norme del Codex alimentarius, v. sentenze della Corte 22 settembre 1988, causa 286/86, Deserbais, Racc. pag. 4907, punto 15, e 5 dicembre 2000, causa C-448/98, Guimont, Racc. pag. I-10663, punto 32) e l’inclusione della denominazione nella lista contenuta nell’allegato II della convenzione internazionale relativa all’utilizzo di indicazioni di origine e denominazioni dei formaggi, firmata a Stresa il 1º giugno 1951, in quanto tale inclusione autorizza l’uso della denominazione in ogni paese firmatario della convenzione, a condizione che le regole di fabbricazione siano rispettate e che il paese di produzione sia indicato, senza che tale possibilità venga limitata ai produttori della zona geografica corrispondente (v. conclusioni dell’avvocato generale Ruiz‑Jarabo Colomer per la citata sentenza Germania e Danimarca/Commissione, Racc. pag. I-9118, paragrafo 168).

68      Orbene, è giocoforza constatare che la commissione di ricorso ha ignorato i criteri espressi dalla giurisprudenza comunitaria in materia di DOP e sanciti dall’art. 3 del regolamento n. 2081/92.

69      Infatti, essa non ha preso in considerazione nessuno degli elementi che, secondo la giurisprudenza ricordata ai precedenti punti 65-67, permettono di effettuare la richiesta analisi del carattere eventualmente generico di una denominazione o di uno degli elementi che la compongono e non ha assolutamente fatto ricorso a sondaggi d’opinione presso i consumatori o al parere di esperti qualificati in materia, né ha richiesto informazioni, tanto agli Stati membri, quanto alla Commissione, la quale avrebbe, a sua volta, potuto investire della questione il sopraccitato comitato scientifico, mentre, come evidenzia a giusto titolo l’UAMI, essa ne avrebbe avuto la possibilità ai sensi dell’art. 74, n. 1, prima frase, e dell’art 76 del regolamento n. 40/94.

70      Gli elementi di prova posti a fondamento della decisione impugnata consistono semplicemente in estratti di dizionari e ricerche su Internet effettuate d’ufficio dalla commissione di ricorso.

71      Orbene, la frequenza con cui un termine compare su Internet non è, di per se stessa, di natura tale da provare il carattere generico di una denominazione. Inoltre, tutte le definizioni del termine «grana» fornite dai dizionari citati dalla commissione di ricorso rinviano al luogo di produzione del Grana Padano, corrispondente ad una zona della pianura padana. Di conseguenza, e contrariamente a quanto ritenuto dalla commissione di ricorso, tali dizionari dimostrano piuttosto che la denominazione «grana» viene utilizzata nella lingua italiana come una forma abbreviata di Grana Padano e che la denominazione «grana» è connessa nei fatti e nel comune sentire alla provenienza padana di tale prodotto, il che è confermato dai due dizionari tedeschi citati ai punti 50 e 51 della decisione impugnata. Riguardo alla definizione fornita nell’Enciclopedia Treccani, essa è priva di rilevanza, in quanto risalente al 1949, vale a dire a una data anteriore tanto al regolamento n. 1107/96, quanto alla legge n. 125/54, recante il primo riconoscimento della denominazione «Grana Padano» in quanto DOP.

72      In più, occorre constatare che, se la commissione di ricorso avesse debitamente preso in considerazione tutti gli elementi di prova forniti dal ricorrente e avesse applicato i criteri formulati dalla giurisprudenza della Corte, essa avrebbe dovuto concludere che la prova del carattere generico della denominazione «grana» non era stata apportata in misura sufficiente.

73      Tra tali elementi vi è, prima di tutto, la situazione normativa riguardante la protezione della denominazione «Grana Padano» in Italia, nonché la sua evoluzione storica.

74      A tale riguardo, occorre rilevare che il primo riconoscimento normativo della denominazione «grana» risale al Regio Decreto Legge 17 maggio 1938, n. 1177, Disposizioni integrative della disciplina della produzione e della vendita dei formaggi (GURI n. 179 dell’8 agosto 1938). In tale decreto, che fissa il tenore minimo di materia grassa nei vari formaggi italiani, si menzionano: il grana parmigiano-reggiano, il grana lodigiano, il grana emiliano, il grana lombardo e il grana veneto. Tale decreto testimonia il fatto che il grana era prodotto in diverse zone della valle padana, in prossimità di Parma e di Reggio Emilia, di Lodi, in Emilia, in Lombardia e in Veneto. La denominazione «Grana Padano», al contrario, non vi è menzionata.

75      È giocoforza constatare che tali zone sono tutte incluse nella zona di produzione vuoi del Parmigiano Reggiano (Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna a ovest del Reno e Mantova a est del Po), vuoi del Grana Padano (Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e provincia di Trento).

76      A seguito dell’istituzione in Italia del primo regime di denominazioni d’origine con la legge n. 125/54 e con il Decreto del Presidente della Repubblica 30 ottobre 1955, n. 1269, Riconoscimento delle denominazioni circa i metodi di lavorazione, caratteristiche merceologiche e zone di produzione dei formaggi (GURI n. 295 del 22 dicembre 1955, pag. 4401), che ha riconosciuto la denominazione d’origine «Grana Padano», il formaggio Parmigiano Reggiano ha perso la sua qualificazione come grana in ragione delle sue caratteristiche peculiari, mentre il riconoscimento di cui beneficiavano tutti gli altri formaggi grana è stato sussunto sotto la denominazione «padano».

77      Il fatto che la legislazione italiana del 1938 citi differenti tipi di grana (parmigiano-reggiano, lodigiano, emiliano, lombardo e veneto), tutti prodotti nella zona della pianura del Po, senza tuttavia citare il Grana Padano, nonché il fatto che la normativa successiva abbia introdotto la denominazione «Grana Padano» abbandonando nel contempo le denominazioni anteriori, indicano che il grana è un formaggio tradizionalmente prodotto in numerose zone della pianura del Po e che, perciò, ad un certo momento è stato identificato dal legislatore italiano con il termine «padano», in modo tale da semplificare il quadro normativo e da includere in una sola denominazione le differenti denominazioni anteriori, tutte originarie della valle padana.

78      La qualificazione di «padano» non è quindi stata introdotta per limitare la portata della DOP solo a taluni tipi di grana, ma piuttosto al fine di riunirli tutti sotto la stessa elevata tutela accordata inizialmente dalla normativa italiana e successivamente dal regolamento n. 2081/92. Ne consegue che l’evoluzione del quadro giuridico italiano indica che la denominazione «grana» non è generica.

79      Nessuno degli argomenti proposti dalla Biraghi permette di rimettere in discussione tali considerazioni. In primo luogo, riguardo all’esistenza della denominazione «grana trentino», occorre constatare che il decreto del presidente della Repubblica recante modifica del disciplinare del formaggio Grana Padano, richiamato dalla Biraghi, ha autorizzato l’aggiunta dell’espressione «trentino» (di Trento) sul formaggio Grana Padano prodotto nel territorio della provincia di Trento. Tale possibilità non fa che rinforzare l’idea che è possibile chiamare «grana» un formaggio solamente se esso è prodotto secondo il disciplinare del Grana Padano.

80      In secondo luogo, anche se la circolare dell’associazione Assolatte indica effettivamente l’esistenza di «altri grana», oltre al Grana Padano, è giocoforza constatare che, come risulta dalla tabella allegata alla detta circolare, tali «altri grana» erano esportati verso paesi diversi dagli Stati membri della Comunità europea, segnatamente negli Stati Uniti d’America, in Giappone, in Russia, in Croazia, in Slovenia, paese quest’ultimo che non era membro dell’Unione europea alla data cui tali dati si riferiscono, vale a dire nel 1999. Riguardo al formaggio che era destinato all’esportazione verso paesi in cui la denominazione «grana» non beneficiava di alcuna protezione normativa particolare, tale argomento è ininfluente, in applicazione del principio di territorialità riconosciuto dalla Corte nell’ambito dei diritti di proprietà intellettuale nella sua citata sentenza Exportur (punto 12). Lo stesso vale per i dati elaborati dall’ISTAT, richiamati dalla Biraghi, i quali non sono concludenti dato che non indicano il mercato di destinazione degli «altri grana».

81      In terzo luogo, sostenendo che il termine «grana» non designerebbe una zona geografica in quanto tale, la Biraghi intende in sostanza dimostrare che la denominazione «grana» non potrebbe in alcun caso beneficiare della protezione accordata dal regolamento n. 2081/92, dato che essa non risponde alla definizione della denominazione d’origine fornita all’art. 2 di tale regolamento. Orbene, non è rilevante stabilire se la denominazione «grana» derivi la sua origine dal fatto che il formaggio che essa designa ha una struttura granulosa o, invece, dal fatto che esso originariamente era stato prodotto nella Valle Grana dato che, in forza dell’art. 2, n. 3, del regolamento n. 2081/92, una DOP può essere anche costituita da una denominazione tradizionale non geografica designante un prodotto alimentare originario di una regione o di un luogo determinato che presentino fattori naturali omogenei che li delimitano dalle zone limitrofe (sentenza Germania e Danimarca e a./Commissione, cit., punti 46-50). A tale riguardo, non è contestato che il formaggio grana è originario della regione della pianura padana. A tale titolo, esso soddisfa quindi i requisiti di cui all’art. 2, n. 3, del regolamento n. 2081/92.

82      In quarto luogo, il rinvio da parte della Biraghi alla citata sentenza Germania e Danimarca/Commissione per sostenere la sua tesi è privo di ogni pertinenza in quanto la Corte non critica la possibilità che una denominazione non geografica possa costituire una DOP, ma contesta solamente l’estensione della zona di produzione della denominazione non geografica «feta». Sulla base di questa stessa considerazione, deve essere respinto anche l’argomento fatto valere dalla Biraghi secondo cui, nella Valle Grana, si produce solo il formaggio Castelmagno. Allo stesso modo deve essere escluso il riferimento effettuato dalla Biraghi alla citata sentenza Pistre e a., in quanto, come risulta dal punto 35 di tale sentenza, questa concerne una denominazione (montagna) che non soddisfa i requisiti per essere considerata come corrispondente ad una denominazione d’origine ai sensi dell’art. 2 del regolamento n. 2081/92, dato che non esiste una relazione diretta tra la qualità o le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica specifica.

83      In quinto luogo, la decisione 96/536, che cita il formaggio danese «Dansk Grana» e quello tedesco «Romonte – Typ Grana», è stata adottata nell’ambito dell’applicazione della direttiva del Consiglio 16 giugno 1992, 92/46/CEE, che stabilisce le norme sanitarie per la produzione e la commercializzazione di latte crudo, di latte trattato termicamente e di prodotti a base di latte (GU L 268, pag. 1). Essendo la decisione 96/536 diretta solo ad autorizzare eccezioni al rispetto delle disposizioni sanitarie stabilite dalla direttiva 92/46, essa non può avere alcuna influenza sulla protezione di un diritto di proprietà intellettuale quale una denominazione d’origine protetta (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 96). Anche supponendo che tale citazione dimostrasse il carattere generico della denominazione «grana» in Danimarca e in Germania, non sarebbe possibile estendere tale conclusione all’insieme del territorio comunitario o almeno ad una parte sostanziale di esso. Inoltre, la decisione 96/536 si riferisce al grana danese e ad un formaggio tedesco che si precisa essere del «tipo» grana, il che fa pensare che, in Danimarca e in Germania, la denominazione «grana» senza qualificazioni avrebbe in ogni caso mantenuto la sua connotazione di «Grana Padano» (v., in tal senso, sentenza Germania e Danimarca/Commissione, cit., punto 92). Infine, la decisione 96/536, citata dalla Biraghi, risale al 1996, periodo in cui gli Stati membri potevano ancora avvalersi dell’eccezione prevista all’art. 13, n. 2, del regolamento n. 2081/92, che li autorizzava a mantenere i regimi nazionali, che permettevano l’utilizzazione delle denominazioni registrate ai sensi dell’art. 17 per un periodo limitato al massimo a cinque anni dopo la data della pubblicazione del regolamento.

84      In sesto luogo, la sentenza della Corte di cassazione 28 novembre 1989 è stata resa nell’ambito di un procedimento penale ed essa menziona esplicitamente che il proscioglimento dell’accusato era la conseguenza dell’assenza, in quel momento, di una sanzione penale applicabile in caso di utilizzazione impropria della denominazione «grana». Inoltre, tale sentenza è stata pronunciata prima dell’entrata in vigore dei regolamenti nn. 2081/92 e 1107/96, vale a dire prima che il livello di protezione delle DOP fosse definito a livello comunitario. Infine, risulta da numerosi verbali di accertamento di frodi dell’Ispettorato centrale repressione frodi del Ministero italiano dell’Agricoltura e delle Foreste, prodotti dal ricorrente e tutti successivi alla sentenza della Corte di cassazione e al regolamento n. 1107/96, che le autorità italiane procedono sistematicamente al sequestro dei formaggi recanti solo l’indicazione «grana» in considerazione del fatto che una tale pratica costituisce una violazione della DOP «Grana Padano» quale protetta dal regolamento n. 1107/96.

85      In ultimo luogo, neanche i dizionari citati dalla Biraghi sono pertinenti. Infatti, contrariamente a quanto pretende la Biraghi, si può notare che, se è vero che il Dizionario dei formaggi Larousse definisce i grana come «formaggi italiani aventi (certe) caratteristiche comuni», esso tuttavia indica in seguito che una serie di leggi italiane ne ha definito la denominazione distinguendo i formaggi prodotti in certe province (Parmigiano Reggiano) da quelli prodotti in altre province (Grana Padano), giungendo così a corroborare la tesi contraria a quella del carattere generico della denominazione «grana». Non si può, invece, trarre alcuna conclusione dalla Guide du fromage Androuët-Stock, che non cita nemmeno il Grana Padano.

86      Il quadro normativo italiano non era peraltro il solo indizio di cui disponeva la commissione di ricorso al fine di escludere il carattere generico della denominazione «grana». Essa era, infatti, a conoscenza del fatto che nessuno Stato membro aveva sollevato la questione del preteso carattere generico della denominazione «grana» in seno al comitato di regolamentazione consultato dalla Commissione in vista dell’adozione del regolamento n. 1107/96. In più, non le era stata fornita nessuna prova della commercializzazione nella Comunità europea di un formaggio denominato «grana».

87      Infine, riguardo al suo obbligo di informarsi d’ufficio sul diritto nazionale applicabile (v., in tal senso, sentenza del Tribunale 20 aprile 2005, causa T-318/03, Atomic Austria/UAMI – Fábricas Agrupadas de Muñecas de Onil (ATOMIC BLITZ), Racc. pag. II-1319, punto 35), la commissione di ricorso avrebbe anche potuto prendere in considerazione l’esistenza di normative nazionali di recepimento della citata convenzione internazionale sull’uso delle indicazioni di origine e delle denominazioni dei formaggi nonché delle convenzioni internazionali bilaterali di protezione della denominazione «grana».

88      Da tutto quanto precede risulta che la commissione di ricorso non poteva concludere che la registrazione del marchio GRANA BIRAGHI non costituisse un pregiudizio alla DOP «Grana Padano» ai sensi dell’art. 13, n. 1, primo comma, del regolamento n. 2081/92.

89      Occorre dunque concludere che il ricorso è fondato nella misura in cui la commissione di ricorso ha considerato erroneamente che la denominazione «grana» era generica e che l’esistenza della DOP «Grana Padano» non ostava alla registrazione del marchio GRANA BIRAGHI ai sensi dell’art. 14 del regolamento n. 2081/92. Pertanto, si deve annullare la decisione impugnata.

 Sulle spese

90      Ai sensi dell’art. 87, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. Ai sensi dell’art. 87, n. 4, primo comma, del regolamento di procedura, gli Stati membri che sono intervenuti nella causa sopportano le proprie spese.

91      All’udienza, il ricorrente ha chiesto la condanna dell’UAMI alle spese.

92      Risulta da una giurisprudenza costante che il fatto che la parte risultata vittoriosa abbia concluso in tal senso solo all’udienza non osta a che la sua domanda sia accolta [sentenza della Corte 29 marzo 1979, causa 113/77, NTN Toyo Bearing e a./Consiglio, Racc. pag. 1185, sentenze del Tribunale 10 luglio 1990, causa T‑64/89, Automec/Commissione, Racc. pag. II‑367, punto 79, e 16 novembre 2006, causa T‑278/04, Jabones Pardo/UAMI – Quimi Romar (YUKI), punto 75].

93      Poiché la decisione della commissione di ricorso deve essere annullata e, a tal titolo, l’UAMI dev’essere considerato come soccombente, nonostante il senso delle sue conclusioni, l’UAMI dovrà sopportare le spese del ricorrente, conformemente alle conclusioni di quest’ultimo. Le parti intervenienti sopporteranno le proprie spese.

Per questi motivi,

IL TRIBUNALE (Quarta Sezione)

dichiara e statuisce:

1)      La decisione della prima commissione di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (UAMI) 16 giugno 2003 (procedimento R 153/2002‑1) è annullata.

2)      L’UAMI sopporterà, oltre alle proprie spese, quelle sostenute dal Consorzio per la tutela del formaggio Grana Padano.

3)      La Repubblica italiana e la Biraghi Spa sopporteranno ciascuna le proprie spese.



Legal

Wiszniewska-Białecka

Moavero Milanesi

Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 12 settembre 2007.

Il cancelliere

 

      Il presidente

E. Coulon

 

      H. Legal


* Lingua processuale: l'italiano.