Language of document : ECLI:EU:C:2005:517

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

JULIANE KOKOTT

dell’8 settembre 2005 1(1)

Causa C-540/03

Parlamento europeo

contro

Consiglio dell’Unione europea

con gli interventi della

Repubblica federale di Germania

e della

Commissione delle Comunità europee

«Ricongiungimento familiare – Ricevibilità di un’impugnazione parziale – Minori – Periodo di attesa»





I –    Introduzione

1.        Con il presente ricorso il Parlamento europeo contesta l’art. 4, n. 1, ultimo comma, e n. 6, e l’art. 8 della direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (2) (in prosieguo: la «direttiva»). A dispetto del titolo, questa direttiva non disciplina il ricongiungimento familiare in maniera generale ma solo i diritti delle famiglie delle quali non faccia parte un cittadino dell’Unione europea.

2.        Secondo la direttiva, un cittadino di un paese terzo che risieda legalmente nel territorio della Comunità ha, in linea di principio, il diritto che lo Stato di accoglienza autorizzi i suoi figli a raggiungerlo nell’ambito del ricongiungimento familiare. Le norme contestate offrono, tuttavia, agli Stati membri la possibilità di limitare, in presenza di determinate condizioni, il ricongiungimento familiare dei minori che abbiano superato il dodicesimo od il quindicesimo anno di età e di stabilire determinati periodi di attesa. Il Parlamento ritiene che queste norme siano incompatibili con il diritto fondamentale alla protezione della famiglia e con il principio della parità di trattamento.

3.        Sebbene il Parlamento non attribuisca manifestamente molta importanza al contributo degli avvocati generali (3), le nuove questioni giuridiche sollevate con il presente ricorso impongono la presentazione di conclusioni. Tali questioni riguardano, in particolare, la ricevibilità del ricorso e l’applicazione dei diritti fondamentali dell’uomo ivi menzionati.

II – Quadro normativo

A –    Diritto comunitario

4.        Il Consiglio ha fondato la direttiva sull’art. 63, primo comma, n. 3, del Trattato, secondo il quale il Consiglio delibera all’unanimità le misure in materia di politica dell’immigrazione nei settori:

«a)      condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento familiare;

b)      (…)».

5.        Occorre altresì menzionare l’art. 63, secondo comma, del Trattato, il quale recita:

«Le misure adottate dal Consiglio a norma dei punti 3 e 4 non ostano a che uno Stato membro mantenga o introduca, nei settori in questione, disposizioni nazionali compatibili con il presente trattato e con gli accordi internazionali».

6.        Il secondo ‘considerando’ della direttiva sottolinea espressamente l’obbligo di protezione della famiglia, quale risulta dagli accordi internazionali ed in particolare dai diritti fondamentali:

«Le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l’obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi strumenti di diritto internazionale. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali ed i principi riconosciuti in particolare nell’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».

7.        Va qui ricordato come l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali (art. II-67 del progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa), concernente il rispetto della vita privata e della vita familiare, preveda che ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni.

8.        Il quinto ‘considerando’ statuisce quanto segue:

«Gli Stati membri attuano le disposizioni della presente direttiva senza operare discriminazioni fondate su sesso, razza, colore della pelle, origine etnica o sociale, caratteristiche genetiche, lingua, religione e convinzioni personali, opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, appartenenza a una minoranza nazionale, censo, nascita, disabilità, età o tendenze sessuali».

9.        Ciò facendo, il legislatore comunitario richiama gli specifici divieti di discriminazione contenuti nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali (art. II-81 del progetto di Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa).

10.      Secondo quanto previsto dal suo art. 3, n. 4, lett. b), la direttiva fa salve le disposizioni più favorevoli contenute nella Carta sociale europea del 18 ottobre 1961 (4), nella Carta sociale europea riveduta del 3 maggio 1996 (5) e nella Convenzione europea relativa allo status di lavoratore migrante del 24 novembre 1977 (6).

11.      L’art. 4, n. 1, della direttiva prevede sostanzialmente che gli Stati membri autorizzino l’ingresso ed il soggiorno dei coniugi e dei figli minori. L’ultimo comma concede, tuttavia, agli Stati membri la possibilità di imporre condizioni aggiuntive per il ricongiungimento dei figli che abbiano superato i dodici anni:

«In deroga alla disposizione che precede, qualora un minore abbia superato i dodici anni e giunga in uno Stato membro indipendentemente dal resto della sua famiglia, quest’ultimo, prima di autorizzarne l’ingresso ed il soggiorno ai sensi della presente direttiva, può esaminare se siano soddisfatte le condizioni per la sua integrazione richieste dalla sua legislazione in vigore al momento dell’attuazione della presente direttiva».

12.      Il relativo ‘considerando’ della direttiva, il dodicesimo, recita come segue:

«La possibilità di limitare il diritto al ricongiungimento familiare dei minori che abbiano superato i dodici anni e che non risiedono in via principale con il soggiornante intende tener conto della capacità di integrazione dei minori nei primi anni di vita e assicurare che essi acquisiscano a scuola l’istruzione e le competenze linguistiche necessarie».

13.      Ai sensi dell’art. 4, n. 6, della direttiva, il diritto al ricongiungimento familiare dei figli minori non trova applicazione, qualora la relativa domanda venga presentata dopo che questi abbiano superato il quindicesimo anno d’età:

«In deroga alla disposizione precedente gli Stati membri possono richiedere che le domande riguardanti il ricongiungimento familiare di figli minori debbano essere presentate prima del compimento del quindicesimo anno d’età, secondo quanto previsto dalla loro legislazione in vigore al momento dell’attuazione della presente direttiva. Ove dette richieste vengano presentate oltre il quindicesimo anno d’età, gli Stati membri che decidono di applicare la presente deroga autorizzano l’ingresso ed il soggiorno di siffatti figli per motivi diversi dal ricongiungimento familiare».

14.      L’art. 8 della direttiva consente di fissare periodi di attesa:

«Gli Stati membri possono esigere che il soggiornante, prima di farsi raggiungere dai suoi familiari, abbia soggiornato legalmente nel loro territorio per un periodo non superiore a due anni.

In deroga alla disposizione che precede, qualora, in materia di ricongiungimento familiare, la legislazione in vigore in uno Stato membro al momento dell’adozione della presente direttiva tenga conto della sua capacità d’accoglienza, questo Stato membro può prevedere un periodo di attesa non superiore a tre anni tra la presentazione della domanda di ricongiungimento ed il rilascio del permesso di soggiorno ai familiari».

15.      La direttiva contiene diverse disposizioni sulla valutazione delle circostanze nel singolo caso.

16.      Ai sensi dell’art. 5, n. 5, della direttiva, l’interesse dei minori deve essere tenuto in considerazione:

«Nell’esame della domanda, gli Stati membri tengono nella dovuta considerazione l’interesse superiore dei minori».

Nella proposta della Commissione (7) questa disposizione conteneva un espresso riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo (8).

17.      L’art. 17 riguarda tutti i soggetti potenzialmente interessati:

«In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine».

B –    Diritto internazionale

1.      Trattati europei

18.      La protezione della vita familiare ai sensi della tutela dei diritti dell’uomo trova il suo fondamento soprattutto nell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»):

«1      Ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza.

2       Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, per la pubblica sicurezza, per il benessere economico del paese, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui».

19.      Il divieto di discriminazione è contenuto nell’art. 14 della CEDU:

«Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione».

20.      Alcune disposizioni sul ricongiungimento familiare sono contenute anche nella Carta sociale europea (9). Ai sensi della parte prima, n. 19, i lavoratori migranti, cittadini di uno Stato contraente, e le loro famiglie hanno diritto alla protezione ed all’assistenza sul territorio di tutti gli Stati contraenti. L’art. 19 concretizza come segue tale principio in relazione al ricongiungimento familiare,:

«Per assicurare il concreto esercizio del diritto dei lavoratori migranti e delle loro famiglie alla protezione ed all’assistenza sul territorio di ogni altra Parte le Parti s’impegnano:

1. – 5. (…)

6.      ad agevolare per quanto possibile il ricongiungimento familiare del lavoratore migrante autorizzato a stabilirsi sul territorio;

7. – 10. (…)» (10)

21.      Nell’annesso, che ai sensi dell’art. 38 costituisce parte integrante della Carta, viene stabilito che, ai fini dell’applicazione della summenzionata disposizione, con l’espressione «famiglia di lavoratore migrante» devono essere intesi almeno il coniuge del lavoratore ed i suoi figli minori di 21 anni e che sono a carico del lavoratore. Nella Carta sociale riveduta del 3 maggio 1996 (11), il testo dell’art. 19, n. 6, è rimasto invariato, mentre l’annesso è stato modificato in maniera tale da considerare come «famiglia del lavoratore migrante», ai fini dell’applicazione della citata norma, almeno il coniuge del lavoratore ed i suoi figli non sposati, per tutto il tempo in cui sono considerati minori dalla legislazione pertinente dello Stato d’accoglienza e che sono a carico del lavoratore.

22.      Il Consiglio d’Europa ha aperto alla firma anche la Convenzione europea sullo status dei lavoratori migranti (12). Il ricongiungimento familiare è regolamentato dall’art. 12, n. 1, che recita:

«Il coniuge del lavoratore migrante che ha un’occupazione regolare sul territorio di una Parte contraente ed i suoi figli non sposati, fintantoché sono considerati minorenni dalla legislazione pertinente del paese d’accoglienza e sono a carico del lavoratore, sono autorizzati, a condizioni analoghe a quelle previste dalla presente Convenzione per l’ammissione dei lavoratori migranti e secondo la procedura prevista per tale ammissione dalla legislazione interna o dagli accordi internazionali, a raggiungere il lavoratore migrante nel territorio di una Parte contraente, purché quest’ultimo disponga per la sua famiglia di un alloggio considerato normale per i lavoratori nazionali nella regione in cui lavora. Ciascuna Parte contraente potrà subordinare il rilascio dell’autorizzazione di cui sopra ad un periodo di attesa che non potrà essere superiore ai dodici mesi».

23.      In base alla definizione contenuta all’art. 1, per «lavoratore migrante» ai sensi di questa convenzione si intende solo il cittadino di una Parte contraente.

2.      Trattati su scala mondiale

24.      Il Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16 dicembre 1966 (13) contiene all’art. 17 – analogamente a quanto previsto dall’art. 8 della CEDU – la seguente garanzia:

«(1)      nessuno può essere sottoposto ad interferenze arbitrarie o illegittime nella sua vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa o nella sua corrispondenza, né a illegittime offese al suo onore o alla sua reputazione.

(2)      Ogni individuo ha diritto ad essere tutelato dalla legge contro tali interferenze od offese».

25.      Al successivo art. 23, n. 1, del Patto viene stabilito quanto segue:

«La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato».

26.      Occorre rimandare poi, per completezza, all’art. 24, n. 1, del Patto:

«Ogni fanciullo, senza discriminazione alcuna fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l’origine nazionale o sociale, la condizione economica o la nascita, ha diritto alle misure protettive che richiede il suo stato minorile, da parte della sua famiglia, della società e dello Stato».

27.      La Convenzione sui diritti del fanciullo (14) contiene, allo stesso modo, delle disposizioni in tema di ricongiungimento familiare. L’art. 9, n. 1, stabilisce come principio fondamentale che il fanciullo non possa essere separato dai suoi genitori contro la sua volontà. Su tale base, l’art. 10, n. 1, prima frase, prevede quanto segue:

«In conformità con l’obbligo che incombe agli Stati contraenti in virtù del paragrafo 1 dell’art. 9, ogni domanda presentata da un fanciullo o dai suoi genitori in vista di entrare in uno Stato contraente o di lasciarlo ai fini di un ricongiungimento familiare sarà considerata con spirito positivo, con umanità e con diligenza».

28.      Si deve, poi, considerare anche l’esigenza di carattere generale formulata nell’art. 3, n. 1:

«In tutte le decisioni  relative ai fanciulli di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, sia dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi, l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente».

29.      Al pari del Consiglio d’Europa, anche le Nazioni Unite hanno aperto alla firma una Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie. (15) Secondo l’art. 44, n. 2, gli Stati contraenti devono adottare, nell’ambito delle loro competenze, tutte le misure ritenute adeguate per agevolare il ricongiungimento familiare con il coniuge e con i figli minorenni. Sino ad oggi nessuno Stato membro della Comunità europea ha ratificato questa convenzione.

30.      Occorre, infine, menzionare anche l’art. 13 della Convenzione n. 143 dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO) sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti del 24 giugno 1975 (16), secondo il quale:

«1.      Ogni Stato membro può adottare tutte le disposizioni opportune di sua competenza e collaborare con altri Membri, per favorire il raggruppamento familiare di tutti i lavoratori migranti che risiedono legalmente sul suo territorio.

2.      Il presente articolo concerne il coniuge del lavoratore migrante, nonché, ove siano a suo carico, i figli ed i genitori».

III – Conclusioni

31.      Il Parlamento europeo conclude che la Corte voglia,

–        ai sensi dell’art. 230 CE, annullare l’art. 4, n. 1, ultimo comma, e n. 6, e l’art. 8 della direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare;

–        condannare il convenuto a tutte le spese.

32.      Il Consiglio conclude che la Corte voglia,

–        respingere il ricorso per declaratoria di nullità dell’art. 4, n. 1, ultimo comma, e n. 6, e dell’art. 8 della direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, 2003/86/CE, e

–        condannare il Parlamento europeo alle spese.

33.      La Repubblica federale di Germania e la Commissione intervengono a sostegno delle conclusioni del Consiglio.

IV – Analisi

A –    Sulla ricevibilità

1.      Sull’esistenza di un atto impugnabile

34.      Un ricorso di annullamento ai sensi dell’art. 230 CE può essere rivolto solo contro atti che siano destinati a produrre effetti giuridici vincolanti (17). L’efficacia vincolante della direttiva viene messa in dubbio dall’art. 63, secondo comma, del Trattato, secondo il quale «le misure [come la direttiva] adottate dal Consiglio a norma dei punti 3 e 4 [dell’art. 63] non ostano a che uno Stato membro mantenga o introduca, nei settori in questione, disposizioni nazionali compatibili con il presente trattato e con gli accordi internazionali».

35.      L’art. 63, secondo comma, del Trattato CE viene in parte inteso come un’autorizzazione all’adozione di misure di protezione rafforzate, come già previste negli artt. 95, n. 5, 137, n. 5, 153, n. 3, e 176 CE. (18) Quest’interpretazione non è, tuttavia, convincente, dal momento che l’art. 63, secondo comma, CE non prevede, a differenza delle clausole sulle misure di protezione rafforzate, alcun vincolo di finalità per la protezione rafforzata. Quando, però, in relazione ad altre misure, gli Stati membri sono liberi di sceglierne le finalità, la normativa comunitaria non fissa loro alcuno standard minimo vincolante. La possibilità di adottare misure di protezione rafforzate è tuttavia contraddistinta da tale standard minimo (19) anziché dall’assenza completa dell’effetto vincolante.

36.      In base ad una rigida interpretazione letterale, dall’art. 63, secondo comma, del Trattato risulterebbe che le norme di diritto derivato che si basano sui numeri 3 e 4 dell’art. 63 CE, ed in particolare la direttiva in questione, non avrebbero alcuna efficacia negli ordinamenti giuridici nazionali, né godrebbero in questi di un primato, qualora il diritto nazionale adottasse altre norme (20). Rispondendo ad una domanda della Corte, il governo tedesco ha manifestato l’opinione, in conformità all’interpretazione sopra esposta, che l’art. 63, secondo comma, autorizzerebbe iniziative nazionali unilaterali. Seguendo questo ragionamento, risulterebbe legittima addirittura la mancata adozione di norme di diritto interno, ovvero la mancata trasposizione della direttiva, dal momento che anche così si sarebbe in presenza di un’«altra» normativa. Conseguentemente, le misure previste dall’art. 63, primo comma, n. 3 e n. 4, del Trattato verrebbero ridotte, da un punto di vista di efficacia giuridica, ad una mera raccomandazione (21). Il governo tedesco non voleva, però, giungere sino a questo punto.

37.      Una simile interpretazione corrisponderebbe alla presumibile motivazione di alcuni Stati membri per quanto riguardava l’adozione di questa norma. Inizialmente, infatti, non tutti gli Stati membri erano d’accordo per trasferire nel Trattato CE competenze in materia di immigrazione (22).

38.      La summenzionata interpretazione dell’art. 63, secondo comma, del Trattato come riserva a favore degli Stati membri renderebbe, tuttavia, paradossale e priverebbe di efficacia il contemporaneo inserimento nel Trattato delle competenze normative indicate nell’art. 63, primo comma, n. 3 e n. 4. Queste nuove competenze normative non hanno lo scopo di permettere l’adozione di raccomandazioni, per le quali non sarebbe stato necessario l’inserimento di alcun supporto giuridico nel Trattato CE, dal momento che già gli artt. K.1 e K.3 del Trattato sull’Unione europea, nella sua previgente versione del Trattato di Maastricht, contenevano competenze corrispondenti, e potenzialmente addirittura più ampie (23). L’introduzione delle competenze normative di cui all’art. 63, n. 3 e n. 4, avrebbe, pertanto, dovuto fornire gli strumenti giuridici di diritto comunitario per la regolamentazione, tra l’altro, delle questioni in tema di immigrazione.

39.      L’art. 63 del Trattato contiene dunque norme contraddittorie (24), la cui rispettiva efficacia può essere garantita solo interpretandola in modo da raggiungere un giusto equilibrio – nel linguaggio della Corte Costituzionale tedesca la «praktische Konkordanz» (concordanza pratica) (25). Come hanno precisato, rispondendo alla Corte, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione, ne consegue che il secondo comma dell’art. 63 non può essere inteso in maniera tale da privare di effetti giuridici vincolanti le misure adottate sulla base dei numeri 3 e 4. Il rinvio alla compatibilità con il Trattato dev’essere invece inteso – come nel resto del diritto comunitario –nel senso che sono le disposizioni di diritto interno a dover essere compatibili con il diritto derivato – ivi incluse le misure adottate sulla base dei numeri 3 e 4 (26).

40.      A favore di una simile interpretazione vi è anche il fatto che le competenze normative previste dall’art. 63 CE, primo comma, n. 3 e 4, possono essere esercitate solo con un voto all’unanimità (27). Gli Stati membri possono, pertanto, garantire in maniera sufficiente i propri interessi nella procedura legislativa. Del resto, qualora uno Stato membro dapprima votasse a favore di un atto basato sulla summenzionata norma e, successivamente, conservasse o introducesse norme di diritto interno ad esso contrarie, si comporterebbe contrariamente a buona fede (venire contra factum proprium (28)).

41.      Il secondo comma non deve essere, pertanto, inteso come una limitazione all’efficacia giuridica degli atti, ma come un obbligo per il legislatore comunitario – come è stato evidenziato, in particolare, dal Consiglio –, nell’adozione di misure sulla base dei numeri 3 e 4, di lasciare agli Stati membri sufficienti margini di discrezionalità. Tale obbligo viene concretizzato nelle diverse opzioni concesse dalla presente direttiva agli Stati membri. È anche sulla base di questo vincolo di politica normativa che il diritto derivato adottato sulla base dei numeri 3 e 4 non deve, nel dubbio, essere interpretato come un’armonizzazione completa.

42.      Da quanto sopra esposto consegue che nonostante il testo dell’art. 63, secondo comma, del Trattato, la direttiva è, in linea di principio, un atto impugnabile.

2.      Sulla natura giuridica delle disposizioni contestate

43.      Ciò nonostante, il Consiglio mette in dubbio che il ricorso abbia ad oggetto un atto impugnabile. Lo stesso ritiene, infatti, contrariamente all’opinione del Parlamento, che quest’ultimo abbia rivolto il proprio ricorso non contro le norme di diritto comunitario, ma contro le disposizioni di diritto nazionale, il che non sarebbe ammissibile. L’art. 4, n. 1, ultimo comma, e n. 6, e l’art. 8 della direttiva non obbligherebbero gli Stati membri ad adottare determinate norme, rinviando, piuttosto, al diritto nazionale già esistente ed autorizzandone la permanenza. La Corte non avrebbe il potere di valutare la compatibilità del diritto nazionale con i diritti comunitari fondamentali.

44.      Il Parlamento e la Commissione sostengono, al contrario, che le norme impugnate farebbero parte del diritto comunitario e sarebbero perciò sottoposte al controllo della Corte – in particolare per quanto riguarda la loro compatibilità con i diritti comunitari fondamentali. Disposizioni comunitarie che consentissero agli Stati membri l’adozione di misure contrarie ai diritti fondamentali sarebbero con questi incompatibili.

45.      Su questo punto condivido la posizione del Parlamento e della Commissione. L’eccezione del Consiglio non è convincente. Nella sua esposizione il Consiglio trascura il fatto che già la conferma, contenuta in norme comunitarie, di determinate opzioni relative alla permanenza od all’introduzione di misure di diritto nazionale costituisce una regolamentazione – che può eventualmente essere contraria al diritto comunitario. Da un lato, le opzioni limitano potenzialmente l’ampiezza del diritto al ricongiungimento familiare introdotto dalla direttiva e, dall’altro, contengono l’accertamento costitutivo che le disposizioni cui si riferiscono sono compatibili con il diritto comunitario. Qualora un simile accertamento non venisse impugnato tempestivamente con un ricorso per annullamento, la Comunità non potrebbe più procedere di propria iniziativa contro misure di diritto nazionali che si limitassero a sfruttare le opzioni previste (29). Ne consegue che, in linea di principio, dev’essere ammissibile anche un simile ricorso.

3.      Sulla impugnazione parziale della direttiva

46.      Il parere della prof.ssa Langefeld presentato dal governo tedesco solleva, poi, indirettamente la questione se il richiesto annullamento di alcune disposizioni soltanto della direttiva possa costituire un ammissibile oggetto di ricorso. Secondo costante giurisprudenza, un’impugnazione parziale è irricevibile se gli elementi oggetto di impugnazione sono collegati in maniera inseparabile con altre disposizioni dello stesso atto e se l’annullamento totale dell’atto andrebbe oltre l’oggetto del ricorso (ultra petita) (30). L’annullamento isolato di questi elementi, essenziali e non separabili, modificherebbe, infatti, nella sostanza le norme interessate (31). Una simile modifica è prerogativa del legislatore comunitario (32).

47.      Il Consiglio e il governo tedesco, hanno affermato, rispondendo alla Corte, che anche il presente ricorso è, in base ai criteri testé ricordati, irricevibile. Le disposizioni contestate dal Parlamento – contrariamente alla sua opinione ed a quella espressa in udienza dalla Commissione – non sono oggettivamente separabili dal resto della direttiva. Sul punto non rileva che le rimanenti disposizioni della direttiva, prese singolarmente, potrebbero comunque trovare applicazione. Le disposizioni impugnate contengono, piuttosto, una potenziale limitazione dell’obbligo, che incombe agli Stati membri e che trova origine nella direttiva, di rendere possibile il ricongiungimento familiare. Se l’art. 4, n. 1, ultimo comma, e n. 6, e l’art. 8 della direttiva venissero annullati dalla Corte, il diritto al ricongiungimento familiare esisterebbe senza particolari limitazioni anche per i figli minori di età superiore ai 12 e 15 anni ed indipendentemente dalla previsione di un periodo di attesa. Conseguentemente, nel caso di un annullamento degli elementi in questione, verrebbe modificata la sostanza della direttiva e la Corte interferirebbe in competenze spettanti al legislatore comunitario.

48.      Nel presente caso si deve anche escludere l’annullamento delle rimanenti disposizioni, non separabili da quelle contestate, e cioè della direttiva intera. Ciò andrebbe oltre l’oggetto della richiesta del Parlamento e sarebbe incompatibile con l’interesse perseguito dal ricorso, poiché, in questo modo, non esisterebbe più alcun diritto al ricongiungimento familiare nel diritto comunitario. (33)

49.      Il ricorso è, pertanto, irricevibile.

50.      Per questo motivo procedo all’analisi della fondatezza del ricorso solo in via subordinata.

B –    Sulla fondatezza

51.      Nel suo ricorso il Parlamento assume che sarebbero stati violati il diritto alla protezione della famiglia ed il principio della parità di trattamento. Preliminarmente si deve analizzare un possibile vizio del procedimento legislativo.

1.      Sul procedimento legislativo con riguardo all’art. 4, n. 6, della direttiva

52.      Il procedimento normativo deve essere verificato in relazione all’art. 4, n. 6, della direttiva. Il Parlamento osserva che il Consiglio non ha sottoposto tale modifica al suo parere.

53.      Il Parlamento non fonda il proprio ricorso sulla mancanza di una consultazione. Si pone, pertanto, la questione se la Corte sia tenuta a rilevare d’ufficio i possibili vizi del procedimento nella formazione dell’atto de quo. Nel caso dei ricorsi per annullamento ai sensi dell’art. 33 del Trattato CECA la Corte ha già rilevato di propria iniziativa vizi procedurali.(34) L’avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer interpreta questa giurisprudenza estendendo anche all’ambito dell’art. 230 CE la rilevabilità d’ufficio quantomeno delle questioni relative alla incompetenza ed alla violazione delle forme sostanziali. (35) Sempre secondo la giurisprudenza della Corte, sono rilevabili d’ufficio anche le questioni relative alla competenza dell’istituzione che ha adottato l’atto. (36) I principi di economia processuale e di certezza del diritto fanno ritenere che i vizi del procedimento normativo debbano essere trattati allo stesso modo, in ogni caso se la Corte ne prende conoscenza nell’ambito di un ricorso per annullamento. È, pertanto, necessario verificare se, nel presente caso, il Parlamento sia stato consultato in maniera sufficiente in relazione all’art. 4, n. 6, della direttiva.

54.      Ai sensi del combinato disposto degli artt. 63 e 67, n. 1, del Trattato, il Consiglio delibera previa consultazione del Parlamento europeo. Una nuova consultazione del Parlamento europeo è sempre necessaria ogni qual volta l’atto infine adottato, considerato complessivamente, sia diverso quanto alla sua stessa sostanza da quello sul quale il Parlamento è già stato consultato, eccetto i casi in cui gli emendamenti corrispondono essenzialmente al desiderio espresso dallo stesso Parlamento (37).

55.      Non risulta che il Parlamento sia stato consultato sull’art. 4, n. 6, della direttiva. Il Consiglio ha consultato il Parlamento per l’ultima volta con lettera del 23 maggio 2002. Stando alle informazioni disponibili, l’art. 4, n. 6, della direttiva compare per la prima volta in un documento del Consiglio del 25 febbraio 2003, quando la Presidenza propose una corrispondente modifica sulla base della riserva espressa dalla delegazione austriaca (38). Sebbene il Parlamento si sia pronunciato sulla direttiva per l’ultima volta solo il 9 aprile 2003 (39), non c’è tuttavia alcun elemento che dimostri che il Consiglio abbia riferito al Parlamento della modifica della proposta di direttiva ed abbia esteso ad essa la consultazione. Dal momento che per di più il Consiglio non contesta il Parlamento su questo punto, si deve, pertanto, dedurre che il Parlamento non ha avuto alcuna possibilità di esprimere il proprio parere sull’art. 4, n. 6.

56.      L’art. 4, n. 6, della direttiva consente agli Stati membri di limitare, rispetto al sistema che era stato sottoposto alla consultazione del Parlamento, il diritto al ricongiungimento dei figli minori. Senza l’art. 4, n. 6, esisterebbe, infatti, in linea di principio, un diritto al ricongiungimento familiare anche per i figli minori che abbiano più di 15 anni. L’aggiunta di questa disposizione modifica, pertanto, la direttiva nella sua essenza.

57.      La limitazione del diritto al ricongiungimento familiare prevista all’art. 4, n. 6, della direttiva contrasta con l’espresso auspicio del Parlamento che il diritto al ricongiungimento familiare fosse riconosciuto in maniera più ampia di quanto previsto dal progetto presentatogli (40), permettendo, in particolare, il ricongiungimento a tutti i figli minori, indipendentemente dalla loro età (41).

58.      Il Parlamento avrebbe perciò dovuto essere nuovamente consultato prima dell’adozione della direttiva. Ne consegue che la direttiva, ed in particolare il suo art. 4, n. 6, è stata adottata senza rispettare la procedura prescritta.

2.      Sulla protezione della famiglia come diritto dell’uomo

a)      Sui gradi di tutela in tema dei diritti dell’uomo

59.      La Corte ha sottolineato con costante giurisprudenza che attraverso il Preambolo dell’Atto Unico europeo e l’art. 6, n. 2, CE è stata riaffermata la tutela da parte dell’ordinamento giuridico comunitario dei diritti fondamentali, quali sono garantiti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle comuni tradizioni costituzionali degli Stati membri come principi generali dell’ordinamento comunitario. Quanto sopra comprende la protezione della famiglia prevista, in particolare, dall’art. 8 della CEDU (42).

60.      Per quanto qui rileva, l’art. 7 della Carta dei diritti fondamentali, cui fa espresso riferimento il secondo ‘considerando’ della direttiva, è identico all’art. 8 della CEDU e, ai sensi dell’art. 52, n. 3, prima frase, della Carta (art. II‑112 del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa), dovrebbe averne lo stesso significato e la stessa portata.

61.      Per quanto riguarda la protezione della famiglia, la Corte si è, inoltre, orientata in tema di permesso di soggiorno sull’interpretazione dell’art. 8 della CEDU fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: «Corte eur. D.U.»). In base a tali presupposti, la Corte ha stabilito che, benché l’art. 8 della CEDU non garantisca a favore dello straniero alcun diritto ad entrare o risiedere nel territorio di un paese determinato, l’esclusione di una persona da un paese in cui vivono i suoi congiunti può rappresentare un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare, come tutelato dall’art. 8 n. 1, della CEDU. Una simile ingerenza violerebbe la CEDU a meno che essa non corrisponda ai requisiti di cui al n. 2 dello stesso articolo, cioè a meno che essa non sia «prevista dalla legge», dettata da uno o più scopi legittimi ai sensi della disposizione citata e «necessaria, in una società democratica», cioè «giustificata da un bisogno sociale, imperativo» e, in particolare, proporzionata al fine legittimo perseguito (43).

62.      La Corte ha sviluppato questa giurisprudenza prendendo lo spunto da casi in cui si trattava di decidere sul diritto di soggiorno di familiari di cittadini dell’Unione europea che avevano stabilito, nell’esercizio delle libertà fondamentali, la propria residenza in altri Stati membri. Nei casi affrontati, la combinazione di un diritto di soggiorno, di origine comunitaria, con il principio della protezione della famiglia, come questo viene concretizzato, in particolare, dal diritto comunitario, conduce all’esistenza di un diritto di soggiorno, che può venire limitato solo in casi eccezionali e a condizioni molto rigorose (44). Ulteriori speciali disposizioni possono derivare da accordi di associazione (45).

63.      Per quanto riguarda, invece, il ricongiungimento familiare di famiglie i cui membri sono esclusivamente cittadini di paesi terzi, non esiste nell’ordinamento giuridico comunitario un simile diritto di soggiorno. Per questo motivo, non è possibile trasporre direttamente a questi casi le summenzionate enunciazioni della Corte di giustizia, ma occorre passare attraverso la giurisprudenza della Corte eur. D.U. A questo proposito è determinante la dimensione di diritto dell’uomo della protezione della famiglia, che proprio in riferimento all’immigrazione ed al soggiorno si differenzia dai diritti fondamentali dei cittadini, essendo tipicamente di portata inferiore rispetto a questi ultimi.

64.      La Corte eur. D.U. ha riconosciuto il reciproco godimento della compagnia dei propri familiari come elemento fondamentale della vita familiare ai sensi dell’art. 8 della CEDU. Le misure degli Stati che impediscano una vita comune, come la revoca della potestà dei genitori (46), un divieto di visita (47) o l’espulsione di un membro della famiglia (48), incidono su questo diritto dell’uomo. Una simile ingerenza necessita dell’esistenza di una delle giustificazioni previste dall’art. 8, n. 2, della CEDU.

65.      Secondo l’opinione della Corte eur. D.U. il rifiuto del ricongiungimento familiare non rappresenta, tuttavia, in linea di principio, un’ingerenza nell’art. 8 della CEDU, tale da esigere l’esistenza di una giustificazione. Per quanto riguarda il ricongiungimento familiare, la Corte eur. DU non ritiene infatti che l’art. 8 della CEDU attribuisca un diritto a invocare tutela contro le violazioni di un principio, ma piuttosto che possa essere il fondamento di una pretesa al ricongiungimento.

66.      In particolare la Corte eur. D.U. rifiuta espressamente di far derivare dall’art. 8 della CEDU un obbligo generale di garantire il ricongiungimento familiare, solo per soddisfare il desiderio di alcune famiglie di vivere in un determinato paese. Il ricongiungimento familiare riguarderebbe sia la vita familiare, sia l’immigrazione. L’ampiezza dell’obbligo degli Stati di permettere il ricongiungimento dei familiari di migranti che soggiornano legalmente dipenderebbe dalle particolari condizioni dei soggetti interessati e dall’interesse generale. Secondo un consolidato diritto internazionale e fatte salve le obbligazioni derivanti dai trattati, uno Stato avrebbe il diritto di controllare l’immigrazione sul proprio territorio e, per fare ciò, disporrebbe di un ampio margine di discrezionalità (49).

67.      Sulla base di quanto sopra, la Corte eur. D.U., in tre dei quattro casi su cui si è pronunciata in questa materia, non ha riconosciuto un diritto al ricongiungimento familiare nello Stato di accoglienza, tra l’altro perché una vita in famiglia sarebbe stata possibile anche nello Stato di provenienza (50). Questa giurisprudenza è confermata da successive pronunce, nelle quali le relative istanze sono state rigettate in quanto irricevibili (51).

68.      La sentenza Sen mostra, tuttavia, che la necessaria ponderazione degli elementi del singolo caso può costituire il fondamento di un diritto al ricongiungimento dei figli. In quel caso la Corte eur. D.U. individuò l’esistenza di alcuni ostacoli ad un ritorno nello Stato di provenienza, basandosi sulla circostanza che i coniugi Sen, oltre al figlio per il quale era stato richiesto il ricongiungimento, avevano anche altri figli, i quali erano nati, cresciuti e si erano integrati nello Stato di accoglienza (52). Altre pronunce sulla ricevibilità dei ricorsi lasciano aperta la possibilità che anche altre circostanze possano giustificare un diritto al ricongiungimento con i familiari (53). Sotto questo aspetto verrebbe da pensare, ad es., a situazioni di persecuzione politica (54), o a casi di bisogno di particolari cure mediche che non potrebbero essere prestate nello Stato di provenienza.

69.      La sentenza Sen mostra, in particolare, che sono soprattutto gli interessi dei figli ad essere idonei a costituire il fondamento per un diritto al ricongiungimento familiare nello Stato di accoglienza. Si rinviene questa tendenza anche nella decisione Winata della Commissione per i diritti umani, relativa all’applicazione degli artt. 17, 23, 24 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (55). Un simile principio risulta dagli artt. 3, 9 e 10 della Convenzione sui diritti del fanciullo.

70.      Nella sentenza Sen la Corte eur. D.U. non ha più sollevato separatamente la questione di come si giustifichi il rifiuto del ricongiungimento familiare. La Corte sembra, piuttosto, partire dall’idea che, in presenza di una pretesa positiva al ricongiungimento familiare, le valutazioni da compiere per giustificare un rifiuto facciano già parte del fondamento del diritto stesso (56).

71.      Si deve procedere allo stesso modo anche nell’ambito del diritto comunitario. Nelle sentenze Akrich e Carpenter la Corte ha in effetti affermato espressamente la necessità di una giustificazione di fronte al rifiuto di una domanda di ricongiungimento familiare, ma ciò è la necessaria conseguenza dell’esistenza di sempre maggiori diritti che i cittadini dell’Unione europea, traggono dall’ordinamento comunitario (57). Qualora, invece, le condizioni richieste per la sussistenza di un diritto siano formulate in maniera restrittiva, come avviene nella giurisprudenza della Corte eur. D.U., non resta sistematicamente più alcun margine di discrezionalità per la giustificazione di un’ingerenza sotto forma di un rifiuto. Le considerazioni rilevanti, infatti, sono in questo caso già una parte della procedura di valutazione di un diritto (58). Contrariamente all’opinione del Parlamento, il rifiuto del ricongiungimento di figli minori non va quindi giustificato ai sensi dell’art. 8, n. 2, della CEDU.

72.      Come conclusione provvisoria si deve stabilire che il principio della protezione della famiglia ai sensi dell’art. 8 CEDU può condurre, in via eccezionale, dopo una ponderazione di tutti gli interessi in gioco del singolo individuo e della collettività, a riconoscere il diritto al ricongiungimento familiare nello Stato di accoglienza.

73.      Più ampie pretese al ricongiungimento familiare nello Stato di accoglienza non possono, invece, essere individuate nella protezione della famiglia come diritto dell’uomo neppure considerando l’art. 19, n. 6, della Carta sociale europea e gli altri accordi di diritto internazionale (59).

74.      Sul punto molto lascia pensare che l’art. 19, n. 6, della Carta sociale preveda dei criteri più ampi rispetto alla CEDU per il ricongiungimento familiare di lavoratori migranti nello Stato di accoglienza. Nella ponderazione degli elementi non dovrebbe, almeno, essere sufficiente dedurre la possibilità di una vita familiare nello Stato di provenienza, dovendosi, piuttosto, dimostrare che ostacoli obiettivi si oppongono al ricongiungimento familiare nello Stato di accoglienza. Per il presente caso sembra essere rilevante anche il fatto che l’art. 19, n. 6, della Carta sociale, in collegamento con la definizione dei familiari (60) da favorire contenuta nel suo allegato, si oppone alla previsione di limiti di età in relazione al ricongiungimento dei figli minori. Inoltre, il Comitato europeo per i diritti sociali, che sorveglia la realizzazione della Carta sociale, ha riconosciuto, nella sua prassi decisionale, solo periodi di attesa fino ad un anno, ed ha invece rifiutato quelli di tre o più anni (61). Infine, per l’interpretazione e l’applicazione della CEDU, ed in particolare del suo art. 8, la Corte eur. D.U. – nella sua giurisprudenza più recente – ha preso in considerazione alcune disposizioni della Carta sociale e la prassi decisionale del summenzionato comitato (62).

75.      La Corte eur. D.U. non ha, tuttavia, fatto ancora riferimento all’art. 19, n. 6, della Carta sociale, ed in particolare non l’ha fatto nella sua giurisprudenza in materia di ricongiungimento familiare. Ciò è logico, se si legge tale norma in coordinamento con la parte I, n. 19 della Carta sociale, secondo la quale la normativa sul ricongiungimento familiare attribuisce diritti solo ai cittadini degli Stati contraenti (63). La prassi decisionale del Comitato su questa disposizione non può, pertanto, servire a creare, per effetto di una generalizzazione, un principio giuridico generale ed un diritto dell’uomo che sancisca il ricongiungimento familiare per i cittadini di paesi terzi, come nel caso di specie. Per questo motivo l’art. 19, n. 6, della Carta sociale, come pure le altre norme di diritto comunitario che attribuiscono ai cittadini dell’Unione ulteriori e più ampi diritti, non è idoneo a creare un diritto al ricongiungimento familiare, inteso come diritto dell’uomo, che andrebbe oltre la giurisprudenza della Corte eur. D.U..

76.      Gli stessi motivi valgono anche contro la presa in considerazione dei principi contenuti nella Convenzione europea relativa allo status di lavoratore migrante. Anche questo accordo favorisce solo i cittadini degli Stati contraenti ed, inoltre, a differenza dell’art. 19, n. 6, della Carta sociale, accettato da tutti gli Stati membri dell’epoca con l’adozione della direttiva, esso è stato ratificato, sino ad oggi, solo da alcuni degli Stati membri.

77.      La Convenzione internazionale sui diritti dei lavoratori migranti, che sembra, invece, prevedere un diritto a carattere universale, non è stata fino ad oggi ratificata da nessuno Stato membro. La Convenzione n. 143 dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (ILO) sulle migrazioni in condizioni abusive e sulla promozione della parità di opportunità e di trattamento dei lavoratori migranti non contiene, infine, nessuna norma vincolante relativamente al ricongiungimento familiare, ma raccomanda soltanto agli Stati contraenti di favorirlo.

78.      Perciò, nemmeno prendendo in considerazione la Carta sociale europea e gli altri accordi internazionali si può costruire un diritto dei cittadini di paesi terzi al ricongiungimento con la propria famiglia nel paese di accoglienza. Anche il Consiglio e la Commissione ammettono, tuttavia, che un simile diritto possa essere riconosciuto, in via eccezionale, sulla base di una valutazione complessiva di tutte le circostanze del singolo caso. La Commissione ne ricava a ragione che il diritto comunitario non può autorizzare rigide e schematiche limitazioni del ricongiungimento dei figli, ma che deve lasciare un sufficiente spazio per simili casi eccezionali (64).

b)      Valutazione delle disposizioni impugnate

79.      Conseguentemente, si devono indagare le disposizioni impugnate per vedere se esse lascino sufficiente spazio per una loro applicazione conforme ai diritti dell’uomo qualora il principio di protezione della famiglia giustifichi, in via eccezionale, una pretesa al ricongiungimento familiare nel paese di accoglienza.

80.      Contrariamente alla posizione sostenuta parzialmente dal Parlamento, questa eccezione non deve tuttavia essere espressamente prevista in apposite norme. Come, infatti, riconosciuto dal Parlamento in altre situazioni e come dedotto anche dalle altre parti, le norme dell’ordinamento giuridico comunitario sono compatibili con i diritti fondamentali quando sia possibile una loro interpretazione che crei la richiesta situazione in conformità ad essi (65).

81.      L’interpretazione conforme vincola naturalmente anche gli Stati membri, i quali, nella trasposizione delle direttive, devono fare attenzione a non basarsi su una interpretazione che sia contraria ai diritti fondamentali tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario o agli altri principi generali del diritto comunitario (66). Nella presente direttiva il legislatore comunitario ha enunciato espressamente questo principio al secondo ‘considerando’, laddove ha stabilito di adottare un atto in conformità con il diritto fondamentale alla protezione della famiglia.

82.      È quindi irrilevante – contrariamente all’opinione pur sostenuta dal Parlamento in alcuni passaggi – analizzare nel presente caso quali norme possano adottare gli Stati membri, per esaurire gli spazi di discrezionalità lasciati dalle norme contestate, ma importa, al contrario, stabilire quali norme di diritto interno degli Stati membri siano legittime alla luce di un’interpretazione delle disposizioni contestate conforme ai diritti fondamentali.

Sull’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva

83.      L’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva prevede che, qualora un minore abbia superato i dodici anni e giunga indipendentemente dal resto della sua famiglia in uno Stato membro, quest’ultimo, prima di autorizzarne l’ingresso ed il soggiorno ai sensi della direttiva, possa esaminare se siano soddisfatte le condizioni per la sua integrazione. Questa normativa è compatibile con il principio di protezione della famiglia qualora le condizioni richieste per l’integrazione permettano il ricongiungimento familiare, nei casi in cui quest’ultimo sia necessario dopo una valutazione complessiva del singolo caso, come richiesto dalla Corte eur. D.U..

84.      Il Parlamento non condivide questo ragionamento, dal momento che il concetto di condizioni per l’integrazione non lascerebbe spazio alcuno alla valutazione dell’interesse della famiglia (67). La sua opinione è però priva di fondamento. Una condizione per l’integrazione descrive in che misura un immigrante sia integrato, o possa venire integrato, nello Stato di accoglienza. In essa vengono in considerazione tanto gli interessi dello Stato di accoglienza all’integrazione degli immigranti nella propria società, quanto l’interesse dell’immigrante a non vivere in una situazione di isolamento. La famiglia può rivestire un ruolo in entrambe le prospettive, in particolar modo se molti membri di essa vivano già, ben integrati, nello Stato di accoglienza.

85.      Le condizioni per l’integrazione permettono, in particolare, di prendere in considerazione il diritto al ricongiungimento familiare in situazioni di eccezione. Gli Stati membri devono, infatti, concretizzare il concetto di condizioni per l’integrazione per poterlo poi applicare. Tale concretizzazione non può essere effettuata in maniera arbitraria ma deve orientarsi, oltre che sul contenuto del concetto delle condizioni per l’integrazione e sui suoi scopi, anche sulle esigenze legate al rispetto dei diritti dell’uomo in materia di ricongiungimento familiare.

86.      Una configurazione sufficientemente ampia delle condizioni per l’integrazione corrisponde, del resto, anche al contesto sistematico della direttiva, destinata a tener conto in maniera complessiva, nell’adozione delle necessarie misure, degli interessi della famiglia ed, in particolare, dei minori. Secondo l’art. 17 della direttiva, in caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese di origine. Ai sensi dell’art. 5, n. 5, della direttiva, inoltre, nell’esame della domanda di ricongiungimento familiare gli Stati membri tengono nella dovuta considerazione l’interesse superiore dei minori. Nel dubbio, i concetti giuridici della direttiva devono essere, pertanto, interpretati in maniera tale che il modo in cui essi sono trasposti nel diritto interno lasci uno spazio di discrezionalità corrispondente alle norme sopra menzionate.

87.      La finalità dell’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non è in contrasto con quest’interpretazione. Sebbene le condizioni per l’integrazione debbano, come previsto nel dodicesimo ‘considerando’, tener conto della capacità di integrazione dei minori nei primi anni di vita ed assicurare che essi acquisiscano a scuola l’istruzione e le competenze linguistiche necessarie, ciò non esclude che il soddisfacimento delle condizioni per l’integrazione possa, in casi particolari, essere basato su altri elementi.

88.      Di conseguenza, il concetto delle condizioni per l’integrazione permette di considerare anche casi particolari, nei quali sussista, in via eccezionale, una pretesa, fondata sui diritti dell’uomo, al ricongiungimento familiare dei figli minori con più di dodici anni. Le norme di trasposizione interne sono compatibili con l’ordinamento giuridico comunitario solo se anch’esse concedono questa possibilità.

89.      Così interpretato, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva rispetta il principio fondamentale della protezione della famiglia. Questo motivo di ricorso del Parlamento non può, pertanto, essere accolto.

Sull’art. 4, n. 6, della direttiva

90.      In base all’art. 4, n. 6, della direttiva gli Stati membri possono esigere, nell’ambito di una normativa di deroga, che le domande riguardanti il ricongiungimento familiare di figli minori siano presentate prima del compimento del quindicesimo anno di età, secondo quanto previsto dalla loro legislazione in vigore al momento dell’attuazione della direttiva (68). Se una domanda viene presentata dopo il compimento del quindicesimo anno di età, gli Stati membri, che esercitano questa deroga, autorizzano l’ingresso ed il soggiorno di tali minori per motivi diversi dal ricongiungimento familiare.

91.      Contrariamente all’opinione del Parlamento, il Consiglio ritiene che anche di questa norma sia possibile un’interpretazione conforme ai diritti fondamentali. Analogamente all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, anche l’art. 4, n. 6, avrebbe come scopo il ricongiungimento dei figli il prima possibile per favorire la loro integrazione nello Stato di accoglienza. Il limite di età terrebbe conto della frequenza scolastica, necessaria ai fini dell’integrazione.

92.      Secondo il Consiglio, inoltre, anche i ragazzi di età superiore ai quindici anni avrebbero la possibilità di vivere con le loro famiglie, dal momento che gli Stati membri, che applicano questa deroga, ai sensi dell’art. 4, n. 6, seconda frase, della direttiva autorizzano il loro ingresso e soggiorno per motivi diversi da quelli del ricongiungimento familiare. Il Consiglio ritiene che, sulla base del tenore letterale della disposizione, le autorità nazionali non avrebbero alcuna discrezionalità («marge de manoeuvre») quando decidono in merito ad un soggiorno per motivi diversi dal ricongiungimento familiare. Dal momento che dovrebbero essere oggetto di valutazione tutti gli altri motivi, sarebbe lecito attendersi che la maggior parte di simili richieste venga accolta.

93.      Il Parlamento stesso riconosce che gli “altri motivi” includerebbero anche valutazioni di tipo umanitario. Vi dovrebbero essere compresi – come osservato correttamente dalla Commissione – non solo i casi tipici dei profughi di guerra (guerre e guerre civili), ma anche pretese al ricongiungimento familiare fondate sui diritti dell’uomo. Simili titoli di soggiorno esistono probabilmente nella maggior parte degli Stati membri, se non addirittura nella loro totalità. Tali diritti non sono però garantiti sul piano dell’ordinamento comunitario. È, pertanto, possibile che singoli Stati membri non conoscano una simile possibilità nella loro normativa sull’immigrazione e che non esista pertanto alcun «altro motivo» che renda possibile il necessario ricongiungimento familiare di carattere umanitario con i figli maggiori di 15 anni. Forse è per questa ragione che il Consiglio, a differenza della Commissione, evita di sostenere l’esistenza di una simile pretesa in diritto nazionale.

94.      È tuttavia possibile interpretare conformemente ai diritti dell’uomo anche l’art. 4, n. 6, della direttiva: il secondo comma può, infatti, essere inteso in maniera tale da obbligare gli Stati membri, nel caso di un ricongiungimento familiare richiesto dai diritti dell’uomo, a prevedere una simile possibilità.

95.      In maniera analoga all’interpretazione proposta con riferimento all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva anche quella dell’art. 4, n. 6, contribuirebbe a lasciare uno spazio all’applicazione dell’art. 5, n. 5, e dell’art. 17 (69).

96.      Anche l’art. 4, n. 6, della direttiva può, pertanto, essere interpretato in maniera conforme ai diritti dell’uomo. Pure questo motivo di ricorso del Parlamento risulta perciò infondato.

Sull’art. 8 della direttiva

97.      L’art. 8, primo comma, della direttiva lascia agli Stati membri la possibilità di esigere che il soggiornante, prima di farsi raggiungere dai suoi familiari, abbia soggiornato legalmente nel loro territorio per due anni. Il secondo comma permette addirittura allo Stato membro di stabilire un periodo di attesa di tre anni dopo la presentazione della domanda di ricongiungimento, se la legislazione in vigore di questo Stato, al momento dell’adozione della direttiva, teneva conto della sua capacità di accoglienza.

98.      Il Consiglio si richiama al fatto che i periodi di attesa sono uno strumento abituale e diffuso nella politica dell’immigrazione. Si deve riconoscere che i periodi di attesa possano essere leciti in quasi tutti i casi di ricongiungimento familiare. Il diritto al ricongiungimento familiare di carattere umanitario nello Stato di accoglienza è, però, contraddistinto proprio dal fatto che sorge come eccezione in presenza di particolari circostanze. Simili circostanze possono anche comportare che non sia più accettabile un’ulteriore attesa (70). Si deve conseguentemente valutare se l’art. 8 della direttiva abbia tenuto sufficientemente conto di un simile caso.

99.      Il Parlamento lo esclude, mentre la Commissione ha presentato delle proposte per un’interpretazione conforme con ricchezza di dettagli. A tale riguardo si deve osservare, come prima cosa, che le norme sui periodi di attesa – a differenza di quelle, sopra analizzate, sui limiti di età – non contengono alcun elemento relativo alla considerazione di esigenze legate ai diritti dell’uomo in relazione al ricongiungimento familiare.

100. Tuttavia, ricollegandosi all’uso dei concetti, giuridicamente indeterminati, «possono» (primo comma) e «può» (secondo comma), sarebbe lecito ipotizzare una interpretazione conforme al diritto umanitario delle opzioni lasciate dalla direttiva agli Stati.

101. Ciò solleva la questione se sia sufficiente che il legislatore comunitario lasci agli Stati membri un margine discrezionale che permetta loro di prevedere di propria iniziativa una valutazione del singolo caso, quando ciò sia richiesto dal rispetto dei diritti dell’uomo, oppure se il testo della relativa norma di diritto comunitario debba contenere quantomeno uno spunto in relazione ad una simile valutazione. Risultano, a tal fine decisive, le considerazioni sulle rispettive responsabilità del legislatore comunitario e dei parlamenti nazionali in tema di tutela dei diritti dell’uomo e di certezza del diritto.

102. Interpretati alla luce dell’art. 63, secondo comma, CE, e cioè di una parte fondamentale della base giuridica per l’adozione delle norme, la quale rimanda agli obblighi internazionali, alla luce del secondo “considerando” della direttiva, secondo il quale la stessa deve essere conforme ai diritti fondamentali e deve tenere in considerazione i principi riconosciuti, in particolare, dall’art. 8 della CEDU e dalla Carta dei diritti fondamentali, ed alla luce dei principi giuridici generali dell’ordinamento giuridico comunitario, i termini «possono» e «può» significherebbero che gli Stati membri potrebbero stabilire periodi d’attesa solo se prevedessero, al tempo stesso delle deroghe, per i casi eccezionali ed estremi di cui si deve tener conto ai sensi dell’art. 8 della CEDU.

103. Pur essendo possibile, una simile interpretazione dei termini «possono» e «può», non appare tuttavia ovvia. In primo luogo, l’art. 8 della direttiva, regolamentando le eccezioni al principio del ricongiungimento familiare introdotto da una normativa di diritto derivato, definisce, infatti, il margine di intervento del legislatore nazionale in rapporto a quello comunitario. I termini «possono» e «può» significano allora che gli Stati membri sono autorizzati, di fronte al legislatore comunitario, a prevedere periodi di attesa di due anni e, rispettivamente, di altri tre. Qualora uno Stato membro trasponesse questa norma in maniera, per così dire, unidimensionale – senza rispettare gli obblighi ad esso imposti dal rispetto dei diritti dell’uomo – verrebbero così emanate norme di diritto nazionale su periodi di attesa senza contemplare la possibilità di procedere ad una valutazione dei casi estremi, come è richiesto dalla giurisprudenza della Corte eur. D.U.. Le autorità amministrative nazionali sarebbero tenute ad osservare simili norme. Anche per l’applicazione dell’art. 5, n. 5, e dell’art. 17 della direttiva non residuerebbe perciò alcuno spazio. La violazione dei diritti fondamentali e dei diritti dell’uomo nei singoli casi di palese iniquità potrebbe essere evitata solo con la tutela giurisdizionale – eventualmente con un ricorso alla Corte. Ne consegue che il tentativo di interpretare l’art. 8 della direttiva in modo conforme al rispetto dei diritti dell’uomo finisce tutt’al più per spostare i problemi.

104. Il riferimento ai diritti dell’uomo contenuto nel secondo ‘considerando’ della direttiva conforta addirittura una simile trasposizione errata ed unidimensionale. Anziché ricordare agli Stati membri i loro obblighi in tema di diritti fondamentali dell’uomo, questo ‘considerando’ afferma, infatti, che la direttiva – così come formulata – sarebbe compatibile con tali diritti. Se si accontentassero della valutazione del legislatore comunitario, gli Stati membri non avrebbero più alcun motivo di svolgere in tema di diritti fondamentali dell’uomo considerazioni che non siano contenute nel testo della direttiva.

105. Ne consegue che l’art. 8 della direttiva, così come formulato, è, quantomeno equivoco. Quest’ambiguità, dovuta alla mancata presa in considerazione dei casi eccezionali, aumenta il rischio di violazioni dei diritti dell’uomo. Di queste dovrebbe rispondere non solo il legislatore nazionale che traspone la direttiva ma anche quello comunitario. Le esigenze di una effettiva tutela dei diritti dell’uomo e della certezza del diritto portano, dunque, alla incompatibilità dell’art. 8 della direttiva con il diritto comunitario.

3.      Sulla parità di trattamento

106. Il Parlamento sostiene che le differenziazioni tra figli minori in base all’età e tra figli e coniugi e le possibili differenze, permesse dalla direttiva, all’atto della trasposizione in diversi Stati membri sarebbero contrarie al principio di parità di trattamento.

107. Indipendentemente dall’art. 14 della CEDU, al quale il Parlamento si richiama, la Corte ha sviluppato un principio comunitario generale di uguaglianza, indicato nella sua giurisprudenza anche come principio generale di parità, principio della parità di trattamento o divieto di discriminazione. Secondo tale principio, situazioni analoghe non devono essere trattate in modo dissimile e situazioni diverse non devono essere trattate allo stesso modo, a meno che una differenziazione sia obiettivamente giustificata (71). La differenziazione deve essere poi proporzionata rispetto allo scopo perseguito (72).

108. L’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali vieta espressamente alcune forme specifiche di discriminazione, tra le quali, in particolare, quella fondata sull’età. Sebbene la Carta dei diritti fondamentali non abbia ancora effetti giuridici vincolanti paragonabili a quelli del diritto primario (73), essa fornisce, quantomeno come fonte di cognizione giuridica, indicazioni sui diritti fondamentali garantiti dall’ordinamento giuridico comunitario (74). In base al suo secondo ‘considerando’, la direttiva in esame deve poi essere compatibile con i diritti fondamentali, come riconosciuti, tra l’altro, dalla Carta. Il quinto ‘considerando’ vincola, inoltre, espressamente gli Stati membri ad attuare la direttiva senza operare una discriminazione fondata sull’età. Nell’applicazione del principio di parità alla direttiva si deve, pertanto, attribuire particolare rilievo al divieto di discriminazione fondata sull’età.

109. Non ogni differenziazione in base all’età costituisce, tuttavia, una discriminazione vietata. Il risalto dato alla necessaria tutela dei minori mostra che l’età può essere un elemento oggettivo presente in fattispecie diverse, che non possono venire trattate allo stesso modo. Anche limiti d’età possono, pertanto, essere ammissibili (75).

a)      Sui minori con più di dodici anni

110. Con riferimento all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva si deve, anzitutto, osservare che questa disposizione non crea una differenziazione generale tra minori al di sopra o al di sotto di una certa età, ma rende solo possibile sottoporre i minori che abbiano compiuto dodici anni ad un requisito ulteriore, cioè all’esistenza delle condizioni per l’integrazione, qualora i minori siano giunti indipendentemente dal resto della famiglia. Non si tratta, pertanto, di un puro e semplice limite d’età, ma di una differenziazione diversamente articolata, nella quale l’età costituisce uno solo dei molteplici criteri, che trovano applicazione nel loro insieme.

111. La richiesta di ricongiungere alla famiglia singoli figli minori con più di dodici anni è in genere frutto di una libera decisione. Le famiglie non sono costrette a sottoporre il proprio figlio all’applicazione delle condizioni per l’integrazione, giacché potrebbero farlo arrivare in età più giovane od insieme ad altri membri della famiglia o ad un altro figlio.

112. La disparità di trattamento esistente tra i minori sopra i dodici anni, che arrivano da soli, e gli altri minori può venire giustificata da ragioni oggettive. Ai sensi del dodicesimo ‘considerando’ della direttiva, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, ha come finalità il ricongiungimento dei figli il prima possibile, per migliorare le loro possibilità di integrazione nello Stato di accoglienza. Dietro ciò c’è la legittima preoccupazione degli Stati membri di integrare nella miglior maniera possibile i migranti. La valutazione che i figli più piccoli siano più facilmente integrabili rientra nell’ambito di discrezionalità del legislatore comunitario.

113. La differenziazione è pure proporzionata. Il mezzo prescelto è idoneo, dal momento che svantaggia nel ricongiungimento familiare quelle famiglie che lasciano crescere i propri figli nel paese di origine e che li reintegrano nel proprio ambito solo successivamente. Non si individua un mezzo meno severo. La normativa non risulta nemmeno sproporzionata rispetto alle sua finalità, in particolare se si considera che le famiglie possono farsi raggiungere dai figli minori senza che si applichino le condizioni per l’integrazione.

114. Qualora sussistano, in via eccezionale, particolari circostanze contrarie al ricongiungimento del figlio minore in un momento precedente o insieme con altri membri della famiglia, queste dovrebbero essere considerate nella fase di interpretazione, configurazione e applicazione delle condizioni per l’integrazione. Se così non fosse, si applicherebbero, senza ragioni oggettive, gli stessi requisiti a situazioni tra loro non paragonabili.

115. Ne consegue che, così interpretato, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva è compatibile con il principio di uguaglianza.

b)      Sui minori con più di quindici anni

116. Il limite di età previsto dall’art. 4, n. 6, della direttiva è di un altro tipo rispetto a quello di cui al n. 1, ultimo comma, dello stesso articolo. Esso concerne, infatti, ogni ricongiungimento dei figli minori che abbiano compiuto il quindicesimo anno di età prima che sia stata presentata per loro la domanda riguardante il ricongiungimento familiare. Sono, pertanto, interessate anche le famiglie che non potevano liberamente decidere di farsi raggiungere dal minore prima del raggiungimento del limite d’età, ad es. le famiglie che possono essere ricongiunte solo in quel momento.

117. Appare poco convincente la Commissione, quando sostiene che, anche in questo caso, le famiglie avrebbero potuto evitare lo svantaggio incombente presentando tempestive domande di ricongiungimento familiare. La direttiva sottopone infatti la richiesta di ricongiungimento familiare a molteplici condizioni. Ai sensi dell’art. 3, n. 1, il soggiornante deve, ad esempio, essere titolare di un permesso di soggiorno valido almeno per un anno ed avere una fondata prospettiva di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile. Ai sensi dell’art. 7 deve, inoltre, disporre di un alloggio sufficiente, di un’assicurazione contro le malattie per se stesso e per i familiari e di risorse sufficienti. Se non sussistono queste condizioni, la domanda può essere rigettata. Il ricongiungimento con i figli interessati non dipende, perciò, di regola, dalla sola volontà delle rispettive famiglie. Si tratta, quindi, in ultima analisi, di un limite di età, che non è relativizzato da ulteriori criteri.

118. Anche in simili casi, tuttavia, l’interesse all’integrazione degli Stati di accoglienza può giustificare la disparità di trattamento che deriva dal limite di età. Il legislatore può, infatti, muovere dall’assunto che l’integrazione di questi adolescenti sia, con molta probabilità, sensibilmente più difficile di quella dei bambini.

119. Si aggiunga che, dopo il ricongiungimento, gli adolescenti vivrebbero ancora in famiglia, come minorenni, soltanto per un breve periodo di tempo, ma potrebbero eventualmente, in tal modo, ottenere un permesso di soggiorno senza dover essere in possesso dei requisiti previsti per gli adulti. Anche nel caso di un immediato ingresso dopo la presentazione della domanda mancherebbero solo tre anni al raggiungimento della soglia della maggiore età posta a diciotto anni. La direttiva concede, tuttavia, per il disbrigo delle domande, un periodo di nove mesi, che, in casi eccezionali, può essere ulteriormente prolungato. Alcuni adolescenti potrebbero, pertanto, essere quasi maggiorenni al momento dell’ingresso ai fini di un ricongiungimento. Non potrebbe, di conseguenza, escludersi che minori con un soggiorno minimo come familiari di un soggiornante possano ottenere un autonomo permesso di soggiorno – o perché lo Stato membro al raggiungimento della maggiore età non fa scadere il permesso di soggiorno ai sensi dell’art. 16, n. 1, lettera a, della direttiva, o perché la giurisprudenza della Corte eur. D.U. in tema di separazione delle famiglie che vivono insieme nel paese di accoglienza osta alla revoca del permesso di soggiorno (76).

120. Alla luce di quanto precede, il limite di età deve essere considerato come un elemento di differenziazione adatto e necessario. Se si considera che i figli minori con più di quindici anni sono, di norma, meno legati ai genitori rispetto a quelli più piccoli, non residua alcun dubbio che sia proporzionato alle sue finalità.

121. Nel momento in cui, tuttavia, particolari circostanze del singolo caso imponessero, ciò nonostante, un avvicinamento nell’ambito del ricongiungimento familiare, in quel caso interverrebbe una pretesa fondata sui diritti dell’uomo (77).

122. La differenziazione prevista dall’art. 4, n. 6, della direttiva, interpretata in maniera conforme al rispetto dei diritti dell’uomo, è, pertanto, giustificata da motivi oggettivi.

c)      Sulla differenziazione tra coniugi e figli minori

123. Il Parlamento contesta anche il fatto che solo i figli di età superiore ai dodici anni, ma non il coniuge, debbano soddisfare le condizioni per l’integrazione. I figli minori avrebbero, in linea di principio, maggior bisogno di protezione rispetto ai coniugi adulti. Il Consiglio osserva in proposito che la norma avrebbe come scopo quello di approfittare delle migliori possibilità di integrazione dei bambini.

124. Il legislatore comunitario aveva, comunque, la facoltà di partire dal presupposto che la situazione di coniugi e figli non è paragonabile. Ad esempio, il matrimonio si basa su una comunione domestica che dura tutta la vita. La differenziazione tra coniugi e figli non viola, pertanto, il principio di uguaglianza.

d)      Sulle eccezioni relative alla gestione delle opzioni

125. Infine, il Parlamento individua nelle opzioni che vengono lasciate agli Stati membri delle violazioni del principio di uguaglianza. A causa delle norme che prevedono delle opzioni e stabiliscono delle differenti date di riferimento per la loro attuazione, situazioni analoghe potrebbero venire trattate diversamente nei vari Stati membri.

126. Il Parlamento trascura tuttavia la circostanza che la Comunità non è obbligata ad armonizzare completamente la disciplina giuridica del ricongiungimento familiare. Essa può, anzi, lasciare agli Stati membri margini di discrezionalità, di cui questi possono far uso. L’art. 63, secondo comma, del Trattato contiene a questo riguardo addirittura un obbligo di politica legislativa (78). L’esistenza di margini di discrezionalità ha, però, come necessaria conseguenza che nei vari Stati membri le norme si differenzino. Ciò non può costituire una violazione del principio di uguaglianza (79).

C –    Sintesi

127. Riassumendo, si deve concludere che il ricorso è irricevibile non essendo possibile un’impugnazione isolata delle norme contestate dal Parlamento. Qualora, però, la Corte dovesse valutare il caso nel merito, allora l’art. 4, n. 6, della direttiva dovrebbe essere annullato per la mancata consultazione del Parlamento e l’art. 8 della direttiva per violazione del diritto alla protezione della vita familiare, diritto che fa parte dei diritti dell’uomo.

V –    Sulle spese

128. Ai sensi dell’art. 69, secondo paragrafo, del regolamento di procedura la parte soccombente deve essere condannata alle spese se ne è stata fatta richiesta. Dal momento che il ricorso dev’essere rigettato in quanto irricevibile, il Parlamento deve sostenere le spese proprie e quelle del Consiglio.

129. Ai sensi dell’art. 69, quarto comma, la Commissione e la Repubblica Federale di Germania sopportano ciascuna le spese da esse sostenute per l’intervento.

VI – Conclusione

130. Propongo, pertanto, alla Corte di decidere come segue:

1.      Il ricorso è respinto.

2.      Il Parlamento europeo è condannato a sopportare le proprie spese e quelle del Consiglio dell’Unione europea.

3.      La Repubblica federale di Germania e la Commissione delle Comunità europee sostengono ciascuna le proprie spese.


1 – Lingua originale: il tedesco.


2  – GU L 251, pag. 12.


3 – Nella risoluzione del Parlamento europeo sulle osservazioni che fanno parte della decisione di scarico concernente l’esecuzione del bilancio generale dell’Unione europea per l’anno 2003, sezione del bilancio IV – Corte di giustizia (C6‑0017/2005 – 2004/2043(DEC) del 12 aprile 2005, documento P6_TA-PROV(2005)0095, relazione A6-0066/2005, non ancora pubblicata nella Gazzetta ufficiale, il Parlamento auspica una riduzione del numero delle conclusioni degli avvocati generali.


4 – Serie dei trattati europei 35.


5 – Serie dei trattati europei 163, la direttiva si riferisce erroneamente all’anno 1987.


6 – Serie dei trattati europei 93.


7  –      COM (2002) 225, pag. 19.


8 –      Convenzione sottoposta alla firma il 20 novembre 1989 (UN Treaty Series, volume 1577, pag. 43). Tutti gli Stati membri hanno ratificato questa convenzione. Anche il Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa prevede espressamente al suo art. I-3, n. 3, terzo comma, che l’Unione promuove la tutela dei diritti del minore, ai quali viene inoltre attribuita dall’art. 24 della Carta dei diritti fondamentali (art. II-84 del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa) la qualità di diritti fondamentali.


9 – Cit. alla nota 4.


10 –      Secondo l’Ufficio Trattati, visitato il 14 aprile 2005 all’indirizzo internet http://conventions.coe.int, questa disposizione è stata riconosciuta da Austria, Belgio, Portogallo, Estonia, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Slovenia, Spagna, Germania, Grecia, Finlandia, Paesi Bassi, Polonia, Svezia, Regno Unito e Cipro, ma non da Lettonia, Malta, Slovacchia, Repubblica Ceca ed Ungheria. La Danimarca sembra avere accettato l’art. 19, n. 6, con la ratifica della Carta sociale riveduta del 1996. La Lituania, nel ratificare la Carta sociale riveduta del 1996, ha rifiutato il vincolo previsto dall’art. 19, n. 6.


11 – Cit. alla nota 5.


12 – Cit. alla nota 6. Sino ad oggi è stata ratificata da otto Stati, tra cui Spagna, Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo e Svezia.


13 – UN Treaty Series, volume 999, pag. 171.


14 – Cit. alla nota 8.


15 – New York, 18 dicembre 1990, UN Treaty Series, volume 2220, I-39481.


16 – Ratificata da diciotto Stati, tra cui Cipro, Italia, Portogallo, Slovenia e Svezia.


17 – V. le mie conclusioni del 16 giugno 2005, cause riunite C‑138/03, C‑324/03 e C‑431/03, Italia/Commissione (non ancora pubblicata nella Raccolta, paragrafo 45 con ulteriori rinvii).


18  – Fungueiriño-Lorenzo, Visa-, Asyl- und Einwanderungspolitik vor und nach dem Amsterdamer Vertrag, pagg. 81 e segg. In questa direzione anche Röben in: Grabitz/Hilf, Das Recht der Europäischen Union, versione del maggio 1999, art. 63 CE, punto 43.


19 – V. sull’art. 176 CE le sentenze 22 giugno 2000, causa C‑318/98, Fornasar e a. (Racc. pag. I‑4785, punto 46), e 14 aprile 2005, causa C‑6/03, Deponiezweckverband Eiterköpfe (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 27 e segg.).


20  – V. ad es. Weiß in: Streinz, EUV/EGV, 2003, art. 63 CE, punto 68 e Brechmann in: Callies/Ruffert, Kommentar zum EU-Vertrag und EG-Vertrag, 2ª ed. 2002, art. 63 CE, punto 42.


21  – Questa notevole limitazione dell’efficacia giuridica vincolante non sarebbe limitata alla presente direttiva, ma riguarderebbe quantomeno anche i seguenti atti, pure adottati esclusivamente in base all’art. 63, primo comma, n. 3 e n. 4, CE: direttiva del Consiglio 2004/114/CE del 13 dicembre 2004, relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontariato (GU L 375, pag. 12); decisione del Consiglio 2004/572/CE del 29 aprile 2004, relativa all’organizzazione di voli congiunti per l’allontanamento dei cittadini di paesi terzi illegalmente presenti nel territorio di due o più Stati membri (GU L 261, pag. 28); direttiva del Consiglio 2004/81/CE del 29 aprile 2004, riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento all’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti (GU L 261, pag. 19); decisione del Consiglio 2004/191/CE del 23 febbraio 2004, che definisce i criteri e le modalità pratiche per la compensazione degli squilibri finanziari risultanti dall’applicazione della direttiva 2001/40/CE del Consiglio relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi (GU L 60, pag. 55); direttiva del Consiglio 2003/110/CE del 25 novembre 2003, relativa all’assistenza durante il transito nell’ambito di provvedimenti di espulsione per via aerea (GU L 321, pag. 26); direttiva del Consiglio 2003/109/CE del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo (GU L 16, pag. 44); regolamento (CE) n. 859/2003 del Consiglio del 14 maggio 2003, che estende le disposizioni del regolamento (CEE) n. 1408/71 e del regolamento (CEE) n. 574/72 ai cittadini di paesi terzi cui tali disposizioni non siano già applicabili unicamente a causa della nazionalità (GU L 124, pag. 1); regolamento (CE) n. 1030/2002 del Consiglio del 13 giugno 2002, che istituisce un modello uniforme per i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini di paesi terzi (GU L 157, pag. 1) e direttiva del Consiglio 2001/40/CE del 28 maggio 2001, relativa al riconoscimento reciproco delle decisioni di allontanamento dei cittadini di paesi terzi (GU L 149, pag. 34).


22  – V. il documento della presidenza irlandese «L’Unione Europea oggi e domani», CONF/2500/96 del 5 dicembre 1996, parte A, sezione I, capitolo secondo. La proposta allora avanzata per una modifica del Trattato, pur contenendo già le competenze normative, non prevedeva però clausole paragonabili al secondo comma.


23 – Nell’ambito del Trattato sull’Unione dell’epoca gli Stati membri potevano elaborare, a fianco di posizioni e misure comuni, anche trattati vincolanti.


24  – Già questi problemi interpretativi spingono verso la strada scelta nell’art. III-267 del Trattato che adotta una Costituzione per l'Europa, che rinuncia ad una regolamentazione simile a quella contenuta nell’art. 63, secondo comma, CE.


25 – V. la sentenza del Bundesverfassungsgericht 2 dicembre 2003, causa 1 BvR 536/03, Kruzifix (BVerfGE 93, 1, 21 con ulteriori rinvii).


26  – Così ad es. Hailbronner, European Immigration and Asylum Law under the Treaty, Common Market Law Review 1998, 1047 (1051). Questa sembra essere anche l’opinione della Commissione, che ha già proposto alla Corte quattro procedimenti d’infrazione per mancata trasposizione della direttiva 2001/40 (GU L 149, pag. 34): causa C‑448/04 contro il Lussemburgo (GU C 314, pag. 6), causa C‑450/04 contro la Francia (GU C 314, pag. 7), causa C‑462/04 contro l’Italia (GU 2005 C 6, pag. 30) e causa C‑474/04 contro la Grecia (GU C 314, pag. 10). In questi procedimenti gli Stati membri interessati non si sono richiamati all’art. 63, secondo comma, ma hanno dichiarato che si stava preparando la trasposizione. Le sentenze nelle cause C‑448/04 e C‑462/04 sono pronunciate oggi. Nelle altre due cause i ricorsi sono stati ritirati.


27 – Solo per quanto riguarda il numero 3, lett. b), il Consiglio, con decisione (all’unanimità) del 22 dicembre 2004 sull’applicazione del procedimento ex art. 251 del Trattato istitutivo dell’Unione europea, ha introdotto in alcuni settori, contenuti nel titolo IV della terza parte del Trattato, il principio del voto a maggioranza qualificata a partire dal 1°gennaio 2005 (GU L 396, pag. 45).


28  – V. sul punto le mie conclusioni 8 luglio 2004, causa C‑117/03, Dragaggi (non ancora pubblicata nella Raccolta, paragrafi 24 e segg.).


29 – V. in tal senso la sentenza 5 ottobre 2004, causa C‑475/01, Commissione/Grecia[Ouzo] (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 15 e segg.).


30 – Sentenze 28 giugno 1972, causa 371/71, Jamet/Commissione (Racc. pag. 483, punti 10/12), 23 ottobre 1974, causa 17/74, Transocean Marine Paint/Commissione (Racc. pag. 1063, punto 21), 31 marzo 1998, cause riunite C‑68/94 e C‑30/95, Francia e a./Commissione [Kali e Salz] (Racc. pag. I‑1375, punto 256), 10 dicembre 2002, causa C‑29/99, Commissione/Consiglio [Convenzione sulla sicurezza nucleare] (Racc. pag. I‑11221, punto 45), e 24 maggio 2005, causa C‑244/03, Francia/Parlamento e Consiglio [esperimenti su animali] (non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 12 e 21).


31 – V. sentenza detta degli «esperimenti su animali» (cit. alla 30, punto 15).


32  – V. sentenza 5 ottobre 2000, causa C‑367/98, Germania/Parlamento e Consiglio (tabacco) (Racc. pag. I‑8419, punto 117).


33 – È irrilevante, in questa sede, domandarsi se la Corte, nell’ambito di un procedimento pregiudiziale, potrebbe annullare isolatamente le disposizioni contestate, qualora risultassero illegittime. Molto induce però a ritenere che anche in un simile procedimento l'illegittimità di una parte della direttiva consentirebbe soltanto di dichiarare la nullità dell'intera direttiva.


34 – Sentenze 21 dicembre 1954, causa 1/54, Francia/Alta Autorità (Racc. 1954-1955, pagg. 7, 33) e 10 maggio 1960, causa 19/58, Germania/ Alta Autorità (Racc. 1960, pagg. 483, 500).


35 – Conclusioni 28 aprile 2005, cause riunite C‑346/03 e 529-03, Atzeni e a. (non ancora pubblicata nella Raccolta, paragrafo 70), e 16 dicembre 2004, causa C‑110/03, Belgio/Commissione (non ancora pubblicata nella Raccolta, paragrafo 29).


36 – Sentenza 13 luglio 2000, causa C‑210/98, Salzgitter/Commissione (Racc. pag. I‑5843, punto 56) per la Commissione.


37 – Sentenze 16 luglio 1992, causa C‑65/9, Parlamento/Consiglio [traffico di merci], (Racc. pag. I‑4593, punto 16), 5 ottobre 1993, causa da C‑13/92 a C‑16/92, Drießen e a. (Racc. pag. I‑4751, punto 23), e 5 ottobre 1994, causa C‑280/93, Germania/Consiglio [organizzazione comune del mercato delle banane] (Racc. pag. I‑4973, punto 38).


38 – Nota della Presidenza, documento del Consiglio 6585/03, pag. 9, nota 3.


39 – Risoluzione legislativa del Parlamento europeo sulla proposta modificata per una direttiva relativa al ricongiungimento familiare del 9 aprile 2003, GU 2004 C 64E, pagg. 283 e 373. La motivazione risulta dalla relazione A5-0086/2003 del 24 marzo 2003 del deputato Cerdeira Morterero.


40 – V. in particolare le richieste di modifica dal n. 22 al n. 25 figuranti nella risoluzione legislativa citata alla nota 39.


41 – V. la richiesta di modifica n. 26 figurante nella risoluzione legislativa cit. alla nota 39.


42  – Sentenze 11 luglio 2002, causa C‑60/00, Carpenter (Racc. pag. I‑6279, punto 41), e 23 settembre 2003, causa C‑109/01, Akrich (Racc. pag. I‑9607, punto 58).


43 – Sentenze Carpenter, punto 42 e Akrich, punto 59 (entrambe cit. alla nota 42).


44 – V. le mie conclusioni 10 marzo 2005, causa C‑503/03, Commissione/Spagna (non ancora pubblicata nella Raccolta, paragrafo 37 con ulteriori rinvii).


45  – Su questo punto si deve pensare soprattutto al diritto dell’Accordo sullo Spazio economico europeo.


46 – Sentenza della Corte eur. D.U. 22 giugno 1989, causa Eriksson/Svezia (Series A no. 156, § 58).


47 – Sentenza della Corte eur. D.U. 13 luglio 2000, causa Elsholz/Germania (Recueil des arrêts et décisions 2000-VIII, § 44).


48 – Sentenza della Corte eur. D.U. 26 settembre 1997, causa Mehemi/Francia (Recueil des arrêts et décisions 1997-VI, § 27).


49 – Sentenze della Corte eur. D.U. 28 maggio 1985, causa Abdulaziz, Cabales and Balkandali/Regno Unito (Series A no. 94, §§ 67 e segg.), 19 febbraio 1996, causa Gül/Svizzera (Recueil des arrêts et décisions 1996-I, § 38), 28 novembre 1996, causa Ahmut/Paesi Bassi (Recueil des arrêts et décisions 1996-VI, §§ 63 e 67), e 21 dicembre 2001, causa Sen/Paesi Bassi (§§ 31 e 36).


50 – Sentenze Abdulaziz, § 68, Gül, § 39, Ahmut, § 70 (tutte cit. alla nota 49). Mentre la sentenza Abdulaziz era stata ancora pronunciata all’unanimità, la sentenza Gül fu pronunciata con una maggioranza di sette voti contro due e la sentenza Ahmut solo con cinque voti contro quattro.


51 – V. ad es. le decisioni della Corte eur. D.U. 23 marzo 2003, causa I. M./Paesi Bassi, 13 maggio 2003, causa Chandra/Paesi Bass, 6 luglio 2004, causa Ramos Andrade/Paesi Bassi e 5 aprile 2005, causa Benamar/Paesi Bassi.


52 – Sentenza Sen (cit. alla nota 49, § 40).


53 – V. le decisioni della Corte eur. D.U. sull’ammissibilità dei ricorsi 19 ottobre 2004, causa Tuquabo-Tekle/ Paesi Bassi e 14 settembre 2004, causa Rodrigues da Silva e Hoogkamer/ Paesi Bassi.


54 – Pertanto è corretto che l’art. 10, n. 1, della direttiva escluda altresì l’applicazione dell’art. 4, n. 1, ultimo comma, nel caso di rifugiati.


55 – Communication No. 930/2000: Australia, 16 agosto 2001, CCPR/C/72/D/930/2000, commi da 7.1 a 7.3, (Jurisprudence), http://www.unhchr.ch/tbs/doc.nsf/(Symbol)/488b0273fa4febfbc1256ab7002e5395?Opendocument.


56 – V. però il voto di minoranza del giudice Martens con adesione del giudice Russo nella sentenza Gül (cit. alla nota 49, §§ 6 e segg.), che pur non mettendo in dubbio l'approccio basato sul riconoscimento come pretesa positiva procede però ad un esame delle giustificazioni di tipo classico. V. anche i voti adesivi di minoranza del giudice Thoìr Vilhjaìlmsson e del giudice Bernhardt nella sentenza Abdulaziz (cit. alla nota 49), che basano la loro opinione in materia sull’art. 8, secondo comma, della CEDU.


57 – V. sopra, n. 61.


58 – Sul punto esiste una vera e propria divergenza di opinioni tra il voto di minoranza del giudice Martens (cit. alla nota 56) e della Corte: Martens intende in maniera ben più ampia rispetto alla Corte il diritto al ricongiungimento familiare.


59 – In tal senso, per quanto riguarda la Carta sociale, anche il Bundesverfassungsgericht tedesco, BVerfGE 76, 1 (82 e segg.) – ricongiungimento familiare. V. la cauta presa in considerazione delle altre disposizioni della Carta sociale europea nelle sentenze 15 giugno 1978, causa 149/77, Defrenne III (Racc. pag. 1365, punti 26/29), e 2 febbraio 1988, causa 24/86, Blaizot (Racc. pag. 379, punto 17), e le conclusioni dell’avvocato generale Jacobs 28 gennaio 1999, causa C‑67/96, Albany (Racc. pag. I‑5751, paragrafo 146) e dell’avvocato generale Lenz 15 giugno 1988, causa 236/87, Bergemann (Racc. pag. 5125, paragrafo 28).


60 – V. sopra, paragrafo 21.


61 – Digest of the Case Law of the ECSR, edizione marzo 2005, pag. 84, http://www.coe.int/T/F/Droits_de_l’Homme/Cse/Digest_bil_mars_05.pdf. V. anche Conclusions 2004 Volume 1, Section 89/174, sull’Estonia e Conclusions XVI-1 vol. 2, Section 72/257, sui Paesi Bassi con riferimento alle Conclusions I, pag. 216 (anche Section 363/374 sulla Germania), tutti reperibili in http://hudoc.esc.coe.int/esc/search/default.asp


62 – Sentenze Corte eur. D.U. 27 luglio 2004, Sidabras e Dziautas/Lituania, punto 47, sui divieti lavorativi, 30 settembre 2003, Koua Poirrez/Francia, punti 39 e 29, sui diritti sociali, e 2 luglio 2002, Wilson, National Union of Journalists and others/Regno Unito, punto 40, pagg. 32 e segg. e 37, sulla discriminazione dei sindacalisti. La Corte si è, sino ad oggi, pronunciata solo una volta a sfavore – con un rigetto – con sentenza 17 febbraio 1998, causa C‑249/96, Grant (Racc. pag. I‑621, punti 46 e segg.) sulla prassi decisionale di un organo di controllo non giurisdizionale, in questo caso la Commissione per i diritti umani del Patto internazionale sui diritti civili e politici.


63 – L’art. 3, n. 4, lett. b), della direttiva chiarisce, forse anche per questo motivo, che gli Stati membri, qualora siano anche contraenti della Carta sociale europea e/o della Convenzione europea sullo status del lavoratore migrante, possono sottostare, in tema di ricongiungimento familiare, nei confronti dei lavoratori migranti di altri Stati contraenti, ad obblighi più ampi rispetto a quelli che risultano dalla sola direttiva [e dall’art. 8 della CEDU].


64 – Un orientamento analogo è seguito dal Verfassungsgerichtshof austriaco, nella sua sentenza del 8 ottobre 2003, nella causa G 119, 120/03-13 (http://www.vfgh.gv.at/presse/G119_13_03.pdf, S. 20 f.)., con riferimento a quanto deve fare l'ordinamento austriaco per garantire il rispetto dei diritti dell'uomo.


65  – Sentenza 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf (Racc. pag. 2609, punto 19).


66 – Sentenza 6 novembre 2003, causa C‑101/01, Lindqvist (Racc. pag. I‑12971, punto 87), v. anche sentenza 26 aprile 2005, causa C‑367/02, Stichting «Goed Wonen» (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 32).


67 – Va nella stessa direzione la critica menzionata dal Parlamento circa la rete di esperti di diritti fondamentali nominata dalla Commissione nella sua relazione annuale del 2003, http://europa.eu.int/comm/justice_home/cfr_cdf/doc/report_eu_2003_en.pdf, pag. 55.


68 – Secondo informazioni fornite dal Consiglio un corrispondente limite d'età figura solo nel diritto austriaco.


69 – V. sopra, paragrafo 86.


70 – V. la sentenza del Verfassungsgerichtshof austriaco del 8 ottobre 2003, cit. alla nota 64, sub III. n. 2 lett. c.


71 – Sentenze 20 settembre 1988, causa 203/86, Spagna/Consiglio (Racc. pag. 4563, punto 25), 17 luglio 1997, cause riunite C‑248/95 e C‑249/95, SAM Schiffahrt e Stapf (Racc. pag. I‑4475, punto 50), 13 aprile 2000, causa C‑292/97, Karlsson e a. (Racc. pag. I‑2737, punto 39), 12 marzo 2002, cause riunite C‑27/00 e C‑122/00, Omega Air e a. (Racc. pag. I‑2569, numero 79), 9 settembre 2003, causa C‑137/00, Milk Marque e National Farmers’ Union (Racc. pag. I‑7975, punto 126), 9 settembre 2004, causa C‑304/01, Spagna/Commissione (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31) e 14 dicembre 2004, causa C‑210/03, Swedish Match (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 70).


72 – Sentenze del Tribunale 23 marzo 1994, causa T‑8/93, Huet (Racc. pag. II‑103, punto 45), 2 marzo 2004, causa T‑14/03, Di Marzio/Commissione (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 83), e 15 febbraio 2005, causa T‑256/01, Pyres (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 61). V. anche in tema di «discriminazione positiva» le sentenze 6 luglio 2000, causa C‑407/98, Abrahamsson e Anderson (Racc. pag. I‑5539, punto 55), e 30 settembre 2004, causa C‑319/03, Briheche (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31).


73 – Ciò viene sottolineato dalla Corte nelle sue sentenze 28 ottobre 2004, cause riunite T‑219/02 e T‑337/02, Lutz Herrera/Commissione (non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 88) e Pyres (cit. alla nota 72, punto 66) nell’esame dei limiti di età, senza però discutere sulle condizioni del principio di uguaglianza in riferimento ad essi.


74 – In questo senso le conclusioni dell’avvocato generale Tizzano 8 febbraio 2001 nella causa C‑173/99, BECTU (Racc. pag. I‑4881, paragrafo 28), dell’avvocato generale Léger 10 luglio 2001 nella causa C‑353/99 P, Hautala (Racc. pag. I‑9565, paragrafi 82 e 83), dell’avvocato generale Mischo 20 settembre 2001 nelle cause riunite C‑20/00 e C‑64/00, Booker Aquaculture e Hydro Seafood (Racc. pag. I‑7411, paragrafo 126), dell’avvocato generale Poiares Maduro 29 giugno 2004 nella causa C‑181/03 P, Nardone (non ancora pubblicata nella Raccolta, paragrafo 51) e le mie conclusioni 14 ottobre 2004 nelle cause riunite C‑387/02, C‑391/02 e C‑403/02, Berlusconi e a. (non ancora pubblicata nella Raccolta, nota 83), e 27 gennaio 2005 nella causa C‑186/04, (Housieaux (non ancora pubblicata nella Raccolta, nota 11).


75 – La Corte ha addirittura preso spunto dalla mancata fissazione di un limite di età – peraltro prevista come regola dello Statuto del personale – per annullare un bando di concorso interno: sentenza 22 marzo 1972, causa 78/71, Costacurta/Commissione (Racc. pag. 163, punti 9 e segg.).


76 – La Corte eur. D.U. stabilisce con costante giurisprudenza che un’ingerenza nel diritto alla tutela della vita familiare può essere rappresentata dall’espulsione di una persona da un paese nel quale vivano i suoi parenti più stretti, v. sentenze della Corte eur. D.U. 16 dicembre 2004, causa Radovanovic/Austria (§ 30), 2 agosto 2001, causa Boultif/Svizzera (Recueil des arrêts et décisions 2001-IX, § 39) e 18 febbraio 1991, causa Moustaquim/Belgio, (Series A no. 193, S. 18, § 36).


77 – V. sopra, paragrafo 94.


78 – V. sopra, paragrafo 41.


79 – V. in questo senso la sentenza 11 dicembre 2003, causa C‑127/00, Hässle (Racc. pag. I‑14781, punti 35 e segg.).