Language of document : ECLI:EU:C:2019:917

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ELEANOR SHARPSTON

presentate il 31 ottobre 2019 (1)

Causa C715/17

Commissione europea

contro

Repubblica di Polonia

Causa C718/17

Commissione europea

contro

Repubblica di Ungheria

Causa C719/17

Commissione europea

contro

Repubblica ceca

«Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Inadempimento di uno Stato – Decisioni (UE) 2015/1523 e (UE) 2015/1601 – Misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia – Situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi nel territorio di alcuni Stati membri – Ricollocazione di tali cittadini nel territorio degli altri Stati membri – Procedura di ricollocazione – Obbligo degli Stati membri di indicare, a intervalli regolari e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che sono in grado di ricollocare rapidamente nel loro territorio – Conseguente obbligo di procedere all’effettiva ricollocazione – Articolo 72 TFUE e sicurezza interna»






1.        In circostanze normali, il regolamento n. 604/2013 (in prosieguo: il «regolamento Dublino III») (2) disciplina la distribuzione, tra gli Stati membri, delle persone che chiedono protezione internazionale nell’Unione europea. Tuttavia, il protrarsi del conflitto in Siria ha determinato un drastico aumento del numero complessivo di persone richiedenti siffatta protezione (3). La rischiosa traversata attraverso il mar Mediterraneo era e, di fatto, continua ad essere la principale via di ingresso nel territorio dell’Unione di tali persone (e di altri potenziali rifugiati) (4). Tale rotta pone un’enorme pressione su due Stati membri dell’Unione, l’Italia e la Grecia (in prosieguo: gli «Stati membri in prima linea»), entrambi i quali possiedono un esteso litorale lungo il mar Mediterraneo, praticamente impossibile da controllare. In circostanze normali, conformemente all’articolo 13 del regolamento Dublino III (5), detti Stati membri sono competenti ad esaminare le domande di protezione internazionale presentate dalle persone che entrano nell’Unione europea attraverso il loro territorio (6). Entrambi sono stati sopraffatti dall’elevato numero di potenziali richiedenti (7).

2.        Il 14 e il 22 settembre 2015, rispettivamente, il Consiglio ha adottato due decisioni che introducono misure temporanee a favore degli Stati membri in prima linea: la decisione (UE) 2015/1523 del Consiglio (8) e la decisione (UE) 2015/1601 del Consiglio (9). Entrambe le decisioni hanno utilizzato come base giuridica l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE. Queste due decisioni prevedevano disposizioni dettagliate in materia di ricollocazione, rispettivamente, di 40 000 e di 120 000 richiedenti protezione internazionale. Nel prosieguo, farò riferimento alle due decisioni, collettivamente, come alle «decisioni di ricollocazione» e le menzionerò singolarmente soltanto ove necessario.

3.        Un tentativo di contestazione della legittimità della decisione 2015/1601 non è andato a buon fine (10).

4.        La Commissione ha successivamente avviato procedimenti di infrazione nei confronti di tre Stati membri: Polonia (causa C‑715/17), Ungheria (causa C‑718/17) e Repubblica ceca (causa C‑719/17). Ove opportuno, mi riferirò a tali Stati membri, collettivamente, come ai «tre Stati membri convenuti».

5.        Nei presenti procedimenti paralleli, la Commissione sostiene che i tre Stati membri convenuti hanno violato, nel caso della Polonia e della Repubblica ceca, l’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1523 e della decisione 2015/1601 (in prosieguo: l’«obbligo di impegno») o, nel caso dell’Ungheria, il solo articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601, nonché i conseguenti obblighi derivanti dagli articoli 5, paragrafi da 4 a 11, delle rispettive decisioni, omettendo così di assistere l’Italia e la Grecia ricollocando i richiedenti protezione internazionale nei rispettivi territori per ivi procedere all’esame del merito delle singole domande (11).

6.        La Polonia, l’Ungheria e la Repubblica ceca contestano la ricevibilità dei ricorsi. In subordine, esse sostengono di poter invocare l’articolo 72 TFUE come giustificazione per l’omessa applicazione di tali decisioni (di cui non contestano, in questa sede, la validità), poiché le misure dell’Unione adottate ai sensi del titolo V della parte terza del TFUE (di cui fa parte l’articolo 78 TFUE, base delle decisioni di ricollocazione) «non osta all’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna».

7.        Le tre cause sono state trattate congiuntamente e formulerò delle conclusioni comuni ai tre procedimenti di infrazione.

 Contesto normativo

8.        Le due decisioni di ricollocazione non possono essere considerate isolatamente. Esse sono state adottate nel contesto di una serie (estremamente complessa) di obblighi e delle conseguenti disposizioni di diritto internazionale e di diritto dell’Unione, nonché dell’accurata e dettagliata sentenza della Corte nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio. Mi sforzerò per offrire una descrizione il più concisa possibile di tale contesto.

 Dichiarazione universale dei diritti delluomo

9.        L’articolo 14, paragrafo 1, della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (12) stabilisce, in termini generali, che «[o]gni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni». Tuttavia, l’articolo 14, paragrafo 2 della stessa dispone che «[q]uesto diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite» (13).

 Convenzione di Ginevra

10.      Ai sensi dell’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, della convenzione sullo statuto dei rifugiati (14), il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque, «temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese». Il secondo paragrafo della convenzione chiarisce che, nel caso degli apolidi, l’espressione «questo Paese» fa riferimento al Paese in cui avevano residenza abituale.

11.      Tuttavia, l’articolo 1, sezione F, prevede che le disposizioni della convenzione di Ginevra «non si applicheranno a quelle persone nei confronti delle quali si hanno serie ragioni per ritenere: a) che abbiano commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità, come definito negli strumenti internazionali elaborati per stabilire disposizioni riguardo a questi crimini; b) che abbiano commesso un crimine grave di diritto comune al di fuori del Paese di accoglimento e prima di esservi ammesse in qualità di rifugiati; c) che si siano rese colpevoli di azioni contrarie ai fini ed ai principi delle Nazioni Unite».

 Trattato sullUnione europea

12.      L’articolo 4, paragrafo 2, TUE stabilisce che «[l]’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro».

 Trattato sul funzionamento dellUnione europea

13.      L’articolo 72 TFUE è parte del capo 1 («Disposizioni generali»), del titolo V del TFUE («Spazio di libertà, sicurezza e giustizia»; in prosieguo: lo «SLSG»). Esso prevede, succintamente, che «[i]l presente titolo non osta all’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna».

14.      L’articolo 78, paragrafo 1, TFUE, parte del capo 2 («Politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione»), impone all’Unione di «sviluppa[re] una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra (…) e agli altri trattati pertinenti». L’articolo 78, paragrafo 2, TFUE costituisce la base giuridica per l’adozione di misure volte a istituire un sistema europeo comune di asilo (in prosieguo: il «CEAS») (15).

15.      L’articolo 78, paragrafo 3, TFUE stabilisce che «[q]ualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati. Esso delibera previa consultazione del Parlamento europeo».

16.      L’articolo 80 TFUE prevede che «[l]e politiche dell’Unione di cui al presente capo e la loro attuazione sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario. Ogniqualvolta necessario, gli atti dell’Unione adottati in virtù del presente capo contengono misure appropriate ai fini dell’applicazione di tale principio».

 Carta dei diritti fondamentali

17.      L’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (16) stabilisce che «[i]l diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra (…) e a norma del [TUE] e del [TFUE]».

 Elementi pertinenti dell’acquis in materia di asilo

18.      Un ampio corpus di diritto derivato dell’Unione istituisce il CEAS e stabilisce norme procedurali e sostanziali uniformi che gli Stati membri devono applicare nel trattamento e nella decisione delle domande di protezione internazionale.

 Direttiva qualifiche

19.      La direttiva 2011/95 (in prosieguo: la «direttiva qualifiche») (17) contiene criteri uniformi da applicare per determinare se i cittadini di paesi terzi o gli apolidi possano beneficiare dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria. Essa contiene altresì disposizioni che disciplinano l’esclusione da detto status e consentono a uno Stato membro di revocare, cessare o rifiutare di rinnovare tale status in determinate circostanze.

20.      L’articolo 2, lettera a), definisce «protezione internazionale» come «lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria quale definito alle lettere e) e g)»; l’articolo 2, lettera d), definisce il termine «rifugiato» in conformità con l’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, primo comma, della convenzione di Ginevra; l’articolo 2, lettera e), chiarisce che per «status di rifugiato» si intende «il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale rifugiato»; infine, l’articolo 2, lettera f), offre una definizione di «persona avente titolo a beneficiare della protezione sussidiaria».

21.      L’articolo 2, lettera h), definisce quale «domanda di protezione internazionale» una «richiesta di protezione rivolta (…) da un cittadino di un paese terzo o da un apolide di cui si può ritenere che intende ottenere lo status di rifugiato o lo status di protezione sussidiaria (…)», mentre l’articolo 2, lettera i), stabilisce che per «richiedente» si intende «qualsiasi cittadino di un paese terzo o apolide che abbia presentato una domanda di protezione internazionale sulla quale non sia stata ancora adottata una decisione definitiva».

22.      Successivamente, la direttiva qualifiche si occupa, in sequenza, della valutazione delle domande di protezione internazionale (capo II, articoli da 4 a 8) e dei requisiti per essere considerato rifugiato (capo III, articoli da 9 a 12). L’articolo 12, rubricato «Esclusione», fornisce un elenco dettagliato dei motivi obbligatori di esclusione di cittadini di paesi terzi o apolidi dall’ammissibilità allo status di rifugiato. Ai presenti fini è utile sottolineare le condizioni di cui all’articolo 12, paragrafo 2, il quale elenca motivi che corrispondono ampiamente a quelli contenuti nell’articolo 1, sezione F, della convenzione di Ginevra (18).

23.      Il capo IV, rubricato «Status di rifugiato», contiene una lunga disposizione (articolo 14), che elenca le circostanze in presenza delle quali lo status di rifugiato, una volta riconosciuto, può, ciò nonostante, essere oggetto di cessazione o rifiuto di rinnovo. Si tratta, fra l’altro, del caso in cui la persona in questione avrebbe dovuto essere esclusa da siffatto status ai sensi dell’articolo 12 [articolo 14, paragrafo 3, lettera a)], della circostanza che l’erronea presentazione dei fatti abbia costituito un fattore determinante per l’ottenimento dello status [articolo 14, paragrafo 3, lettera b)], del caso in cui vi siano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca «un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trova» [articolo 14, paragrafo 4, lettera a)] e del caso in cui «la persona in questione, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro» [articolo 14, paragrafo 4, lettera b)] (19).

24.      Nel capo V, rubricato «Requisiti per la protezione sussidiaria», l’articolo 17 contiene disposizioni ampiamente analoghe a quelle contenute nell’articolo 12, concernente lo status di rifugiato, in materia di esclusione di cittadini di paesi terzi o apolidi dalla possibilità di beneficiare della protezione sussidiaria. I motivi obbligatori di esclusione ivi elencati comprendono, in aggiunta a quelli contenuti nell’articolo 12 della direttiva, che ricalca l’articolo 1, sezione F, della convenzione di Ginevra, anche il caso in cui «[il richiedente] rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova» [articolo 17, paragrafo 1, lettera d)]. L’articolo 17, paragrafo 2, estende l’ambito di applicazione della disposizione sui motivi obbligatori di esclusione alle «persone che istigano o altrimenti concorrono alla commissione dei reati o atti (…) menzionati [all’articolo 17, paragrafo 1]». Inoltre, l’articolo 17, paragrafo 3, consente agli Stati membri di escludere un cittadino di un paese terzo o un apolide dalla possibilità di beneficiare della protezione sussidiaria «se questi, prima di essere ammesso nello Stato membro interessato, ha commesso uno o più reati non contemplati [all’articolo 17, paragrafo 1], che sarebbero punibili con la reclusione se fossero stati perpetrati nello Stato membro interessato e se ha lasciato il paese d’origine soltanto al fine di evitare le sanzioni risultanti da tali reati».

25.      Il capo VI, rubricato «Status di protezione sussidiaria», contiene, all’articolo 19, una disposizione parallela all’articolo 14 in materia di status di rifugiato, la quale elenca le circostanze in cui lo status di protezione sussidiaria, una volta riconosciuto, può, ciò nonostante, essere oggetto di cessazione o di rifiuto di rinnovo. Siffatta azione è consentita, inter alia, quando l’individuo in questione avrebbe potuto essere escluso (20) da siffatta protezione ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 3 (articolo 19, paragrafo 2), o avrebbe dovuto essere escluso o è escluso ai sensi dell’articolo 17, paragrafi 1 o 2 [articolo 19, paragrafo 3, lettera a)], nonché qualora l’erronea presentazione dei fatti abbia costituito un fattore determinante per l’ottenimento di siffatto status [articolo 19, paragrafo 3, lettera b)].

26.      Infine, nel capo VII, rubricato «Contenuto della protezione internazionale», l’articolo 21 si occupa della protezione dal respingimento. Pur obbligando gli Stati membri a «rispetta[re] il principio di “non refoulement” in conformità dei propri obblighi internazionali» (articolo 21, paragrafo 1), l’articolo 21, paragrafo 2, stabilisce espressamente che «[q]ualora non sia vietato dagli obblighi internazionali previsti [dall’articolo 21, paragrafo 1], gli Stati membri possono respingere un rifugiato, formalmente riconosciuto o meno: a) quando vi siano ragionevoli motivi per considerare che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato membro nel quale si trova; o b) quando, essendo stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro».

 Direttiva procedure

27.      La direttiva 2013/32 (in prosieguo; la «direttiva procedure») (21) stabilisce procedure uniformi per il trattamento delle domande di protezione internazionale. Il considerando 51 di tale direttiva prevede espressamente che «[a] norma dell’articolo 72 del [TFUE], la presente direttiva non osta all’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna».

28.      La definizione di «richiedente» di cui all’articolo 2, lettera c), di tale direttiva rispecchia quella di cui all’articolo 2, lettera i), della direttiva qualifiche.

29.      Poiché i minori non accompagnati rientrano tra i numerosi richiedenti da ricollocare ai sensi delle decisioni di ricollocazione, è opportuno richiamare l’articolo 25, paragrafo 6, lettera a), iii) e lettera b), iii), della direttiva procedure, il quale consente agli Stati membri di derogare a norme procedurali altrimenti applicabili nel caso in cui un minore non accompagnato «può per gravi motivi essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico dello Stato membro oppure (…) è stato espulso con efficacia esecutiva per gravi motivi di sicurezza o di ordine pubblico a norma del diritto nazionale» (22).

30.      Più in generale, l’articolo 31 della direttiva procedure, rubricato «Procedura d’esame», autorizza espressamente uno Stato membro ad accelerare una procedura d’esame e/o a svolgere tale procedura alla frontiera o in zone di transito se, tra l’altro, «il richiedente può, per gravi ragioni, essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico dello Stato membro o (…) è stato espulso con efficacia esecutiva per gravi motivi di sicurezza o di ordine pubblico a norma del diritto nazionale» [articolo 31, paragrafo 8, lettera j)] (23).

 Direttiva accoglienza

31.      La direttiva 2013/33 (in prosieguo: la «direttiva accoglienza») (24) completa la direttiva procedure stabilendo disposizioni dettagliate per il trattamento (in prosieguo: l’«accoglienza») dei richiedenti protezione internazionale durante l’esame delle loro domande. La definizione di «richiedente» di cui all’articolo 2, lettera b), di detta direttiva rispecchia quella di cui all’articolo 2, lettera i), della direttiva qualifiche.

32.      All’interno del capo II, rubricato «Disposizioni generali sulle condizioni di accoglienza», l’articolo 7, paragrafo 1, stabilisce il principio secondo cui i richiedenti possono circolare liberamente nel territorio dello Stato membro ospitante o nell’area loro assegnata da tale Stato membro. Tuttavia, in deroga a tale principio, l’articolo 7, paragrafo 2, consente espressamente agli Stati membri di «stabilire un luogo di residenza per il richiedente, per motivi di pubblico interesse, ordine pubblico o, ove necessario, per il trattamento rapido e il controllo efficace della domanda di protezione internazionale».

33.      L’articolo 8 disciplina il trattenimento dei richiedenti. L’articolo 8, paragrafo 2, prevede che «[o]ve necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, gli Stati membri possono trattenere il richiedente, salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive». L’elenco tassativo dei possibili motivi di trattenimento include, all’articolo 8, paragrafo 3, lettera e), il caso in cui «lo impongono motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico».

 Direttiva rimpatri

34.      Infine, qualora un richiedente che non abbia ottenuto la protezione internazionale continui a soggiornare irregolarmente nel territorio di uno Stato membro, la direttiva 2008/115 (in prosieguo: la «direttiva rimpatri») (25) prevede norme uniformi per il suo allontanamento e rimpatrio.

35.      L’articolo 1 chiarisce che la direttiva «stabilisce norme e procedure comuni da applicarsi negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, nel rispetto dei diritti fondamentali in quanto principi generali del diritto [dell’Unione] e del diritto internazionale, compresi gli obblighi in materia di protezione dei rifugiati e di diritti dell’uomo».

36.      L’articolo 2 prevede che la direttiva si applichi, fatte salve talune deroghe (26) ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio di uno Stato membro è irregolare.

37.      L’articolo 6, paragrafo 1, impone agli Stati membri di adottare una decisione di rimpatrio (27) nei confronti di qualunque cittadino di un paese terzo il cui soggiorno nel loro territorio è irregolare. Qualora motivi di ordine pubblico o di sicurezza nazionale impongano l’immediata partenza del cittadino di un paese terzo, tale decisione può essere adottata anche se tale persona è in possesso di un permesso di soggiorno valido o di un’altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare rilasciati da un altro Stato membro (articolo 6, paragrafo 2). Di regola, per la partenza volontaria è fissato un periodo congruo di durata compresa tra sette e 30 giorni (articolo 7, paragrafo 1); tuttavia, «[s]e sussiste il rischio di fuga (…) o se l’interessato costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale, gli Stati membri possono astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria o concederne uno inferiore a sette giorni» (articolo 7, paragrafo 4). In ultima istanza è possibile ricorrere a misure coercitive per l’allontanamento (articolo 8, paragrafo 4).

38.      L’articolo 11 si occupa dell’imposizione di un divieto di ingresso a corredo dell’allontanamento. Siffatto divieto è obbligatorio qualora non sia stato concesso un periodo per la partenza volontaria [articolo 11, paragrafo 1, lettera a)]. La durata del divieto di ingresso «è determinata tenendo debitamente conto di tutte le circostanze pertinenti di ciascun caso e non supera di norma i cinque anni. Può comunque superare i cinque anni se il cittadino di un paese terzo costituisce una grave minaccia per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale» (articolo 11, paragrafo 2). In circostanze specifiche, quando tale misura coercitiva è proporzionata e debitamente giustificata, gli Stati membri possono ricorrere al trattenimento del cittadino di un paese terzo ai fini dell’allontanamento (v. le disposizioni dettagliate di cui all’articolo 15).

 Decisioni di ricollocazione

39.      Prima dell’adozione delle decisioni di ricollocazione, l’Unione europea ha intrapreso azioni per rispondere a quella che era stata riconosciuta come una crisi migratoria globale. Il 20 luglio 2015, a seguito della raccomandazione della Commissione dell’8 giugno 2015 (28), 27 Stati membri (esclusa l’Ungheria), unitamente a Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera (in prosieguo: «gli Stati associati al sistema di Dublino») hanno convenuto il reinsediamento, mediante programmi multilaterali e nazionali, di 22 504 sfollati, provenienti da paesi terzi, che si trovavano in evidente bisogno di protezione internazionale (29). I luoghi di reinsediamento sono stati distribuiti tra gli Stati membri e gli Stati associati al sistema di Dublino, conformemente agli impegni indicati nell’allegato alla risoluzione del 20 luglio 2015 (30).

40.      Il 14 e il 22 settembre 2015, il Consiglio ha adottato, rispettivamente, la decisione 2015/1523 e la decisione 2015/1601, ricorrendo all’articolo 78, paragrafo 3, TFUE quale base giuridica per l’introduzione di misure temporanee al fine di rispondere alla situazione di emergenza in cui versavano gli Stati membri in prima linea. Entrambe le decisioni sono state adottate su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo. La decisione 2015/1523 è stata adottata per consenso (31), mentre la decisione 2015/1601 è stata adottata a maggioranza qualificata (32). La formulazione delle due decisioni di ricollocazione non è identica. Ai sensi della decisione 2015/1523, 40 000 richiedenti protezione internazionale dovevano essere ricollocati dall’Italia e dalla Grecia, conformemente all’accordo raggiunto tra gli Stati membri nella risoluzione del 20 luglio 2015. Per effetto della decisione 2015/1601, 120 000 richiedenti protezione internazionale dovevano essere ricollocati dall’Italia e dalla Grecia. Gli allegati di tale decisione fissano il numero esatto di persone da ricollocare in ciascuno Stato membro.

41.      Il 15 dicembre 2015 la Commissione ha adottato una raccomandazione per un programma volontario di ammissione umanitaria gestito con la Turchia, proponendo che gli Stati partecipanti ammettessero persone sfollate a causa del conflitto in Siria che necessitassero di protezione internazionale e che fossero state registrate dalle autorità turche prima del 29 novembre 2015. Tale programma avrebbe costituito una misura di sostegno agli impegni reciproci contenuti nel piano d’azione comune UE-Turchia del 29 novembre 2015 (33).

 Decisione 2015/1523

42.      Nei considerando della decisione 2015/1523 si rinvenivano le seguenti affermazioni (34):

«(1)      Conformemente all’articolo 78, paragrafo 3, [TFUE], qualora uno o più Stati membri debbano affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro o degli Stati membri interessati.

(2)      Conformemente all’articolo 80 TFUE, le politiche dell’Unione relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione e la loro attuazione devono essere governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità tra Stati membri, e gli atti dell’Unione adottati in questo settore devono contenere misure appropriate ai fini dell’applicazione di tale principio.

(3)      La recente situazione di crisi nel Mediterraneo ha indotto le istituzioni dell’Unione a riconoscere immediatamente l’eccezionalità dei flussi migratori in questa regione e a chiedere misure concrete di solidarietà nei confronti degli Stati membri in prima linea. In particolare, nella riunione congiunta dei ministri dell’Interno e degli Affari esteri del 20 aprile 2015, la Commissione ha presentato un piano d’azione immediata in dieci punti in risposta alla crisi, che comprende un impegno a vagliare le opzioni per un meccanismo di ricollocazione di emergenza.

(4)      Alla riunione del 23 aprile 2015 il Consiglio europeo ha deciso, tra l’altro, di rafforzare la solidarietà e la responsabilità interne e si è impegnato in particolare ad accrescere gli aiuti d’urgenza agli Stati membri in prima linea e a considerare opzioni per l’organizzazione di una ricollocazione di emergenza fra tutti gli Stati membri su base volontaria, nonché a inviare squadre dell’Ufficio europeo di sostegno per l’asilo (EASO) negli Stati membri in prima linea ai fini di un esame congiunto delle domande d’asilo, anche riguardo alla registrazione e al rilevamento delle impronte digitali.

(5)      Nella risoluzione del 28 aprile 2015 il Parlamento europeo ha ribadito la necessità per l’Unione di fondare la sua risposta alle recenti tragedie nel Mediterraneo sul principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità e di intensificare gli sforzi in questo settore nei confronti di quegli Stati membri che accolgono il numero più elevato di rifugiati e richiedenti protezione internazionale in termini assoluti o relativi.

(…)

(9)      Tra gli Stati membri soggetti a pressione considerevole, e alla luce dei tragici eventi verificatisi di recente nel Mediterraneo, soprattutto l’Italia e la Grecia registrano flussi senza precedenti di migranti, fra cui richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale, che arrivano nei loro territori e generano una pressione significativa sui loro sistemi di asilo e migrazione.

(10)      Secondo i dati dell’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne (Frontex), nel 2014 le rotte del Mediterraneo centrale e orientale sono state le più utilizzate per l’attraversamento irregolare delle frontiere dell’Unione. Nel 2014 solo in Italia sono entrati in modo irregolare più di 170 000 migranti, pari a un aumento del 277% rispetto al 2013. Anche in Grecia l’aumento è stato costante, con oltre 50 000 migranti irregolari giunti nel paese, il 153% in più rispetto al 2013. Il numero complessivo è ulteriormente aumentato nel corso del 2015. Nei primi sei mesi del 2015 l’Italia ha assistito a un aumento del 5% del numero degli attraversamenti irregolari delle frontiere rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Nello stesso periodo la Grecia ha registrato un’impennata del numero di attraversamenti irregolari delle frontiere, con un aumento pari a sei volte il numero dei primi sei mesi del 2014 (più di 76 000 nel periodo da gennaio a giugno 2015 rispetto a 11 336 nel periodo da gennaio a giugno 2014). Una percentuale significativa del numero totale di migranti irregolari individuati nelle due regioni era costituita da migranti di nazionalità che, stando ai dati Eurostat, godono di un alto tasso di riconoscimento a livello di Unione.

(…)

(13)      A causa dell’instabilità e dei conflitti costanti nel vicinato diretto dell’Italia e della Grecia, è molto probabile che i loro sistemi di asilo e migrazione continuino a subire a una pressione significativa e crescente e che buona parte dei migranti possano aver bisogno di protezione internazionale. Ciò dimostra la fondamentale necessità di dare prova di solidarietà all’Italia e alla Grecia e di integrare le azioni intraprese finora a sostegno di tali paesi con misure temporanee nel settore dell’asilo e della migrazione.

(…)

(16)      Qualora uno Stato membro debba affrontare un’analoga situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può adottare misure temporanee a beneficio dello Stato membro interessato, in base all’articolo 78, paragrafo 3, TFUE. Tali misure possono comprendere, se del caso, la sospensione degli obblighi che la presente decisione impone a detto Stato membro.

(17)      A norma dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, è opportuno che le misure previste a beneficio dell’Italia e della Grecia siano di natura temporanea. Un periodo di 24 mesi è ragionevole per garantire che le misure previste dalla presente decisione abbiano un impatto reale ai fini del sostegno fornito all’Italia e alla Grecia per gestire i forti flussi migratori nei loro territori.

(18)      Le misure relative alla ricollocazione dall’Italia e dalla Grecia di cui alla presente decisione comportano una deroga temporanea alla norma prevista all’articolo 13, paragrafo 1, del regolamento [Dublino III], in base alla quale l’Italia e la Grecia sarebbero state altrimenti competenti per l’esame delle domande di protezione internazionale in applicazione dei criteri di cui al capo III di detto regolamento, nonché una deroga temporanea alle fasi procedurali, compresi i termini, di cui agli articoli 21, 22 e 29 del medesimo regolamento. Le altre disposizioni del regolamento [Dublino III], comprese le modalità di esecuzione previste al regolamento (CE) n. 1560/2003 della Commissione [(35)] e al regolamento di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione [(36)] restano di applicazione, incluse le disposizioni in essi contenute relative all’obbligo per gli Stati membri che eseguono il trasferimento di sostenere le spese necessarie per il trasferimento di un richiedente verso lo Stato membro di ricollocazione e alla cooperazione ai fini del trasferimento tra Stati membri, nonché alla trasmissione di informazioni attraverso la rete telematica DubliNet.

La presente decisione comporta inoltre una deroga al consenso del richiedente protezione internazionale di cui all’articolo 7, paragrafo 2, del regolamento (UE) n. 516/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio [(37)].

(19)      Le misure di ricollocazione non dispensano gli Stati membri dall’applicare integralmente il regolamento [Dublino III], comprese le disposizioni relative al ricongiungimento familiare, alla protezione speciale dei minori non accompagnati e alla clausola discrezionale per motivi umanitari.

(…)

(21)      Tali misure temporanee sono destinate ad alleviare la forte pressione sul sistema di asilo di Italia e Grecia, di cui provvedono a ricollocare un significativo numero dei richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale arrivati nel territorio dell’Italia o della Grecia dopo la data di applicazione della presente decisione. In base al numero complessivo di cittadini di paesi terzi entrati in modo irregolare in Italia o in Grecia nel 2014 e al numero di persone in evidente bisogno di protezione internazionale, dovrebbero essere ricollocati dall’Italia e dalla Grecia, in totale, 40 000 richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale. Questo numero corrisponde a circa il 40% del numero totale di cittadini di paesi terzi in evidente bisogno di protezione internazionale entrati irregolarmente in Italia o in Grecia nel 2014. Pertanto, la misura di ricollocazione proposta nella presente decisione costituisce un’equa ripartizione degli oneri tra l’Italia e la Grecia, da un lato, e gli altri Stati membri, dall’altro. Sempre in base a queste cifre complessive per il 2014 e per i primi quattro mesi del 2015, facendo un raffronto tra Italia e Grecia il 60% di questi richiedenti dovrebbe essere ricollocato dall’Italia e il 40% dalla Grecia.

(…)

(24)      Al fine di attuare il principio di solidarietà e di equa ripartizione della responsabilità, e tenuto conto del fatto che la presente decisione costituisce un ulteriore sviluppo del settore, è opportuno garantire che gli Stati membri che ricollocano richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale dall’Italia o dalla Grecia ai sensi della presente decisione ricevano una somma forfettaria per persona ricollocata identica alla somma forfettaria di cui all’articolo 18 del regolamento (UE) n. 516/2014, vale a dire 6 000 EUR, e attuata applicando le stesse procedure. Ciò comporta una deroga limitata e temporanea all’articolo 18 del regolamento (UE) n. 516/2014 poiché la somma forfettaria dovrebbe essere versata in funzione dei richiedenti ricollocati anziché dei beneficiari di protezione internazionale. Una tale estensione temporanea dell’ambito dei destinatari potenziali della somma forfettaria sembra in effetti costituire parte integrante del meccanismo di emergenza istituito con la presente decisione.

(25)      È necessario garantire l’introduzione di una procedura di ricollocazione rapida e affiancare all’attuazione delle misure temporanee la stretta cooperazione amministrativa tra gli Stati membri e il sostegno operativo dell’EASO.

(26)      Durante tutta la procedura di ricollocazione fino all’effettivo trasferimento del richiedente, dovrebbero essere presi in considerazione la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Nel pieno rispetto dei diritti fondamentali del richiedente, incluse le pertinenti norme in materia di protezione dei dati, qualora uno Stato membro abbia fondati motivi per ritenere che il richiedente costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ne informa gli altri Stati membri.

(…)

(32)      È opportuno adottare misure per evitare i movimenti secondari dei ricollocati dallo Stato membro di ricollocazione verso altri Stati membri che potrebbero ostacolare l’efficace applicazione della presente decisione. In particolare, il richiedente dovrebbe essere informato delle conseguenze dei movimenti irregolari successivi all’interno degli Stati membri e del fatto che, se lo Stato membro di ricollocazione gli riconosce la protezione internazionale, in linea di principio è legittimato solo ai diritti collegati alla protezione internazionale in tale Stato membro.

(…)

(41)      Vista l’urgenza della situazione, la presente decisione entra in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea».

43.      L’articolo 1 prevedeva che la decisione 2015/1523 «istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, al fine di aiutare tali Stati membri ad affrontare meglio una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi nel loro territorio».

44.      L’articolo 2 prevedeva le seguenti definizioni:

«a)      “domanda di protezione internazionale”: la domanda di protezione internazionale quale definita all’articolo 2, lettera h), della [direttiva qualifiche];

b)      “richiedente”: il cittadino di un paese terzo o l’apolide che abbia manifestato la volontà di chiedere la protezione internazionale sulla quale non è stata ancora adottata una decisione definitiva;

c)      “protezione internazionale”: lo status di rifugiato e lo status di protezione sussidiaria quale definito all’articolo 2, rispettivamente lettere e) e g), della [direttiva qualifiche];

d)      “familiari”: i familiari quali definiti all’articolo 2, lettera g), [della direttiva qualifiche];

e)      “ricollocazione”: il trasferimento del richiedente dal territorio dello Stato membro che i criteri di cui al capo III del regolamento [Dublino III] designano come competente per l’esame della domanda di protezione internazionale, verso il territorio dello Stato membro di ricollocazione;

f)      “Stato membro di ricollocazione”: lo Stato membro che, ai sensi del regolamento [Dublino III] diventa competente per l’esame della domanda di protezione internazionale di un richiedente a seguito della ricollocazione di quest’ultimo nel suo territorio».

45.      Conformemente all’articolo 3, paragrafo 1, erano soggetti a ricollocazione ai sensi della decisione 2015/1523 soltanto i richiedenti che avevano presentato domanda di protezione internazionale in Italia o in Grecia e per i quali tali Stati sarebbero stati altrimenti competenti conformemente ai criteri di determinazione dello Stato membro competente stabiliti al capo III del regolamento Dublino III.

46.      L’articolo 4 prevedeva quanto segue:

«A seguito dell’accordo raggiunto dagli Stati membri attraverso la risoluzione, del 20 luglio 2015, dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio sulla ricollocazione dall’Italia e dalla Grecia di 40 000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale:

a)      dall’Italia sono ricollocati nel territorio degli altri Stati membri 24 000 richiedenti;

b)      dalla Grecia sono ricollocati nel territorio degli altri Stati membri 16 000 richiedenti».

47.      La procedura di ricollocazione era disciplinata dall’articolo 5. Detta disposizione era redatta in termini molto simili all’articolo 5 della decisione 2015/1601, che cito per intero nel prosieguo. Pertanto, non ne riprodurrò il testo nel presente paragrafo.

48.      L’articolo 10 prevedeva che «[l]o Stato membro di ricollocazione riceve la somma forfettaria di 6 000 EUR per ciascuna persona ricollocata a norma della presente decisione. Tale sostegno finanziario è attuato applicando le procedure di cui all’articolo 18 del regolamento (UE) n. 516/2014».

49.      Ai sensi dell’articolo 12, in base alle informazioni fornite dagli Stati membri e dalle agenzie competenti, la Commissione riferiva al Consiglio, ogni sei mesi, sull’attuazione della decisione 2015/1523. Inoltre, in base alle informazioni fornite dall’Italia e dalla Grecia, la Commissione riferiva al Consiglio, ogni sei mesi, in merito all’attuazione delle «tabelle di marcia» di cui all’articolo 8 (38).

50.      L’articolo 13 prevedeva che la decisione 2015/1523 entrasse in vigore il 15 settembre 2015 e si applicasse fino al 17 settembre 2017.

 Decisione 2015/1601

51.      Nei considerando della decisione 2015/1601 si rinvenivano le seguenti ulteriori affermazioni (39):

«(11)      Il 20 luglio 2015 rispecchiando le situazioni specifiche degli Stati membri, è stata adottata per consenso una risoluzione dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, sulla ricollocazione dalla Grecia e dall’Italia di 40 000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale. Durante un periodo di due anni, 24 000 persone saranno ricollocate dall’Italia e 16 000 persone saranno ricollocate dalla Grecia. Il 14 settembre 2015 il Consiglio ha adottato la decisione (UE) 2015/1523 che istituisce un meccanismo di ricollocazione temporanea ed eccezionale dall’Italia e dalla Grecia in altri Stati membri di persone in evidente bisogno di protezione internazionale.

(12)      Negli ultimi mesi la pressione migratoria alle frontiere esterne marittime e terrestri meridionali ha registrato una nuova impennata ed è proseguito lo spostamento dei flussi migratori dal Mediterraneo centrale al Mediterraneo orientale e verso la rotta dei Balcani occidentali, per effetto del numero crescente di migranti che arrivano e partono dalla Grecia. Vista la situazione, è opportuno autorizzare ulteriori misure temporanee per allentare la pressione sui sistemi d’asilo di Italia e Grecia.

(…)

(18)      È opportuno ricordare che la decisione (UE) 2015/1523 introduce l’obbligo in capo all’Italia e alla Grecia di fornire soluzioni strutturali per ovviare alle pressioni eccezionali sui loro sistemi di asilo e migrazione, istituendo un quadro strategico solido che consenta di far fronte alla situazione di crisi e intensifichi il processo di riforma in corso in questi settori. È opportuno che le tabelle di marcia che Italia e Grecia hanno presentato a tal fine siano aggiornate onde tener conto della presente decisione.

(…)

(20)      A decorrere dal 26 settembre 2016, 54 000 richiedenti dovrebbero essere ricollocati proporzionalmente dall’Italia e dalla Grecia in altri Stati membri. Il Consiglio e la Commissione dovrebbero tenere costantemente sotto osservazione la situazione concernente gli afflussi massicci di cittadini di paesi terzi negli Stati membri. La Commissione dovrebbe presentare, se del caso, proposte volte a modificare la presente decisione onde far fronte all’evoluzione della situazione sul terreno e al suo impatto sul meccanismo di ricollocazione, nonché all’evoluzione della pressione sugli Stati membri, in particolare gli Stati membri in prima linea. In tal modo, si dovrebbero prendere in considerazione i pareri del potenziale Stato membro beneficiario.

(…)

(26)      Tali misure temporanee sono destinate ad alleviare la forte pressione sul sistema di asilo di Italia e Grecia, in particolare ricollocando un numero significativo di richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale che arriveranno nel territorio dell’Italia o della Grecia dopo la data di applicazione della presente decisione. In base al numero complessivo di cittadini di paesi terzi entrati in modo irregolare in Italia e in Grecia nel 2015 e al numero di persone in evidente bisogno di protezione internazionale, dovrebbero essere ricollocati dall’Italia e dalla Grecia, in totale, 120 000 richiedenti in evidente bisogno di protezione internazionale. Questo numero corrisponde a circa il 43% del numero totale di cittadini di paesi terzi in evidente bisogno di protezione internazionale entrati irregolarmente in Italia e in Grecia nel luglio e agosto 2015. La misura di ricollocazione prevista dalla presente decisione costituisce un’equa ripartizione degli oneri tra l’Italia e la Grecia, da un lato, e gli altri Stati membri, dall’altro, considerati i dati globali disponibili sull’attraversamento irregolare delle frontiere nel 2015. Considerate le cifre in gioco risulta opportuno ricollocare il 13% dei richiedenti dall’Italia e il 42% dalla Grecia e il 45% dovrebbe essere ricollocato conformemente alla presente decisione.

(…)

(44)      Poiché gli obiettivi della presente decisione non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri ma, a motivo della portata e degli effetti dell’azione in questione, possono essere conseguiti meglio a livello di Unione, quest’ultima può intervenire in base al principio di sussidiarietà sancito dall’articolo 5 [TUE]. La presente decisione si limita a quanto è necessario per conseguire tali obiettivi in ottemperanza al principio di proporzionalità enunciato nello stesso articolo.

(…)

(50)      Vista l’urgenza della situazione, la presente decisione entra in vigore il giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea» (40).

52.      L’articolo 1, paragrafo 1, era redatto in termini identici all’unico paragrafo dell’articolo 1 della decisione 2015/1523 (istituzione di misure provvisorie). L’articolo 1, paragrafo 2, imponeva alla Commissione di tenere costantemente sotto osservazione la situazione concernente gli afflussi massicci di cittadini di paesi terzi e di presentare proposte volte a modificare detta decisione al fine di tener conto dell’evoluzione della situazione sul terreno e del suo impatto sul meccanismo di ricollocazione (41).

53.      Le definizioni di cui all’articolo 2 riflettevano quelle contenute nell’articolo 2 della decisione 2015/1523. Non le riprodurrò in questa sede.

54.      Anche l’articolo 3, rubricato «Ambito di applicazione», era redatto in termini analoghi all’articolo 3 della decisione 2015/1523.

55.      L’articolo 4 era rubricato «Ricollocazione di 120 000 richiedenti negli Stati membri». Esso disponeva quanto segue:

«1.      120 000 richiedenti sono ricollocati negli altri Stati membri come segue:

a)      dall’Italia sono ricollocati nel territorio degli altri Stati membri 15 600 richiedenti, in base alla tabella dell’allegato I;

b)      dalla Grecia sono ricollocati nel territorio degli altri Stati membri 50 400 richiedenti, in base alla tabella dell’allegato II;

c)      54 000 richiedenti sono ricollocati nel territorio di Stati membri proporzionalmente alle cifre di cui agli allegati I e II, conformemente al paragrafo 2 del presente articolo o mediante una modifica della presente decisione, come previsto all’articolo 1, paragrafo 2, e al paragrafo 3 del presente articolo.

2.      A decorrere dal 26 settembre 2016 i 54 000 richiedenti di cui al paragrafo 1, lettera c, sono ricollocati dall’Italia e dalla Grecia, nella proporzione risultante dal paragrafo 1, lettere a) e b), nel territorio di altri Stati membri proporzionalmente alle cifre di cui agli allegati I e II. La Commissione presenta una proposta al Consiglio sulle cifre che devono essere assegnate di conseguenza per Stato membro.

3.      Se entro il 26 settembre 2016 la Commissione ritiene che un adattamento del meccanismo di ricollocazione sia giustificato dall’evoluzione della situazione sul terreno o che uno Stato membro sia confrontato a una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi a seguito di un brusco spostamento dei flussi migratori e tenendo conto dei pareri del potenziale Stato membro beneficiario, può presentare, se del caso, al Consiglio le proposte di cui all’articolo 1, paragrafo 2.

3 bis.      Per quanto riguarda la ricollocazione dei richiedenti di cui al paragrafo 1, lettera c), gli Stati membri possono scegliere di adempiere ai loro obblighi ammettendo nel loro territorio cittadini siriani presenti in Turchia, a titolo di programmi nazionali o multilaterali di ammissione legale di persone in evidente bisogno di protezione internazionale diversi dal programma di reinsediamento oggetto delle conclusioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio del 20 luglio 2015. Il numero di persone ammesse a tale titolo da uno Stato membro comporta una riduzione corrispondente dell’obbligo dello Stato membro in questione.

L’articolo 10 si applica mutatis mutandis a ciascuna siffatta ammissione legale che comporta una riduzione dell’obbligo di ricollocazione.

Gli Stati membri che scelgono di ricorrere all’opzione di cui al presente paragrafo riferiscono mensilmente alla Commissione sul numero di persone legalmente ammesse ai fini del presente paragrafo, precisando il tipo di programma a titolo del quale l’ammissione ha avuto luogo e la forma di ammissione legale utilizzata» (42).

56.      L’allegato I elencava le quote per Stato membro di richiedenti protezione internazionale da ricollocare dall’Italia. L’allegato II elencava le quote per Stato membro di tali richiedenti da ricollocare dalla Grecia.

57.      L’articolo 5 prevedeva quanto segue:

«1.      Ai fini della cooperazione amministrativa necessaria per l’attuazione della presente decisione, ciascuno Stato membro designa un punto di contatto nazionale e ne trasmette l’indirizzo agli altri Stati membri e all’EASO. Gli Stati membri, in collegamento con l’EASO e altre agenzie competenti, adottano ogni misura idonea a instaurare una cooperazione diretta e uno scambio di informazioni tra le autorità competenti, anche circa i motivi di cui al paragrafo 7.

2.      Gli Stati membri, a intervalli regolari e almeno ogni tre mesi, indicano il numero di richiedenti che sono in grado di ricollocare rapidamente nel loro territorio e qualsiasi altra informazione pertinente.

3.      Basandosi su queste informazioni l’Italia e la Grecia, con l’assistenza dell’EASO e, se del caso, dei funzionari di collegamento degli Stati membri di cui al paragrafo 8, identificano i singoli richiedenti che potrebbero essere ricollocati negli altri Stati membri e presentano quanto prima tutte le informazioni pertinenti ai punti di contatto di quegli Stati membri. A tal fine è data priorità ai richiedenti vulnerabili ai sensi degli articoli 21 e 22 della direttiva 2013/33/UE.

4.      A seguito dell’approvazione dello Stato membro di ricollocazione, l’Italia e la Grecia prendono con la massima tempestività una decisione per ciascun richiedente identificato, che ne dispone la ricollocazione in uno specifico Stato membro di ricollocazione, d’intesa con l’EASO, e ne informano il richiedente a norma dell’articolo 6, paragrafo 4. Lo Stato membro di ricollocazione può decidere di non approvare la ricollocazione di un richiedente solo in presenza di fondati motivi, di cui al paragrafo 7 del presente articolo.

5.      I richiedenti a cui devono essere rilevate le impronte digitali in applicazione degli obblighi di cui all’articolo 9 del regolamento (UE) n. 603/2013 [(43)] possono essere proposti per la ricollocazione solo dopo il rilevamento delle impronte digitali e la loro trasmissione al sistema centrale di Eurodac, in applicazione di detto regolamento.

6.      Il trasferimento del richiedente verso il territorio dello Stato membro di ricollocazione è effettuato quanto prima dopo la data di notifica della decisione di ricollocazione all’interessato ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 4, della presente decisione. L’Italia e la Grecia trasmettono allo Stato membro di ricollocazione la data e l’ora del trasferimento, nonché qualsiasi altra informazione pertinente.

7.      Gli Stati membri conservano il diritto di rifiutare la ricollocazione del richiedente solo qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ovvero in presenza di seri motivi per applicare le disposizioni in materia di esclusione stabilite agli articoli 12 e 17 della direttiva 2011/95/UE.

8.      Ai fini dell’attuazione di tutti gli aspetti della procedura di ricollocazione descritta nel presente articolo, gli Stati membri, previo scambio di tutte le informazioni pertinenti, possono decidere di nominare funzionari di collegamento in Italia e Grecia.

9.      In linea con l’acquis dell’Unione, gli Stati membri attuano pienamente i rispettivi obblighi. Di conseguenza, Italia e Grecia garantiscono l’identificazione, la registrazione e il rilevamento delle impronte digitali per la procedura di ricollocazione. Per garantire che tale processo continui a essere efficiente e gestibile, sono debitamente approntate le strutture e le misure di accoglienza per dare temporaneamente alloggio alle persone, conformemente all’acquis dell’Unione, fino a quando sarà prontamente adottata una decisione sulla loro situazione. I richiedenti che eludono la procedura di ricollocazione sono esclusi dalla ricollocazione [(44)].

10.      La procedura di ricollocazione di cui al presente articolo è completata il più rapidamente possibile e non più tardi di due mesi dal momento in cui lo Stato membro di ricollocazione ha fornito le indicazioni di cui al paragrafo 2, salvo che l’approvazione da parte dello Stato membro di ricollocazione di cui al paragrafo 4 avvenga meno di due settimane prima della scadenza di tale periodo di due mesi. In tal caso il termine per il completamento della procedura di ricollocazione può essere prorogato per un periodo non superiore a due settimane. Inoltre il termine può essere prorogato per un ulteriore periodo di quattro settimane, come opportuno, ove l’Italia o la Grecia dimostrino la presenza di ostacoli pratici oggettivi che impediscono che il trasferimento abbia luogo.

Qualora la procedura di ricollocazione non sia completata entro il termine suddetto e a meno che l’Italia e la Grecia concordino con lo Stato membro di ricollocazione una proroga ragionevole del termine, l’Italia e la Grecia restano competenti per l’esame della domanda di protezione internazionale a norma del regolamento [Dublino III].

11.      In seguito alla ricollocazione del richiedente, lo Stato membro di ricollocazione ne rileva le impronte digitali e le trasmette al sistema centrale di Eurodac a norma dell’articolo 9 del regolamento [Dublino III] e aggiorna le serie di dati a norma dell’articolo 10 e, se del caso, dell’articolo 18 di detto regolamento».

58.      Ai sensi dell’articolo 10, per ciascuna persona ricollocata lo Stato membro di ricollocazione riceveva la somma forfettaria di EUR 6 000 mentre l’Italia o la Grecia (a seconda del caso) ricevevano la somma forfettaria pari ad almeno EUR 500.

59.      A norma dell’articolo 12, in base alle informazioni fornite dagli Stati membri la Commissione riferiva al Consiglio, ogni sei mesi, sull’attuazione della decisione 2015/1601.

60.      Ai sensi dell’articolo 13, la decisione 2015/1601 è entrata in vigore il 25 settembre 2015 ed è stata applicata fino al 26 settembre 2017.

61.      Da allora, la Commissione ha adottato 15 relazioni sulla ricollocazione e il reinsediamento, conformemente all’articolo 12 delle decisioni di ricollocazione e al punto 6 della comunicazione della Commissione del 4 marzo 2016 (Ritorno a Schengen - Tabella di marcia COM(2016) 120 final) (45).

 La sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio

62.      Il 2 e il 3 dicembre 2015, rispettivamente, la Slovacchia e l’Ungheria hanno presentato ricorso contro il Consiglio per l’annullamento della decisione 2015/1601 (46). La Slovacchia ha dedotto sei motivi, mentre l’Ungheria ne ha dedotti dieci.

63.      La Corte ha esaminato i motivi invocati suddividendoli in gruppi. Essa ha iniziato esaminando la censura secondo cui l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE non costituiva una base giuridica adeguata per la decisione 2015/1601. Tale valutazione è stata suddivisa nei seguenti elementi: i) il carattere legislativo di detta decisione; ii) il fatto se la decisione avesse o meno carattere temporaneo e se il suo periodo di applicazione fosse o meno eccessivo; e iii) il fatto se tale decisione soddisfacesse i presupposti per l’applicazione dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE.

64.      Successivamente, la Corte ha esaminato la legittimità della procedura di adozione della decisione 2015/1601. In tale contesto, essa ha analizzato i seguenti elementi: i) se il legislatore avesse violato l’articolo 68 TFUE; ii) se si fosse verificata una violazione di forme sostanziali, in particolare se fosse stato rispettato l’obbligo di consultazione del Parlamento; iii) se il Consiglio potesse non deliberare all’unanimità ai sensi dell’articolo 293, paragrafo 1, TFUE; iv) se fosse stato violato il diritto dei parlamenti nazionali di emettere un parere; e v) se il Consiglio, nell’adottare la decisione 2015/1601, avesse rispettato le norme del diritto dell’Unione sull’uso delle lingue.

65.      L’ultimo gruppo di motivi esaminati dalla Corte riguardava i motivi di merito dedotti dalla Slovacchia e dall’Ungheria. Essi includevano le seguenti censure: i) la presunta violazione del principio di proporzionalità; ii) l’asserita omessa considerazione degli effetti di tale decisione in Ungheria; e iii) la presunta violazione del principio di certezza del diritto e della convenzione di Ginevra.

66.      Nelle sue lunghe e accurate conclusioni, di 344 paragrafi, il mio stimato e compianto collega, avvocato generale Bot, ha suggerito alla Corte di respingere i ricorsi (47).

67.      Il 6 settembre 2017, in una sentenza altrettanto lunga e accurata, di 347 punti, la Grande Sezione ha respinto tutti i motivi e i ricorsi.

68.      Il procedimento precontenzioso di tutti e tre i presenti procedimenti di infrazione è stato avviato nell’estate del 2017, vale a dire prima della pronuncia della sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio (48). Tuttavia, i ricorsi proposti dinanzi alla Corte sono stati instaurati, rispettivamente, il 21 dicembre 2017 (Commissione/Polonia) e il 22 dicembre 2017 (Commissione/Ungheria e Commissione/Repubblica ceca), ossia a seguito della conferma della validità della decisione 2015/1601 da parte della Corte. Dunque, nel momento in cui è iniziata la procedura scritta dinanzi alla Corte la validità di tale decisione era pacifica.

69.      La questione essenziale nella serie di procedimenti di infrazione di cui alla presente causa può quindi essere riformulata come segue: ci si chiede se, dato che la decisione 2015/1601 è valida e, quindi, ha sempre prodotto effetti vincolanti nei confronti di tutti gli Stati membri destinatari, vi siano argomenti giuridici invocabili dai tre Stati membri convenuti per sottrarsi agli obblighi derivanti dalle decisioni di ricollocazione (49).

 Fatti

70.      Il 16 dicembre 2015 la Repubblica di Polonia si è impegnata, nei confronti della Commissione, ad accettare la ricollocazione di 100 richiedenti (65 dalla Grecia e 35 dall’Italia). Conseguentemente, la Grecia e l’Italia hanno individuato, rispettivamente, 73 e 36 richiedenti da ricollocare in Polonia. Tuttavia, la Commissione osserva (senza essere contraddetta dalla Polonia) che nessuno di tali richiedenti è stato ricollocato in Polonia, e che la Polonia non più assunto alcun impegno, nei confronti della Commissione, ad accogliere richiedenti.

71.      La Commissione afferma (senza essere contraddetta dall’Ungheria) che l’Ungheria non si è impegnata, nei confronti della Commissione, ad accogliere richiedenti ai sensi delle decisioni di ricollocazione.

72.      L’8 luglio 2015, vale a dire prima delle conclusioni del Consiglio GAI del 20 luglio 2015 (50), la Repubblica ceca ha adottato la risoluzione n. 556 concernente le ricollocazioni dalla Grecia e dall’Italia (51). Il 5 febbraio 2016 la Repubblica ceca si è impegnata nei confronti della Commissione ad accettare la ricollocazione di 30 richiedenti ai sensi della decisione 2015/1523. Il 13 maggio 2016 essa ha integrato tale impegno dichiarando che avrebbe accettato altri 20 richiedenti ai sensi della decisione 2015/1601. Su tale base, la Grecia e l’Italia hanno individuato, rispettivamente, 30 e 10 richiedenti da ricollocare nella Repubblica ceca. La Commissione sottolinea (ancora una volta, senza essere contraddetta dallo Stato membro) che dei richiedenti in tal modo proposti a fini di una ricollocazione, la Repubblica ceca ha accettato di accoglierne 15 provenienti dalla Grecia, dei quali 12 sono stati effettivamente ricollocati, e che nessun richiedente proveniente dall’Italia è stato accettato o ricollocato.

73.      Con lettere parallele del 10 febbraio 2016, indirizzate alla Polonia, all’Ungheria e alla Repubblica ceca, la Commissione ha invitato tali tre Stati membri ad avviare la ricollocazione dei migranti nel più breve tempo possibile e ad assicurare una rapida attuazione della procedura di ricollocazione.

74.      Il 4 marzo 2016 la Commissione ha adottato una comunicazione (fondata sull’articolo 12 delle decisioni di ricollocazione) dal titolo «Ritorno a Schengen - Tabella di marcia» (52). I passaggi che seguono, tratti dalle varie relazioni della Commissione sulla ricollocazione e il reinsediamento, unitamente alle affermazioni contenute nella corrispondenza con gli Stati membri, illustrano il successivo corso degli eventi.

75.      Nella prima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento, del 16 marzo 2016, la Commissione ha osservato che «solo 937 persone sono state ricollocate dall’Italia e dalla Grecia» e che «[i]l livello insoddisfacente di attuazione di entrambi i meccanismi è dovuto a una serie di fattori, tra cui la mancanza della volontà politica da parte degli Stati membri di rispettare in modo completo e tempestivo i propri obblighi giuridici in materia di ricollocazione» (53).

76.      Nella quarta relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento, del 15 giugno 2016, la Commissione ha osservato che «[c]inque Stati membri (Austria, Croazia, Ungheria, Polonia e Slovacchia) non hanno ricollocato alcun richiedente»; e che «sette (Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Germania, Lituania, Romania e Spagna) hanno ricollocato soltanto l’1% della rispettiva quota» (54).

77.      Con lettere parallele del 5 agosto 2016 indirizzate alla Polonia e alla Repubblica ceca, la Commissione ha chiesto a tali Stati membri di «onorare gli impegni [assunti] ai sensi delle [decisioni di ricollocazione] e di fornire urgentemente una risposta adeguata, impegnandosi più attivamente e con regolarità nelle ricollocazioni sia dall’Italia che dalla Grecia». Con lettera del 5 agosto 2016, la Commissione ha ricordato anche all’Ungheria, in termini analoghi, i suoi obblighi.

78.      Nel corso della presidenza maltese del Consiglio (da gennaio a giugno 2017), il 28 febbraio 2017 il ministro dell’Interno maltese e la Commissione hanno scritto una lettera congiunta ai ministri dell’Interno di tutti gli altri Stati membri (55). Nella lettera, essi affermavano: «in particolare, esortiamo gli Stati membri che non hanno ancora ricollocato persone o che non lo hanno fatto in proporzione alla rispettiva quota, a intensificare al più presto i loro sforzi, mentre incoraggiamo gli Stati membri che stanno adempiendo ai loro obblighi a perseverare nei loro sforzi».

79.      Il 1o marzo 2017, la Repubblica ceca ha risposto alla Commissione che essa considerava sufficiente la sua offerta iniziale di ricollocazione. Il 5 giugno 2017 la Repubblica ceca ha adottato la risoluzione n. 439, relativa al «significativo deterioramento della situazione in materia di sicurezza nell’Unione europea e al malfunzionamento del sistema di ricollocazione», che ha sospeso la sua precedente risoluzione n. 556 relativa alle ricollocazioni dalla Grecia e dall’Italia ai sensi della decisione 2015/1523. Inoltre, la risoluzione n. 439 ha sospeso le ricollocazioni ai sensi della decisione 2015/1601 e ha incaricato il ministro dell’Interno di cessare le attività nei settori interessati. Per giustificare le misure adottate, la risoluzione n. 439 ha fatto riferimento al «malfunzionamento del sistema [di ricollocazione]».

80.      Nella decima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento, del 2 marzo 2017, la Commissione ha osservato che «[l]’Ungheria, l’Austria e la Polonia continuano a rifiutarsi di partecipare al meccanismo di ricollocazione. La Repubblica ceca non ha assunto alcun impegno da maggio 2016 e non ha ricollocato nessun migrante da agosto 2016» (56).

81.      Nella quindicesima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento, del 6 settembre 2017, la Commissione ha osservato che «l’Ungheria e la Polonia rimangono gli unici paesi a non aver ancora effettuato alcuna ricollocazione; la Polonia non assume impegni dal 16 dicembre 2015. Analogamente, la Repubblica ceca non assume impegni dal maggio 2016 e non effettua ricollocazioni dall’agosto 2016. Questi paesi dovrebbero cominciare immediatamente a impegnarsi e ad attuare ricollocazioni» (57).

 Procedimento dinanzi alla Corte

82.      Conformemente alla procedura di cui all’articolo 258 TFUE, la Commissione ha inviato lettere di messa in mora a tutti e tre gli Stati membri convenuti (58). Successivamente, alla luce delle loro risposte, il 26 luglio 2017 ha inviato a tutti e tre gli Stati membri un parere motivato, fissando al 23 agosto 2017 la data entro la quale tali Stati membri dovevano conformarvisi. Ciò non è avvenuto.

83.      Con lettere del 19 settembre 2017, la Commissione ha ricordato alla Polonia, all’Ungheria e alla Repubblica ceca che «la Corte di giustizia dell’Unione europea ha recentemente confermato la legittimità delle misure di ricollocazione» nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio. La Commissione ha invitato i tre Stati membri convenuti «ad adottare rapidamente le misure necessarie per contribuire alla ricollocazione tempestiva dei restanti richiedenti, iniziando con l’indicazione delle persone da ricollocare nel proprio territorio».

84.      Nessuno degli Stati membri convenuti ha risposto alla Commissione.

85.      La Commissione ha quindi proposto i presenti ricorsi il 21 dicembre 2017 (causa C‑715/17, Commissione/Polonia) e il 22 dicembre 2017 (cause C‑718/17, Commissione/Ungheria e C‑719/17, Commissione/Repubblica ceca).

86.      Nella causa C‑715/17, Commissione/Polonia, la Commissione chiede di dichiarare che la Polonia è venuta meno ai suoi obblighi ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione di indicare, a intervalli regolari e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che era in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio e qualsiasi altra informazione pertinente e, conseguentemente, agli ulteriori obblighi di cui all’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, di tali due decisioni.

87.      Nella causa C‑718/17, Commissione/Ungheria, la Commissione chiede di dichiarare che l’Ungheria è venuta meno ai suoi obblighi ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601 e, conseguentemente, agli ulteriori obblighi di cui all’articolo 5, paragrafi da 4 a 11 di tale decisione.

88.      Nella causa C‑719/17, Commissione/Repubblica ceca, la dichiarazione richiesta dalla Commissione è espressa negli stessi termini di quella di cui alla causa C‑715/17, Commissione/Polonia.

89.      Le tre cause sono state oggetto di una fase scritta del procedimento completa.

90.      Il 15 maggio 2019 si è tenuta un’udienza congiunta. La Polonia, l’Ungheria, la Repubblica ceca e la Commissione hanno partecipato all’udienza e hanno presentato osservazioni orali.

 Ricevibilità

91.      I tre Stati membri convenuti contestano la ricevibilità dei procedimenti di infrazione avviati nei loro confronti. In sostanza, essi deducono quattro categorie di argomenti: i) l’assenza di oggetto dei presenti procedimenti, la mancanza di interesse ad agire e la violazione del principio di buona amministrazione della giustizia; ii) la violazione del principio di parità di trattamento; iii) la violazione dei diritti della difesa, poiché non è stato concesso loro, durante il procedimento precontenzioso, un periodo di tempo adeguato per rispondere e poiché la denuncia della Commissione manca di sufficiente precisione; e iv) (nella causa C‑719/17, Commissione/Repubblica ceca) l’insufficiente precisione delle conclusioni (il petitum) nel ricorso della Commissione.

92.      Mi occuperò, dunque, di queste quattro categorie di argomenti, al fine di valutare la ricevibilità dei ricorsi presentati dalla Commissione nelle presenti cause.

 Sullassenza di oggetto, sulla mancanza dinteresse ad agire e sulla violazione del principio di buona amministrazione della giustizia

93.      I tre Stati membri convenuti sostengono che i procedimenti avviati dalla Commissione nei loro confronti sono irricevibili per assenza di oggetto, poiché gli obblighi creati dall’articolo 5, paragrafi 2 e da 4 a 11 della decisione 2015/1523 e della decisione 2015/1601 sono venuti meno, in via definitiva, rispettivamente, il 17 e il 26 settembre 2016.

94.      La Polonia (causa C‑715/17) rileva che la presunta infrazione ha cessato di esistere a partire dal 18 e dal 27 settembre 2017, con riguardo, rispettivamente, a ciascuna delle decisioni di ricollocazione. Pur riconoscendo che, nell’ambito di un ricorso fondato sull’articolo 258 TFUE, l’esistenza di un inadempimento deve essere valutata alla luce della legislazione dell’Unione in vigore alla scadenza del termine impartito dalla Commissione allo Stato membro interessato per conformarsi al suo parere motivato (59) (nella fattispecie, il 23 agosto 2017), la Polonia ritiene che tale ricorso debba avere l’oggetto di porre fine all’infrazione. La Polonia sostiene che, poiché le decisioni di ricollocazione sono scadute e gli Stati membri interessati non possono più porre rimedio al loro inadempimento, il presente ricorso è privo di oggetto. La Polonia sostiene inoltre che, non essendovi un possibile rimedio alla presunta violazione, la sentenza della Corte può avere soltanto un effetto dichiarativo.

95.      L’Ungheria e la Repubblica ceca hanno adottato un approccio analogo nelle loro memorie scritte e in udienza.

96.      Secondo l’Ungheria (causa C‑718/17), siffatto utilizzo del procedimento di infrazione è improprio, abusivo e contrario al principio di buona amministrazione della giustizia, poiché può condurre soltanto a una constatazione di principio priva di effetti giuridici concreti. La Repubblica ceca (causa C‑719/17) aggiunge che l’oggetto del procedimento di infrazione non è di tenere una «discussione accademica» sulla questione se, in passato, uno Stato membro abbia o meno violato il diritto dell’Unione.

97.      Analogamente, i tre Stati membri convenuti sostengono che la Commissione non ha dimostrato un sufficiente interesse ad agire e che la sua azione persegue un mero obiettivo politico, vale a dire «stigmatizzare» gli Stati membri che hanno apertamente contestato il meccanismo di ricollocazione istituito dalle decisioni di ricollocazione (60). Essi affermano che, così facendo, la Commissione ha ignorato lo spirito dell’articolo 258 TFUE.

98.      Respingo tali osservazioni.

99.      Secondo una giurisprudenza costante della Corte, il procedimento di cui all’articolo 258 TFUE si basa sull’accertamento oggettivo dell’inosservanza da parte di uno Stato membro degli obblighi impostigli dal diritto dell’Unione (61).

100. Le sentenze pronunciate dalla Corte ai sensi di tale disposizione possiedono essenzialmente natura dichiarativa (62). In quanto tale, la finalità del procedimento dinanzi alla Corte non è, di per sé, quello di eliminare la presunta infrazione. La Corte si limita a dichiarare che lo Stato membro è venuto meno agli obblighi ad esso incombenti o respinge il ricorso. Una volta accertata l’infrazione, la Corte non emette un’ingiunzione nei confronti dello Stato membro interessato. Spetta a quest’ultimo, a seconda dei casi, adottare misure atte a garantire il rispetto del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art 260, paragrafo 1, TFUE.

101. Inoltre, secondo una giurisprudenza costante, l’esistenza di un inadempimento dev’essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato, cosicché la Corte non può tenere conto dei mutamenti successivi (63). Pertanto, la Commissione può adire la Corte di giustizia anche se l’asserito inadempimento è praticamente cessato (64).

102. La giurisprudenza invocata dalla Polonia nelle sue memorie scritte non è pertinente. La causa C‑365/97 (Commissione/Italia) (65) riguardava una situazione in cui il diritto dell’Unione applicabile era stato modificato nel corso del procedimento precontenzioso. Nel caso di specie, le decisioni di ricollocazione sono rimaste inalterate fino alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato. Il fatto che tali decisioni siano successivamente scadute non ha alcuna attinenza con il fatto che i tre Stati membri convenuti non abbiano rispettato (come da essi ammesso) i requisiti di tali decisioni. Nella causa C‑177/03, Commissione/Francia (66), la normativa nazionale in questione era stata modificata tra la scadenza del termine fissato per ottemperare al parere motivato e la presentazione del ricorso per inadempimento, così da «privare di una parte significativa della sua utilità» la sentenza da emettere. La Corte ha ritenuto che, in una situazione del genere, sarebbe preferibile che la Commissione non proponesse un ricorso, bensì «emettesse un nuovo parere motivato, precisando gli addebiti che intende mantenere alla luce delle circostanze modificate» (67). È evidente che tale giurisprudenza non è applicabile alle circostanze della presente causa.

103. Poiché è pacifica l’esistenza di una violazione delle decisioni di ricollocazione al momento della scadenza del termine stabilito nel parere motivato (23 agosto 2017), la Commissione è legittimata a proporre un ricorso per inadempimento ai sensi di tali decisioni e a chiedere alla Corte di dichiarare l’esistenza di un tale inadempimento. Poiché, nel frattempo, le decisioni di ricollocazione sono scadute, gli Stati membri convenuti non saranno tenuti ad adottare misure specifiche per conformarsi al diritto dell’Unione. Ciò non significa che la controversia sia priva di oggetto.

104. Conformemente a una giurisprudenza costante della Corte, la Commissione non è tenuta a dimostrare l’esistenza di un interesse ad agire né a indicare i motivi che l’hanno indotta a proporre un ricorso per inadempimento (68). È vero che la Corte ha ritenuto che, in caso di infrazione commessa in passato, essa è chiamata a stabilire «se l’azione rivesta ancora sufficiente interesse» per la Commissione (69). In questo caso, come la Commissione ha giustamente sottolineato, la controversia tra essa e i tre Stati membri convenuti solleva questioni fondamentali, in particolare se si possa invocare l’articolo 72 TFUE per esimere gli Stati membri dagli obblighi altrimenti vincolanti discendenti dal diritto derivato dell’Unione.

105. Più in generale, i presenti procedimenti sollevano legittime e importanti questioni sul rispetto dello Stato di diritto, del principio di solidarietà, della politica comune in materia di asilo e del ruolo della Commissione quale custode dei trattati. A prescindere dal fatto che l’infrazione sia stata commessa o meno in passato, tali questioni conservano tutta la loro rilevanza. Non si tratta affatto, come suggerito dalla Repubblica ceca, di un dibattito «accademico». Purtroppo, la futura gestione delle migrazioni di massa potrebbe causare problemi simili a quelli che hanno condotto all’adozione delle decisioni di ricollocazione. A mio avviso, è quindi pacifico l’interesse della Commissione all’accertamento delle infrazioni e al chiarimento degli obblighi che incombono agli Stati membri (70)

106. Ritengo pertanto che i ricorsi presentati dalla Commissione nelle presenti cause non siano privi di oggetto. La Commissione ha un interesse sufficiente ad agire e il suo approccio non può essere considerato contrario al principio di buona amministrazione della giustizia.

 Violazione del principio della parità di trattamento

107. L’Ungheria (causa C‑718/17) sostiene che, avviando procedimenti di infrazione soltanto nei confronti dei tre Stati membri convenuti, sebbene la grande maggioranza degli Stati membri non abbia rispettato pienamente gli obblighi definiti dalle decisioni di ricollocazione, la Commissione ha violato il principio della parità di trattamento di cui all’articolo 4, paragrafo 2, TUE e ha abusato del potere discrezionale di cui gode ai sensi dell’articolo 258 TFUE.

108. L’Ungheria sostiene, in particolare, che la Commissione ha selezionato arbitrariamente e in modo discriminatorio il gruppo di Stati membri soggetti al procedimento per infrazione. Se la Commissione avesse adottato un approccio obiettivo, avrebbe avviato tali procedimenti nei confronti di tutti gli Stati membri che non si erano conformati pienamente agli obblighi derivanti dalle decisioni di ricollocazione, poiché tutti questi Stati si trovavano in una situazione comparabile. Nell’avanzare siffatto argomento, l’Ungheria adotta, quindi, un approccio binario. Si dovrebbero prendere in considerazione soltanto due gruppi di Stati: quelli che hanno adempiuto pienamente ai loro obblighi e quelli che non vi si sono conformati, indipendentemente dalla maggiore o minore gravità dell’inadempimento (71). Concentrandosi sulla Polonia, l’Ungheria e la Repubblica ceca, la Commissione starebbe cercando di trasformare questi Stati membri in (cito testualmente) «capri espiatori», destinati a pagare per il «fallimento» del sistema di ricollocazione introdotto dalle decisioni di ricollocazione.

109. La Polonia (causa C‑715/17) adotta una posizione analoga a quella dell’Ungheria per quanto concerne tali questioni.

110. Respingo questo ragionamento.

111. Secondo una giurisprudenza costante, la Commissione gode di un ampio margine di discrezionalità nella decisione di avviare un procedimento di infrazione ai sensi dell’articolo 258 TFUE: «spetta alla Commissione valutare l’opportunità di agire contro uno Stato membro, determinare le disposizioni che esso avrebbe violato e scegliere il momento in cui essa inizierà il procedimento di inadempimento nei suoi confronti, laddove le considerazioni che determinano tale scelta non possono influenzare la ricevibilità dell’azione» (72).

112. Pertanto, il fatto che non sia stato proposto un ricorso per inadempimento nei confronti di uno Stato membro non è pertinente per valutare la ricevibilità di un ricorso per inadempimento presentato nei confronti di un altro Stato membro (73).

113. Inoltre, la Corte ha chiaramente affermato che «uno Stato membro non può giustificare l’inadempimento degli obblighi che gli incombono in forza del [TFUE] adducendo il fatto che anche altri Stati membri verrebbero meno ai loro obblighi». Nell’ordinamento giuridico dell’Unione, l’attuazione del diritto dell’Unione da parte degli Stati membri non può essere soggetta a una condizione di reciprocità. Gli articoli 258 TFUE e 259 TFUE prevedono i mezzi di ricorso idonei a fronteggiare i casi in cui gli Stati membri non rispettano gli obblighi loro incombenti in forza del TFUE (74).

114. Sia l’Ungheria che la Polonia hanno dichiarato che, sollevando tali argomenti, non intendono invocare l’inosservanza da parte di altri Stati membri degli obblighi ad essi incombenti in virtù del diritto dell’Unione quale giustificazione per le proprie violazioni di tali obblighi. Tali semplici dichiarazioni non mi convincono. Dalle memorie scritte di entrambi tali Stati membri risulta che essi intendono specificamente invocare carenze generalizzate nell’applicazione del sistema di ricollocazione, tanto al fine di contestare la ricevibilità dei procedimenti avviati nei loro confronti, quanto al fine di giustificare il loro rifiuto di attuare le decisioni di ricollocazione. Siffatte carenze generalizzate, se accertate, inciderebbero (ipoteticamente) sulla capacità di tutti gli Stati membri di conformarsi alle decisioni di ricollocazione. Inoltre, sia l’Ungheria che la Polonia invocano (attraverso il loro argomento concernente la discriminazione) il fatto che molti altri Stati membri non hanno adempiuto pienamente agli obblighi derivanti da tali decisioni.

115. Ci si chiede se la Commissione abbia abusato del suo margine di discrezionalità nell’esercizio delle sue competenze. Più precisamente, ci si chiede se si possa ragionevolmente affermare che i tre Stati membri convenuti si trovavano in una situazione comparabile a quella degli altri Stati membri e se la Commissione abbia manifestamente abusato della sua discrezionalità, riservando così un trattamento differenziato ingiustificato ai tre Stati membri interessati.

116. A mio avviso, la risposta a tale questione è negativa.

117. Come sottolineato dalla Commissione nelle sue memorie scritte e oralmente, i tre Stati membri convenuti erano gli unici a non aver assunto alcun impegno formale di ricollocazione (Ungheria) o a non aver assunto alcun impegno di ricollocazione per almeno un anno (Polonia e Repubblica ceca) ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione, nonostante le ripetute richieste della Commissione. La dodicesima e la tredicesima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento offrono numerose prove di tali fatti.

118. Ne consegue che i tre Stati membri convenuti si trovano in una situazione che può essere distinta, per la gravità e la persistenza del loro inadempimento, dalla situazione degli altri Stati membri che, perlomeno, si sono impegnati a ricollocare un determinato numero di richiedenti protezione internazionale, anche se (purtroppo) tali impegni non si sono sistematicamente concretizzati, nella pratica, in ricollocazioni effettive (75).

119. Ritengo pertanto che la Commissione non abbia superato i limiti della discrezionalità ad essa conferita dall’articolo 258 TFUE proponendo ricorsi per inadempimento nei confronti della Polonia, dell’Ungheria e della Repubblica ceca e non proponendo ricorsi di questo tipo anche nei confronti di altri Stati membri che non hanno adempiuto pienamente agli obblighi stabiliti dalle decisioni di ricollocazione.

120. Infine, vorrei fare riferimento, in questa sede, a un argomento supplementare dedotto dall’Ungheria nelle sue memorie scritte. Tale Stato membro chiede se sia effettivamente possibile esigere il rispetto degli obblighi derivanti dalla decisione 2015/1601 in assenza del pieno rispetto degli obblighi imposti dalla decisione 2015/1523. Per quanto concerne l’Ungheria, tale argomento mi sembra del tutto irrilevante. L’Ungheria è stata interessata soltanto dalla decisione 2015/1601 e il procedimento di infrazione avviato nei suoi confronti riguarda unicamente l’inosservanza degli obblighi ad essa incombenti in virtù di tale decisione.

121. Ritengo pertanto che gli argomenti concernenti la ricevibilità basati sulla violazione del principio della parità di trattamento dovrebbero essere respinti.

 Violazione dei diritti della difesa

122. L’Ungheria (causa C‑718/17) sostiene che la Commissione ha violato i suoi diritti di difesa durante il procedimento precontenzioso: i) concedendole solo quattro settimane per rispondere sia alla lettera di messa in mora che al parere motivato e ii) non avendo definito chiaramente l’asserito inadempimento, in quanto la Commissione non avrebbe spiegato adeguatamente il nesso tra l’asserita violazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601 e le asserite violazioni dell’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, della stessa.

 Termini per rispondere alle lettere della Commissione nel procedimento precontenzioso

123. L’Ungheria riconosce che, nell’ambito del procedimento di infrazione, la Commissione dispone, indubbiamente, di un ampia discrezionalità nella fissazione dei termini delle varie fasi procedurali. Tuttavia, essa ritiene che, nel caso di specie, la Commissione abbia abusato del suo potere discrezionale. L’Ungheria sostiene che la Commissione ha fissato termini «estremamente brevi» nel pieno dell’estate, senza tener conto del fatto che l’Ungheria stava affrontando, nel medesimo periodo, altri procedimenti di infrazione. L’Ungheria ritiene che tale modus operandi era inteso a «rendere impossibile», per l’Ungheria, esercitare i suoi diritti di difesa.

124. L’Ungheria sostiene, inoltre, che la Commissione non poteva invocare una situazione di urgenza che essa stessa aveva creato, non avendo agito in precedenza, e che la Commissione aveva ridotto i termini soltanto per garantire che il procedimento di infrazione che essa intendeva comunque portare dinanzi alla Corte prima della fine dell’anno fosse ricevibile (76).

125. Infine, l’Ungheria sostiene che la brevità dei termini non può essere giustificata dal fatto che essa fosse pienamente consapevole dell’asserito inadempimento.

126. Concordo con la Commissione sul fatto che i diritti di difesa dell’Ungheria non sono stati violati a causa della brevità dei termini fissati durante il procedimento precontenzioso.

127. La Corte ha chiarito che il procedimento precontenzioso di cui all’articolo 258 TFUE ha un duplice scopo. Esso mira ad offrire allo Stato membro interessato l’opportunità, da un lato, di conformarsi agli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto dell’Unione e, dall’altro, di sviluppare un’utile difesa contro gli addebiti formulati dalla Commissione (77). La regolarità di tale procedimento costituisce una garanzia essenziale prevista dal TFUE, non soltanto a tutela dei diritti dello Stato membro di cui trattasi, ma anche per garantire che l’eventuale procedimento contenzioso verta su una controversia chiaramente definita (78). Il procedimento precontenzioso (lettera di messa in mora, seguita dal parere motivato) ha quindi lo scopo di circoscrivere l’oggetto della controversia e di consentire allo Stato membro di preparare la sua difesa, nonché (aspetto importante), di consentire allo Stato membro di conformarsi ai suoi obblighi prima che sia adita la Corte.

128. La Commissione è tenuta, dunque, a concedere agli Stati membri un termine ragionevole per rispondere alla lettera di messa in mora e conformarsi al parere motivato o, eventualmente, per preparare la loro difesa. Per valutare la ragionevolezza del termine impartito, si deve tener conto del complesso delle circostanze caratterizzanti la fattispecie che viene in rilievo. Termini molto brevi possono così ammettersi in situazioni specifiche, in particolare quando vi sia l’urgenza di porre rimedio a un inadempimento o quando lo Stato membro interessato sia pienamente a conoscenza del punto di vista della Commissione ben prima che venga avviato il procedimento (79).

129. Ricordo, inoltre, che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, spetta alla Commissione «scegliere il momento in cui essa inizierà il procedimento di inadempimento [nei confronti di uno Stato membro], laddove le considerazioni che determinano tale scelta non possono influenzare la ricevibilità dell’azione» (80).

130. Per quanto riguarda l’urgenza, rilevo che le decisioni di ricollocazione sono state adottate in risposta a una situazione particolarmente critica e pressante di migrazione di massa, che giustifica l’adozione delle misure provvisorie previste da tali decisioni.

131. La Commissione ha spiegato di aver adottato un approccio collaborativo per incoraggiare gli Stati membri ad attuare volontariamente le misure previste dalle decisioni di ricollocazione. La Commissione ha inoltre inteso tener conto del tempo necessario a ciascuno Stato membro per prepararsi al processo di ricollocazione, che ha comportato, come essa ha giustamente sottolineato, procedure amministrative complesse, che richiedono una stretta cooperazione tra gli Stati membri.

132. Le relazioni della Commissione sulla ricollocazione e il reinsediamento hanno richiamato l’attenzione degli Stati membri sui loro obblighi a intervalli regolari.

133. Logicamente, quindi, è proprio perché la Commissione ha scelto di incoraggiare gli Stati membri a conformarsi volontariamente alle decisioni di ricollocazione che essa non ha avviato procedimenti di infrazione precedentemente, nel corso del periodo di 24 mesi per l’attuazione delle decisioni di ricollocazione. Nel maggio 2017 si era effettivamente manifestata l’urgenza di prendere in considerazione l’avvio di procedimenti di infrazione. Tale fatto non era imputabile alla Commissione, bensì al persistente rifiuto dei tre Stati membri convenuti di adempiere ai loro obblighi. Pertanto, la Commissione non può essere accusata di aver «invocato una situazione di urgenza che essa stessa aveva creato» omettendo di avviare in precedenza il procedimento precontenzioso. Per questo motivo, il richiamo dell’Ungheria alla causa 293/85, Commissione/Belgio (81), non è pertinente.

134. Ricordo inoltre che, nella causa C‑20/09, Commissione/Portogallo, la Corte ha ritenuto che la Commissione ha il compito di vigilare d’ufficio e nell’interesse generale sull’applicazione, da parte degli Stati membri, del diritto dell’Unione e di far dichiarare l’esistenza di eventuali inadempimenti degli obblighi che ne derivano, allo scopo di farli cessare (82). Ne consegue che la Commissione era legittimata a garantire, in questo caso fissando termini adeguati (brevi) per il procedimento precontenzioso, che i tre Stati membri convenuti fossero chiamati a rispondere dinanzi alla Corte della loro libera scelta di non attuare le decisioni di ricollocazione (83).

135. I brevi termini fissati dalla Commissione risultano inoltre giustificati dal fatto che i tre Stati membri convenuti erano pienamente consapevoli della posizione della Commissione ben prima dell’avvio formale del procedimento di infrazione (84). La Commissione aveva invitato l’Ungheria a rispettare gli obblighi derivanti dalla decisione 2015/1601 in varie distinte lettere e nella sua serie di relazioni mensili, prima di inviare la lettera di messa in mora. La dodicesima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento (adottata il 16 maggio 2017) ha reso chiaro a tutti gli Stati membri che la Commissione aveva l’intenzione di avviare procedimenti di infrazione in caso di inadempimento persistente (85).

136. Infine, l’argomento secondo cui si dovrebbe considerare il fatto che il procedimento precontenzioso si è svolto nel periodo estivo, quando l’Ungheria era impegnata a difendersi nell’ambito di altri procedimenti di infrazione, mi sembra privo di fondamento. Uno Stato membro deve disporre dei meccanismi amministrativi necessari per preparare la sua difesa in procedimenti precontenziosi in qualsiasi momento dell’anno, qualora ciò sia necessario. Ciò vale, a maggior ragione, in questo caso, in cui l’intenzione della Commissione di avviare un procedimento di infrazione era nota da settimane.

137. Ritengo che i termini fissati dalla Commissione nella fase precontenziosa del presente procedimento di infrazione non erano eccessivamente brevi e non erano tali da pregiudicare l’esercizio dei diritti della difesa dell’Ungheria.

 Definizione dell’infrazione contestata

138. L’Ungheria contesta alla Commissione di non aver definito tempestivamente la presunta infrazione e, in particolare, di non aver spiegato il motivo per cui, oltre a contestare una violazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601, essa contesta anche una violazione dell’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, della stessa.

139. In particolare, l’Ungheria sostiene di non essere stata in grado di comprendere il nesso tra la violazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601 (impegni concernenti il numero di richiedenti da ricollocare) e la violazione dell’articolo 5, paragrafi da 4 a 11 (la successiva effettuazione delle ricollocazioni). L’Ungheria lamenta il fatto che la Commissione non ha fornito, nel suo parere motivato, una spiegazione dettagliata del collegamento tra le due violazioni e, quindi, non ha definito chiaramente l’infrazione contestata all’Ungheria. Tale mancanza di chiarezza sarebbe stata aggravata dal fatto che il parere motivato inviato all’Ungheria conteneva riferimenti erronei alla decisione 2015/1523, che l’Ungheria considera irrilevanti, (presumibilmente ciò è avvenuto perché i pareri motivati relativi alla Polonia e alla Repubblica ceca sono stati redatti in parallelo e a tali due Stati membri veniva contestata sia la violazione della decisione 2015/1523 sia della decisione 2015/1601).

140. Rilevo che tanto la parte finale della lettera di messa in mora quanto quella del parere motivato indirizzati all’Ungheria richiamavano sia l’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, della decisione 2015/1601, sia l’articolo 5, paragrafo 2, della stessa. Anche a rischio di constatare un’ovvietà, osservo che l’obiettivo delle decisioni di ricollocazione era quello di consentire la ricollocazione effettiva dei richiedenti giunti sul territorio italiano e greco. L’assunzione di un impegno ad accettare un determinato numero di candidati era certamente obbligatoria, ma si trattava soltanto di un primo passo nel processo di ricollocazione; tale passo non era di per sé sufficiente. Ciò emerge con grande chiarezza anche dalla serie di relazioni sulla ricollocazione e il reinsediamento. Pertanto, l’argomento secondo cui la violazione dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601 implicava, de facto, anche la violazione dell’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, avrebbe dovuto essere evidente a qualsiasi lettore in buona fede (86).

141. I tre Stati membri convenuti hanno invocato esplicitamente, in particolare nel corso dell’udienza, che il loro status era quello di «ribelli», che intendevano tener testa e opporsi all’attuazione del meccanismo di ricollocazione. La Commissione non smentisce tale ricostruzione degli eventi che hanno condotto al presente procedimento. Tuttavia, dalla posizione che tali Stati membri hanno scelto di adottare discende anche la difficoltà di dare credito alla tesi dell’Ungheria secondo cui essa non sarebbe stata a conoscenza della portata della violazione della decisione 2015/1601 che le poteva essere contestata.

142. Infine, è certamente riprovevole il fatto che nel parere motivato indirizzato all’Ungheria siano stati inseriti riferimenti estranei alla decisione 2015/1523. Sembra probabile che tali errori siano derivati dall’uso del «copia-incolla» durante la preparazione simultanea dei tre pareri motivati da inviare alla Polonia, all’Ungheria e alla Repubblica ceca. Non ritengo che i suddetti errori siano tali da rendere incomprensibili le violazioni contestate all’Ungheria nel parere motivato. Dunque, non ritengo che l’esercizio del diritto di difesa dell’Ungheria sia stato pregiudicato.

143. Ritengo pertanto che l’argomento dell’Ungheria dovrebbe essere respinto nella sua interezza nella misura in cui riguarda la violazione dei diritti della difesa.

 Nella causa C719/17, insufficiente precisione delle conclusioni (petitum)

144. Sia nella lettera di messa in mora, sia nel parere motivato indirizzati alla Repubblica ceca, la Commissione ha fissato la data di inizio dell’infrazione al 13 agosto 2016. Nel suo ricorso, la Commissione ha sottolineato che, dalla sua notifica del 13 maggio 2016, la Repubblica ceca non ha fornito ulteriori indicazioni sul numero di richiedenti che poteva ricollocare, nonostante fosse tenuta a farlo almeno una volta ogni tre mesi. La Commissione ha ritenuto, pertanto, che la Repubblica ceca avesse omesso di adempiere ai suoi obblighi a decorrere dal 13 agosto 2016 (87). Tuttavia, nel ricorso, il petitum non specifica la data di inizio dell’infrazione (88). In un documento procedurale successivo, la Commissione ha fatto riferimento al 13 agosto 2016 come alla data di inizio dell’infrazione.

145. La Repubblica ceca sostiene che la formulazione del petitum rende impossibile determinare la portata dell’infrazione che le viene contestata (89). Essa sostiene, inoltre, che le memorie scritte della Commissione sono ambigue quanto al fatto se l’infrazione sia iniziata il 13 maggio 2016 o il 13 agosto 2016.

146. A mio avviso, le obiezioni sollevate dalla Repubblica ceca sono infondate.

147. Secondo una giurisprudenza costante della Corte, «il ricorso deve indicare l’oggetto della controversia, i motivi e gli argomenti dedotti nonché l’esposizione sommaria di detti motivi. Tale indicazione dev’essere sufficientemente chiara e precisa per consentire alla parte convenuta di preparare la sua difesa e alla Corte di esercitare il suo controllo. Ne discende che gli elementi essenziali di fatto e di diritto sui quali si fonda un ricorso devono emergere in modo coerente e comprensibile dal testo del ricorso stesso e che le conclusioni di quest’ultimo devono essere formulate in modo inequivoco al fine di evitare che la Corte statuisca ultra petita ovvero ometta di pronunciarsi su una censura» (90).

148. A mio avviso, dal testo del ricorso risulta chiaramente che l’ultima notifica effettuata dalla Repubblica ceca ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione è datata 13 maggio 2016. Poiché tale disposizione imponeva agli Stati membri di effettuare tali notifiche almeno ogni tre mesi, si può logicamente dedurre che l’infrazione è iniziata tre mesi dopo tale data, ossia il 13 agosto 2016. La Commissione aveva effettivamente indicato tale data precisa tanto nella lettera di messa in mora quanto nel parere motivato e l’ha confermata nelle sue successive memorie scritte dinanzi alla Corte. Il collegamento logico tra il 13 maggio 2016 e il 13 agosto 2016 risulta espressamente dal ricorso della Commissione (91).

149. È certamente riprovevole il fatto che nel petitum non si faccia espresso riferimento al 13 agosto 2016. Ciò detto, il testo del ricorso contiene tuttavia gli elementi essenziali di fatto e di diritto su cui si fonda l’azione. Tali elementi sono esposti in modo coerente e comprensibile e non sono contraddetti dalla corrispondenza scambiata durante il procedimento precontenzioso (92). In tali circostanze, nonostante la suddetta omissione nel petitum, non rilevo alcun rischio reale che la Corte possa statuire ultra petita o non pronunciarsi su una censura.

150. Non condivido neppure l’opinione della Repubblica ceca secondo cui le affermazioni della Commissione in merito alla data di inizio dell’infrazione sono formulate in modo ambiguo o contraddittorio. Le date indicate dalla Commissione nelle sue memorie scritte sono coerenti e non possono creare confusione nella mente di chiunque legga attentamente e in buona fede.

151. Ritengo che l’argomento della Repubblica ceca (causa C‑719/17) concernente l’insufficiente precisione del petitum dovrebbe essere respinto in quanto infondato.

 Conclusione sulla ricevibilità

152. Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo che i ricorsi per inadempimento proposti contro i tre Stati membri convenuti siano ricevibili.

 Merito

 Osservazioni preliminari

153. L’esaustiva analisi della decisione 2015/1601 da parte della Corte nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio ha condotto al rigetto del ricorso di annullamento di tale misura. Avverso la precedente decisione 2015/1523 non è stata proposta alcuna censura entro il termine previsto. Come necessaria conseguenza dell’esame della decisione 2015/1601 da parte della Grande Sezione, se fosse stato proposto un ricorso fondato su argomenti analoghi avverso la decisione 2015/1523, esso avrebbe avuto la medesima sorte.

154. Le decisioni di ricollocazione devono pertanto essere considerate incontestabilmente intra vires e valide. I tre Stati membri convenuti accettano tale conclusione nei presenti procedimenti (93).

155. Entrambe le decisioni di ricollocazione costituivano misure temporanee adottate ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE. Come chiarito dalla Corte nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, «(…) misure suscettibili di essere adottate sul fondamento dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE devono essere qualificate come “atti non legislativi”, in quanto esse non vengono adottate all’esito di una procedura legislativa» (94).

156. L’articolo 288 TFUE stabilisce che «[l]a decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari è obbligatoria soltanto nei confronti di questi». Le decisioni di ricollocazione non designavano destinatari. Esse erano obbligatorie in tutti i loro elementi e hanno chiaramente imposto obblighi giuridici in capo ai tre Stati membri convenuti.

157. Un inadempimento da parte di uno Stato membro (o, a fortiori, il rifiuto di adempiere) agli obblighi giuridici derivanti dalle decisioni di ricollocazione causa necessariamente un impatto negativo sull’efficacia generale dell’operazione di ricollocazione di emergenza messa in atto da tali decisioni per far fronte all’improvviso afflusso di migranti. Esso lascia gli Stati membri beneficiari (l’Italia e la Grecia) alle prese con un numero elevato di richiedenti protezione internazionale che arrivano giorno e notte sul loro territorio. Esso ostacola e/o impedisce a tali Stati membri e alle istituzioni dell’Unione di adempiere ai propri obblighi ai sensi delle decisioni di ricollocazione.

 Sul ricorso della Commissione

158. La Corte ha costantemente dichiarato che, nei ricorsi per infrazione proposti nei confronti di uno Stato membro ai sensi dell’articolo 258 TFUE, la Commissione deve «presentare le censure in modo coerente e preciso, così da consentire allo Stato membro e alla Corte di conoscere esattamente la portata della violazione del diritto dell’Unione contestata, presupposto necessario affinché il suddetto Stato possa far valere utilmente i suoi mezzi di difesa e affinché la Corte possa verificare l’esistenza dell’inadempimento addotto» (95).

159. La Commissione ha individuato la presunta violazione, essenzialmente, nella mancata assunzione di impegni ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione e, di conseguenza, nella mancata effettuazione di ricollocazioni ai sensi dell’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, delle stesse (96).

160. Dei tre Stati membri convenuti, la Polonia e la Repubblica ceca tentano di contestare (o, più precisamente, di smorzare) le affermazioni di fatto della Commissione. L’Ungheria non contesta, in sostanza, l’esposizione dei fatti operata dalla Commissione.

161. Così, la Polonia sostiene che non era possibile, ai sensi delle decisioni di ricollocazione, verificare se le persone suscettibili di ricollocazione avessero legami con organizzazioni estremiste o criminali tali da poter costituire un rischio per la sicurezza. La Polonia si riferisce in termini generali a incidenti avvenuti in altri Stati membri nei quali alcuni richiedenti cui è stato riconosciuto lo status di rifugiato sono stati successivamente coinvolti in aggressioni e crimini. La Polonia sostiene che l’assenza di documentazione affidabile, il fatto che le persone da ricollocare si trovassero all’estero anziché in Polonia, il poco tempo a disposizione del funzionario di collegamento e (per alcune persone da ricollocare) l’impossibilità di svolgere colloqui per la sicurezza prima del trasferimento hanno reso materialmente impossibile, per la Polonia, conformarsi ai doveri ad essa incombenti ai sensi dell’articolo 72 TFUE e, al contempo, applicare le decisioni di ricollocazione.

162. La Repubblica ceca lamenta la circostanza che molte delle persone da ricollocare individuate dalla Grecia e dall’Italia erano prive di regolari documenti d’identità e che la cooperazione dei due Stati membri ai sensi delle decisioni di ricollocazione era inadeguata. Di conseguenza, essa incolpa l’Italia e la Grecia del fatto che sia stato ricollocato solo un numero minimo di richiedenti.

163. Nessuno degli elementi di fatto dedotti dalla Polonia e dalla Repubblica ceca, anche se provato, contrasterebbe la tesi della Commissione secondo cui tutti e tre gli Stati membri convenuti hanno omesso di rispettare il loro obbligo di impegno trimestrale di cui all’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione. L’indicazione del numero di richiedenti che essi erano potenzialmente in grado di accettare in un determinato periodo è, concettualmente, del tutto distinta dalla questione se vi sia un buon motivo per non accettare una determinata persona da ricollocare proposta dall’Italia o dalla Grecia.

164. Allo stesso modo, i problemi specifici evidenziati dalla Polonia e dalla Repubblica ceca potrebbero spiegare, in un caso concreto, il motivo per cui un determinato richiedente non abbia potuto essere accettato ai fini della ricollocazione nonostante i meccanismi dettagliati di collegamento e cooperazione contenuti nelle decisioni di ricollocazione. Tuttavia, essi sono del tutto inadeguati a giustificare l’insuccesso quasi completo (di tutti e tre gli Stati membri convenuti) nell’adempiere agli obblighi previsti dall’articolo 5, paragrafi da 4 a 11 di dette decisioni.

165. Ritengo, pertanto, che la Commissione abbia dimostrato la base fattuale delle censure mosse nei confronti dei tre Stati membri convenuti.

166. Le due decisioni di ricollocazione differiscono quanto alla disciplina della partecipazione degli Stati membri al processo di ricollocazione. Così, l’articolo 4 della decisione 2015/1523 si limitava a precisare il numero totale di ricollocazioni da effettuare (24 000 dall’Italia e 16 000 dalla Grecia), lasciando aperta la decisione sul numero di richiedenti che ciascuno Stato membro avrebbe dovuto accettare ai fini della ricollocazione. Di converso, l’articolo 4 della decisione 2015/1601, in combinato disposto con gli allegati I e II della stessa, conteneva un meccanismo più preciso e dettagliato. L’articolo 4, paragrafo 1, specificava il modo in cui dovevano essere ridistribuiti tra gli Stati membri i primi 66 000 richiedenti, dei 120 000 da ricollocare, (allegato I, relativo a 15 600 ricollocazioni dall’Italia; allegato II, concernente 50 400 ricollocazioni dalla Grecia). Successivamente, l’articolo 4, paragrafo 2, chiariva che i restanti 54 000 richiedenti dovevano essere ricollocati «proporzionalmente alle cifre di cui agli allegati I e II» (97).

167. Ciò detto, l’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione prevede chiaramente che gli impegni debbano essere assunti almeno ogni tre mesi, mentre l’articolo 5, paragrafi da 4 a 11, impone l’obbligo di accettare le ricollocazioni (seguendo le procedure ivi previste), fatta salva l’applicazione di deroghe specifiche, come quella prevista dall’articolo 5, paragrafo 7, in relazione alle persone che costituiscono un pericolo per la sicurezza interna.

168. Nonostante la (variabile) discrezionalità così concessa agli Stati membri nelle due decisioni di ricollocazione che ho illustrato, non esito a concludere che l’impegno ad accettare 100 richiedenti (Polonia) (98), 50 richiedenti (Repubblica ceca) (99) o addirittura la mancata assunzione di qualsivoglia impegno (Ungheria) (100) non possono essere considerati conformi né alla lettera né allo spirito degli obblighi imposti dalle decisioni di ricollocazione.

169. Mi occupo ora delle ulteriori censure della Commissione secondo cui i tre Stati membri convenuti sono venuti meno anche agli obblighi ad essi incombenti ai sensi dell’articolo 5, paragrafi da 4 a 11 delle decisioni di ricollocazione.

170. Mi sembra che la Commissione abbia correttamente e logicamente affermato che se uno Stato membro non si impegna ad accettare i richiedenti che è in grado di accogliere, esso omette anche necessariamente, sulla base di tali impegni, di accettare ricollocazioni e, di conseguenza, viene meno anche agli obblighi conseguenti di cui all’articolo 5, paragrafi da 4 a 11 delle decisioni di ricollocazione. D’altronde, i tre Stati membri convenuti non sostengono seriamente il contrario; e ciò è confermato dal fatto che i tre hanno accolto un numero insignificante di richiedenti (Polonia e Repubblica ceca) o addirittura non hanno accolto alcun richiedente (Ungheria).

171. Ritengo che la Commissione abbia presentato le sue censure in modo conforme all’articolo 258 TFUE. La questione è, quindi, se gli elementi invocati dai tre Stati membri convenuti costituiscano una difesa valida nell’ambito del procedimento di infrazione. A questo punto, spetta necessariamente agli Stati membri in questione produrre le prove necessarie ad avvalorare tale difesa.

 Argomenti delle parti

172. La Polonia sostiene che il rispetto delle decisioni di ricollocazione le avrebbe impedito di adempiere agli obblighi che le incombono ai sensi dell’articolo 72 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE, per quanto riguarda il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna, materie nelle quali conserva una competenza esclusiva (101). In quanto disposizione di diritto primario, l’articolo 72 TFUE prevale sulle decisioni di ricollocazione e garantisce agli Stati membri pieno controllo sulla loro sicurezza interna e ordine pubblico. Non si tratta di un mero controllo di legittimità nel corso del processo legislativo, bensì di una norma di conflitto di leggi, che privilegia la competenza degli Stati membri. Spetta agli Stati membri valutare se, in un caso concreto, sussista siffatto conflitto. Uno Stato membro può quindi invocare l’articolo 72 TFUE al fine di contestare argomenti concernenti il fatto che le decisioni di ricollocazione sarebbero private del loro «effetto utile» o appelli alla solidarietà (nel senso che non esiste alcun obbligo di pregiudicare la propria sicurezza interna al fine di dimostrare solidarietà agli altri Stati membri). La sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio non ha privato (né avrebbe potuto privare) gli Stati membri del diritto inalienabile di invocare l’articolo 72 TFUE per derogare a qualsiasi altro supposto obbligo discendente da misure di diritto derivato dell’Unione adottate ai sensi del titolo V della parte terza del TFUE. Per tale motivo, la Polonia non solleva espressamente un’eccezione d’illegittimità ai sensi dell’articolo 277 TFUE.

173. Analogamente, l’Ungheria invoca l’articolo 72 TFUE, che le conferirebbe il diritto di disapplicare una decisione fondata sull’articolo 78, paragrafo 3, TFUE qualora ritenga che tale decisione presenti garanzie inadeguate per la sua sicurezza interna. L’Ungheria sostiene che il fatto che le persone da ricollocare ai sensi della decisione 2015/1601 dovrebbero essere persone appartenenti a una nazionalità per la quale il 75% o più delle domande di protezione internazionale è accolta (articolo 3, paragrafo 1, della decisione 2015/1601), limita la sua possibilità di far valere motivi di esclusione dallo status protetto (in qualità di rifugiato o di persona che beneficia di protezione sussidiaria) legati alla sicurezza nazionale e all’ordine pubblico. Il fatto che la sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio abbia confermato la validità della decisione 2015/1601 è irrilevante. In questa sede, la questione è separata e distinta: ci si chiede se uno Stato membro possa invocare l’articolo 72 TFUE per escludere o limitare le ricollocazioni ai sensi della decisione 2015/1601 quando nutre riserve sull’impatto di tali ricollocazioni sulla sicurezza nazionale e sull’ordine pubblico nel suo territorio.

174. La Repubblica ceca sostiene, in sostanza, che il meccanismo di ricollocazione istituito dalle decisioni di ricollocazione è difettoso e che essa ha adottato misure diverse, più efficaci, per contribuire alla lotta contro la crisi migratoria. Concretamente, essa ha fornito un sostegno rilevante ai paesi terzi nei quali l’esodo è più elevato e ha distaccato un significativo numero di funzionari di polizia per operare nel quadro della protezione delle frontiere esterne dell’Unione.

175. La Commissione si basa essenzialmente sulla sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, sulla necessità di garantire un «effetto utile» alle decisioni di ricollocazione e sul principio di solidarietà tra Stati membri. Essa insiste sul fatto che esistevano, nell’ambito delle decisioni di ricollocazione, meccanismi adeguati a consentire agli Stati membri di ricollocazione (102), per quanto concerne ciascun singolo richiedente, di adottare le misure necessarie per proteggere la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico nel loro territorio.

176. Ai fini dell’analisi che segue, raggrupperò gli argomenti sollevati dai tre Stati membri convenuti come segue: i) il fatto che la sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio abbia confermato la validità della decisione 2015/1601 è irrilevante (Polonia e Ungheria); ii) gli Stati membri avevano il diritto di disapplicare le decisioni di ricollocazione (anche se valide) sulla base delle competenze loro riservate dall’articolo 72 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE (Polonia e Ungheria); e iii) le decisioni di ricollocazione hanno istituito un sistema difettoso (Repubblica ceca).

 i) Sull’irrilevanza del fatto che la sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio abbia confermato la validità della decisione 2015/1601

177. In risposta alle lettere di messa in mora e ai pareri motivati, la Polonia e l’Ungheria hanno sostenuto l’invalidità delle decisioni di ricollocazione. Tali argomenti sono stati presentati anteriormente alla sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, con la quale la Corte ha confermato la validità della decisione 2015/1601. Qualsiasi ulteriore contestazione della validità delle decisioni di ricollocazione ai sensi dell’articolo 263 TFUE sarebbe ormai tardiva.

178. Sulla base delle memorie scritte, la Corte aveva chiesto alle parti di affrontare, in udienza, la questione se uno Stato membro possa, nel quadro di un procedimento di infrazione ai sensi dell’articolo 258 TFUE, giustificare la mancata applicazione di un atto dell’Unione nel caso in cui un ricorso volto a contestare la validità di tale atto (nella fattispecie, i ricorsi proposti dalla Slovacchia e dall’Ungheria, che hanno condotto alla sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio) non abbia comportato la sospensione automatica di tale atto ai sensi dell’articolo 278 TFUE, e la Corte non abbia ordinato siffatta sospensione. La Corte ha altresì chiesto se uno Stato membro possa, nel quadro di un procedimento di infrazione ai sensi dell’articolo 258 TFUE, giustificare la mancata applicazione di un atto dell’Unione senza invocare un’eccezione di illegittimità ai sensi dell’articolo 277 TFUE e se le decisioni di ricollocazione possano essere considerate atti di portata generale ai sensi dell’articolo 277 TFUE.

179. Nel corso dell’udienza, i tre Stati membri convenuti hanno dichiarato espressamente di non contestare la validità delle decisioni di ricollocazione e di non aver intenzione di invocarne l’illegittimità in via incidentale, ai sensi dell’articolo 277 TFUE. L’Ungheria ha lasciato alla Corte la possibilità di valutare la propria difesa sulla base di tale articolo, qualora lo desideri.

180. Mi sembra, alla luce dell’udienza, che gli argomenti sollevati in relazione all’articolo 277 TFUE non siano più, di fatto, «attuali». Sebbene possa essere intellettualmente stimolante esplorare i limiti di tale articolo, mi asterrò dal farlo. Tale tema dovrà attendere un’altra causa e un altro momento.

181. L’argomento sostenuto dalla Polonia e dall’Ungheria nel presente procedimento è che la sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio è irrilevante ai fini della difesa da essi sostenuta in questa sede.

182. Per valutare il suddetto argomento, è necessario esaminare quanto dichiarato in tale sentenza sull’articolo 72 TFUE e sul modo in cui la decisione 2015/1601 ha tenuto conto della competenza degli Stati membri ad adempiere ai loro obblighi in materia di sicurezza e ordine pubblico nel loro territorio. Tale valutazione può essere effettuata più agevolmente nel contesto della discussione concernente gli argomenti difensivi che la Polonia e l’Ungheria deducono sulla base dell’articolo 72 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE. Mi accingo ora ad esaminarli.

 ii) Sul diritto degli Stati membri di disapplicare le decisioni di ricollocazione (anche se valide) sulla base delle competenze loro riservate dall’articolo 72 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE

183. Nei quesiti scritti rivolti alle parti prima dell’udienza, la Corte ha preparato il terreno per la discussione di tale argomento, domandando alla Commissione se le nozioni di «ordine pubblico» e di «sicurezza interna» debbano essere interpretate nello stesso modo in cui sono interpretati concetti analoghi applicati in relazione alle libertà fondamentali e utilizzati in disposizioni quali l’articolo 346 TFUE.

184. La Commissione sostiene che l’articolo 346 TFUE riguarda le questioni specifiche della comunicazione di informazioni e del commercio delle armi e che la nozione di sicurezza ivi utilizzata non è pertinente nell’ambito del presente procedimento.

185. La Corte ha altresì chiesto alla Commissione se uno Stato membro possa invocare l’articolo 72 TFUE per giustificare la mancata applicazione di un atto dell’Unione adottato ai sensi del titolo V della parte terza del TFUE, qualora l’atto in questione non abbia previsto misure sufficienti per la protezione dell’«ordine pubblico» e della «sicurezza interna» e se sia possibile invocare l’articolo 72 TFUE in un contesto più ampio.

186. La Commissione sostiene che l’articolo 72 TFUE esprime un principio di diritto che deve essere tenuto in considerazione in tutti i casi in cui il legislatore dell’Unione agisce. Se il legislatore omette di farlo, uno Stato membro può agire in giudizio contro l’atto giuridico dell’Unione che ne risulta, sulla base delle disposizioni dei Trattati in materia di procedimenti giurisdizionali.

187. Inoltre, la Commissione sostiene che la portata dell’articolo 72 TFUE è limitata in modo analogo a quello di cui agli articoli 36, 45, paragrafo 3 e 52, paragrafo 1, TFUE per quanto riguarda la libera circolazione nel mercato interno. Sebbene tali disposizioni consentano agli Stati membri di introdurre restrizioni alla libera circolazione, le restrizioni imposte restano soggette al controllo delle istituzioni dell’Unione, in particolare della Corte.

188. Alla luce di tale contesto, mi accingo ora ad esaminare le questioni sollevate.

–       Giurisprudenza della Corte sull’articolo 72 TFUE

189. A quanto mi risulta, ad oggi la Corte ha esaminato l’articolo 72 TFUE in tre occasioni.

190. In primo luogo, nella causa Adil (103), la Corte si è occupata della corretta interpretazione dell’articolo 21, lettera a), del codice frontiere Schengen (104), nel contesto dell’articolo 72 TFUE. Essa ha ricordato che «l’articolo 21, lettera a), del [codice frontiere Schengen] dispone che la soppressione del controllo alle frontiere interne non pregiudica l’esercizio delle competenze di polizia da parte delle autorità competenti dello Stato membro in forza della legislazione nazionale, nella misura in cui l’esercizio di queste competenze non abbia un effetto equivalente a quello delle verifiche di frontiera e che ciò vale anche nelle zone di frontiera. La disposizione in parola del [codice frontiere Schengen] precisa che l’esercizio delle competenze di polizia non può essere considerato equivalente, in particolare, all’esercizio delle verifiche di frontiera quando le misure di polizia non hanno come obiettivo il controllo di frontiera, si basano su informazioni generali e dati dell’esperienza dei servizi di polizia quanto a possibili minacce per la sicurezza pubblica e sono volte, in particolare, alla lotta contro la criminalità transfrontaliera, sono ideate ed eseguite in maniera chiaramente distinta dalle verifiche sistematiche sulle persone alle frontiere esterne e sono effettuate sulla base di verifiche a campione» (105).

191. La Corte ha ritenuto che i controlli mobili in materia di sicurezza oggetto di tale causa non costituivano «controlli alle frontiere» vietati dall’articolo 20 del codice frontiere Schengen, bensì verifiche all’interno del territorio di uno Stato membro, rientranti nell’articolo 21 dello stesso (106). Successivamente, nella stessa sentenza, la Corte ha ribadito che «le disposizioni dell’articolo 21, lettere a)-d), del [codice frontiere Schengen] nonché la formulazione dell’articolo 72 TFUE confermano che la soppressione dei controlli alle frontiere interne non ha pregiudicato le responsabilità che incombono sugli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna» (107).

192. Quindi, nella causa A. (108), la Corte ha confermato, in sostanza, la sua decisione nella causa Adil (in tal caso per quanto concerne un sistema analogo di controlli mobili in materia di sicurezza effettuati in Germania).

193. Infine, nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, la Corte ha esaminato l’argomento sollevato in tale causa dalla Polonia secondo cui «la decisione impugnata sarebbe contraria al principio di proporzionalità, poiché non permetterebbe agli Stati membri di garantire l’esercizio effettivo delle responsabilità ad essi incombenti per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna ai sensi dell’articolo 72 TFUE» (109).

194. La Corte ha sottolineato che il considerando 32 della decisione 2015/1601 dichiara espressamente che «[d]urante tutta la procedura di ricollocazione fino all’effettivo trasferimento del richiedente, dovrebbero essere presi in considerazione la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico» e che l’articolo 5, paragrafo 7, tutela espressamente il diritto degli Stati membri di rifiutare la ricollocazione di un richiedente, anche se soltanto quando sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico. Se tale meccanismo «fosse inefficace in quanto obbligherebbe gli Stati membri a controllare numerose persone in poco tempo, simili difficoltà di ordine pratico non paiono inerenti al suddetto meccanismo e devono, se del caso, essere risolte nello spirito di cooperazione e di reciproca fiducia tra le autorità degli Stati membri beneficiari della ricollocazione e quelle degli Stati membri di ricollocazione, il quale deve imporsi nel quadro dell’attuazione della procedura di ricollocazione prevista dall’articolo 5 della [decisione 2015/1601]» (110).

195. Pertanto, in una certa misura, la sentenza Repubblica slovacca e Ungheria anticipa gli argomenti addotti dai tre Stati membri convenuti nel presente procedimento. Ciò premesso, poiché il fulcro della loro difesa si fonda sulle competenze riservate ai sensi dell’articolo 72 TFUE, è ora necessario affrontare tale argomento in modo più dettagliato.

–       Nozioni di ordine pubblico e di sicurezza

196. La nozione di ordine pubblico è stata affrontata nella causa N. (111), in cui la Corte ha ritenuto che «la nozione di “ordine pubblico” presuppone, in ogni caso, oltre alla perturbazione dell’ordine sociale insita in qualsiasi infrazione della legge, l’esistenza di una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave nei confronti di un interesse fondamentale della società».

197. In precedenza, nella causa Zh. e O., (112) la Corte aveva ritenuto che, per quanto concerne i diritti fondamentali dei cittadini di paesi terzi, una nozione quale quella di sicurezza «non può essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione».

198. Utilizzerò tali due citazioni come punto di partenza della mia analisi, esposta nel prosieguo.

199. In termini generali, mi sembra che la giurisprudenza della Corte sulle libertà fondamentali, in particolare sulla libera circolazione delle persone, costituisca una base solida per esaminare i concetti di ordine pubblico e di sicurezza nei presenti procedimenti. Ricordo che l’acquis in materia di asilo, in particolare il regolamento Dublino III (113) e la direttiva qualifiche (114), affronta le questioni dal punto di vista del singolo richiedente. Come la Corte ha spiegato molto tempo fa nella causa Bouchereau, ciò che deve essere considerato ai fini della valutazione concernente la sussistenza di una minaccia per la comunità dello Stato membro interessato è il comportamento personale dell’individuo in questione (115).

200. Concordo con la Commissione sul fatto che l’articolo 346 TFUE è una disposizione specifica del Trattato che disciplina una situazione specifica. Per questa ragione, non credo che una sua interpretazione estensiva possa essere d’ausilio nell’ambito del presente procedimento.

201. Tuttavia, ricordo anche che l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE esiste specificamente per consentire al Consiglio di adottare misure provvisorie al fine di aiutare uno Stato membro che si trovi ad «affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di paesi terzi». Nella misura in cui l’elevato numero di persone che entrano in uno Stato membro può creare una situazione di emergenza (e mi risulta che il termine comprenda anche una situazione che costituisce una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza nazionale), l’articolo 78, paragrafo 3, TFUE fornisce la base giuridica necessaria per l’adozione di misure appropriate che rispettino sia gli obblighi internazionali degli Stati membri ai sensi della convenzione di Ginevra, sia tutti i principi fondamentali applicabili del diritto dell’Unione. I suddetti principi comprendono tanto la solidarietà quanto il rispetto dello Stato di diritto, sui quali ritornerò al termine delle presenti conclusioni.

–       Sulla funzione dell’articolo 72 TFUE

202. L’articolo 72 TFUE fa parte del capo 1, rubricato «Disposizioni generali», del titolo V del TFUE («Spazio di libertà, sicurezza e giustizia»). Riconoscendo chiaramente le competenze e le responsabilità degli Stati membri in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e salvaguardia della sicurezza interna, l’articolo 72 TFUE ha l’ovvia funzione di ricordare al legislatore dell’Unione la necessità di prevedere, in qualsiasi atto di diritto derivato adottato a norma del titolo V, disposizioni che consentano agli Stati membri di adempiere a tali responsabilità. Nel caso in cui il legislatore dell’Unione ignorasse tale obbligo in sede di redazione, l’articolo 72 TFUE offrirebbe una chiara base per la proposizione di un ricorso di annullamento da parte di uno Stato membro (in tal senso, condivido la posizione della Commissione). Tuttavia, nel caso di specie non si è verificata una siffatta omissione.

203. Una risposta immediata all’argomento centrale dedotto dalla Repubblica di Polonia e dall’Ungheria si rinviene in due disposizioni essenziali delle stesse decisioni di ricollocazione. L’ultima frase dell’articolo 5, paragrafo 4, delle stesse, prevedeva che «[l]o Stato membro di ricollocazione può decidere di non approvare la ricollocazione di un richiedente solo in presenza di fondati motivi di cui al paragrafo 7 del presente articolo». L’articolo 5, paragrafo 7, delle stesse, stabiliva quindi, che «[g]li Stati membri conservano il diritto di rifiutare la ricollocazione del richiedente solo qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ovvero in presenza di seri motivi per applicare le disposizioni in materia di esclusione stabilite agli articoli 12 e 17 della [direttiva qualifiche]».

204. Aggiungo, tra parentesi, che sia il considerando 26 della decisione 2015/1523, sia il considerando 32 della decisione 2015/1601 dichiarano che «[d]urante tutta la procedura di ricollocazione fino all’effettivo trasferimento del richiedente, dovrebbero essere presi in considerazione la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico» e indicano che «(…) qualora uno Stato membro abbia fondati motivi per ritenere che il richiedente costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ne informa gli altri Stati membri». In tal modo, il potenziale Stato membro di ricollocazione dimostra la sua solidarietà nei confronti degli altri Stati membri che, parimenti, sono responsabili per la salvaguardia della sicurezza nazionale e dell’ordine pubblico nei loro rispettivi territori.

205. Interpretati congiuntamente, questi due paragrafi essenziali delle decisioni di ricollocazione riconoscevano espressamente che lo Stato membro di ricollocazione possedeva il diritto di rifiutare la ricollocazione di uno specifico richiedente se i) sussistevano fondati motivi per ritenere che tale persona costituisse un pericolo per la sua sicurezza nazionale o l’ordine pubblico; o ii) se sussistevano seri motivi per ritenere che tale persona potesse essere legittimamente esclusa dalla protezione internazionale richiesta.

206. Nella misura in cui lo Stato membro di ricollocazione nutrisse fondati dubbi in merito all’accettare o meno la ricollocazione del richiedente X, le decisioni di ricollocazione offrivano a tale Stato membro una chiara, manifesta e legittima base per rifiutare di accettare la ricollocazione di tale specifico richiedente.

207. Adottando un approccio restrittivo alle questioni sollevate dai presenti procedimenti di infrazione, ciò potrebbe essere considerato sufficiente per respingere il principale argomento dei tre Stati membri convenuti a difesa del loro comportamento. Essi avrebbero perfettamente potuto preservare la sicurezza e il benessere dei loro cittadini rifiutando (sulla base delle stesse decisioni di ricollocazione) di accettare il richiedente X, esercitando così le «responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna» (articolo 72 TFUE).

208. Tuttavia, per una questione di giustizia nei confronti dei tre Stati membri in questione, non mi fermerò qui. Il rinvio di cui all’articolo 5, paragrafo 7, delle decisioni di ricollocazione alla direttiva qualifiche costituisce un utile collegamento con la questione fondamentale di cui trattasi. Le competenze riservate agli Stati membri ai sensi dell’articolo 72 TFUE devono essere considerate nel contesto dell’esteso e uniforme diritto derivato dell’Unione che disciplina il procedimento di esame delle domande di protezione internazionale e i criteri sostanziali per la loro decisione (l’acquis in materia di asilo). In tale contesto, ci si chiede se uno Stato membro possa invocare l’articolo 72 TFUE (interpretato, secondo l’Ungheria, in combinato disposto con l’articolo 4, paragrafo 2, TUE) al fine di disapplicare una misura dell’Unione valida, adottata (116) ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, che non condivide.

209. Per rispondere a tale questione, metto dunque deliberatamente da parte i problemi procedurali (relativi, ad esempio, ai termini per i ricorsi diretti o ai limiti di un’eccezione incidentale di illegittimità), al fine di concentrami sulla questione fondamentale di cui trattasi.

210. Gli obblighi internazionali dei singoli Stati membri ai sensi della convenzione di Ginevra trovano espressione uniforme, a livello dell’Unione, nell’intricata rete di direttive che disciplinano il trattamento e l’esame sostanziale delle domande di protezione internazionale, in particolare, nella direttiva qualifiche, nella direttiva procedure e nella direttiva accoglienza. La base giuridica di tali atti è l’articolo 78, paragrafo 2, TFUE, che figura nel capo 2 del titolo V, rubricato «Politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione». Ci troviamo, dunque, di fronte a una materia disciplinata nei dettagli tanto dal TFUE stesso quanto dal diritto derivato dell’Unione, fondato sul diritto primario.

211. In circostanze come queste, in cui i Trattati riconoscono che una competenza, un dovere o un obbligo restano in capo agli Stati membri, questi sono tenuti a esercitare le loro competenze in modo da non violare i principi pertinenti del diritto dell’Unione.

212. L’articolo 72 TFUE non è quindi, come sostenuto dalla Polonia e dall’Ungheria, una norma di conflitto di leggi che privilegia la competenza degli Stati membri rispetto alle misure adottate dal legislatore o dal potere decisionale dell’Unione; si tratta, piuttosto, di una regola di coesistenza. La competenza ad agire nel settore specificato resta in capo allo Stato membro (non è stata trasferita all’Unione). Tuttavia, le azioni intraprese devono rispettare i principi superiori che lo Stato membro ha accettato nel momento in cui è divenuto uno Stato membro, nonché ogni altra norma pertinente contenuta nei trattati o nel diritto derivato dell’Unione.

213. Due esempi sono sufficienti a confermare tale affermazione.

214. Nel quadro degli eventi che hanno condotto al «contenzioso Factortame» (117), il Regno Unito aveva adottato il Merchant Shipping Act 1988. Tale atto del Parlamento aveva introdotto modifiche radicali al registro navale britannico, privando le navi spagnole del diritto di essere iscritte in tale registro, di battere (118) bandiera britannica e, dunque, di beneficiare delle quote di pesca del Regno Unito. (119). Così facendo, il Regno Unito (successivamente sostenuto dinanzi alla Corte dal Belgio e dalla Grecia) ha invocato la competenza di ciascuno Stato, sulla base del diritto internazionale pubblico, a definire nel modo in cui reputa opportuno le condizioni alle quali accorda a una nave il diritto di battere la propria bandiera (120).

215. La prima questione proposta dalla High Court chiedeva, semplicemente, «[s]e il diritto [dell’Unione] incida sulle condizioni legali fissate da uno Stato membro per determinare quali navi abbiano diritto ad essere immatricolate in tale Stato, a batterne la bandiera e ad assumerne la nazionalità».

216. Nel rispondere a tale questione, la Corte ha espressamente riconosciuto che «nella fase attuale del diritto [dell’Unione], la competenza a determinare le condizioni per l’immatricolazione delle navi spett[a] agli Stati membri» (121) ma che «[n]ondimeno, occorre ricordare che gli Stati membri sono tenuti ad esercitare le competenze loro attribuite nel rispetto del diritto [dell’Unione]» (122). L’argomento del Regno Unito ai sensi del diritto internazionale «potrebbe rilevare soltanto nell’ipotesi in cui le prescrizioni del diritto [dell’Unione] relative all’esercizio, da parte degli Stati membri, della competenza loro attribuita in materia di immatricolazione di una nave fossero in conflitto con le norme del diritto internazionale» (123). È chiaro che la Corte non ha ritenuto sussistente un tale conflitto, poiché nel punto immediatamente successivo della sentenza essa ha dichiarato che «[c]onseguentemente, la prima questione va risolta nel senso che spetta agli Stati membri, allo stato attuale del diritto [dell’Unione], determinare, conformemente alle norme generali del diritto internazionale, le condizioni per l’iscrizione di una nave nei loro registri e per la concessione alla stessa nave del diritto di battere la loro bandiera, fermo restando che, nell’esercizio di questo potere, essi sono tenuti al rispetto delle norme [dell’Unione]» (124).

217. La Corte ha poi dichiarato che i requisiti di nazionalità contenuti nel Merchant Shipping Act 1988 erano contrari alle disposizioni del trattato sulla libertà di stabilimento e sulla libera circolazione dei capitali, nonché al divieto generale di discriminazioni fondate sulla nazionalità.

218. Più recentemente, la Corte ha affrontato una serie di cause concernenti l’esercizio delle (pacifiche) competenze degli Stati membri in materia di fiscalità diretta, materia che non è armonizzata a livello dell’Unione. Talora, tuttavia, le norme nazionali adottate hanno l’effetto di penalizzare i contribuenti che si trovano in un altro Stato membro. Non è necessario soffermarsi sui dettagli tecnici di tali cause. La Corte ha costantemente affermato che, sebbene gli Stati membri godano di competenza in materia di fiscalità diretta, tale competenza deve essere esercitata nel rispetto del diritto dell’Unione (125).

219. A mio avviso, nella situazione che caratterizza i presenti procedimenti di infrazione, gli Stati membri sono parimenti tenuti ad esercitare le loro competenze di cui all’articolo 72 TFUE per il «mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna» in modo conforme alle altre disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione. Tali disposizioni sono, da un lato, le stesse decisioni di ricollocazione (che, come abbiamo già visto, offrivano una base giuridica adeguata per qualsiasi azione di questo tipo che uno Stato membro intendesse intraprendere in un caso concreto) e, dall’altro, l’intero quadro di diritto dell’Unione esistente che disciplina il trattamento delle singole domande di protezione internazionale e la decisione di merito che lo Stato membro è tenuto ad adottare in esito al procedimento.

220. Così, gli articoli 12 e 17 della direttiva qualifiche riprendono la convenzione di Ginevra e stabiliscono in dettaglio i motivi per cui un richiedente può essere escluso dallo status di rifugiato o dalla protezione sussidiaria. Tali disposizioni sono rafforzate dagli articoli 14 e 19 della direttiva (126), che consentono a uno Stato membro di porre fine allo status di protezione se la persona in questione costituisce un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato membro in cui si trova. Ai sensi della direttiva procedure, il richiedente può essere sottoposto ad una procedura di esame alla frontiera o nelle zone di transito se, per gravi ragioni, può essere considerato un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico dello Stato membro (articolo 31, paragrafo 8, lettera j) (127) e persino un minore non accompagnato può, alle stesse condizioni, essere sottoposto a norme di trattamento più stringenti [articolo 25, paragrafo 6, lettera a), punto iii), e lettera b), punto iii)] (128). La direttiva accoglienza consente agli Stati membri di stabilire un luogo di residenza per il richiedente (in deroga alla consueta libertà di circolazione di quest’ultimo), tra l’altro, per motivi di pubblico interesse e di ordine pubblico (articolo 7, paragrafo 2) (129). Un richiedente può essere trattenuto quando lo impongono motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico [articolo 8, paragrafo 3, lettera e)] (130). Infine, la direttiva rimpatri autorizza gli Stati membri ad astenersi dal concedere un periodo per la partenza volontaria, a trattenere un richiedente protezione internazionale la cui domanda è stata respinta e a imporre un divieto di ingresso di lunga durata allorché tali misure (dotate di forza coercitiva maggiore) siano giustificate da motivi di sicurezza nazionale o ordine pubblico (v. articoli 7, paragrafo 4, 8, paragrafo 4, 11, paragrafo 2, e 15).

221. In breve, quindi, il diritto derivato dell’Unione nell’ambito dell’acquis in materia di asilo fornisce un quadro legislativo adeguato, in cui le legittime preoccupazioni di uno Stato membro in materia di sicurezza nazionale, ordine pubblico e protezione della comunità possono essere soddisfatte per quanto concerne un singolo richiedente protezione internazionale. Alla luce di tale contesto, non vedo alcun margine di manovra per accogliere l’argomento secondo cui l’articolo 72 TFUE conferisce agli Stati membri carta bianca per disapplicare un atto di diritto derivato dell’Unione valido che non condivide pienamente.

222. A questo proposito, il richiamo della Polonia alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte di Strasburgo») nella causa N. c. Finlandia (38885/02) (131) non aiuta la sua tesi. In tale sentenza, la Corte di Strasburgo ha statuito che «[g]li Stati contraenti hanno il diritto, in virtù di un principio di diritto internazionale consolidato e fatti salvi i loro impegni derivanti dai trattati, inclusi gli obblighi discendenti dalla Convenzione, di controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento degli stranieri». Ciò è pacifico. Tuttavia, il modo in cui uno Stato membro esercita tale diritto è limitato dagli obblighi che esso ha liberamente assunto ai sensi del diritto internazionale nel momento in cui ha aderito all’Unione europea, ossia dal rispetto degli obblighi derivanti dal diritto dell’Unione.

223. Come ho dimostrato, lo stesso diritto dell’Unione fornisce allo Stato membro numerosi mezzi per proteggere le sue legittime preoccupazioni in materia di sicurezza nazionale o di ordine pubblico per quanto concerne uno specifico richiedente nel quadro dei suoi obblighi di diritto dell’Unione. Tuttavia, il diritto dell’Unione non consente a uno Stato membro di ignorare perentoriamente tali obblighi e, per così dire, di apporre un cartello con la scritta «Chasse gardée» (traducibile approssimativamente come «Riserva di caccia – divieto di ingresso»).

–       Articolo 4, paragrafo 2, TUE

224. Sia la Polonia, sia l’Ungheria hanno ricordato che l’articolo 4, paragrafo 2, TUE fa riferimento all’«identità nazionale» e afferma che «[l’Unione r]ispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità territoriale, di mantenimento dell’ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro». In varia misura, essi intendono fondarsi su tale disposizione, in combinato disposto con l’articolo 72 TFUE, al fine di disapplicare le decisioni di ricollocazione per garantire la coesione sociale e culturale, nonché per evitare potenziali conflitti etnici e religiosi.

225. Mi occuperò brevemente di tale affermazione.

226. Nella sentenza Commissione/Lussemburgo (132) è stato presentato alla Corte un argomento analogo, per quanto concerne l’applicazione ai notai del requisito di cittadinanza. Il Lussemburgo ha sostenuto, tra l’altro, che tale requisito era giustificato dalla necessità di garantire l’impiego della lingua lussemburghese nell’esercizio delle attività notarili. Nel respingere tale argomento, la Corte ha statuito che «[b]enché la salvaguardia dell’identità nazionale degli Stati membri costituisca uno scopo legittimo rispettato dall’ordinamento giuridico dell’Unione, come del resto riconosciuto dall’art. 4, n. 2, TUE, l’interesse menzionato dal Granducato può tuttavia essere utilmente salvaguardato con mezzi diversi dall’esclusione in via generale».

227. Per la stessa ragione, l’articolo 4, paragrafo 2, TUE non può costituire il fondamento per rifiutare, puramente e semplicemente, di ricollocare i richiedenti ai sensi delle decisioni di ricollocazione. L’interesse legittimo degli Stati membri a preservare la coesione sociale e culturale può essere efficacemente salvaguardato con mezzi diversi e meno restrittivi di un rifiuto unilaterale e totale di adempiere gli obblighi ad esso incombenti in forza del diritto dell’Unione.

 iii) Le decisioni di ricollocazione hanno istituito un sistema difettoso

228. La Polonia e l’Ungheria hanno posto l’accento sui rischi di sicurezza inerenti al trattamento dell’elevato numero di richiedenti protezione internazionale, alcuni dei quali possono effettivamente avere legami con il terrorismo internazionale. In tale contesto, la Polonia fa riferimento alla relazione annuale del 2016 sull’analisi dei rischi elaborata dall’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne (in prosieguo: il «Frontex»), in cui si osserva che «garantire il salvataggio, la sicurezza, la registrazione e l’identificazione di migliaia di persone vulnerabili è un compito estremamente oneroso, che comporta un certo livello di rischio intrinseco e di vulnerabilità delle frontiere esterne» (133).

229. La Repubblica ceca deduce lo stesso argomento. Essa sostiene che, ai fini della ricollocazione, la Grecia e l’Italia individuavano richiedenti che non possedevano documenti d’identità. La Repubblica ceca non sarebbe stata in grado di valutare il rischio che tali persone prive di documenti potevano presentare per la sicurezza nazionale. Sarebbe stato quindi inutile, da parte della Repubblica ceca, comunicare alla Commissione il numero di richiedenti che era in grado di accogliere. Il sistema istituito dalle decisioni di ricollocazione era, a suo avviso, «difettoso».

230. Respingo l’argomento secondo cui i rischi inerenti al trattamento di un elevato numero di richiedenti avrebbero liberato i tre Stati membri convenuti dal loro obbligo giuridico di partecipare ai meccanismi istituiti dalle decisioni di ricollocazione.

231. I considerando di tali decisioni indicano espressamente che «qualora uno Stato membro abbia fondati motivi per ritenere che il richiedente costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ne informa gli altri Stati membri» (134). Peraltro, le disposizioni di diritto sostanziale imponevano obblighi specifici in capo autorità elleniche e italiane per quanto riguarda l’identificazione e il trattamento di richiedenti da ricollocare (135).

232. Inoltre, l’articolo 5, paragrafo 7, delle decisioni di ricollocazione garantiva espressamente il diritto degli Stati membri di rifiutare la ricollocazione di un singolo richiedente nel caso in cui vi fossero «fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisca un pericolo per la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico, ovvero in presenza di seri motivi per applicare le disposizioni in materia di esclusione stabilite agli articoli 12 e 17 della [direttiva qualifiche]».

233. Nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, la Corte ha espressamente statuito che le difficoltà di ordine pratico devono «essere risolte nello spirito di cooperazione e di reciproca fiducia tra le autorità degli Stati membri beneficiari della ricollocazione e quelle degli Stati membri di ricollocazione, il quale deve imporsi nel quadro dell’attuazione della procedura di ricollocazione prevista dall’articolo 5 della decisione [2015/1601]» (136).

234. Mi sembra che ciò fornisca una risposta esauriente all’argomento sollevato in questa sede. Il diritto applicabile (le decisioni di ricollocazione) prevedeva un meccanismo adeguato per far fronte alle questioni e alla logistica complesse relative alla ricollocazione un numero molto elevato di richiedenti protezione internazionale dagli Stati membri in prima linea verso altri Stati membri. Pertanto, tali decisioni non possono essere ragionevolmente descritte come «difettose». Nel quadro di un’evidente situazione di emergenza, era compito tanto degli Stati membri in prima linea quanto dei potenziali Stati membri di ricollocazione far funzionare adeguatamente tale meccanismo, in modo da garantire l’effettuazione di un numero di ricollocazioni sufficiente ad alleviare l’intollerabile pressione sugli Stati membri di prima linea. Questo è il significato di solidarietà.

235. Aggiungo, per esigenze di precisione, che da alcune delle relazioni sull’attuazione delle decisioni di ricollocazione emerge chiaramente che altri Stati membri che si erano trovati in difficoltà per quanto concerne i loro obblighi in materia di ricollocazione, come l’Austria e la Svezia, hanno chiesto e ottenuto la sospensione temporanea degli obblighi derivanti da tali decisioni, come previsto dall’articolo 4, paragrafi 5 e 6, delle stesse (137). Se i tre Stati membri convenuti si fossero trovati realmente di fronte a notevoli difficoltà, questa era chiaramente la linea d’azione da seguire per rispettare il principio di solidarietà, anziché decidere unilateralmente che non era necessario adempiere alle decisioni di ricollocazione. Ritornerò su tale questione al termine delle mie conclusioni.

236. Prendo atto, inoltre, delle varie affermazioni dei tre Stati membri convenuti secondo cui essi avrebbero inteso assistere la Grecia e l’Italia con mezzi diversi dalla ricollocazione. Tale argomento è manifestamente irrilevante. Le decisioni di ricollocazione non contengono alcun fondamento giuridico che consenta di sostituire l’obbligo di impegno e il conseguente obbligo di ricollocazione con altre misure.

237. Respingo pertanto l’affermazione secondo cui, poiché il sistema di ricollocazione era (asseritamente) difettoso, uno Stato membro avrebbe il diritto di sospendere unilateralmente l’adempimento dell’obbligo di impegno e l’obbligo di ricollocazione imposti dalle decisioni di ricollocazione.

 Osservazioni conclusive

238. Oltre alle questioni specifiche di cui mi sono occupata finora (in particolare l’ambito di applicazione e l’interpretazione dell’articolo 72 TFUE), i presenti procedimenti di infrazione sollevano questioni fondamentali sui parametri dell’ordinamento giuridico dell’Unione e sui doveri che incombono agli Stati membri. Nelle presenti osservazioni conclusive, affronterò, quindi, tre importanti aspetti di tale ordinamento giuridico: lo «Stato di diritto», il dovere di leale cooperazione e il principio di solidarietà.

 Stato di diritto

239. Il preambolo del TUE sottolinea che lo Stato di diritto è uno dei «valori universali» che appartengono alle «eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa» (138), un valore al quale gli Stati membri confermano il loro attaccamento (139). L’articolo 2 TUE conferisce effetto sostanziale a tali considerando, chiarendo che «[l]’Unione si fonda sui valori del rispetto (…) dello Stato di diritto (…). Questi valori sono comuni agli Stati membri (…)».

240. Nella sua fondamentale sentenza nella causa Les Verts/Parlamento, la Corte ha affermato, in primo luogo, il principio secondo cui la CEE (come era allora denominata) «è una comunità di diritto nel senso che né gli Stati che ne fanno parte, né le sue istituzioni sono sottratti al controllo della conformità dei loro atti alla carta costituzionale di base costituita dal trattato» (140).

241. Lo Stato di diritto si compone di molti importanti elementi, quali il rispetto del corretto equilibrio dei poteri tra i diversi rami del governo (141) e la garanzia dell’indipendenza della magistratura, proteggendo l’inamovibilità dei giudici (142). A un livello più profondo, il rispetto dello Stato di diritto implica l’osservanza dei propri obblighi giuridici. Il mancato rispetto di tali obblighi in ragione del fatto che, in un determinato caso, sono sgraditi o impopolari è un pericoloso primo passo verso l’annichilimento della società ordinata e strutturata governata dallo Stato di diritto della cui comodità e sicurezza beneficiamo in qualità di cittadini. Il cattivo esempio è particolarmente dannoso se proviene da uno Stato membro.

 Dovere di leale cooperazione

242. L’articolo 4, paragrafo 3, TUE stabilisce quanto segue:

«In virtù del principio di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai trattati.

Gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione.

Gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione».

243. Nella causa Achmea, la Grande Sezione ha precisato in modo molto chiaro ciò che tale principio implica: «[i]l diritto dell’Unione poggia, infatti, sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua. È proprio in tale contesto che spetta agli Stati membri, segnatamente, in virtù del principio di leale cooperazione enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma, TUE, garantire, nei loro rispettivi territori, l’applicazione e il rispetto del diritto dell’Unione e adottare, a tal fine, ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione» (143).

244. La Corte ha inoltre chiaramente affermato che il fatto che uno Stato membro nutra dubbi sulla validità di un provvedimento dell’Unione o ritenga di avere motivi plausibili per contrastare tale misura non lo esime dall’obbligo di rispettare il principio di leale cooperazione (144).

245. Inoltre, in virtù del principio di leale cooperazione, ogni Stato membro ha il diritto di esigere che gli altri Stati membri adempiano ai loro obblighi con la dovuta diligenza (145). Tuttavia, ciò non è chiaramente avvenuto nel caso di specie.

 Solidarietà

246. I padri fondatori del «progetto europeo», Robert Schuman, Jean Monnet e Konrad Adenauer, erano statisti provenienti da paesi che erano stati recentemente coinvolti (in qualità di aggressori o vittime, vincitori o vinti) in sei anni di conflitto devastante e distruttivo. Se non fosse stato per la loro visione iniziale e apertura di spirito, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e (sei anni dopo) la Comunità economica europea e l’Euratom non sarebbero nate.

247. La dichiarazione Schuman, del 9 maggio 1950, ha notoriamente riconosciuto che «[l]’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto» (146). Tale dichiarazione ha trovato eco nel terzo considerando del trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, trattato CECA (precursore del trattato CEE, di cui il TUE e il TFUE sono diretti discendenti), il quale riconosce espressamente che «l’Europa non si potrà costruire altro che mediante concrete realizzazioni che creino innanzitutto una solidarietà di fatto, e mediante l’instaurazione di basi comuni di sviluppo economico» (147).

248. L’articolo 2 TUE ci ricorda tuttora che l’Unione europea si fonda su valori comuni e che «[q]uesti valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini» (il corsivo è mio).

249. Nel corso degli anni, la Corte ha ripreso tale invito alla solidarietà. Così, già nel 1983, nel contesto delle quote siderurgiche, la Corte ha spiegato che «[i]infatti, va escluso che la nozione di stato di necessità sia ammissibile nell’ambito particolare del sistema delle quote di cui all’art. 58 del trattato CECA, che è basato sulla solidarietà di tutte le imprese siderurgiche della comunità di fronte alla crisi e mira ad una ripartizione equa dei sacrifici che derivano da situazioni economiche ineluttabili» (148). Mutatis mutandis, queste parole potrebbero essere agevolmente trasposte al presente contesto.

250. Un poco più tardi, nel contesto del complesso regime in materia di smercio delle eccedenze di zucchero (149), nella causa Eridania zuccherifici nazionali e a. (150), la Corte è stata chiamata a decidere se il sistema di quote che, asseritamente, si ripercuoteva più gravemente, in termini finanziari, sui produttori italiani rispetto ai produttori di altri Stati membri fosse illegittimo. La Commissione, in difesa del regime, ha sostenuto che la fissazione di quote nazionali in base alla produzione effettiva delle imprese era conforme ai principi della solidarietà tra i produttori. La Corte ha affermato che «a ragione il Consiglio ha ripartito le quote fissate tra le singole imprese in base alla loro produzione effettiva. Siffatta ripartizione degli oneri è (…) consona al principio della solidarietà dei produttori, dato che la produzione costituisce un criterio legittimo per valutare ad un tempo l’importanza economica dei produttori e gli utili che essi ricavano dal sistema» (151).

251. Statuendo quanto precede, la Corte ha chiarito che il principio di solidarietà implica, talora, l’accettazione della condivisione di oneri.

252. Più recentemente, nella causa Grzelczyk (152), la Corte ha invocato la cittadinanza dell’Unione, unitamente alla solidarietà, come fondamento dell’obbligo del Belgio di concedere al sig. Grzelczyk accesso alla stessa prestazione sociale (il minimex) garantita ai suoi colleghi studenti di nazionalità belga nell’ultimo anno dei suoi studi. Nella causa Bidar (153), la Corte si è fondata su tale decisione per affermare che, sebbene uno Stato membro possa legittimamente esigere «un certo grado di integrazione» nello Stato membro ospitante prima di dare prova di solidarietà finanziaria, esso non poteva imporre requisiti aggiuntivi che rendessero impossibile, per i cittadini dell’Unione provenienti da altri Stati membri che soddisfacevano tali requisiti di residenza, l’ottenimento di un prestito per studenti.

253. La solidarietà è la linfa vitale del progetto europeo. Attraverso la loro partecipazione a tale progetto e la cittadinanza dell’Unione, gli Stati membri e i loro cittadini possiedono obblighi e benefici, doveri e diritti. In seno al «demos» europeo, la condivisione non equivale ad esaminare i trattati e il diritto derivato per verificare che cosa si può rivendicare. Essa esige anche l’assunzione di responsabilità collettive nonché oneri (sì, oneri) per promuovere il bene comune.

254. Rispettare le «regole del club» e fare la propria parte nella solidarietà con gli altri colleghi europei non possono fondarsi su un’avara analisi costi-benefici sul modello (ahimè noto, proveniente dalla retorica dei sostenitori della Brexit) di «quanto mi costa esattamente l’Unione a settimana e quali vantaggi personali ne traggo?» Tale egocentrismo è un tradimento della visione dei padri fondatori di un continente pacifico e prospero. È l’antitesi dell’essere uno Stato membro leale e dell’essere degno, in quanto individuo, di una cittadinanza europea condivisa. Affinché il progetto europeo prosperi e prosegua, dobbiamo tutti fare meglio di così.

255. Permettetemi di concludere ricordando una vecchia storia della tradizione ebraica che merita una diffusione più ampia. Un gruppo di uomini viaggiano insieme su una barca. Improvvisamente, uno di loro estrae una trivella e inizia a forare lo scafo sotto di sé. I suoi compagni protestano: «Perché lo stai facendo?», gridano. «Di cosa vi state lamentando?», risponde, «Non sto forse forando lo scafo sotto il mio sedile?». «Certo», rispondono i compagni, «Ma entrerà acqua e affonderà la barca con tutti noi a bordo» (154).

 Sulle spese

256. Ai sensi dell’articolo 138, paragrafo 1, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Commissione ha presentato una domanda di condanna alle spese relative ai procedimenti di infrazione contro ciascuno dei tre Stati membri convenuti e poiché ciascuno di tali Stati membri è risultato soccombente, la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica ceca devono essere condannate a sopportare le proprie spese nonché quelle sostenute dalla Commissione.

257. Ai sensi dell’articolo 140, paragrafo 1, del regolamento di procedura, le spese sostenute dagli Stati membri intervenuti nella causa restano a loro carico.

 Conclusione

258. Alla luce delle considerazioni che precedono, suggerisco alla Corte di decidere come segue:

 Causa C715/17, Commissione/Polonia

1)      Dichiarare che, non avendo indicato a intervalli regolari, e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che era in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio e qualsiasi altra informazione pertinente ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione (UE) 2015/1523 del Consiglio, del 14 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, e dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione (UE) 2015/1601 del Consiglio, del 22 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia, la Repubblica di Polonia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 5 di tali decisioni.

Di conseguenza, la ricollocazione dei richiedenti di cui all’articolo 4 della decisione 2015/1523 e all’articolo 4 della decisione 2015/1601, non è avvenuta secondo la procedura di ricollocazione di cui all’articolo 5 di tali decisioni. La violazione dell’articolo 5, in particolare, ha impedito all’Italia e alla Grecia di individuare i singoli richiedenti che potevano essere ricollocati in Polonia ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, e di adottare decisioni di ricollocazione di tali richiedenti ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 4, in contrasto con il principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE.

Di conseguenza, la Polonia è venuta meno anche agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 5, paragrafi da 5 a 11, della decisione 2015/1523 e della decisione 2015/1601, in particolare di completare il più rapidamente possibile la procedura di ricollocazione, come previsto dall’articolo 5, paragrafo 10, delle stesse.

2)      Condannare la Repubblica di Polonia alle spese.

3)      Dichiarare che la Repubblica ceca e l’Ungheria sopportano le proprie spese.

 Causa C718/17, Commissione/Ungheria

1)      Dichiarare che, non avendo indicato a intervalli regolari, e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che era in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio e qualsiasi altra informazione pertinente ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601, l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 5 di tale decisione.

Di conseguenza, la ricollocazione dei richiedenti di cui all’articolo 4 della decisione 2015/1601, non è avvenuta secondo la procedura di ricollocazione di cui all’articolo 5 di tale decisione. La violazione dell’articolo 5, in particolare, ha impedito all’Italia e alla Grecia di individuare i singoli richiedenti che potevano essere ricollocati in Ungheria ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, e di adottare decisioni di ricollocazione di tali richiedenti ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 4, in contrasto con il principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE.

Di conseguenza, l’Ungheria è venuta meno anche agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 5, paragrafi da 5 a 11, della decisione 2015/1601, in particolare di completare il più rapidamente possibile la procedura di ricollocazione, come previsto dall’articolo 5, paragrafo 10, della stessa.

2)      Condannare l’Ungheria alle spese.

3)      Dichiarare che la Repubblica ceca e la Polonia sopportano le proprie spese.

 Causa C719/17, Commissione/Repubblica ceca

1)      Dichiarare che, non avendo indicato a intervalli regolari, e almeno ogni tre mesi, il numero di richiedenti che era in grado di ricollocare rapidamente nel suo territorio e qualsiasi altra informazione pertinente ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1523 e dell’articolo 5, paragrafo 2, della decisione 2015/1601, la Repubblica ceca è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 5 di tali decisioni.

Di conseguenza, la ricollocazione dei richiedenti di cui all’articolo 4 della decisione 2015/1523 e all’articolo 4 della decisione 2015/1601, non è avvenuta secondo la procedura di ricollocazione di cui all’articolo 5 di tali decisioni. La violazione dell’articolo 5, in particolare, ha impedito all’Italia e alla Grecia di individuare i singoli richiedenti che potevano essere ricollocati nella Repubblica ceca ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, e di adottare decisioni di ricollocazione di tali richiedenti ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 4, in contrasto con il principio di leale cooperazione di cui all’articolo 4, paragrafo 3, TUE.

Di conseguenza, la Repubblica ceca è venuta meno anche agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 5, paragrafi da 5 a 11, della decisione 2015/1523 e della decisione 2015/1601, in particolare di completare il più rapidamente possibile la procedura di ricollocazione, come previsto dall’articolo 5, paragrafo 10, delle stesse.

2)      Condannare la Repubblica ceca alle spese.

3)      Dichiarare che l’Ungheria e la Polonia sopportano le proprie spese.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (GU 2013, L 180, pag. 31). Il regolamento Dublino III è la terza misura di questo tipo volta a disciplinare lo Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, a seguito della convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle comunità europee (GU 1997, C 254, pag. 1) (in prosieguo: la «convenzione di Dublino»), che è stata sostituita dal regolamento n. 343/2003 del Consiglio, del 18 febbraio 2003, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU 2003, L 50, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento Dublino II»).


3      Per una descrizione più dettagliata di tali eventi, v. le mie conclusioni nella causa AS e Jafari, C‑490/16 e C‑646/16, EU:C:2017:443, paragrafi da 1 a 18.


4      Consistenti ingressi si sono verificati anche attraverso la «rotta dei Balcani occidentali», come riferito nelle mie conclusioni nella causa AS e Jafari, C‑490/16 e C‑646/16, EU:C:2017:443, paragrafi da 7 a 18.


5      L’articolo 13 del regolamento Dublino III prevede che «quando (…) il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». In generale, alla maggior parte delle persone richiedenti protezione internazionale che ha fatto ingresso in Italia e in Grecia era applicabile tale disposizione.


6      Nelle mie conclusioni nella causa Mengesteab (C‑670/16, EU:C:2017:480, paragrafi da 69 a 73), ho richiamato l’attenzione su alcuni dei problemi di fondo connessi all’attribuzione automatica della competenza, ai sensi dell’articolo 13 del regolamento Dublino III, allo Stato membro «costiero», che riceve le persone che sbarcano a seguito di un’operazione di ricerca e salvataggio marittimo (in prosieguo: «operazione SAR»). Tali (complessi) problemi rimangono tuttora senza risposta.


7      Già nel 2011 la Corte aveva riconosciuto, nella sentenza del 21 dicembre 2011, N.S. e a., (C‑411/10 e C‑493/10, EU:C:2011:865, punti da 81 a 94) che potevano verificarsi circostanze in cui uno Stato membro (nella fattispecie, il Regno Unito) non poteva rinviare in Grecia un richiedente asilo poiché, in tale Stato membro, il sistema per il trattamento delle domande di protezione internazionale era prossimo al collasso.


8      Decisione del 14 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia (GU 2015, L 239, pag. 146).


9      Decisione del 22 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia (GU 2015, L 248, pag. 80).


10      Sentenza del 6 settembre 2017, Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, C‑643/15 e C‑647/15, EU:C:2017:631 (in prosieguo: la «sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio»). V., inoltre, paragrafi da 62 a 69 infra.


11      V., inoltre, paragrafi da 86 a 88 infra, per le conclusioni di ciascun ricorso.


12      Proclamata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite a Parigi, il 10 dicembre 1948, risoluzione dell’Assemblea generale 217 A.


13      Sebbene la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo non sia giuridicamente vincolante, essa costituisce un punto di riferimento tanto per il diritto internazionale, quanto per il diritto dell’Unione. V. Zamfir, I., The Universal Declaration of Human Rights and its relevance for the European Union, Parlamento europeo 2018, EPRS_ATA (2018)628295_EN.


14      Firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 ed entrata in vigore il 22 aprile 1954 (United Nations Treaty Series, vol. 189, pag. 137), come integrata dal Protocollo relativo allo status di rifugiato, concluso a New York il 31 gennaio 1967 (United Nations Treaty Series, vol. 606, pag. 267) ed entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo, congiuntamente: la «convenzione di Ginevra»).


15      Il considerando 2 del regolamento Dublino III descrive la politica comune in materia di asilo, ivi compreso il CEAS, come «un elemento fondamentale dell’obiettivo dell’Unione (…) di istituire progressivamente uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia aperto a quanti, spinti dalle circostanze, cercano legittimamente protezione nell’Unione».


16      GU 2012, C 326, pag. 391.


17      Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9). La direttiva qualifiche ha abrogato la precedente direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, (GU 2004, L 304, pag. 12). Anche la direttiva 2004/83 conteneva disposizioni che disciplinavano l’esclusione dallo status di rifugiato (articolo 12) o dalla protezione sussidiaria (articolo 17) e disposizioni che consentivano la cessazione o la revoca di tale status, una volta riconosciuto [articolo 14 (rifugiati) e articolo 19 (persone che beneficiano della protezione sussidiaria)] quando vi erano fondati motivi per ritenere che la persona in questione costituisse un pericolo per la sicurezza dello Stato membro in cui si trovava.


18      Le differenze principali consistono nel fatto che l’articolo 12, paragrafo 2, lettera b) fa riferimento a «un reato grave di diritto comune» e afferma che «atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico (…) possono essere classificati quali reati gravi di diritto comune»; inoltre, l’articolo 12, paragrafo 2, lettera c), fa espresso riferimento alla commissione di «atti contrari alle finalità e ai principi delle Nazioni Unite quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite» quale motivo di esclusione.


19      V. anche il considerando 37, il quale chiarisce che «[n]ella nozione di sicurezza nazionale e di ordine pubblico rientrano anche i casi in cui un cittadino di un paese terzo faccia parte di un’organizzazione che sostiene il terrorismo internazionale o sostenga una siffatta organizzazione».


20      La formulazione dell’articolo 19, paragrafo 2, prevede, in realtà «avrebbe dovuto essere escluso dall’avere titolo (…) in conformità dell’articolo 17, paragrafo 3» (il corsivo è mio). Tuttavia, poiché quest’ultima disposizione attribuisce agli Stati membri la facoltà di escludere un richiedente, anziché obbligarli ad agire in tal senso, ho utilizzato il termine «potuto», che mi sembra più logico, nel testo delle mie conclusioni.


21      Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).


22      La formulazione dell’articolo 25 è, per usare un termine delicato, contorta; rimando i lettori interessati ad approfondire ulteriormente questo punto al testo integrale della direttiva procedure.


23      V. anche, in tale contesto, il considerando 20: «[i]n circostanze ben definite [in cui] vi sono gravi preoccupazioni di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, gli Stati membri dovrebbero poter accelerare la procedura di esame, introducendo in particolare termini più brevi, ma ragionevoli, in talune fasi procedurali, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo e un accesso effettivo del richiedente ai principi fondamentali e alle garanzie previsti dalla presente direttiva».


24      Direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 96).


25      Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU 2008, L 348, pag. 98).


26      Gli Stati membri possono decidere di non applicare la direttiva ai cittadini di paesi terzi che rientrino in una delle deroghe elencate all’articolo 2, paragrafo 2, ossia agli individui «a) sottoposti a respingimento alla frontiera conformemente all’articolo 13 del codice frontiere Schengen ovvero fermati o scoperti dalle competenti autorità in occasione dell’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della frontiera esterna di uno Stato membro e che non hanno successivamente ottenuto un’autorizzazione o un diritto di soggiorno in tale Stato membro» o «b) sottoposti a rimpatrio come sanzione penale o come conseguenza di una sanzione penale, in conformità della legislazione nazionale, o sottoposti a procedure di estradizione». Inoltre, la direttiva non si applica ai «beneficiari del diritto [dell’Unione] alla libera circolazione, quali definiti all’articolo 2, paragrafo 5, del codice frontiere Schengen» (una deroga difficilmente rilevante nella presente causa).


27      Definita, all’articolo 3, paragrafo 4, come «decisione o atto amministrativo o giudiziario che attesti o dichiari l’irregolarità del soggiorno di un cittadino di paesi terzi e imponga o attesti l’obbligo di rimpatrio» (mentre quest’ultimo termine è definito in dettaglio all’articolo 3, paragrafo 3).


28      Raccomandazione della Commissione dell’8 giugno 2015 relativa a un programma di reinsediamento europeo C(2015)3560 final.


29      V. la relazione alla proposta della Commissione di decisione del Consiglio che modifica la decisione (UE) 2015/1601 del Consiglio, del 22 settembre 2015, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio dell’Italia e della Grecia [COM(2016) 171 final], pag. 2. Gli Stati associati al sistema di Dublino hanno partecipato, con gli Stati membri dell’Unione, alla successiva azione.


30      Documento del Consiglio 11130/15: «Conclusioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio sul reinsediamento, attraverso programmi multilaterali e nazionali, di 20 000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale» (in prosieguo: la «risoluzione del 20 luglio 2015»).


31      V. documento del Consiglio 11969/15 PRESSE 53 PR CO 45 sulla sessione 3498 del Consiglio. Conformemente ai Protocolli nn. 21 e 22 dei trattati dell’Unione, la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito non hanno partecipato all’adozione della decisione 2015/1523.


32      V. sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio, punto 11. La proposta originale della Commissione per quanto concerne tale decisione è stata modificata dal Consiglio, su richiesta dell’Ungheria, nel senso di sopprimere tutti i riferimenti all’Ungheria come Stato membro beneficiario. Nella successiva votazione, la Repubblica ceca, l’Ungheria, la Romania e la Repubblica slovacca hanno votato contro l’adozione della proposta modificata. La Finlandia si è astenuta. Come nel caso della decisione 2015/1523, in conformità ai Protocolli nn. 21 e 22 dei trattati dell’Unione, la Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito non hanno partecipato all’adozione della decisione 2015/1601.


33      COM(2016) 171 final, punto 1.2, pag. 2.


34      I considerando da 1 a 5 della decisione 2015/1601 ricalcano i considerando da 1 a 5 della decisione 2015/1523. Pertanto, non li riprodurrò nel prosieguo, al paragrafo 51. A seguito dei primi cinque considerando, la numerazione è differente, ma il contenuto è spesso sostanzialmente uguale.


35      Regolamento (CE) n. 1560/2003 della Commissione, del 2 settembre 2003, recante modalità di applicazione del regolamento n. 343/2003 (GU 2003, L 222, pag. 3).


36      Regolamento di esecuzione (UE) n. 118/2014 della Commissione, del 30 gennaio 2014, che modifica il regolamento (CE) n. 1560/2003 (GU 2014, L 39, pag. 1).


37      Regolamento del 16 aprile 2014, che istituisce il Fondo Asilo, migrazione e integrazione, che modifica la decisione 2008/381/CE del Consiglio e che abroga le decisioni n. 573/2007/CE e n. 575/2007/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e la decisione 2007/435/CE del Consiglio (GU 2014, L 150, pag. 168).


38      L’articolo 8 descriveva le misure complementari a carico dell’Italia e della Grecia, che dovevano essere presentate alla Commissione, da ciascuno di tali Stati membri, entro il 16 settembre 2015, in una «tabella di marcia».


39      I considerando da 1 a 5 della decisione 2015/1601 ricalcano i considerando da 1 a 5 della decisione 2015/1523, riprodotti supra, al paragrafo 42.


40      I considerando della decisione 2015/1601 che corrispondono a quelli già riprodotti al paragrafo 42 per quanto concerne la decisione 2015/1523 sono i considerando 10, 16, 21, 22, 23, 24, 30, 31, 32 e 38. Onde evitare la duplicazione di informazioni, non li ho riportati una seconda volta.


41      La decisione 2015/1601 è stata debitamente modificata dalla decisione (UE) 2016/1754 del Consiglio: v. infra, paragrafo 55 e nota 42.


42      L’articolo 4, paragrafo 3 bis, è stato inserito dalla decisione (UE) 2016/1754 del Consiglio, del 29 settembre 2016, che modifica la decisione 2015/1601 (GU 2016, L 268, pag. 82). La finalità di tale modifica consisteva nel tenere conto degli sforzi compiuti dagli Stati membri ammettendo cittadini siriani presenti in Turchia mediante reinsediamento, ammissione umanitaria o altre forme di ammissione legale ai fini della determinazione del numero totale dei richiedenti protezione internazionale da ricollocare nel loro territorio a norma della decisione 2015/1601. Per quanto concerne i 54 000 richiedenti di cui all’articolo 4, paragrafo 1, lettera c), della decisione 2015/1601, tale modifica ha consentito agli Stati membri di sottrarre dal numero di richiedenti ricollocati loro assegnato il numero di cittadini siriani presenti in Turchia ammessi nel loro territorio mediante reinsediamento, ammissione umanitaria o altre forme di ammissione legale a titolo di programmi nazionali o multilaterali diversi dal programma di reinsediamento istituito a norma delle conclusioni dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio, del 20 luglio 2015. Si applicava l’articolo 10 della decisione (UE) 2015/1601 del Consiglio, di modo che agli Stati membri che facessero uso di tale meccanismo era corrisposta la somma di EUR 6 500 per ciascun richiedente ricollocato. V. COM(2016) 171 final, punto 2.1.


43      Regolamento (UE) n. 603/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che istituisce l’«Eurodac» per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento 604/2013 e per le richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il regolamento (UE) n. 1077/2011 che istituisce un’agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (GU 2013, L 180, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento Eurodac»). L’articolo 9, paragrafo 1, di detto regolamento stabilisce che «[c]iascuno Stato membro procede tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita di ogni richiedente protezione internazionale di età non inferiore a 14 anni».


44      L’articolo 5, paragrafo 9 della decisione 2015/1601 era, essenzialmente, una versione più elaborata dell’articolo 5, paragrafo 9 della decisione 2015/1523.


45      V., infra, paragrafo 74. A titolo informativo, elenco tali relazioni qui di seguito: prima relazione del 16 marzo 2016, COM(2016) 165 final; seconda relazione del 12 aprile 2016, COM(2016) 222 final; terza relazione del 18 maggio 2016, COM(2016) 360 final; quarta relazione del 15 giugno 2016, COM(2016) 416 final; quinta relazione del 13 luglio 2016, COM(2016) 480 final; sesta relazione del 28 settembre 2016, COM(2016) 636 final; settima relazione del 9 novembre 2016, COM(2016) 720 final; ottava relazione dell’8 dicembre 2016, COM(2016) 791 final; nona relazione dell’8 febbraio 2017, COM(2017) 74 final; decima relazione del 2 marzo 2017, COM(2017) 202 final; undicesima relazione del 12 aprile 2017, COM(2017) 212 final; dodicesima relazione del 16 maggio 2017, COM(2017) 260 final; tredicesima relazione del 13 giugno 2017, COM(2017) 330 final; quattrodicesima relazione del 26 luglio 2017, COM(2017) 405 final; e quindicesima relazione del 6 settembre 2017 COM(2017) 465 final. Successivamente, sulla base della comunicazione della Commissione del 13 maggio 2015 sull’Agenda europea sulla migrazione, COM(2015) 240 final, la Commissione ha adottato una prima relazione sullo stato di attuazione, del 15 novembre 2017, COM(2017) 669 final, una seconda seconda relazione sullo stato di attuazione, del 14 marzo 2018, COM(2018) 250 final, una terza relazione sullo stato di attuazione, del 16 maggio 2018, COM(2018) 301 final, e una quarta relazione sullo stato di attuazione, del 6 marzo 2019, COM(2019) 126 final.


46      La Polonia è intervenuta a sostegno della Repubblica slovacca e dell’Ungheria. Belgio, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lussemburgo, Svezia e la Commissione sono intervenuti a sostegno del Consiglio nella difesa della decisione 2015/1601.


47      Conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa Repubblica slovacca/Consiglio e Ungheria/Consiglio,  C‑643/15 e C‑647/15, EU:C:2017:618.


48      V. infra, paragrafi da 82 a 90, per il procedimento precontenzioso.


49      Per esigenze di precisione, ricordo che la sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio  aveva ad oggetto soltanto la decisione 2015/1601. Il termine per l’impugnazione della decisione 2015/1523, ad essa precedente, era già spirato da tempo; inoltre, il meccanismo nodale delle due decisioni era simile. La Polonia e la Repubblica ceca sono gli unici Stati membri attualmente chiamati a rispondere dinanzi alla Corte del mancato rispetto della decisione 2015/1523. Pur rischiando di apparire pragmatica, anziché purista, non vedo come possa essere realistico pensare, alla luce dell’accurata e lunga sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio,  che  uno di questi Stati possa avanzare argomenti nuovi tali da minare la validità della decisione 2015/1523 (e, infatti, nessuno di essi ha inteso farlo).


50      V. supra, paragrafo 39 e nota 29.


51      Dinanzi alla Corte non sono stati presentati documenti concernenti il contenuto di tale risoluzione. V. infra, paragrafo 79.


52      Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio europeo e al Consiglio, COM(2016) 120 final. Tale comunicazione ha costituito la base delle relazioni menzionate supra, alla nota 45, e citate ai paragrafi 75, 76, 80 e 81 del testo.


53      V. supra, nota 45, sezione 1, pag. 2 della relazione.


54      V. supra, nota 45, sezione 2, pag. 3 della relazione.


55      Rif. Ares(2017)2738421-31/05/2017.


56      V. supra, nota 45, sezione 2, pag. 4 della relazione.


57      V. supra, nota 45, sezione 2, pag. 3 della relazione.


58      Le date di tali lettere sono, rispettivamente, il 15 giugno 2017 (causa C‑718/17, Commissione/Ungheria e causa C‑719/17, Commissione/Repubblica ceca) e il 16 giugno 2017 (causa C‑715/17, Commissione/Polonia).


59      V. sentenza del 24 maggio 2011, Commissione/Grecia, C‑61/08, EU:C:2011:340, punto 122 e giurisprudenza ivi citata.


60      V. anche infra, paragrafi da 107 a 110, per quanto concerne la presunta violazione del principio della parità di trattamento.


61      Sentenza del 24 aprile 2007, Commissione/Paesi Bassi, C‑523/04, EU:C:2007:244, punto 28.


62      V. von Bardeleben, E., Donnat, F. e Siritzky D., La Cour de justice de l’Union européenne et le droit du contentieux européen, La Documentation française, Parigi, 2012, pag. 196.


63      V. sentenza del 19 settembre 2017, Commissione/Irlanda, C‑552/15, EU:C:2017:698, punto 35 e giurisprudenza ivi citata.


64      Sentenza del 9 luglio 1970, Commissione/Francia, 26/69, EU:C:1970:67, punti 9 e 10.


65      Sentenza del 9 novembre 1999, Commissione/Italia, C‑365/97, EU:C:1999:544.


66      Sentenza del 9 dicembre 2004, Commissione/Francia, C‑177/03, EU:C:2004:784.


67      Sentenza del 9 dicembre 2004, Commissione/Francia, C‑177/03, EU:C:2004:784, punto 21.


68      Sentenze del 3 marzo 2016, Commissione/Malta, C‑12/14, EU:C:2016:135, punto 26, e del 6 ottobre 2009, Commissione/Spagna, C‑562/07, EU:C:2009:614, punto 25 e giurisprudenza ivi citata.


69      Sentenza del 9 luglio 1970, Commissione/Francia, 26/69, EU:C:1970:67, punto 10 (il corsivo è mio).


70      Come affermato dalla Corte nella sua sentenza del 15 novembre 2012, Commissione/Portogallo (C‑34/11, EU:C:2012:712, punto 36), citata dalla Polonia nelle sue memorie, la Commissione trae vantaggio da siffatto chiarimento, anche se concerne una situazione passata.


71      L’Ungheria solleva un ulteriore argomento, di natura tecnica, specificamente riguardante il suo caso, di cui mi occuperò brevemente infra, al paragrafo 120.


72      V. sentenza del 19 settembre 2017, Commissione/Irlanda, C‑552/15, EU:C:2017:698, punto 34 e giurisprudenza ivi citata.


73      Sentenza del 3 marzo 2016, Commissione/Malta, C‑12/14, EU:C:2016:135, punto 25.


74      V. sentenza dell’11 luglio 2018, Commissione/Belgio, C‑356/15, EU:C:2018:555, punto 106 e giurisprudenza ivi citata.


75      Così, ad esempio, nella tredicesima relazione sulla ricollocazione e il reinsediamento si osserva che l’Austria ha assunto il suo primo e unico impegno formale di ricollocazione nel maggio 2017. Tale impegno avrebbe riguardato 50 persone provenienti dall’Italia, 15 delle quali sono state effettivamente ricollocate nel territorio austriaco (v. allegato 2 della tredicesima relazione).


76      Nelle sue memorie scritte, anche la Polonia si è lamentata del breve periodo ad essa concesso per rispondere alle lettere nel procedimento precontenzioso, senza tuttavia invocare la violazione dei suoi diritti di difesa. Interpreto tale parte della difesa della Polonia come volta a dimostrare che l’obiettivo della Commissione era la constatazione dell’inadempimento da parte dei tre Stati membri convenuti, al fine di stigmatizzarli per la loro opposizione al meccanismo di ricollocazione imposto dalle decisioni di ricollocazione.


77      V. sentenza del 19 settembre 2017, Commissione/Irlanda, C‑552/15, EU:C:2017:698, punto 28 e giurisprudenza ivi citata.


78      V. sentenza del 19 settembre 2017, Commissione/Irlanda, C‑552/15, EU:C:2017:698, punto 29 e giurisprudenza ivi citata.


79      Sentenza del 13 dicembre 2001, Commissione/Francia, C‑1/00, EU:C:2001:687, punto 65 e giurisprudenza ivi citata, il corsivo è mio.


80      V. sentenza del 19 settembre 2017, Commissione/Irlanda, C‑552/15, EU:C:2017:698, punto 34 e giurisprudenza ivi citata.


81      Sentenza del 2 febbraio 1988, Commissione/Belgio, 293/85, EU:C:1988:40.


82      Sentenza del 7 aprile 2011, Commissione/Portogallo C‑20/09, EU:C:2011:214, punto 41.


83      Ricordo che, nel caso dell’Ungheria, è in discussione soltanto la decisione 2015/1601.


84      V. anche i paragrafi da 138 a 143 delle presenti conclusioni per quanto concerne la definizione del presunto inadempimento.


85      Per completezza, osservo che gli argomenti addotti dinanzi alla Corte dai tre Stati membri convenuti (nei loro controricorsi, controrepliche e memorie d’intervento) sono simili a quelli sollevati nelle loro risposte alle lettere di messa in mora e ai pareri motivati. Ciò conferma la mia conclusione secondo cui, nonostante i termini relativamente brevi fissati per rispondere alla corrispondenza della Commissione durante il procedimento precontenzioso, non vi è stata alcuna lesione dei diritti della difesa degli Stati membri.


86      V., inoltre, paragrafi da 169 a 171 infra.


87      Il punto 21 del ricorso della Commissione chiarisce il collegamento tra le due date in questione (13 maggio e 13 agosto 2016).


88      Comunicazione pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (GU 2018, C 112, pag. 19).


89      La Repubblica ceca ha sottolineato che, similmente, il petitum nel ricorso contro l’Ungheria (causa C‑718/17) omette di indicare la data di inizio dell’infrazione. L’Ungheria non ha sollevato tale questione nella sua difesa. Osservo che, mentre sia la Polonia sia la Repubblica ceca hanno effettuato limitate notifiche ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 2, delle decisioni di ricollocazione, l’Ungheria non ha mai adempiuto, neppure parzialmente, ai suoi obblighi ai sensi della decisione 2015/1601. Non era pertanto necessario (se non unicamente a titolo di pro forma) specificare una data di inizio dell’infrazione per quanto concerne l’Ungheria.


90      V. sentenza del 19 settembre 2017, Commissione/Irlanda, C‑552/15, EU:C:2017:698, punto 38 e giurisprudenza ivi citata.


91      Ai punti 21 e 33 dello stesso.


92      Ribadisco che «l’oggetto di un ricorso per inadempimento (…) è determinato dal procedimento precontenzioso (…). Pertanto, il ricorso deve essere basato sui medesimi motivi e mezzi del parere motivato» (v. sentenza dell’8 dicembre 2005, Commissione/Lussemburgo, C‑33/04, EU:C:2005:750, punto 36).


93      V. infra, paragrafi da 172 a 176.


94      Al punto 66. In seguito, ai punti da 70 a 74, la Corte ha analizzato più da vicino la natura delle «misure temporanee» adottate ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE e ha spiegato che l’articolo 78, paragrafi 2 e 3, sono due disposizioni di diritto primario dell’Unione distinte, che perseguono obiettivi differenti. Le misure adottate ai sensi dell’articolo 78, paragrafo 3, TFUE, sono «misure temporanee a carattere non legislativo intese a rispondere a breve termine ad una determinata situazione di emergenza che gli Stati membri si trovino a dover affrontare» (punto 73). V. anche paragrafi da 64 a 68 delle conclusioni dell’avvocato generale Bot in tali cause.


95      V. sentenze del 22 ottobre 2014, Commissione/Paesi Bassi, C‑252/13, EU:C:2014:2312, punto 34; del 16 gennaio 2014, Commissione/Spagna C‑67/12, EU:C:2014:5, punto 42; e del 16 luglio 2009 Commissione/Polonia, C‑165/08, EU:C:2009:473, punto 43.


96      Per le contestazioni specifiche e il petitum in ciascuno dei procedimenti di infrazione, v. supra, paragrafi da 86 a 88.


97      Per quanto concerne l’impatto dell’articolo 4, paragrafo 3 bis, della decisione 2015/1601, aggiunto dalla decisione 2015/1754, v. nota 42.


98      V. supra, paragrafo 70.


99      V. supra, paragrafo 72.


100      V. supra, paragrafo 71.


101      La Polonia richiama, a tal riguardo, la sentenza del 9 dicembre 1997, Commissione/Francia, C‑265/95, EU:C:1997:595, punto 33.


102      «Stato membro di ricollocazione» è il termine impiegato nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio  per descrivere lo Stato membro in cui sarebbe avvenuta la ricollocazione da uno Stato membro in prima linea. V., ad esempio, punto 290.


103      Sentenza del 19 luglio 2012, Adil, C‑278/12 PPU, EU:C:2012:508.


104      Regolamento (CE) n. 562/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, che istituisce un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen), (GU 2006, L 105, pag. 1).


105      Sentenza del 19 luglio 2012, Adil, C‑278/12 PPU, EU:C:2012:508, punti 53 e 54.


106      Sentenza del 19 luglio 2012, Adil, C‑278/12 PPU, EU:C:2012:508, punto 56.


107      Sentenza del 19 luglio 2012, Adil, C‑278/12 PPU, EU:C:2012:508, punto 66.


108      Sentenza del 21 giugno 2017, A., C‑9/16, EU:C:2017:483.


109      L’argomento della Polonia, come riportato al punto 306 della sentenza.


110      Punto 309 della sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio.


111      Sentenza del 15 febbraio 2016, N., C‑601/15 PPU, EU:C:2016:84, punto 65.


112      Sentenza dell’11 giugno 2015, Zh. e O., C‑554/13, EU:C:2015:377, punto 48.


113      V. paragrafo 4 delle mie conclusioni nella causa AS e Jafari C‑490/16 e C‑646/16, EU:C:2017:443.


114      V. supra, paragrafo 19.


115      V. (passim) sentenza del 27 ottobre 1977, Bouchereau, 30/77, EU:C:1977:172 (una causa concernente l’interpretazione degli articoli 2 e 3 della direttiva 64/221/CEE). V. ora, sempre nel contesto della libera circolazione delle persone, l’articolo 27, paragrafo 2, della direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE (GU 2004, L 158, pag. 77) (in prosieguo: la «direttiva sui diritti dei cittadini»).


116      Indubbiamente, la validità della decisione 2015/1601 è stata confermata dalla Grande Sezione nella sentenza Repubblica slovacca e Ungheria/Consiglio.


117      Le domande di pronuncia pregiudiziale proposte nel quadro di tali cause hanno condotto alle sentenze del 19 giugno 1990, Factortame e a., C‑213/89, EU:C:1990:257 (la questione dei provvedimenti provvisori); del 25 luglio 1991, Factortame e a., C‑221/89, EU:C:1991:320 (la causa di merito) e del 5 marzo 1996, Brasserie du Pêcheure e Factortame, C‑46/93 e C‑48/93, EU:C:1996:79 (la domanda di risarcimento). Le attente conclusioni dell’avvocato generale Mischo in Factortame e a. (C‑221/89, non pubblicate, EU:C:1991:113), in particolare, meritano di essere studiate. Inoltre, la Commissione ha proposto un ricorso per inadempimento nei confronti del Regno Unito (sentenza del 4 ottobre 1991, Commissione/Regno Unito, C‑246/89, EU:C:1991:375) e, in parallelo, una domanda (accolta) di provvedimenti provvisori, (sentenza del 10 ottobre 1989, Commissione/Regno Unito, 246/89 R, EU:C:1989:368).


118      In qualità di navigatrice (della vecchia scuola), rilevo che, tecnicamente, una nave «batte» una bandiera («wears a flag») e non la fa volare («flies a flag»). Tuttavia, le traduzioni ufficiali in inglese dei documenti della Corte hanno consacrato l’uso del verbo «fly», sicché mi atterrò a tale terminologia nelle prossime citazioni dirette.


119      Il procedimento concerneva 95 navi che, fino ad allora, erano state immatricolate nel registro britannico delle navi ai sensi del Merchant Shipping Act 1894. Di dette navi, 53 originariamente immatricolate in Spagna e battenti bandiera spagnola erano state immatricolate nel registro britannico in diverse date a decorrere dal 1980. Le rimanenti 42 navi erano sempre state immatricolate nel Regno Unito, ma erano state acquistate da società spagnole in diverse date. Una di queste società, la Rawlings Trawling, mirabilmente qualificata come «cattura accessoria» da Nicholas Forwood (all’epoca un barrister di rango elevato) nel corso dell’udienza in materia di provvedimenti provvisori (causa C‑213/89), non era spagnola, ma si è trovata coinvolta nella battaglia giudiziaria che ne è derivata. Cfr. anche la sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a., C‑221/89, EU:C:1991:320, punti da 3 a 10.


120      Gli Stati membri richiamavano l’articolo 5, paragrafo 1 della convenzione di Ginevra sull’alto mare, del 29 aprile 1958 (United Nations Treaty Series, vol. 450, n. 6465): «[o]gni Stato fissa le condizioni alle quali esso accorda la sua nazionalità alle navi nonché le condizioni dell’immatricolazione e del diritto di battere la sua bandiera. Le navi possiedono la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. È necessario un legame sostanziale tra lo Stato e la nave: lo Stato deve, in particolare, esercitare effettivamente la propria giurisdizione e il proprio controllo, nei settori tecnico, amministrativo e previdenziale sulle navi battenti la sua bandiera».


121      Sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a., C‑221/89, EU:C:1991:320, punto 13. La Corte aveva già statuito, nella sentenza del 19 gennaio 1988, Pesca Valentia/Ministro della pesca e delle foreste, 223/86, EU:C:1988:14, punto 13, che il regolamento del Consiglio relativo all’attuazione di una politica comune delle strutture nel settore della pesca lasciava la definizione delle nozioni «battenti bandiera» di uno Stato membro o «immatricolati», di cui al suddetto regolamento, alle normative degli Stati membri


122      Sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a., C‑221/89, EU:C:1991:320, punto 14 e giurisprudenza ivi citata.


123      Sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a., C‑221/89, EU:C:1991:320, punto 16.


124      Sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a., C‑221/89, EU:C:1991:320, punto 17 e primo paragrafo del dispositivo, il corsivo è mio.


125      V. sentenze del 26 maggio 2016, NN (L) International, C‑48/15, EU:C:2016:356, punto 43, e del 23 febbraio 2016, Commissione/Ungheria, C‑179/14, EU:C:2016:108, punto 171 e giurisprudenza ivi citata.


126      Richiamo, in particolare, l’articolo 14, paragrafo 4, lettere a) e b) (v. supra, paragrafo 23) e l’articolo 19, paragrafo 3, lettera a) (v. supra, paragrafo 25).


127      V. supra, paragrafo 30.


128      V. supra, paragrafo 29.


129      V. supra, paragrafo 32.


130      V. supra, paragrafo 33.


131      Sentenza del 26 luglio 2005, CE:ECHR:2005:0726JUD003888502, § 158.


132      Sentenza del 24 maggio 2011, Commissione/Lussemburgo, C‑51/08, EU:C:2011:336, punto 124.


133      Risk Analysis for 2016, Frontex 2016, ISBN 978-92-95205-47-5, pag. 5.


134      V. considerando 26 della decisione 2015/1523 e considerando 32 della decisione 2015/1601.


135      V., in particolare, articolo 5, paragrafi 4, 5 e 9 delle stesse. Inoltre, l’articolo 5, paragrafo 8, consente la nomina di funzionari di collegamento per facilitare il processo di ricollocazione.


136      Punto 309. Il principio della fiducia reciproca è ormai uno dei fondamenti del diritto dell’Unione e caratterizza un’ampia parte della cooperazione tra gli Stati membri nell’ambito dello SLSG.V. parere 2/13 (Adesione dell’Unione europea alla CEDU), del 18 dicembre 2014, EU:C:2014:2454, punto 191. La Corte ha chiarito, inoltre, che la fiducia reciproca non è una fiducia cieca: v. sentenza del 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, C‑404/15 e C‑659/15 PPU, EU:C:2016:198, punti da 78 a 82.


137      V. decisione di esecuzione (UE) 2016/408 del Consiglio, del 10 marzo 2016, relativa alla sospensione temporanea della ricollocazione del 30% dei richiedenti assegnati all’Austria a norma della decisione (UE) 2015/1601 (GU 2016, L 74, pag. 36) e decisione (UE) 2016/946 del Consiglio, del 9 giugno 2016, che istituisce misure temporanee nel settore della protezione internazionale a beneficio della Svezia, conformemente all’articolo 9 della decisione (UE) 2015/1523 e all’articolo 9 della decisione (UE) 2015/1601 (GU 2016, L 157, pag. 23).


138      Secondo considerando.


139      Quarto considerando.


140      Sentenza del 23 aprile 1986, Les Verts/Parlamento, 294/83, EU:C:1986:166, punto 23.


141      Un esempio notevole, proveniente dal mio Stato membro di origine, è offerto dalla sentenza della Corte suprema del Regno Unito nella causa R (Miller) c The Prime Minister e Cherry c. Advocate General for Scotland [2019] UKSC 41.


142      V. sentenza del 24 giugno 2019, Commissione/Polonia, C‑619/18 (Indipendenza della Corte suprema), EU:C:2019:531.


143      Sentenza del 6 marzo 2018, Achmea, C‑284/16, EU:C:2018:158, punto 34 e giurisprudenza ivi citata, il corsivo è mio. V. in termini analoghi, sentenza del 14 settembre 2017, The Trustees of the BT Pension Scheme, C‑628/15, EU:C:2017:687, punto 47.


144      V. la lunga e dettagliata sentenza del 27 marzo 2019, Commissione/Germania, C‑620/16, EU:C:2019:256, e, in particolare, le conclusioni raggiunte ai punti da 98 a 100.


145      V., ad esempio, sentenze del 6 febbraio 2018, Altun e a., C‑359/16, EU:C:2018:63, punto 42 e del 3 marzo 2016, Commissione/Malta, C‑12/14, EU:C:2016:135, punto 37.


146      Il testo integrale della Dichiarazione è disponibile al seguente sito Internet: https://europa.eu/european-union/about-eu/symbols/europe-day/schuman-declaration_it


147      CELEX: 11951K.


148      Sentenza del 14 dicembre 1983, Klöckner-Werke/Commissione, 263/82, EU:C:1983:373, punto 17 (il corsivo è mio). Anche i punti da 18 a 20 meritano attenzione.


149      A seguito del mio arrivo alla Corte, nel 2006, ho avuto il delicato privilegio di esaminare alcuni aspetti di tale regime in una serie di conclusioni e i lettori interessati ad approfondire il funzionamento del mercato dello zucchero sono invitati a consultare tali documenti. V., ad esempio, le mie conclusioni nelle cause Zuckerfabrik Jülich (C‑5/06 e da C‑23/06 a C‑36/06, EU:C:1007:346), e Zuckerfabrik Jülich e a. (C‑113/10, C‑147/10 e C‑234/10, EU:C:2011:701).


150      Sentenza del 22 gennaio 1986, Eridania zuccherifici nazionali e a., 250/84, EU:C:1986:22.


151      Sentenza del 22 gennaio 1986, Eridania zuccherifici nazionali e a., 250/84, EU:C:1986:22, punto 20.


152      Sentenza del 20 settembre 2001, Grzelczyk, C‑184/99, EU:C:2001:458. V. la lunga e attenta analisi di cui ai punti da 31 a 46 e lo specifico riferimento a «una certa solidarietà finanziaria dei cittadini di tale Stato con quelli degli altri Stati membri», al punto 44.


153      Sentenza del 15 marzo 2005, Bidar, C‑209/03, EU:C:2005:169. V., in particolare, punti da 56 a 63.


154      Dagli insegnamenti del rabbino Shimon bar Yochai («Rashbi»: secondo secolo d.C.), citato in Midrash, Vayikra Rabbah 4:6. V. https://www.sefaria.org/Vayikra_Rabbah.1.1?lang=bi&with=all&lang2=en. Ho reso la traduzione più agevolmente leggibile.