Language of document : ECLI:EU:C:2019:678

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

MICHAL BOBEK

presentate il 5 settembre 2019 (1)

Causa C228/18

Gazdasági Versenyhivatal

contro

Budapest Bank Nyrt.,

ING Bank NV Magyarországi Fióktelepe,

OTP Bank Nyrt.,

Kereskedelmi és Hitelbank Zrt.,

Magyar Külkereskedelmi Bank Zrt.,

Erste Bank Hungary Zrt.,

Visa Europe Ltd,

MasterCard Europe SA

[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Kúria (Corte suprema, Ungheria)]

«Concorrenza – Articolo 101, paragrafo 1, TFUE – Accordi, decisioni e pratiche concordate – Restrizione della concorrenza «per oggetto» o «per effetto» – Sistema di carte di pagamento in Ungheria – Accordo sulla commissione interbancaria – Partecipazione»






I.      Introduzione

1.        Sin dagli albori del diritto dell’Unione in materia di concorrenza è stato versato molto inchiostro sulla questione della dicotomia tra restrizione della concorrenza per oggetto e restrizione per effetto (2). Può quindi sorprendere che tale distinzione, derivante dalla formulazione stessa del divieto di cui all’(attuale) articolo 101 TFUE, continui a richiedere un’interpretazione da parte della Corte.

2.        La distinzione è relativamente agevole su un piano teorico. La sua applicazione pratica, tuttavia, è un poco più complessa. Inoltre, è giusto riconoscere che la giurisprudenza dei giudici dell’Unione non è sempre stata inequivocabile in materia. Infatti, varie decisioni dei giudici dell’Unione sono state criticate dalla dottrina giuridica per aver offuscato la distinzione tra le due nozioni (3).

3.        Nella presente causa, la Kúria (Corte suprema, Ungheria) invita la Corte a fare più chiarezza su una dicotomia che è al centro dell’articolo 101 TFUE, permettendo in tal modo alla Corte di sviluppare ulteriormente la sua più recente giurisprudenza in materia, in particolare le pronunce nelle cause CB (4) e Maxima Latvija (5).

II.    Contesto normativo

A.      Diritto nazionale

4.        L’articolo 11, paragrafo 1, della tisztességtelen piaci magatartás és a versenykorlátozás tilalmáról szóló 1996. évi LVII. törvény (legge n. LVII del 1996, che vieta le pratiche commerciali sleali e le restrizioni della concorrenza; in prosieguo: la «legge sulle pratiche commerciali sleali») prevede quanto segue:

«Sono vietati gli accordi o le pratiche concordate tra imprese, nonché le decisioni (in prosieguo, collettivamente: accordi) di organizzazioni di imprese costituite in virtù della libertà di associazione, società pubbliche, associazioni e altre organizzazioni analoghe di imprese (in prosieguo, collettivamente: associazioni di imprese) che hanno per oggetto o per effetto, potenziale o effettivo, di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza. Gli accordi conclusi tra imprese non indipendenti l’una dall’altra non rientrano in tali accordi».

III. Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

5.        L’effettuazione di transazioni con carta di credito, quali quelle di cui al procedimento principale, implica, di regola, il coinvolgimento di quattro soggetti principali: il titolare della carta, l’istituto finanziario che ha emesso la carta di credito (in prosieguo: la «banca emittente»), l’esercente e l’istituto finanziario che fornisce all’esercente i servizi che gli consentono di accettare la carta come mezzo per effettuare le transazioni in questione (in prosieguo: la «banca acquirente»).

6.        Secondo il giudice del rinvio, nei primi anni Novanta, in Ungheria, il sistema di pagamento con carte di credito era ancora in fase embrionale. Durante la metà degli anni Novanta, le società Visa Europe Ltd (in prosieguo: la «Visa») e MasterCard Europe SA (in prosieguo: la «MasterCard»; in prosieguo, collettivamente: le «società di carte di credito») hanno previsto, nei propri regolamenti interni, la possibilità che la banca acquirente e la banca emittente stabilissero congiuntamente l’importo della commissione interbancaria (o «IF», nell’acronimo dell’espressione inglese «Interchange Fee»). La commissione interbancaria è l’importo pagato dalla prima alla seconda banca quando viene effettuata una transazione mediante carta di credito.

7.        Tra il 1991 e il 1994, quando soltanto poche banche partecipavano ai sistemi di carte di credito in Ungheria, esse concordavano in via bilaterale l’importo della commissione interbancaria. Tuttavia, nel 1994, la Visa ha invitato le banche partecipanti al suo sistema in Ungheria a istituire un forum nazionale al fine, tra l’altro, di concordare una politica locale dei prezzi per la commissione interbancaria. Tra il 1995 e il 1996, le banche che operavano nel settore dei pagamenti con carte di credito hanno avviato una procedura di cooperazione multilaterale (in prosieguo: il «Forum»), nel cui ambito discutevano specificamente le questioni relative al settore delle carte che richiedevano una collaborazione.

8.        Il 24 aprile 1996, nell’ambito del Forum, sette banche, che per la maggior parte avevano aderito ai sistemi di carte di credito di entrambe le società, concludevano un accordo relativo all’importo minimo della commissione di servizio a carico degli esercenti (in prosieguo: «MSC» e l’«accordo MSC»). La MSC è una commissione che la banca acquirente applica agli esercenti che accettano pagamenti con carte di credito. Tuttavia, alla fine l’accordo MSC non è mai entrato in vigore.

9.        Il 28 agosto 1996 il medesimo gruppo di banche ha stipulato un accordo mediante il quale ha stabilito una commissione interbancaria multilaterale uniforme (in prosieguo: «MIF») applicabile ad entrambe le società di carte di credito (in prosieguo: l’«accordo MIF») con effetto dal 1o ottobre 1996. Le società di carte di credito non avevano presenziato alla riunione nel corso della quale era stato stipulato l’accordo, ma avevano ricevuto una copia di tale accordo, inviata loro dalla Kereskedelmi és Hitelbank Zrt., nella sua qualità di interlocutore. Successivamente, altre banche hanno aderito all’accordo MIF e al meccanismo del Forum.

10.      Il 31 gennaio 2008 la Gazdasági Versenyhivatal (Autorità ungherese garante della concorrenza; in prosieguo: l’«AUC») ha avviato un procedimento d’indagine avente ad oggetto l’accordo MIF. Tale accordo è rimasto in vigore fino al 30 luglio 2008.

11.      Nella sua decisione del 24 settembre 2009 (in prosieguo: la «decisione controversa»), l’AUC ha concluso che avendo determinato unitariamente l’importo e la struttura della MIF e avendo configurato e promosso un quadro regolamentare per l’accordo MIF, le 22 banche aderenti e le società di carte di credito avevano concluso accordi anticoncorrenziali in violazione dell’articolo 11, paragrafo 1, della legge sulle pratiche commerciali sleali e, dal 1o maggio 2004, dell’articolo 81, paragrafo 1, TCE (divenuto articolo 101, paragrafo 1, TFUE). L’AUC ha irrogato sanzioni di diverso importo alle sette banche che avevano inizialmente concluso l’accordo MIF e alle due società di carte di credito, per un totale di 1 922 000 000 fiorini ungheresi (HUF).

12.      Nella sua decisione, l’AUC ha osservato che l’accordo MIF costituiva una restrizione della concorrenza per oggetto. Inoltre, esso ha stabilito che tale accordo costituiva altresì una restrizione della concorrenza per effetto.

13.      Le società di carte di credito e sei delle banche sanzionate (in prosieguo: le «ricorrenti nel procedimento principale») hanno impugnato la decisione controversa dinanzi al Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest, Ungheria), il quale ha respinto il ricorso.

14.      Le ricorrenti nel procedimento principale, ad eccezione della MasterCard, hanno impugnato tale sentenza dinanzi al Fővárosi Törvényszék (Corte di Budapest-Capitale, Ungheria), che ha parzialmente annullato la decisione impugnata e ha ordinato all’AUC di condurre un nuovo procedimento d’indagine. Tale giudice ha considerato che una condotta non può configurare, al contempo, una restrizione della concorrenza per oggetto e per effetto. Esso ha statuito, inoltre, che l’accordo in questione non costituiva una restrizione della concorrenza per oggetto.

15.      L’AUC ha impugnato tale sentenza presso la Kúria (Corte suprema, Ungheria). Tale giudice, nutrendo dubbi in ordine alla corretta interpretazione dell’articolo 101 TFUE, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1.      Se l’[articolo 101, paragrafo 1, TFUE] possa essere interpretato nel senso che esso può risultare violato da un unico comportamento tanto per l’oggetto anticoncorrenziale quanto per l’effetto anticoncorrenziale dello stesso, considerati entrambi quali fondamenti giuridici indipendenti.

2.      Se l’[articolo 101, paragrafo 1, TFUE] possa essere interpretato nel senso che costituisce una restrizione della concorrenza per oggetto l’accordo sul quale verte la controversia, concluso tra banche ungheresi e che fissa, in relazione alle due società di carte di credito MasterCard e Visa, un importo unitario della commissione interbancaria che deve essere corrisposta alle banche emittenti per l’uso delle carte di tali società.

3.      Se l’[articolo 101, paragrafo 1, TFUE] possa essere interpretato nel senso che sono considerate parti di un accordo interbancario anche le società di carte di credito che non hanno partecipato direttamente alla definizione del suo contenuto ma ne hanno reso possibile l’adozione e l’hanno accettato ed applicato, oppure si debba ritenere che dette società abbiano concordato il proprio comportamento con le banche che hanno concluso l’accordo.

4.      Se l’[articolo 101, paragrafo 1, TFUE] possa essere interpretato nel senso che, tenuto conto dell’oggetto della controversia, al fine di constatare una violazione del diritto della concorrenza non è necessario accertare se si tratti di una partecipazione all’accordo o di un adeguamento al comportamento delle banche che vi aderiscono».

16.      Le otto ricorrenti nel procedimento principale (Budapest Bank Nyrt., ING Bank N.V. Magyarországi Fióktelepe, OTP Bank Nyrt., Kereskedelmi és Hitelbank Zrt., Magyar Külkereskedelmi Bank Zrt., Erste Bank Hungary Zrt., Visa e MasterCard), l’AUC, il governo ungherese, l’autorità di vigilanza AELS e la Commissione europea hanno presentato osservazioni scritte. Tali parti, ad eccezione della Kereskedelmi és Hitelbank Zrt., hanno altresì presentato osservazioni orali all’udienza del 27 giugno 2019.

IV.    Analisi

17.      A mio avviso, le risposte alla prima, terza e quarta questione del giudice del rinvio sono relativamente semplici. Comincerò fornendo una risposta sintetica alla prima domanda, ricordando che la stessa condotta può effettivamente essere classificata come restrittiva della concorrenza sia per oggetto che per effetto, a condizione che le prove addotte lo consentano (A). In seguito mi occuperò di ciò che considero il punto cruciale della presente causa: a quali condizioni un accordo quale l’accordo MIF può essere considerato una restrizione per oggetto (B). Infine, tratterò la terza e la quarta questione, che sono interconnesse, dapprima occupandomi della portata dell’obbligo dell’autorità garante della concorrenza di dichiarare se la condotta in questione costituisce un accordo o una pratica concordata (C) e concludendo con la questione della partecipazione delle società di carte di credito a un accordo o una pratica concordata nel contesto della presente causa (D).

A.      Sulla prima questione

18.      Con la sua prima questione il giudice del rinvio chiede alla Corte se un’unica condotta di un’impresa possa restringere la concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE sia per oggetto che per effetto.

19.      A mio avviso, la risposta a tale questione è chiaramente affermativa. Tale risposta deriva non solo dalla logica e dal contesto di tale disposizione, ma anche da una giurisprudenza ormai consolidata della Corte.

20.      Il giudice del rinvio non è certo del significato preciso dell’espressione «per oggetto o per effetto». In particolare, tale giudice chiede se il carattere alternativo di tali requisiti significhi che un determinato accordo non può essere considerato, al contempo, restrittivo della concorrenza per oggetto e per effetto. Infatti, nella decisione controversa, l’AUC ha ritenuto che l’accordo MIF costituisse una restrizione della concorrenza sia per oggetto che per effetto.

21.      Dal punto di vista della logica (formale), «o» è solitamente intesa come una disgiunzione (inclusiva). Un’affermazione contenente due proposizioni collegate da una «o» sarà vera se e soltanto se una o entrambe le proposizioni che la compongono sono vere. Pertanto, può esservi una restrizione della concorrenza soltanto per oggetto o soltanto per effetto, oppure per oggetto e per effetto.

22.      Se la logica sia (o debba essere) uno strumento generale per l’interpretazione del diritto dell’Unione può certamente essere oggetto di un intenso dibattito, ma in questo specifico caso interpretare la «o» di cui all’espressione «per oggetto o per effetto» come una disgiunzione inclusiva è pienamente in linea con lo scopo e la finalità dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE.

23.      L’articolo 101, paragrafo 1, TFUE è formulato in termini molto ampi. Esso mira a colpire tutte le forme di collusione tra imprese («tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate»), indipendentemente dallo scopo che perseguono e dal loro oggetto («che abbiano per oggetto o per effetto»), che possano avere un impatto negativo sulla concorrenza nell’Unione europea («impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno»). Pertanto, tutte le condotte elencate sono incluse, indipendentemente dal fatto che si verifichino separatamente o, a fortiori, simultaneamente.

24.      Inoltre, gli accordi anticoncorrenziali per oggetto e gli accordi anticoncorrenziali per effetto non sono ontologicamente diversi. Da un punto di vista sostanziale, non vi è alcuna differenza: entrambi restringono la concorrenza nel mercato interno e, per tale ragione, in linea di principio, sono vietati. La distinzione tra i due concetti si basa, piuttosto, su considerazioni di natura procedurale. Essa mira a specificare il tipo di analisi che le autorità garanti della concorrenza sono tenute a effettuare nel valutare gli accordi alla luce dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE.

25.      Questa interpretazione è stata sottolineata dalla Corte già nel 1966, nella causa LTM, in cui essa ha evidenziato che l’uso della congiunzione disgiuntiva «o» nell’allora articolo 85, paragrafo 1, del Trattato CEE significa che un’autorità garante della concorrenza deve prendere in considerazione, anzitutto, l’oggetto di un accordo.  Tuttavia, nel caso in cui l’esame dell’oggetto dell’accordo «non riveli un grado sufficiente di dannosità per la concorrenza, si dovranno prendere in esame gli effetti dell’accordo» (6).

26.      Tale aspetto emerge chiaramente da altre e più recenti sentenze della Corte. Nella sentenza CB, la Corte ha precisato che talune forme di coordinamento possono essere considerate, per loro stessa natura, dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza. In tali casi, sarebbe «inutile, ai fini dell’applicazione dell’[articolo 101, paragrafo 1, TFUE], dimostrare che tali comportamenti hanno effetti concreti sul mercato»; infatti, «l’esperienza (…) dimostra che tali comportamenti determinano riduzioni della produzione e aumenti dei prezzi, dando luogo ad una cattiva allocazione delle risorse a detrimento, in particolare, dei consumatori (7). Affermazioni analoghe sono contenute nella sentenza Maxima Latvija (8).

27.      Pertanto, la dicotomia oggetto/effetto è, nel complesso, un meccanismo procedurale inteso a guidare l’autorità garante della concorrenza nell’analisi da effettuare ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE a seconda delle circostanze del caso (9). L’autorità non è tenuta a effettuare un’analisi completa degli effetti di un accordo, che sovente richiede più tempo e maggiori risorse (10), quando ritiene e dimostra che l’accordo è anticoncorrenziale per oggetto.

28.      Tuttavia, nei limiti in cui i due tipi di accordi non sono intrinsecamente diversi, l’autorità può ben decidere, in un caso specifico, di esaminare un accordo da due punti di vista contemporaneamente, in un’unica decisione e, quindi, verificare se entrambi i requisiti sono soddisfatti. Tale prassi può essere giustificata, come sostenuto dalla Commissione e dall’autorità di vigilanza AELS, da ragioni di efficienza a livello procedurale: se l’oggetto anticoncorrenziale di un accordo è controverso, può essere «più sicuro» per l’autorità, in caso di successivo contenzioso, dimostrare che l’accordo è anche anticoncorrenziale per effetto (11). Infatti, la Corte ha espressamente riconosciuto che le imprese possono partecipare «ad una concertazione che ha come oggetto e come effetto quello di restringere la concorrenza nel mercato interno, ai sensi dell’articolo 101 TFUE» (12).

29.      Ciò premesso, desidero sottolineare un punto importante: accettare, come possibilità teorica, che un accordo possa costituire entrambi i tipi di restrizione, indubbiamente non esime l’autorità competente in materia di concorrenza dall’obbligo, in primo luogo, di addurre le prove necessarie per entrambi i tipi di restrizioni e, in secondo luogo, di valutare e sussumere in modo chiaro tali prove nell’ambito delle categorie giuridiche appropriate.

30.      Reputo importante evidenziare tale aspetto in modo piuttosto chiaro, non già in ragione del contenuto della presente domanda di pronuncia pregiudiziale, bensì, piuttosto, a causa di ciò che sottende. Difficilmente sarebbe sufficiente, anche ai fini del successivo controllo giurisdizionale di una decisione, che, nella sua pronuncia, un’autorità garante della concorrenza si limitasse a raccogliere prove fattuali e, senza indicare le conclusioni in termini di valutazione giuridica da essa tratte sulla base di tali prove, suggerisse semplicemente che taluni comportamenti potrebbero integrare una condotta e/o un’altra, lasciando al giudice competente il compito di collegare i punti di fatto e giungere a una conclusione. In parole povere, l’esistenza di opzioni giuridiche alternative non è una giustificazione per una decisione vaga, in particolare quando irroga pesanti sanzioni amministrative.

31.      Infine, affronterò ora tre ulteriori argomenti addotti dal giudice del rinvio nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, che hanno indotto tale giudice ad esprimere dubbi in merito alla possibilità che un’autorità dichiari che una condotta viola l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE per entrambi i motivi.

32.      In primo luogo, poiché non vi è alcuna differenza concettuale tra di essi, non sorprende che un’autorità garante della concorrenza possa fare riferimento allo stesso insieme di fatti e considerazioni economiche per qualificare un accordo come anticoncorrenziale sia per oggetto che per effetto. Fatta salva la precisazione appena menzionata, ossia che la qualificazione giuridica deve essere chiara, la differenza nell’analisi richiesta all’autorità nelle due situazioni si distingue, più che per il tipo, per il grado e il livello di approfondimento. I due tipi di analisi equivalgono, semplicemente, a modi diversi di rispondere alla stessa domanda, alla luce delle conoscenze e delle esperienze acquisite dall’autorità, vale a dire se l’accordo in questione possa impedire, restringere o falsare la concorrenza nel mercato interno.

33.      In secondo luogo, non esiste una correlazione automatica tra la qualificazione di un accordo come restrittivo per oggetto o per effetto e la determinazione delle sanzioni che possono essere irrogate alle imprese responsabili. Ai sensi dell’articolo 23, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 1/2003, «[p]er determinare l’ammontare dell’ammenda occorre tener conto, oltre che della gravità dell’infrazione, anche della sua durata» (13). Occorre però riconoscere che gli accordi che limitano la concorrenza per oggetto hanno maggiori probabilità di essere considerati causa di gravi violazioni del diritto della concorrenza. Tuttavia, questa è solo l’inevitabile conseguenza del fatto che il concetto di «restrizioni per oggetto» si limita a forme di coordinamento che «presentano un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente» (14). Cosa ancora più importante, non è affatto escluso che, da un lato, alcune restrizioni per oggetto possano essere considerate, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, violazioni di minore gravità e, dall’altro lato, le restrizioni per effetto possano essere considerate violazioni particolarmente gravi del diritto della concorrenza.

34.      In terzo luogo, la qualificazione di un accordo come restrittivo per oggetto o per effetto non ha alcuna incidenza sulla possibilità di applicare un’esenzione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE. Nulla nel testo di tale disposizione suggerisce che le esenzioni si possano applicare solo ad accordi restrittivi della concorrenza per effetto. Una siffatta posizione sarebbe inoltre difficilmente conciliabile con il fatto che, come illustrato al precedente paragrafo 24, non vi è alcuna differenza concettuale tra i due tipi di accordi.

35.      Infatti, nella sentenza Matra Hachette, il Tribunale ha dichiarato che tutti i tipi di pratiche anticoncorrenziali di cui all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE possono, se sono soddisfatte le relative condizioni, essere esentati ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE (15). Tale conclusione non è rimessa in discussione dalla sentenza della Corte nella causa Beef Industry Development Society e Barry Brothers (16). Il punto 21 di quest’ultima sentenza non può essere interpretato nel senso che la distinzione tra restrizioni per oggetto e per effetto è rilevante ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE. In tale passaggio, la Corte si è limitata a sottolineare che l’assenza di un’intenzione soggettiva di restringere la concorrenza da parte delle imprese partecipanti ad un accordo non esclude che esso possieda carattere anticoncorrenziale. Per questo motivo la Corte ha chiarito che, una volta accertato che un accordo restringe la concorrenza, il perseguimento di un altro obiettivo (asseritamente legittimo) può essere preso in considerazione, se del caso, soltanto al fine di ottenere un’esenzione ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE.

36.      Alla luce di quanto precede, suggerisco alla Corte di rispondere alla prima questione affermando che il medesimo comportamento di un’impresa può essere considerato una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE per avere sia per oggetto che per effetto la restrizione della concorrenza nel mercato interno.

B.      Sulla seconda questione

37.      Con la seconda questione, il giudice del rinvio chiede se l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE debba essere interpretato nel senso che un accordo quale l’accordo MIF costituisce una restrizione della concorrenza per oggetto.

38.      Non ritengo che la Corte possa rispondere a questa domanda nel modo in cui è stata posta. Nel contesto del presente procedimento, qualsiasi valutazione sostanziale si basa necessariamente sulla quantità (relativamente limitata) di informazioni relative all’accordo MIF e ai mercati di riferimento che sono state incluse nella domanda di pronuncia pregiudiziale o che possono essere ricavate dalle osservazioni delle parti. Tuttavia, l’analisi della natura anticoncorrenziale (per oggetto o per effetto) di un accordo non è, nella maggior parte dei casi, un compito facile. Essa richiede una buona comprensione del rapporto contrattuale tra le parti dell’accordo e una conoscenza approfondita del mercato in cui tale accordo è stato applicato.

39.      Nelle cause che giungono alla Corte attraverso il procedimento di rinvio pregiudiziale, è inevitabile che solo il giudice del rinvio possieda tali informazioni e competenze. Pertanto, anziché tentare di effettuare un riesame indiretto di una decisione amministrativa (nazionale), compito che esula dalla competenza della Corte (17), non posso che limitarmi a suggerire alcune indicazioni e criteri concernenti il modo in cui il giudice del rinvio dovrebbe condurre tale riesame, alla luce delle informazioni disponibili.

1.      Sulla nozione di restrizioni «per oggetto»

40.      Come la Corte ha sottolineato in una recente giurisprudenza, la nozione di restrizione della concorrenza «per oggetto» deve essere interpretata restrittivamente e può essere applicata solo ad alcuni tipi di coordinamento tra imprese che presentano un grado di dannosità per la concorrenza sufficiente perché si possa ritenere che l’esame dei loro effetti non sia necessario (18). Tale approccio è giustificato dal fatto che talune forme di coordinamento tra imprese possono essere considerate, per loro stessa natura, dannose per il buon funzionamento del normale gioco della concorrenza, in quanto solitamente producono risultati economici inefficienti e riducono il benessere dei consumatori (19).

41.      Dalla giurisprudenza risulta che, per considerare anticoncorrenziale per oggetto un accordo, l’autorità garante della concorrenza deve effettuare un’analisi in due fasi.

42.      In una prima fase, l’autorità si concentra prevalentemente sul contenuto delle disposizioni dell’accordo e sui suoi obiettivi (20). Lo scopo principale di questa fase procedurale è verificare se l’accordo in questione rientra in una categoria di accordi il cui carattere dannoso è, alla luce dell’esperienza, comunemente accettato e facilmente rilevabile (21). A tal riguardo, per esperienza dovrebbe intendersi «ciò che emerge tradizionalmente dall’analisi economica, così come è stata confermata dalle autorità competenti sulla concorrenza, corroborata, eventualmente, dalla giurisprudenza» (22).

43.      In una seconda fase, l’autorità è tenuta a verificare che la presunta natura anticoncorrenziale dell’accordo, determinata sulla base di una valutazione meramente formale dello stesso, non sia rimessa in discussione da considerazioni relative al contesto giuridico ed economico in cui l’accordo è stato applicato. A tal fine, è necessario considerare la natura dei beni o dei servizi interessati, nonché le condizioni reali del funzionamento e della struttura dei mercati in questione (23). Inoltre, benché l’intenzione delle parti non costituisca un elemento necessario per determinare la natura restrittiva di un accordo, essa può essere tenuta in considerazione, ove opportuno (24).

44.      La portata e il livello di approfondimento di questa seconda fase procedurale non sono, agli occhi del giudice del rinvio, perfettamente chiari. Comprendo questi dubbi: ci si chiede se tale analisi non consista, di fatto, in una verifica degli effetti dell’accordo in questione; in quale punto termini la seconda fase dell’analisi per oggetto e inizi l’analisi per effetto; e, in particolare, se siffatta distinzione possa effettivamente essere operata nel contesto di un caso in cui risulti che l’autorità nazionale garante della concorrenza ha condotto entrambi i tipi di analisi nell’ambito della stessa decisione.

45.      Ci si chiede, in primo luogo, perché sia necessaria una (certa) analisi del contesto giuridico ed economico quando un accordo sembra configurare una restrizione per oggetto. La ragione è che una valutazione puramente formale di un accordo, completamente avulsa dalla realtà, potrebbe condurre a censurare accordi innocui o che favoriscono la concorrenza. Non vi sarebbe alcuna giustificazione giuridica o economica per vietare un accordo che, pur rientrando in una categoria di accordi solitamente considerati anticoncorrenziali, sia tuttavia, a causa di alcune circostanze specifiche, totalmente inidoneo a produrre effetti dannosi sul mercato o, addirittura, favorisca la concorrenza (25).

46.      Questo è il motivo per cui la giurisprudenza della Corte è sempre stata coerente sul punto: la valutazione di una pratica alla luce delle regole di concorrenza dell’Unione non può essere condotta in astratto, ma esige un esame di tale pratica alla luce delle condizioni giuridiche ed economiche esistenti sui mercati interessati. L’importanza di tale principio è confermata dal fatto che esso è stato ritenuto valido sia in riferimento all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE (26), che all’articolo 102 TFUE (27). Nemmeno quando si tratta di condotte quali la fissazione dei prezzi, la ripartizione del mercato o divieti di esportazione, che sono generalmente considerate particolarmente dannose per la concorrenza, il contesto economico e giuridico può essere completamente ignorato (28).

47.      Nella stessa scia, nella sentenza Toshiba la Corte ha dichiarato, in riferimento ad accordi asseritamente anticoncorrenziali per oggetto, che «l’analisi del contesto economico e giuridico in cui si colloca la pratica può (…) limitarsi a quanto risulti strettamente necessario per concludere per la sussistenza di una restrizione della concorrenza per oggetto» (29). Ci si chiede che cosa ciò significhi all’atto pratico.

48.      A mio avviso, ciò significa che un’autorità garante della concorrenza che applichi l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE deve, alla luce degli elementi presenti nel fascicolo, verificare che non vi siano circostanze specifiche che possano mettere in dubbio la presunta natura dannosa dell’accordo in questione. Se l’esperienza insegna che l’accordo in esame appartiene a una categoria di accordi che, nella maggior parte dei casi, è dannosa per la concorrenza, un’analisi dettagliata dell’impatto di tale accordo sui mercati interessati risulterà superflua. È sufficiente che l’autorità verifichi che il mercato o i mercati interessati e l’accordo in parola non presentino caratteristiche speciali suscettibili di indicare che il caso in questione potrebbe costituire un’eccezione alla regola fondata sull’esperienza. Per quanto infrequente, la possibilità che un accordo presenti effettivamente tali caratteristiche non può essere esclusa, a meno che non si tenga conto del contesto reale in cui opera l’accordo. Ad esempio, se non è possibile e non esiste concorrenza in un determinato mercato, non vi è una concorrenza che possa essere oggetto di restrizione.

49.      Pertanto, la seconda fase consiste in una verifica di base della realtà. Essa impone semplicemente all’autorità garante della concorrenza di verificare, a livello piuttosto generale, se vi siano circostanze di diritto o di fatto che impediscono che l’accordo o la pratica in questione restringano la concorrenza. Non esiste un modello tipo di analisi o uno specifico grado di approfondimento e dettaglio cui l’autorità deve uniformarsi nell’effettuazione di tale verifica. La complessità dell’analisi richiesta all’autorità per dichiarare il carattere anticoncorrenziale «per oggetto» di un accordo dipende da tutte le circostanze pertinenti del singolo caso. È impossibile (o, perlomeno, non sono in grado di) tracciare, su un piano astratto, una chiara demarcazione tra (la seconda fase di) un’analisi concernente l’oggetto e un’analisi relativa agli effetti.

50.      Dunque, come già indicato, la differenza tra le due è più una differenza di grado che di tipologia. È tuttavia chiaro che, se gli elementi riscontrati dall’autorità nell’esaminare il contesto giuridico ed economico di un accordo che si presume costituisca una restrizione «per oggetto» puntano in direzioni diverse, si rende necessaria un’analisi dei suoi effetti. In tal caso, così come in ogni caso in cui un accordo non è considerato anticoncorrenziale per oggetto, deve essere effettuata un’analisi completa degli effetti ai fini dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE. L’obiettivo di tale analisi consiste nel determinare l’impatto che l’accordo può avere sulla concorrenza nel mercato interessato. In sostanza, l’autorità deve confrontare la struttura concorrenziale del mercato determinata dall’accordo in esame con la struttura concorrenziale che sarebbe prevalsa in sua assenza (30). L’analisi non può quindi limitarsi alla mera idoneità dell’accordo a incidere negativamente sulla concorrenza nel mercato rilevante (31), ma deve accertare se gli effetti netti dell’accordo sul mercato sono positivi o negativi.

51.      Semplificando, con una metafora estrema, se sembra pesce e odora di pesce, si può presumere che sia pesce. A meno che, a prima vista, tale particolare pesce non abbia qualcosa di strano, come essere privo di pinne, fluttuare nell’aria, o profumare come un giglio, non è necessaria una meticolosa dissezione per qualificarlo come tale. Se, tuttavia, vi è qualcosa d’insolito in tale pesce, esso può ancora essere classificato come pesce, ma soltanto a seguito di un esame approfondito della creatura in questione.

2.      Se laccordo MIF costituisca una restrizione per oggetto

52.      L’AUC, sostenuta dal governo ungherese e dalla Commissione, ritiene che l’accordo MIF sia intrinsecamente anticoncorrenziale, mentre le ricorrenti nel procedimento principale contestano tale posizione.

53.      Come indicato supra, al paragrafo 9, l’accordo MIF, in sostanza, ha introdotto un importo uniforme per la commissione interbancaria, ossia la commissione che le banche acquirenti versano alle banche emittenti quando è effettuata un’operazione con carta di credito. Pertanto, un accordo di questo tipo non è né un tipico accordo orizzontale di fissazione dei prezzi, come giustamente sottolineato dal giudice del rinvio, né, aggiungerei, qualcosa che possa essere agevolmente qualificato come accordo verticale sull’osservanza dei prezzi di rivendita. L’accordo MIF non fissa i prezzi di vendita e di acquisto per i clienti finali, ma si limita a «standardizzare» un aspetto della struttura dei costi di taluni servizi generati dall’uso delle carte di credito come mezzo di pagamento.

54.      Ciò considerato, ci si sarebbe attesi che le parti che caldeggiano una restrizione «per oggetto» trattassero, in particolare, i punti che seguono. In via preliminare, la condotta che si presume costituisca una restrizione della concorrenza per oggetto avrebbe dovuto essere individuata senza ambiguità e i suoi elementi chiave avrebbero dovuto essere chiariti (le parti responsabili, i mercati interessati, la natura della condotta in questione e il relativo periodo di tempo) (a). Poi, l’accordo MIF avrebbe dovuto essere valutato alla luce di tale quadro analitico: in primo luogo, adducendo un patrimonio di esperienze affidabili e consolidate per dimostrare che tale condotta è intrinsecamente anticoncorrenziale (b) e, in secondo luogo, spiegando perché il contesto giuridico ed economico dell’accordo non rimette in discussione la sua presunta natura anticoncorrenziale (c).

55.      Nel prosieguo, mi soffermerò brevemente su ciascuno di questi punti, tenendo conto degli elementi portati all’attenzione della Corte nel corso del presente procedimento, pur sottolineando, ancora una volta, che non spetta alla Corte effettuare un controllo giurisdizionale indiretto di una decisione amministrativa nazionale. Spetterà quindi al giudice del rinvio verificare se l’AUC abbia assolto il proprio onere della prova nella decisione contestata.

a)      Se la presunta violazione sia stata chiaramente individuata e spiegata

56.      La conclusione secondo cui una determinata pratica costituisce una restrizione per oggetto può essere giustificata solo quando la presunta violazione manifesta è chiaramente definita. Tuttavia, la mancanza di precisione a questo proposito, già evidente nelle osservazioni scritte, si è ulteriormente ampliata in udienza, nel corso della quale ciascuna delle parti che si è espressa a favore di una restrizione «per oggetto» sembrava sostenere argomenti in qualche misura diversi. In particolare, quando gli è stato chiesto di chiarire, senza ambiguità, il tipo di danno alla concorrenza suscettibile di scaturire da accordi quali l’accordo MIF, le loro argomentazioni sono «saltate» da un mercato all’altro e da un tipo di danno all’altro, senza la necessaria chiarezza e precisione.

57.      Sono stati menzionati almeno tre mercati su cui la presunta violazione avrebbe potuto incidere: il mercato dei servizi interbancari relativi alle operazioni con carte di credito (direttamente toccato dall’accordo MIF); il mercato (parzialmente a valle) dei servizi forniti agli esercenti in relazione alle operazioni con carte di credito (il mercato di cui l’AUC risultava preoccuparsi maggiormente); e il mercato (in realtà a monte) dei fornitori di carte di credito (su cui la Commissione si è concentrata in modo particolare). Questi tre mercati sono chiaramente interconnessi e la loro interazione non può essere ignorata (32).

58.      Per quanto riguarda il primo mercato, l’accordo MIF ha effettivamente introdotto un elemento di fissazione dei prezzi. Tuttavia, gli effetti dannosi per la concorrenza individuati dall’AUC e dalla Commissione non si manifestano in tale mercato. Piuttosto, l’AUC e la Commissione segnalano effetti dannosi negli altri due mercati.

59.      Iniziando con il mercato dei servizi forniti agli esercenti in relazione alle operazioni con carte di credito, l’AUC e la Commissione ritengono che la commissione interbancaria fungesse, nella pratica, da prezzo minimo raccomandato. In effetti, era improbabile che le banche acquirenti addebitassero agli esercenti una MSC di importo inferiore alla commissione interbancaria pagata alla banca emittente, in quanto ciò sarebbe stato economicamente svantaggioso. Da tale punto di vista, è effettivamente plausibile individuare un certo grado di restrizione della concorrenza: l’incentivo, per le banche, di competere per gli esercenti riducendo la MSC potrebbe, nella pratica, essere limitato dalla MIF concordata. Analogamente, per quanto riguarda il mercato dei fornitori di carte di credito, e nella misura in cui l’accordo MIF concerneva sia la MasterCard che la Visa, non si può escludere che esso fosse in grado di neutralizzare un elemento di concorrenza sui prezzi tra tali società.

60.      Tuttavia, non sono convinto che le interazioni tra questi mercati siano state adeguatamente spiegate. Un’analisi dell’oggetto può favorire il compito dell’autorità garante della concorrenza di dimostrare il carattere anticoncorrenziale di una determinata condotta, ma non esime tale autorità dall’obbligo di individuare chiaramente la natura del presunto danno. Cosa ancora più importante, le opinioni espresse sulle interazioni tra tali mercati sembrano fondarsi su una serie di ipotesi, alcune delle quali sono fortemente contestate dalle ricorrenti nel procedimento principale. È indubbiamente possibile che l’accordo MIF produca effetti dannosi, ma ci si chiede se tali effetti siano così facilmente identificabili e probabili da poter considerare tale accordo restrittivo «per oggetto».

61.      Un certo numero di attori di diverso tipo erano attivi in vari mercati interconnessi e l’interazione e gli effetti incrociati tra tali mercati non sembrano immediatamente individuabili. In aggiunta a tale complessità composita in termini di chi, cosa e dove, vi è l’aspetto temporale. L’accordo MIF è rimasto in vigore per più di 12 anni. Dubito che le condizioni dei mercati interessati, in Ungheria, siano rimaste sostanzialmente invariate durante tale periodo. Del resto, è lecito supporre che tra il 1996 e il 2008 il mercato dei servizi di carte di credito in Ungheria, così come altrove in Europa, abbia subito notevoli cambiamenti (e il numero di banche partecipanti potrebbe essere visto come un indizio indiretto di tale evoluzione). Di conseguenza, ciò che poteva essere utile o addirittura necessario, in un dato momento, per perseguire l’obiettivo, favorevole alla concorrenza, di istituire efficacemente un mercato può aver cessato di essere tale quando le condizioni della concorrenza sul mercato sono mutate in modo significativo. Tale ipotesi, se corretta, potrebbe significare che non è possibile valutare l’intero periodo esattamente allo stesso modo e con la stessa chiarezza al fine di accertare se vi sia stata una restrizione della concorrenza per oggetto.

62.      In sintesi, con questa maggiore complessità in termini di numero di attori attivi su più mercati in un periodo di tempo più lungo, si rafforza l’esigenza di una definizione chiara e precisa, in particolare se si propende per l’esistenza di una restrizione della concorrenza per oggetto: ci si deve chiedere chi si presume abbia agito, che cosa esattamente abbia fatto, in quale mercato o mercati e con quali conseguenze. Inoltre, più variabili vengono incluse nell’equazione in termini di complessità strutturale, meno è probabile, in generale, che sia possibile concludere nel senso di una chiara restrizione per oggetto.

b)      Se esista un patrimonio di esperienze affidabili e consolidate, relative ad accordi come quello in questione

63.      Inoltre, in particolare alla luce della complessità delle circostanze di fatto di cui al procedimento principale, mi sarei aspettato che le parti che caldeggiano una restrizione per oggetto adducessero un patrimonio di esperienze affidabili e consolidate che dimostri che accordi quali l’accordo MIF sono comunemente considerati intrinsecamente anticoncorrenziali. Ci si chiede se esista una prassi relativamente diffusa e coerente delle autorità europee della concorrenza e/o dei giudici degli Stati membri secondo la quale accordi come quello in questione sono generalmente dannosi per la concorrenza.

64.      Interpellata in udienza, l’AUC ha dichiarato di essersi basata essenzialmente (soltanto) sulla prassi della Commissione. A sua volta, la Commissione ha dichiarato che la natura intrinsecamente anticoncorrenziale di accordi quale l’accordo MIF discende dalle sentenze dei giudici dell’Unione nella causa MasterCard (33).

65.      Mi chiedo se ciò corrisponda al patrimonio di esperienze affidabili e consolidate necessario per suffragare la conclusione che un determinato tipo di condotta è palesemente e generalmente anticoncorrenziale.

66.      Per quanto riguarda la prassi della Commissione, osservo che, nel 2002, la Commissione ha concesso esenzioni ai sensi (dell’attuale) articolo 101, paragrafo 3, TFUE a taluni accordi istitutivi di commissioni interbancarie multilaterali (34). Essa ha ritenuto che tali accordi fossero restrittivi per effetto (e non per oggetto), ma che contribuissero al progresso tecnico ed economico, poiché promuovevano un sistema di pagamento internazionale su larga scala con esternalità di rete positive. Nella sua decisione del 19 dicembre 2007, la Commissione ha dichiarato che talune decisioni che fissavano una «commissione interbancaria standard» multilaterale costituivano una restrizione per effetto, senza pronunciarsi sulla questione se l’accordo in questione fosse anche anticoncorrenziale per oggetto (35). Successivamente, il 22 gennaio 2019, la Commissione ha considerato che alcune disposizioni sulle acquisizioni transfrontaliere applicate da MasterCard, in particolare per quanto riguarda le commissioni interbancarie interregionali, costituivano una restrizione per oggetto (36). Per non parlare delle decisioni del 2010, 2014 e 2019 nelle quali la Commissione ha accettato gli impegni offerti dalle società di carte di credito per limitare o ridurre l’importo di alcuni tipi di commissione interbancaria (37). Naturalmente, le decisioni sugli impegni non comportano la constatazione formale di una violazione del diritto della concorrenza.

67.      Mi sembra, quindi, che sia difficile definire uniforme la prassi della Commissione. Non si tratta di una critica, bensì, piuttosto, del riconoscimento del fatto che, a quanto risulta, la valutazione della stessa Commissione su questa categoria di accordi si è gradualmente evoluta, grazie all’esperienza acquisita proprio in questi casi. Del resto, è chiaro che il concetto di «esperienza» si evolve necessariamente nel corso del tempo, alla luce delle maggiori conoscenze ed esperienze acquisite dalle autorità amministrative e giudiziarie competenti, della creazione di strumenti di analisi più sofisticati e dello sviluppo del pensiero economico.

68.      Tuttavia, anche tralasciando l’elemento temporale (38), di cui si è molto discusso, sarei cauto nel giungere alla conclusione secondo cui una manciata di decisioni amministrative (soprattutto se emesse da un’unica autorità e in evoluzione nel corso del tempo), relative a forme analoghe di coordinamento costituiscono una base sufficiente per ritenere che qualsiasi accordo comparabile possa essere considerato illegale.

69.      Inoltre, la prassi di altre autorità nazionali garanti della concorrenza che possono aver valutato accordi simili a quello esaminato dall’AUC sarebbe stata certamente rilevante, se disponibile.

70.      Per quanto riguarda la giurisprudenza, è altrettanto importante verificare se i giudici dell’Unione e degli Stati membri (39) che si sono occupati di questa categoria di accordi hanno adottato un approccio coerente in questo settore (40).

71.      In tale contesto, la validità della citata decisione della Commissione del 2007 è stata effettivamente confermata prima dal Tribunale e poi dalla Corte di giustizia (41). Per ciò che rileva nel caso di specie, tuttavia, la questione fondamentale è se tali sentenze suggeriscano che la violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE riscontrata dalla Commissione era sufficientemente manifesta da poter essere accertata senza un’analisi completa degli effetti. La mia impressione è che, data l’estensione e il livello di dettaglio degli argomenti sviluppati dai giudici dell’Unione per respingere le richieste dei ricorrenti, è difficile leggere tali sentenze nel senso che suffraghino una posizione o l’altra.

72.      Infine, sono alquanto sorpreso che, nelle osservazioni delle parti che sostengono una restrizione «per oggetto», non vi sia traccia di studi o relazioni, preparate da autori indipendenti e basate su metodi, principi e norme riconosciuti dalla comunità economica internazionale, che corroborano il loro punto di vista. Infatti, ritengo che l’esistenza di un sufficiente grado di consenso tra gli economisti sul fatto che accordi come quello in questione siano intrinsecamente anticoncorrenziali sarebbe della massima importanza. Del resto, il concetto di restrizione della concorrenza è, principalmente, un concetto economico.

73.      In conclusione, il bagaglio di esperienza invocato dinanzi alla Corte per suffragare la tesi secondo cui accordi quale quello di cui al procedimento principale sono, per loro stessa natura, dannosi per la concorrenza appare piuttosto scarno. Spetterà tuttavia al giudice del rinvio verificare dettagliatamente questo punto, alla luce degli argomenti e della documentazione su cui si fonda la decisione amministrativa in questione.

c)      Se il contesto giuridico ed economico dellaccordo MIF metta in discussione la sua presunta natura anticoncorrenziale

74.      Se il giudice del rinvio si dovesse convincere, sulla base dell’analisi dell’AUC, che l’accordo MIF rientra in una categoria di accordi generalmente considerati anticoncorrenziali, la seconda fase della sua analisi dovrebbe consistere nel verificare la validità di tale conclusione preliminare, rivolgendo la sua attenzione al contesto giuridico ed economico in cui l’accordo è stato applicato. Esso si deve chiedere se vi sia qualche caratteristica specifica dell’accordo MIF o dei mercati interessati che possa dare adito a dubbi per quanto concerne i suoi effetti dannosi sulla concorrenza. E se, pertanto, a prima vista, l’affermazione concernente la natura generalmente dannosa di siffatto accordo possa ragionevolmente essere contestata nel contesto del singolo caso.

75.      Le ricorrenti nel procedimento principale sostengono che l’accordo MIF non aveva alcun oggetto anticoncorrenziale e, in ogni caso, produceva alcuni effetti favorevoli alla concorrenza.

76.      In primo luogo, tali parti forniscono una spiegazione alternativa della logica economica dell’accordo MIF: esse sostengono che l’uniformazione della commissione interbancaria era necessaria per garantire il corretto e regolare funzionamento del sistema, dato che il sistema delle carte di credito in Ungheria era ancora poco sviluppato al momento della stipula dell’accordo MIF. L’accordo ha quindi contribuito, a loro avviso, alla creazione e all’espansione del mercato delle carte di credito in Ungheria. In secondo luogo, esse sostengono che l’accordo MIF mirava anche a contenere la tendenza del mercato all’aumento della commissione interbancaria. Tale fatto è suffragato, a loro avviso, dalla sentenza del Tribunale nella causa Mastercard (42), nonché dal fatto che in molti ordinamenti giuridici (tra cui l’Ungheria e l’Unione europea) (43) il legislatore è intervenuto per limitare il livello della commissione interbancaria.

77.      Ritengo che non sia possibile, nell’ambito del presente procedimento, assumere una posizione netta in merito alla plausibilità o meno, prima facie, di tali argomenti. Le informazioni contenute nel fascicolo sono semplicemente insufficienti a tal fine.

78.      Spetta al giudice del rinvio esaminare tali argomenti al fine di verificare se siano sufficientemente credibili da giustificare un esame più approfondito. Qualora il giudice del rinvio giunga alla conclusione che l’accordo MIF avrebbe ragionevolmente potuto produrre effetti favorevoli alla concorrenza e che tali effetti positivi non sono chiaramente controbilanciati da altri effetti anticoncorrenziali, più pregnanti, tale accordo non può essere qualificato come restrittivo della concorrenza per oggetto. In tal caso, una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE può essere accertata solo a seguito di un’analisi degli effetti dell’accordo.

79.      Pertanto, il metro di valutazione dovrebbe essere quello di un’ipotesi in senso contrario che, a prima vista, non è improbabile e che mette in discussione, nel contesto del singolo caso, le conoscenze convenzionali generali. Vi sono due elementi chiave a tal proposito: in primo luogo, la spiegazione a contrario deve sembrare, a prima vista, sufficientemente plausibile da giustificare un ulteriore esame. In secondo luogo, tuttavia, il criterio è quello di un’ipotesi contraria ragionevole. Non è necessario che essa sia pienamente accertata, sostenuta e dimostrata: ciò rientra nell’analisi completa degli effetti.

80.      A questo proposito, si può aggiungere che la Corte ha riconosciuto, da tempo, che gli accordi che perseguono un «obiettivo legittimo» non rientrano necessariamente nel campo di applicazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE (44). Ciò significa che gli accordi che producono sia effetti favorevoli alla concorrenza sia effetti anticoncorrenziali rientrano nel divieto di cui all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE solo quando questi ultimi sono prevalenti (45). Ad esempio, una limitazione della concorrenza sui prezzi può essere accettabile quando costituisce un mezzo per aumentare la concorrenza riguardante fattori diversi dal prezzo (46). Più in generale, gli accordi che, pur essendo restrittivi della libertà d’azione delle parti, perseguono l’obiettivo, ad esempio, di aprire un mercato, crearne uno nuovo o permettere a nuovi concorrenti di accedere a un mercato possono essere favorevoli alla concorrenza (47). Da una giurisprudenza costante discende, parimenti, che, a determinate condizioni, le restrizioni direttamente connesse e necessarie per l’attuazione di un’operazione principale, che di per sé non è anticoncorrenziale, non costituiscono restrizioni della concorrenza ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE (48).

81.      Di conseguenza, ogniqualvolta un accordo risulti produttivo di effetti ambivalenti sul mercato, è necessaria un’analisi dei suoi effetti (49). In altri termini, quando non è possibile escludere, in relazione a un accordo, una possibile logica economica favorevole alla concorrenza senza esaminarne gli effetti reali sul mercato, tale accordo non può essere classificato come restrittivo «per oggetto» (50). Pertanto, non posso concordare con la Commissione laddove sostiene che qualsiasi effetto legittimo e favorevole alla concorrenza dell’accordo MIF possa essere preso in considerazione soltanto ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE ai fini dell’eventuale concessione di un’esenzione. Senza pronunciarmi, nello specifico, sull’accordo MIF, ritengo non pienamente convincente, in termini generali, un’interpretazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE secondo cui un accordo complessivamente favorevole alla concorrenza sarebbe, in linea di principio, vietato dall’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, ma potrebbe essere immediatamente esentato ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 3, TFUE.

82.      Alla luce di quanto precede, spetta al giudice del rinvio verificare se l’accordo MIF costituisca una restrizione per oggetto. A tal fine, il giudice del rinvio deve anzitutto esaminare il contenuto e l’obiettivo di tale accordo per determinare se esso rientri in una categoria di accordi che, in base all’esperienza, è generalmente ritenuta dannosa per la concorrenza. In caso di risposta affermativa a tale questione, il giudice del rinvio dovrebbe quindi verificare che tale conclusione non sia rimessa in discussione da considerazioni relative al contesto giuridico ed economico in cui tale specifico accordo è stato attuato. In particolare, il giudice del rinvio dovrebbe verificare se sia plausibile, prima facie, una spiegazione alternativa per quanto concerne una presunta logica favorevole alla concorrenza dell’accordo MIF, tenendo conto anche del periodo in cui l’accordo era in vigore.

C.      Sulla quarta questione

83.      Con la quarta questione, che deve essere esaminata ora, il giudice del rinvio chiede se un’autorità garante della concorrenza, nell’accertare una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, sia tenuta a indicare espressamente se la condotta delle imprese costituisca un accordo o una pratica concordata.

84.      Concordo con l’AUC, il governo ungherese, la Commissione e l’autorità di vigilanza AELS sul fatto che a tale domanda si debba rispondere in senso negativo.

85.      Nella sentenza Anic Partecipazioni, la Corte ha chiarito che le nozioni di «accordo» e «pratica concordata» di cui all’articolo 101, paragrafo 1, TFUE «ricomprendono forme di collusione che condividono la stessa natura e si distinguono solo per la loro intensità e per le forme con cui si manifestano». Pertanto, sebbene tali nozioni possiedano elementi costitutivi parzialmente differenti, esse «non sono reciprocamente incompatibili». La Corte ha espressamente riconosciuto che le violazioni dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE possono sovente «comprende[re] forme di condotta diverse, [che] possono corrispondere a fattispecie differenti, tutte però previste dalla stessa norma e tutte ugualmente vietate». Su tale base, la Corte ha dichiarato che l’autorità garante della concorrenza non è tenuta a qualificare una determinata condotta come accordo o pratica concordata (51). Tale principio è stato costantemente ribadito nella giurisprudenza posteriore (52).

86.      Infatti, nella maggior parte dei casi sarebbe irragionevole e superfluo che un’autorità garante della concorrenza tenti di qualificare una determinata forma di comportamento come accordo o pratica concordata. La verità è che, in una certa misura, questi concetti si sovrappongono, rendendo spesso difficile affermare dove finisce un accordo e inizia una pratica concordata. Inoltre, l’esperienza dimostra che le infrazioni possono evolvere nel corso del tempo. Esse possono iniziare in una forma e assumere progressivamente le caratteristiche di un’altra (53).

87.      Questo è il motivo per cui la Corte ha altresì sottolineato che, indipendentemente dalla qualificazione giuridica di una condotta come «pratica concordata», «accordo» o «decisione di associazioni di imprese», l’analisi giuridica da effettuare ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE non muta (54). Nel contesto della presente causa può essere utile sottolineare che non solo un accordo, ma anche una pratica concordata può essere considerata anticoncorrenziale per oggetto (55).

88.      Ciò non significa, ovviamente, che l’autorità garante della concorrenza non sia tenuta a provare, al livello richiesto, che la condotta che si presume costituire un «accordo e/o una pratica concordata» anticoncorrenziale soddisfa le condizioni per essere considerata tale (56).

89.      Naturalmente, le imprese cui si addebita la partecipazione all’infrazione possono contestare, per ciascuno di questi comportamenti, la qualificazione o le qualificazioni applicate dall’autorità garante della concorrenza, facendo valere che non sono stati adeguatamente provati gli elementi costitutivi delle diverse forme di infrazione contestate (57).

90.      Alla luce di quanto precede, ritengo che, nell’accertare una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, un’autorità garante della concorrenza non è tenuta a qualificare una determinata condotta come accordo o come pratica concordata, purché fornisca prove sufficienti degli elementi costitutivi delle varie forme di infrazione fatte valere.

D.      Sulla terza questione

91.      Con la sua terza questione, che esamino per ultima, il giudice del rinvio chiede alla Corte se, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui le società di carte di credito non hanno partecipato direttamente alla definizione del contenuto dell’accordo, ma ne hanno facilitato l’adozione e l’hanno accettato ed applicato, si debba ritenere, ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, che tali società siano parti dell’accordo o che abbiano partecipato a una pratica concordata.

92.      Come spiegato nella precedente sezione delle presenti conclusioni, l’autorità garante della concorrenza non è generalmente tenuta, quando accerta una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, a qualificare una condotta come accordo o pratica concordata.

93.      Nel caso in esame, sarebbe quindi sufficiente che la forma di collusione o coordinamento che ha avuto luogo tra le società di carte di credito e le banche aderenti all’accordo MIF raggiunga la soglia necessaria per essere considerata una «pratica concordata» al fine di ritenere le prime responsabili dell’infrazione contestata dall’autorità garante della concorrenza.

94.      Dinanzi alla Corte sono state affrontate altre due questioni, che meritano un’ulteriore discussione.

95.      In primo luogo, ci si chiede se la circostanza che le società di carte di credito operino in un mercato diverso da quello in cui è stato applicato l’accordo in questione implichi che tali società non possono essere considerate responsabili della presunta violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE.

96.      La risposta a tale domanda è chiaramente negativa. Il principio alla base dell’articolo 101 TFUE è che le imprese dovrebbero decidere la loro politica sul mercato in modo indipendente, senza intrattenere alcuna forma di contatto diretto o indiretto che possa influire indebitamente sulla loro libertà d’azione (58). A tal fine, il campo di applicazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE è, come indicato supra, al paragrafo 23, piuttosto ampio, allo scopo di cogliere tutte le forme di collusione o di coordinamento che possano condurre a tale risultato.

97.      Il concetto di «accordo» ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE non si limita ai cosiddetti «accordi orizzontali» tra imprese operanti sullo stesso mercato (e quindi in concorrenza effettiva o potenziale tra loro). Nella giurisprudenza dei giudici dell’Unione sono rinvenibili numerosi esempi di accordi tra imprese operanti in fasi diverse della catena di produzione o in mercati contigui che sono stati ritenuti in contrasto con l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE (59). La stessa logica deve valere anche per le pratiche concordate (60).

98.      Questi principi sono stati confermati in modo molto chiaro e, in una certa misura, sviluppati, nella recente sentenza della Corte nella causa AC-Treuhand (61), alla quale le parti hanno fatto numerosi riferimenti nelle loro osservazioni. In tale sentenza, la Corte ha sottolineato che non si può dedurre né dal testo né dalla ratio dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE che la sua portata sia limitata a forme di collusione che danno luogo a «una limitazione reciproca della libertà d’azione in uno stesso mercato in cui sarebbero presenti tutte le parti» (62). La Corte ha inoltre sottolineato che la sua giurisprudenza non ha mai limitato la portata di tale disposizione alle imprese attive nel mercato interessato, o in mercati posizionati a monte, a valle o nei pressi del medesimo (63). La partecipazione di un’impresa a un accordo o a una pratica concordata può violare l’articolo 101 TFUE indipendentemente dal tipo di attività economica svolta da tale impresa e/o dai mercati nei quali opera, purché essa contribuisca a restringere la concorrenza in un dato mercato (64).

99.      La causa AC-Treuhand riguardava una società di consulenza che forniva assistenza a un cartello prestando servizi di natura amministrativa (65). La Corte ha ritenuto che la finalità stessa dei servizi forniti da tale impresa, sulla base di contratti di prestazione di servizi conclusi con i partecipanti al cartello, fosse la realizzazione degli obiettivi anticoncorrenziali in questione. Tale impresa aveva quindi contribuito attivamente all’attuazione e alla gestione di un cartello, nella piena consapevolezza dell’illegittimità di tale attività (66).

100. Nel contesto della presente causa, la questione se la situazione delle società di carte di credito possa integrare le condizioni stabilite nella sentenza AC-Treuhand per quanto riguarda la responsabilità del «facilitatore» ai sensi dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, ampiamente discussa dalle parti, è un poco fuorviante. Il motivo è semplice. Nel contesto fattuale e giuridico della presente causa, le società di carte di credito non si trovavano in una situazione paragonabile a quella della società AC-Treuhand, ossia quella di un semplice «facilitatore». In base ai fatti, così come presentati dal giudice del rinvio, esse sembrano aver avuto un ruolo ben maggiore.

101. Secondo le informazioni fornite dal giudice del rinvio, le società di carte di credito non si sono limitate semplicemente a «facilitare» l’accordo. Esse hanno incoraggiato le banche a raggiungere un accordo e, sebbene non formalmente presenti alle negoziazioni, i loro interessi erano rappresentati da una banca (la Kereskedelmi és Hitelbank Zrt.). Inoltre, le società di carte di credito hanno previsto l’accordo nei loro regolamenti interni, sono state informate della conclusione dell’accordo e l’hanno debitamente applicato, anche nei confronti delle banche che hanno aderito alla rete in un momento successivo.

102. Inoltre, a differenza della società AC-Treuhand, le società di carte di credito avevano un interesse più diretto e immediato alla corretta esecuzione dell’accordo. Infatti, non si trattava di semplici prestatori di servizi assunti dalle banche per lo svolgimento di alcuni compiti specifici. La MasterCard e la Visa erano i fornitori delle carte di credito il cui utilizzo era oggetto dell’accordo MIF. Le società di carte di credito, pertanto, non operavano in un mercato non collegato a quello interessato dall’accordo MIF, bensì in un mercato a monte direttamente interessato. Il fatto che, secondo quanto risulta, esse non abbiano ricevuto direttamente una quota della MIF nulla toglie al loro interesse alla corretta esecuzione dell’accordo MIF.

103. A mio avviso, quindi, la situazione di cui alla presente causa rientra direttamente in un più «classico» scenario verticale: è stato da tempo riconosciuto che accordi o pratiche concordate tra società operanti in fasi diverse della catena di produzione possono violare l’articolo 101 TFUE (67).

104. Un secondo e ultimo problema che emerge dalla questione proposta riguarda le circostanze in cui, nel caso di cui al procedimento principale, le società di carte di credito possono essere ritenute responsabili dell’intera infrazione, congiuntamente con le banche che hanno partecipato all’accordo MIF.

105. La risposta a tale questione può, parimenti, essere rinvenuta in una giurisprudenza costante. Affinché un’autorità possa concludere nel senso della partecipazione di un’impresa a un’infrazione e della sua responsabilità per i diversi elementi che la costituiscono, essa è tenuta a provare che l’impresa in questione ha inteso contribuire con il proprio comportamento agli obiettivi comuni perseguiti da tutti i partecipanti e che era a conoscenza dei comportamenti materiali previsti o attuati da altre imprese nel perseguire i medesimi obiettivi, oppure che poteva ragionevolmente prevederli ed era pronta ad accettarne i rischi (68).

106. Nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, il giudice del rinvio sottolinea che le società di carte di credito non hanno partecipato all’elaborazione dell’accordo MIF né alla determinazione dell’importo della commissione interbancaria. Tuttavia, come ricordato al precedente paragrafo 101, il giudice del rinvio ritiene che tali società ne abbiano incoraggiato l’elaborazione, agevolato l’adozione e lo abbiano accettato e attuato.

107. Se così fosse in base ai fatti del caso, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare, non esiterei molto a concludere che, alla luce del loro ruolo e della loro posizione nei confronti delle banche aderenti all’accordo MIF, le società di carte di credito hanno partecipato alla presunta violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE. Secondo una giurisprudenza costante, né il fatto che un’impresa non abbia preso parte a tutti gli elementi costitutivi di un’intesa, né il fatto che abbia svolto solo un ruolo secondario è rilevante per dimostrare l’esistenza di un’infrazione da parte sua (69).

108. Di conseguenza, propongo alla Corte di rispondere alla terza questione nel senso che, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui le società di carte di credito non hanno partecipato direttamente alla definizione del contenuto di un accordo che viola asseritamente l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, ma ne hanno facilitato l’adozione e l’hanno accettato e applicato, circostanza il cui accertamento spetta al giudice del rinvio, tali società possono essere considerate responsabili di tale violazione.

V.      Conclusione

109. Suggerisco alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate dalla Kúria (Corte suprema, Ungheria) come segue:

–        il medesimo comportamento di un’impresa può essere considerato una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE per avere sia per oggetto che per effetto la restrizione della concorrenza nel mercato interno;

–        spetta al giudice del rinvio verificare se l’accordo MIF costituisca una restrizione per oggetto. A tal fine, il giudice del rinvio deve anzitutto esaminare il contenuto e l’obiettivo di tale accordo per determinare se esso rientri in una categoria di accordi che, alla luce dell’esperienza, è generalmente ritenuta dannosa per la concorrenza. In caso di risposta affermativa a tale questione, il giudice del rinvio dovrebbe quindi verificare che tale conclusione non sia rimessa in discussione da considerazioni relative al contesto giuridico ed economico in cui tale specifico accordo è stato attuato. In particolare, il giudice del rinvio è tenuto a verificare se sia plausibile, prima facie, una spiegazione alternativa per quanto concerne la presunta logica favorevole alla concorrenza dell’accordo MIF, tenendo conto anche del periodo in cui l’accordo era in vigore;

–        nell’accertare una violazione dell’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, un’autorità garante della concorrenza non è tenuta a qualificare una determinata condotta come accordo o come pratica concordata, purché fornisca prove sufficienti degli elementi costitutivi delle varie forme di infrazione fatte valere;

–        in una situazione come quella di cui al procedimento principale, in cui le società di carte di credito non hanno partecipato direttamente alla definizione del contenuto di un accordo che viola asseritamente l’articolo 101, paragrafo 1, TFUE, ma ne hanno facilitato l’adozione e l’hanno accettato e applicato, circostanza il cui accertamento spetta al giudice del rinvio, tali società possono essere considerate responsabili di tale violazione.


1      Lingua originale: l’inglese.


2      V., ad esempio, Baumbach, A. e Hefermehl, W., Wettbewerbs- und Warenzeichenrecht, 8. Aufl., C.H. Beck’sche Verlagsbuchhandlung, München-Berlin, 1960, pag. 1500; Focsaneanu, L., «Pour objet ou pour effet», Revue du Marché Commun, 1966, pagg. da 862 a 870, e Van Gerven, W., Principes du Droit des Ententes de la Communauté Économique Européenne, Bruylant, Bruxelles, 1966, pagg. da 67 a 70.


3      V., ad esempio, Whish, R., Competition Law, 5a ed., LexisNexis, Londra, 2003, pagg. 110 e 111.


4      Sentenza dell’11 settembre 2014, CB/Commissione (C‑67/13 P, EU:C:2014:2204;in prosieguo: la sentenza «CB»).


5      Sentenza del 26 novembre 2015, Maxima Latvija (C‑345/14, EU:C:2015:784; in prosieguo: la sentenza «Maxima Latvija»).


6      Sentenza del 30 giugno 1966, LTM (56/65, EU:C:1966:38, pag. 249). Il corsivo è mio.


7      Sentenza CB, punti 50 e 51.


8      Sentenza Maxima Latvija, punto 19.


9      V., in tal senso, le conclusioni dell’avvocato generale Wahl in CB/Commissione (C‑67/13 P, EU:C:2014:1958, paragrafo 30).


10      V., analogamente, le conclusioni dell’avvocato generale Kokott in T-Mobile Netherlands e a. (C‑8/08, EU:C:2009:110, paragrafo 43).


11      Talora accade, inoltre, che un’autorità garante della concorrenza lasci aperta la questione se un accordo sia restrittivo per oggetto, avendo rilevato che lo stesso possiede un effetto anticoncorrenziale: v., con ulteriori riferimenti, Bailey, D. e John, L.E., (a cura di), Bellamy & Child – European Union Law of Competition, 8a ed., Oxford University Press, Oxford, pag. 164.


12      V. sentenza del 9 luglio 2015, InnoLux/Commissione (C‑231/14 P, EU:C:2015:451, punto 72 e giurisprudenza ivi citata). Il corsivo è mio.


13      Regolamento n. 1/2003 del Consiglio, del 16 dicembre 2002, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli [101 e 102 TFUE] (GU 2003, L 1, pag. 1). Il corsivo è mio.


14      V. sentenza Maxima Latvija, punto 18 e giurisprudenza ivi citata. Il corsivo è mio.


15      Sentenza del 15 luglio 1994, Matra Hachette/Commissione (T‑17/93, EU:T:1994:89, punto 85).


16      Sentenza del 20 novembre 2008 (C‑209/07, EU:C:2008:643).


17      V., in tal senso, sentenza del 14 marzo 2013, Allianz Hungária Biztosító e a. (C‑32/11, EU:C:2013:160, punto 29).


18      V., in tal senso, sentenze CB, punto 58, e Maxima Latvija, punto 18.


19      Sentenza CB, punto 50 e giurisprudenza ivi citata.


20      V., in tal senso, sentenza del 6 ottobre 2009, GlaxoSmithKline Services e a./Commissione e a. (C‑501/06 P, C‑513/06 P, C‑515/06 P e C‑519/06 P, EU:C:2009:610, punto 58 e giurisprudenza ivi citata).


21      V., in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Wahl in CB/Commissione (C‑67/13 P, EU:C:2014:1958, paragrafo 56), e sentenza della Corte AELS del 22 dicembre 2016, causa E‑3/16, Ski Taxi SA e a., [2016] EFTA Ct. Rep. 1002, punto 61.


22      V., conclusioni dell’avvocato generale Wahl in CB/Commissione (C‑67/13 P, EU:C:2014:1958, paragrafo 79).


23      V. sentenza del 26 settembre 2018, Infineon Technologies/Commissione (C‑99/17 P, EU:C:2018:773, punto 156 e giurisprudenza ivi citata).


24      V., fra l’altro, sentenze del 14 marzo 2013, Allianz Hungária Biztosító e a. (C‑32/11, EU:C:2013:160, punti 36 e 37), e del 19 marzo 2015, Dole Food e Dole Fresh Fruit Europe/Commissione (C‑286/13 P, EU:C:2015:184, punti 117 e 118).


25      V., per una trattazione dettagliata, Ibáñez Colomo, P. e Lamadrid, A., «On the Notion of Restriction of Competition: What We Know and What We Don’t Know We Know», in Gerard, D., Merola, M., e Meyring, B. (a cura di), The Notion of Restriction of Competition: Revisiting the Foundations of Antitrust Enforcement in Europe, Bruylant, Bruxelles, 2017, pagg. da 336 a 339.


26      V., tra le tante, sentenze del 30 giugno 1966, LTM (56/65, EU:C:1966:38, pag. 281), e del 15 dicembre 1994, DLG (C‑250/92, EU:C:1994:413, punto 32).


27      V., in tal senso, sentenze del 9 novembre 1983, Nederlandsche Banden-Industrie-Michelin/Commissione (322/81, EU:C:1983:313, punto 57); del 6 ottobre 2015, Post Danmark, (C‑23/14, EU:C:2015:651, punto 29), e del 6 settembre 2017, Intel/Commissione (C‑413/14 P, EU:C:2017:632, punti da 138 a 147).


28      V., in tal senso, sentenze del 19 aprile 1988, Erauw-Jacquery (27/87, EU:C:1988:183, punti da 8 a 20); del 22 giugno 1994, IHT Internationale Heiztechnik e Danzinger (C‑9/93, EU:C:1994:261, punto 59), e del 4 ottobre 2011, Football Association Premier League e a. (C‑403/08 e C‑429/08, EU:C:2011:631, punti 136 e 143).


29      Sentenza del 20 gennaio 2016, Toshiba Corporation/Commissione (C‑373/14 P, EU:C:2016:26, punto 29). Il corsivo è mio.


30      V., in tal senso, le conclusioni dell’avvocato generale Mengozzi in MasterCard e a./Commissione (C‑382/12 P, EU:C:2014:42, paragrafo 52).


31      V. sentenza del 4 giugno 2009, T-Mobile Netherlands e a. (C‑8/08, EU:C:2009:343, punto 31).


32      V., analogamente, sentenza CB, punto 79 e giurisprudenza ivi citata.


33      Sentenze dell’11 settembre 2014, MasterCard e a./Commissione (C‑382/12 P, EU:C:2014:220), e del 24 maggio 2012, MasterCard e a./Commissione (T‑111/08, EU:T:2012:260).


34      Decisione della Commissione del 24 luglio 2002 (Caso COMP/29.373 – Visa International – Commissione interbancaria multilaterale).


35      Decisione della Commissione del 19 dicembre 2007 (Casi COMP/34.579 — MasterCard, COMP/36.518 – EuroCommerce, COMP/38.580 – Commercial Cards). Per chiarezza, una «commissione interbancaria standard» è una commissione interbancaria che si applica ogniqualvolta la banca acquirente e la banca emittente non abbiano concluso un accordo bilaterale o non sia stata fissata collettivamente, a livello nazionale, una commissione interbancaria.


36      Decisione della Commissione del 22 gennaio 2019 (Case COMP/AT.40049 – MasterCard II).


37      V. decisioni della Commissione dell’8 dicembre 2010 (Caso COMP/39.398 – Visa MIF), del 26 febbraio 2014 (Caso COMP/39398 – Visa MIF), e del 29 aprile 2019 (Caso COMP/AT.39398 – Visa MIF).


38      Tralasciando, dunque, l’argomento delle ricorrenti nel procedimento principale concernente una presunta violazione del principio di certezza del diritto, in ragione del fatto che, nel 2008, la natura anticoncorrenziale di un accordo quale l’accordo MIF non era affatto manifesta.


39      O al riguardo anche, potenzialmente, autorità o giudici al di fuori dell’Unione europea che applichino regole sulla concorrenza analoghe.


40      Per scrupolo di chiarezza desidero sottolineare che ciò che ho suggerito per quanto concerne il livello «orizzontale» dello scambio di conoscenze (che implica la presa in considerazione, da parte dell’autorità nazionale garante della concorrenza, delle decisioni di altre autorità nazionali o di giudici di altri Stati membri) non corrisponde, senza alcun dubbio, a un obbligo del tipo CILFIT, che incombe, almeno nominalmente, in capo ai giudici di ultima istanza nel quadro del terzo paragrafo dell’articolo 267 TFUE [v. sentenza del 6 ottobre 1982, Cilfit e a. (283/81, EU:C:1982:335, punto 16)]. Piuttosto, ciò che suggerisco in questa sede sono le potenziali fonti di conoscenza che possono corroborare l’affermazione secondo cui un dato tipo di accordo equivale chiaramente a una restrizione per oggetto.


41      V. supra, nota 33.


42      V. anche sentenza del 24 maggio 2012, MasterCard e a./Commissione (T‑111/08, EU:T:2012:260, punto 137).


43      V., rispettivamente, articolo 141 della legge n. CXLIII del 2013, che modifica talune leggi nel contesto della legge sulla Banca nazionale di Ungheria e adotta modifiche per altri scopi, e regolamento (UE) 2015/751 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2015, relativo alle commissioni interbancarie sulle operazioni di pagamento basate su carta (GU 2015, L 123, pag. 1).


44      V., ad esempio, sentenza del 13 ottobre 2011, Pierre Fabre Dermo-Cosmétique (C‑439/09, EU:C:2011:649, punto 40), e sentenza CB, punto 75.


45      V., in tal senso, sentenza del 23 novembre 2006, Asnef-Equifax eAdministración del Estado (C‑238/05, EU:C:2006:734, punti da 46 a 63).


46      V. sentenza del 13 ottobre 2011, Pierre Fabre Dermo-Cosmétique (C‑439/09, EU:C:2011:649, punto 40).


47      V., in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Trstenjak in Beef Industry Development Society e Barry Brothers (C‑209/07, EU:C:2008:467, paragrafo 53 e giurisprudenza ivi citata).


48      V., in tal senso, ad esempio, sentenze dell’11 luglio 1985, Remia e a./Commissione (42/84, EU:C:1985:327, punti 19 e 20); del 28 gennaio 1986, Pronuptia de Paris (161/84, EU:C:1986:41, punti da 15 a 17), e dell’11 settembre 2014, MasterCard e a./Commissione (C‑382/12 P, EU:C:2014:2201, punto 89).


49      V., in tal senso, conclusioni dell’avvocato generale Wahl nella causa CB/Commissione (C‑67/13 P, EU:C:2014:1958, paragrafo 56).


50      V., in tal senso, sentenze CB, punti da 80 a 87 e Maxima Latvija, punti da 22 a 24.


51      Sentenza dell’8 luglio 1999, Commissione/Anic Partecipazioni (C‑49/92 P, EU:C:1999:356, punti da 131 a 133).


52      V., ad esempio, sentenze del 9 dicembre 2014, SP/Commissione (T‑472/09 e T‑55/10, EU:T:2014:1040, punto 159), e del 16 giugno 2015, FSL e a./Commissione (T‑655/11, EU:T:2015:383, punto 419).


53      V., ad esempio, Faull, J. E Nikpay, A., (a cura di), The EU Law of Competition, 3a ed., Oxford University Press, Oxford, 2014, pagg. 225 e 226.


54      Sentenza del 23 novembre 2006, Asnef-Equifax e Administración del Estado (C‑238/05, EU:C:2006:734, punto 32).


55      V., ad esempio, sentenza del 4 giugno 2009, T-Mobile Netherlands e a. (C‑8/08, EU:C:2009:343, in particolare punto 24 e da 28 a 30).


56      V., in tal senso, sentenza dell’8 luglio 1999, Commissione/Anic Partecipazioni (C‑49/92 P, EU:C:1999:356, punti 134 e 135).


57      Ibid., punto 136.


58      V., in tal senso, sentenza dell’8 luglio 1999, Hüls/Commissione (C‑199/92 P, EU:C:1999:358, punto 159 e giurisprudenza ivi citata).


59      V., ad esempio, sentenza del 13 luglio 1966, Consten e Grundig/Commissione (56/64 e 58/64, EU:C:1966:41). V., più recentemente, sentenza del 13 ottobre 2011, Pierre Fabre Dermo-Cosmétique (C‑439/09, EU:C:2011:649).


60      V. supra, paragrafo  85 delle presenti conclusioni.


61      Sentenza del 22 ottobre 2015, AC-Treuhand/Commissione (C‑194/14 P, EU:C:2015:717).


62      Ibidem, punto 33.


63      Ibidem, punto 34.


64      Ibidem, punto 35.


65      Si suole fare riferimento a tale situazione come a quella di un «facilitatore di cartello».


66      Ibidem, punti da 37 a 39.


67      V. supra, paragrafo 97 delle presenti conclusioni.


68      V., in tal senso, sentenze dell’8 luglio 1999, Commissione/Anic Partecipazioni (C‑49/92 P, EU:C:1999:356, punti 86 e 87), e del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione (C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P, EU:C:2004:6, punto 83).


69      V., ad esempio, sentenza del 7 gennaio 2004, Aalborg Portland e a./Commissione (C‑204/00 P, C‑205/00 P, C‑211/00 P, C‑213/00 P, C‑217/00 P e C‑219/00 P, EU:C:2004:6, punto 86).