CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
HENRIK SAUGMANDSGAARD ØE
presentate il 15 luglio 2021 (1)
Causa C‑401/19
Repubblica di Polonia
contro
Parlamento europeo,
Consiglio dell’Unione europea
«Ricorso di annullamento – Direttiva (UE) 2019/790 – Diritto d’autore e diritti connessi – Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi di condivisione di contenuti online – Comunicazione al pubblico – Responsabilità di tali prestatori – Articolo 17 – Esenzione di responsabilità – Paragrafo 4, lettera b) e lettera c), in fine – Filtraggio dei contenuti messi in rete dagli utenti – Libertà di espressione e di informazione – Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Articolo 11, paragrafo 1 – Compatibilità – Garanzie che delimitano tale filtraggio»
I. Introduzione
1. Con il presente ricorso, proposto sulla base dell’articolo 263 TFUE, la Repubblica di Polonia chiede alla Corte, in via principale, di annullare l’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) e lettera c), in fine, della direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE(2) e, in subordine, di annullare in toto tale articolo 17.
2. Tale ricorso invita la Corte ad esaminare la questione della responsabilità sopportata dai prestatori di servizi di condivisione online allorché contenuti protetti dal diritto d’autore o dai diritti connessi vengano caricati (3) dagli utenti di tali servizi.
3. Tale problematica è già stata portata all’attenzione della Corte nelle cause riunite C‑682/18, YouTube, e C‑683/18, Cyando, nell’ottica del contesto costituito dalla direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»)(4) e dalla direttiva 2001/29/CE sull’armonizzazione di taluni aspetti del diritto d’autore e dei diritti connessi nella società dell’informazione (5). Si tratta, questa volta, di esaminare l’articolo 17 della direttiva 2019/790, il quale prevede un nuovo regime di responsabilità applicabile ai prestatori di servizi di condivisione online.
4. Come verrà spiegato nelle presenti conclusioni, tale disposizione impone a tali prestatori obblighi di sorveglianza dei contenuti che gli utenti dei loro servizi mettono in rete, al fine di prevenire il caricamento delle opere e dei materiali protetti che i titolari dei diritti non desiderano rendere accessibili su tali servizi. Tale sorveglianza preventiva assumerà la forma, di norma, di un filtraggio di tali contenuti, realizzato con l’ausilio di strumenti informatici.
5. Orbene, tale filtraggio solleva questioni complesse, evidenziate dalla ricorrente, sotto il profilo della libertà di espressione e di informazione degli utenti dei servizi di condivisione, garantita all’articolo 11 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»). La Corte, nel solco delle sue sentenze Scarlet Extended (6), SABAM (7), nonché Glawischnig-Piesczek (8), dovrà stabilire se, ed eventualmente a quali condizioni, un siffatto filtraggio sia compatibile con tale libertà. Si tratterà, per la stessa, di tenere conto dei vantaggi, ma anche dei rischi che un siffatto filtraggio comporta e, in tale contesto, assicurare che sia mantenuto un «giusto equilibrio» fra l’interesse dei titolari dei diritti ad una protezione effettiva della loro proprietà intellettuale, da un lato, e l’interesse di tali utenti, e del pubblico in generale, alla libera circolazione dell’informazione online, dall’altro.
6. Nelle presenti conclusioni, illustrerò che, a mio avviso, il legislatore dell’Unione, nel rispetto della libertà di espressione, può imporre taluni obblighi di sorveglianza e di filtraggio a determinati intermediari online, a condizione, tuttavia, che tali obblighi siano delimitati da garanzie sufficienti per ridurre al minimo l’impatto di un tale filtraggio su siffatta libertà. Dal momento che l’articolo 17 della direttiva 2019/790 contiene, a mio avviso, simili garanzie, proporrò alla Corte di dichiarare che tale disposizione è valida e, di conseguenza, di respingere il ricorso della Repubblica di Polonia (9).
II. Contesto normativo
A. La direttiva 2000/31
7. L’articolo 14 della direttiva 2000/31, intitolato «“Hosting”», dispone quanto segue al suo paragrafo 1:
«Gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:
a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione, o
b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso».
8. L’articolo 15 di tale direttiva, intitolato «Assenza dell’obbligo generale di sorveglianza», prevede quanto segue al suo paragrafo 1:
«Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite».
B. La direttiva 2001/29
9. L’articolo 3 della direttiva 2001/29, intitolato «Diritto di comunicazione di opere al pubblico, compreso il diritto di mettere a disposizione del pubblico altri materiali protetti», dispone quanto segue ai suoi paragrafi 1 e 2:
«1. Gli Stati membri riconoscono agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi comunicazione al pubblico, su filo o senza filo, delle loro opere, compresa la messa a disposizione del pubblico delle loro opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente.
2. Gli Stati membri riconoscono ai soggetti sotto elencati il diritto esclusivo di autorizzare o vietare la messa a disposizione del pubblico, su filo o senza filo, in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente:
a) gli artisti interpreti o esecutori, per quanto riguarda le fissazioni delle loro prestazioni artistiche;
b) ai produttori di fonogrammi, per quanto riguarda le loro riproduzioni fonografiche;
c) ai produttori delle prime fissazioni di una pellicola, per quanto riguarda l’originale e le copie delle loro pellicole;
d) agli organismi di diffusione radiotelevisiva, per quanto riguarda le fissazioni delle loro trasmissioni, siano esse effettuate su filo o via etere, comprese le trasmissioni via cavo o via satellite».
10. L’articolo 5 di tale direttiva, intitolato «Eccezioni e limitazioni», prevede quanto segue al suo paragrafo 3:
«Gli Stati membri hanno la facoltà di disporre eccezioni o limitazioni ai diritti di cui agli articoli 2 e 3 nei casi seguenti:
(...)
d) quando si tratti di citazioni, per esempio a fini di critica o di rassegna (...);
(...)
k) quando l’utilizzo avvenga a scopo di caricatura, parodia o pastiche;
(...)».
C. La direttiva 2019/790
11. L’articolo 17 della direttiva 2019/790, intitolato «Utilizzo di contenuti protetti da parte di prestatori di servizi di condivisione di contenuti online», dispone quanto segue:
«1. Gli Stati membri dispongono che il prestatore di servizi di condivisione di contenuti online effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico ai fini della presente direttiva quando concede l’accesso al pubblico a opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti.
Un prestatore di servizi di condivisione di contenuti online deve pertanto ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della [direttiva 2001/29], ad esempio mediante la conclusione di un accordo di licenza, al fine di comunicare al pubblico o rendere disponibili al pubblico opere o altri materiali.
2. Gli Stati membri dispongono che qualora un prestatore di servizi di condivisione di contenuti online ottenga un’autorizzazione, ad esempio mediante un accordo di licenza, tale autorizzazione includa anche gli atti compiuti dagli utenti dei servizi che rientrano nell’ambito di applicazione dell’articolo 3 della [direttiva 2001/29] qualora non agiscano su base commerciale o qualora la loro attività non generi ricavi significativi.
3. Quando il prestatore di servizi di condivisione di contenuti online effettui un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico alle condizioni stabilite dalla presente direttiva, la limitazione di responsabilità di cui all’articolo 14, paragrafo 1, della [direttiva 2000/31] non si applica alle fattispecie contemplate dal presente articolo.
Il primo comma del presente paragrafo non pregiudica la possibile applicazione dell’articolo 14, paragrafo 1, della [direttiva 2000/31] a tali prestatori di servizi per finalità che non rientrano nell’ambito di applicazione della presente direttiva.
4. Qualora non sia concessa alcuna autorizzazione, i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online sono responsabili per atti non autorizzati di comunicazione al pubblico, compresa la messa a disposizione del pubblico, di opere e altri materiali protetti dal diritto d’autore, a meno che non dimostrino di:
a) aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione, e
b) aver compiuto, secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, i massimi sforzi per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari dei diritti; e in ogni caso,
c) aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro conformemente alla lettera b).
5. Per stabilire se il prestatore di servizi si è conformato agli obblighi di cui al paragrafo 4 e alla luce del principio di proporzionalità, sono presi in considerazione, tra gli altri, gli elementi seguenti:
a) la tipologia, il pubblico e la dimensione del servizio e la tipologia di opere o altri materiali caricati dagli utenti del servizio; e
b) la disponibilità di strumenti adeguati ed efficaci e il relativo costo per i prestatori di servizi.
(...)
7. La cooperazione tra i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online e i titolari dei diritti non deve impedire la disponibilità delle opere o di altri materiali caricati dagli utenti, che non violino il diritto d’autore o i diritti connessi, anche nei casi in cui tali opere o altri materiali siano oggetto di un’eccezione o limitazione.
Gli Stati membri provvedono affinché gli utenti in ogni Stato membro possano avvalersi delle seguenti eccezioni o limitazioni esistenti quando caricano e mettono a disposizione contenuti generati dagli utenti tramite i servizi di condivisione di contenuti online:
a) citazione, critica, rassegna;
b) utilizzi a scopo di caricatura, parodia o pastiche.
8. L’applicazione del presente articolo non comporta alcun obbligo generale di sorveglianza.
Gli Stati membri dispongono che i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online forniscano ai titolari dei diritti, su richiesta di questi ultimi, informazioni adeguate sul funzionamento delle loro prassi per quanto riguarda la cooperazione di cui al paragrafo 4 e, qualora siano stati conclusi accordi di licenza tra i prestatori di servizi e i titolari dei diritti, informazioni sull’utilizzo dei contenuti oggetto degli accordi.
9. Gli Stati membri dispongono che i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online istituiscano un meccanismo di reclamo e ricorso celere ed efficace che sia disponibile agli utenti dei loro servizi in caso di controversie in merito alla disabilitazione dell’accesso a, o alla rimozione di, specifiche opere o altri materiali da essi caricati.
Ove i titolari dei diritti chiedano che sia disabilitato l’accesso a loro specifiche opere o altri materiali, o che tali opere o altri materiali siano rimossi, essi devono indicare debitamente i motivi della richiesta. I reclami presentati nell’ambito del meccanismo di cui al primo comma sono trattati senza indebito ritardo e le decisioni volte a disabilitare l’accesso o a rimuovere i contenuti caricati sono soggette a verifica umana. Gli Stati membri garantiscono altresì che meccanismi di ricorso stragiudiziale siano disponibili per la risoluzione delle controversie. Tali meccanismi consentono una risoluzione imparziale delle controversie e non privano l’utente della protezione giuridica offerta dal diritto nazionale, fatto salvo il diritto degli utenti di avvalersi di mezzi di ricorso giurisdizionali efficaci. In particolare, gli Stati membri provvedono a che gli utenti abbiano accesso a un organo giurisdizionale o un’altra autorità giudiziaria competente per far valere l’applicazione di un’eccezione o di una limitazione al diritto d’autore e ai diritti connessi.
La presente direttiva non incide in alcun modo sugli utilizzi legittimi, quali quelli oggetto delle eccezioni o limitazioni previste dal diritto dell’Unione (...).
I prestatori di servizi di condivisione di contenuti online informano i loro utenti, nei loro termini e condizioni d’uso, della possibilità di utilizzare opere e altri materiali conformemente alle eccezioni o limitazioni al diritto d’autore e ai diritti connessi previste dal diritto dell’Unione.
10. A decorrere dal 6 giugno 2019, la Commissione, in cooperazione con gli Stati membri, organizza dialoghi tra le parti interessate per discutere le migliori prassi per la cooperazione tra i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online e i titolari dei diritti. La Commissione, di concerto con i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online, i titolari dei diritti, le organizzazioni di utenti e altre parti interessate pertinenti e tenendo conto dei risultati dei dialoghi con le parti interessate, emette orientamenti sull’applicazione del presente articolo, in particolare per quanto concerne la cooperazione di cui al paragrafo 4. Nel discutere le migliori prassi, si tiene specialmente conto, tra l’altro, della necessità di pervenire a un equilibrio tra i diritti fondamentali e del ricorso a eccezioni e limitazioni. Ai fini del dialogo con le parti interessate, le organizzazioni di utenti hanno accesso a informazioni adeguate fornite dai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online sul funzionamento delle loro prassi in relazione al paragrafo 4».
III. Fatti all’origine del presente ricorso
A. La proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale
12. Il 14 settembre 2016, la Commissione europea ha presentato una proposta di direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale (10). Tale proposta mirava a adeguare le norme dell’Unione nel settore della proprietà letteraria e artistica – diritto d’autore e diritti connessi al diritto d’autore –, in particolare la direttiva 2001/29, all’evoluzione delle tecnologie digitali (11). Essa era parimenti volta ad armonizzare ulteriormente tale settore in un modo che, continuando al contempo a garantire un livello elevato di protezione della proprietà intellettuale, assicurasse un’ampia disponibilità dei contenuti creativi in tutta l’Unione e mantenesse, nell’ambiente digitale, un «giusto equilibrio» con altri interessi pubblici.
13. In tale contesto, l’articolo 13 di detta proposta mirava, più specificamente, a porre rimedio al «Value Gap», ossia la differenza percepita fra il valore che i prestatori di servizi di condivisione online ricavano dalle opere e dai materiali protetti e i proventi che essi riversano ai titolari dei diritti (12).
14. A tal riguardo, si deve ricordare che i servizi in questione, tipici del «Web 2.0» interattivo e di cui YouTube (13), Soundcloud o, ancora, Pinterest sono gli esempi più noti, consentono a chiunque di mettere in rete automaticamente, senza selezione preventiva da parte dei loro prestatori, i contenuti desiderati. I contenuti messi in rete dagli utenti di tali servizi – comunemente designati come «user-generated content» o «user-uploaded content» – possono successivamente essere consultati in streaming (diffusione in flusso continuo) a partire dai siti Internet o dalle applicazioni per dispositivi smart associati a detti servizi – consultazione che è agevolata dalle funzioni di indicizzazione, di ricerca e di raccomandazione ivi generalmente presenti –, e ciò il più delle volte gratuitamente –; i prestatori di questi stessi servizi si remunerano solitamente tramite la vendita di spazi pubblicitari. Una quantità gigantesca di contenuti (14) viene dunque messa a disposizione del pubblico su Internet, inclusa una quota ingente di opere e di altri materiali protetti.
15. Orbene, a partire dal 2015, i titolari dei diritti, in particolare quelli dell’industria musicale, hanno fatto valere che, mentre tali servizi di condivisione online occupano, nella prassi, una posizione importante nella distribuzione online di opere e altri protetti e i loro prestatori ne ricavano introiti pubblicitari considerevoli, questi ultimi non retribuiscono in maniera equa detti titolari. I proventi che tali prestatori versano a questi stessi titolari sarebbero segnatamente insignificanti rispetto a quelli che i prestatori di servizi di streaming musicale – come Spotify – versano loro, benché questi due tipi di servizi siano spesso percepiti dai consumatori come fonti equivalenti di accesso a detti materiali. Ne risulterebbe parimenti una concorrenza sleale fra detti servizi (15).
16. Al fine di comprendere l’argomento del «Value Gap», occorre ritornare sul contesto normativo applicabile prima dell’adozione della direttiva e sulle incertezze che lo circondavano.
17. Da un lato, l’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29 riconosce agli autori il diritto esclusivo di autorizzare o vietare qualsiasi «comunicazione al pubblico» delle loro opere, compresa la «messa a disposizione del pubblico» di tali opere in maniera tale che ciascuno possa avervi accesso dal luogo e nel momento scelti individualmente (16). Diritti simili sono riconosciuti ai titolari di diritti connessi sui loro materiali protetti (17) ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 2, di tale direttiva (18). In linea di principio (19), un terzo non può dunque «comunicare al pubblico» un’opera o un materiale protetto senza avere ottenuto preventivamente un’autorizzazione del titolare o dei titolari dei diritti sulla prima o sul secondo, autorizzazione che assume generalmente la forma di un accordo di licenza, concessa dietro un compenso (20). Orbene, mentre è sempre stato chiaro che la messa in rete, da parte di un utente, di un’opera o di un materiale protetto su un servizio di condivisione costituisce un atto di «comunicazione al pubblico» che esige una siffatta autorizzazione preventiva, la questione se i prestatori di tali servizi dovevano essi stessi concludere accordi di licenza e retribuire i titolari dei diritti era oggetto di una controversia fra siffatti prestatori e detti titolari (21).
18. Dall’altro, l’articolo 14 della direttiva 2000/31 contiene un «approdo sicuro» (safe harbour) per i prestatori di servizi della società dell’informazione consistente nella memorizzazione dei contenuti forniti dai terzi. Tale disposizione prevede, in sostanza, che il prestatore di un simile servizio venga esentato da qualsiasi responsabilità che possa derivare (22) dai contenuti illeciti che memorizza su richiesta degli utenti di tale servizio, a condizione che non ne sia a conoscenza o che, se del caso, li elimini immediatamente. Orbene, anche in tal caso, la questione se i prestatori dei servizi di condivisione online potevano beneficiare di tale esenzione in materia di diritto d’autore era oggetto di controversia (23).
19. Tali controversie erano a maggior ragione vivaci in quanto la Corte non aveva ancora avuto l’occasione di trattarle (24).
20. In un contesto del genere, taluni prestatori di servizi di condivisione si erano semplicemente rifiutati di concludere accordi di licenza con i titolari dei diritti per le opere e i materiali protetti messi in rete dagli utenti dei loro servizi, ritenendo di non essere tenuti a farlo. Altri prestatori avevano ciononostante accettato di concludere siffatti accordi, ma le condizioni di tali accordi non erano, secondo i titolari dei diritti, eque, non potendo questi ultimi negoziare su una base paritaria con detti prestatori (25).
21. Ciò premesso, la proposta di direttiva mirava dunque, da un lato, a far sì che i titolari dei diritti potessero ottenere una migliore remunerazione per l’utilizzo delle loro opere e degli altri materiali protetti sui servizi di condivisione online, affermando l’obbligo, per i prestatori di tali servizi, di concludere accordi di licenza con detti titolari (26).
22. Dall’altro, tale proposta era intesa a consentire ai titolari dei diritti di controllare più agevolmente l’utilizzo delle loro opere e materiali protetti sui servizi in questione. Il suo articolo 13 imponeva, a tal riguardo, ai prestatori di detti servizi, in sostanza, di ricorrere agli strumenti di riconoscimento automatico di contenuto, già applicati, su base volontaria, da taluni di essi, ossia strumenti informatici, il cui funzionamento verrà descritto più avanti (27), che possono utilizzati segnatamente al momento della messa in rete di un contenuto da parte di un utente – da cui la designazione comune di tali strumenti con l’espressione «Upload filter» (filtri di caricamento) – per verificare, tramite un processo automatizzato, se tale contenuto includa un’opera o un altro materiale protetto e, se del caso, bloccarne la diffusione (28).
23. La proposta di direttiva, in particolare il suo articolo 13, ha dato luogo a numerosi dibattiti all’interno del Parlamento e del Consiglio nell’ambito dell’iter legislativo. Tale iter è stato inoltre caratterizzato da intense campagne di lobbying da parte degli operatori economici interessati e da dimostrazioni di opposizione di una parte della società civile, degli ambienti accademici e dei sostenitori della libertà di espressione, con cui si sottolineavano gli effetti dannosi che l’obbligo, per i prestatori di servizi di condivisione, di predisporre «upload filters» potrebbe avere, a loro avviso, su tale libertà (29).
24. La proposta di direttiva è stata alla fine approvata dal Parlamento il 26 marzo 2019 e dal Consiglio il 16 aprile 2019 (30). Tale proposta è stata adottata ufficialmente come direttiva 2019/790 il 17 aprile 2019. Essa doveva essere trasposta dagli Stati membri entro il 7 giugno 2021 (31).
B. L’articolo 17 della direttiva 2019/790
25. Nel corso di tale iter legislativo, l’articolo 13 della proposta di direttiva ha subito diverse modifiche. Esso è stato adottato, con un testo sensibilmente differente, come articolo 17 della direttiva 2019/790. Mi sembra opportuno illustrarne già adesso taluni aspetti fondamentali.
26. In primo luogo, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 si rivolge, come indica il suo titolo, ai «prestatori di servizi di condivisione di contenuti online» (32). Tale nozione è definita all’articolo 2, punto 6, primo comma, di tale direttiva, come relativa a ogni «prestatore di servizi della società dell’informazione il cui scopo principale o uno dei principali scopi è quello di memorizzare e dare accesso al pubblico a grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti, che il servizio organizza e promuove a scopo di lucro». Indipendentemente dal carattere aperto dei termini impiegati, ne risulta in modo chiaro che tale articolo 17 riguarda i «grandi» prestatori di servizi di condivisione, considerati connessi al «Value Gap» (33), e di cui tale definizione mira, evidentemente, a riflettere il funzionamento (34).
27. In secondo luogo, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 enuncia, al suo paragrafo 1, primo comma, che un prestatore di servizi di condivisione «effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico ai fini della presente direttiva quando concede l’accesso al pubblico a opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti». Pertanto, come precisato dal secondo comma di tale paragrafo, tali prestatori devono, in linea di principio, ottenere un’autorizzazione dei titolari dei diritti, ad esempio mediante la conclusione di un accordo di licenza, per l’utilizzo, sui loro servizi, di contenuti protetti messi in rete dagli utenti (35). Il legislatore dell’Unione ha pertanto risolto ex lege la controversia menzionata al paragrafo 17 delle presenti conclusioni a favore di tali titolari (36).
28. Tale obbligo è direttamente connesso all’obiettivo generale perseguito all’articolo 17 della direttiva 2019/790, ossia «garantire il buon funzionamento e l’equità del mercato per il diritto d’autore» (37), promuovendo lo sviluppo del «mercato della concessione delle licenze tra i titolari di diritti e i prestatori di servizi di condivisione». Si tratta di rafforzare la posizione di tali titolari in occasione della negoziazione (o della rinegoziazione) di accordi di licenza con tali prestatori, al fine di assicurare che tali accordi siano «equi» e mantengano un «equilibrio ragionevole tra entrambe le parti» (38) – e, in tal modo, rimediare al «Value Gap». La posizione di negoziazione di detti titolari è ulteriormente rafforzata dal fatto che, in linea di principio, essi, da parte loro, non sono tenuti a concludere simili accordi con questi stessi prestatori (39).
29. In terzo luogo, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 precisa, al suo paragrafo 3, che quando il prestatore di servizi di condivisione effettui un atto di «comunicazione al pubblico» o di «messa a disposizione del pubblico» alle condizioni stabilite al paragrafo 1 di tale articolo, l’esenzione da responsabilità di cui all’articolo 14 della direttiva 2000/31 non si applica (40).
30. In quarto luogo, il paragrafo 4 di tale articolo 17 precisa che, qualora i prestatori di servizi di condivisione non abbiano ottenuto un’autorizzazione dei titolari dei diritti, essi sono responsabili per atti «non autorizzati» (41) di comunicazione al pubblico realizzati tramite i loro servizi. Si tratta in tal caso di una conseguenza logica di quanto esposto supra: poiché si ritiene ormai che tali prestatori realizzino atti di «comunicazione al pubblico» quando «danno accesso» alle opere e ad altri materiali protetti caricati dagli utenti dei loro servizi, essi sopportano una responsabilità diretta (o «primaria») in caso di «comunicazione» illecita.
31. In linea di principio, la responsabilità diretta gravante sulla persona che realizza un atto illecito di «comunicazione al pubblico» è una responsabilità oggettiva (42). I prestatori di servizi di condivisione dovrebbero dunque essere automaticamente responsabili ogniqualvolta un’opera o un materiale protetto venga messo in rete illegalmente sui loro servizi. A tale titolo, essi potrebbero essere segnatamente condannati a risarcire ai titolari dei diritti interessati i danni potenzialmente conseguenti (43).
32. Cionondimeno, poiché, da un lato, sono gli utenti dei servizi di condivisione a mettere in rete i contenuti ivi presenti, senza che i loro prestatori operino una selezione preventiva al riguardo (44), e, dall’altro, tali prestatori non potranno probabilmente ottenere l’autorizzazione di tutti i titolari dei diritti per la totalità delle opere e degli altri materiali protetti, attuali e futuri, che potrebbero dunque essere ivi caricati (45), una siffatta responsabilità oggettiva avrebbe costretto detti prestatori a cambiare completamente modello economico – e, di conseguenza, ad abbandonare il modello stesso del «Web 2.0» interattivo.
33. Di conseguenza, il legislatore dell’Unione ha ritenuto opportuno prevedere, per questi stessi prestatori, un meccanismo specifico di responsabilità (46). In conformità all’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2019/790, essi, in caso di «comunicazione al pubblico» illecita realizzata tramite i loro servizi, possono esimersi da qualsiasi responsabilità dimostrando di:
«a) aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione,
e
b) aver compiuto, secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, i massimi sforzi per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari dei diritti; e in ogni caso,
c) aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali oggetto di segnalazione e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro conformemente alla lettera b)».
34. Due di queste condizioni cumulative sono al centro del presente ricorso. Gli altri paragrafi dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 verranno presentati man mano che precederò all’esame di tale ricorso (47).
IV. Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti
35. Con atto depositato nella cancelleria della Corte il 24 maggio 2019, la Repubblica di Polonia ha proposto il presente ricorso.
36. La Repubblica di Polonia chiede che la Corte voglia:
– annullare l’articolo 17, paragrafo 4, lettera b), e l’articolo 17, paragrafo 4, lettera c), in fine, ossia, nella parte che include le parole: «e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro conformemente alla lettera b)» della direttiva 2019/790;
– in subordine, qualora la Corte dovesse ritenere che le disposizioni impugnate non possano essere separate dal resto dell’articolo 17 di tale direttiva senza alterarne la sostanza, annullare in toto tale articolo;
– condannare il Parlamento e il Consiglio alle spese.
37. Il Parlamento chiede che la Corte voglia:
– respingere il ricorso in quanto infondato;
– condannare la Repubblica di Polonia alle spese.
38. Il Consiglio chiede che la Corte voglia:
– respingere le conclusioni formulate in via principale in quanto irricevibili;
– in subordine, respingere in toto il ricorso in quanto infondato;
– condannare la Repubblica di Polonia alle spese.
39. Con decisione del presidente della Corte, in data 17 ottobre 2019, il Regno di Spagna, la Repubblica francese, la Repubblica portoghese e la Commissione europea sono state ammesse ad intervenire a sostegno delle conclusioni del Parlamento e del Consiglio. Tutti gli intervenienti, ad eccezione della Repubblica portoghese, hanno depositato memorie di intervento.
40. Le parti e gli intervenienti, ad eccezione del governo portoghese, sono stati rappresentati all’udienza di discussione tenutasi il 10 novembre 2020.
V. Analisi
41. A sostegno del suo ricorso, la Repubblica di Polonia deduce un motivo unico, relativo alla violazione del diritto alla libertà di espressione e di informazione, garantito all’articolo 11, paragrafo 1, della Carta (48). Prima di esaminare nel merito tale motivo (sezione B), mi soffermerò brevemente sulla ricevibilità del ricorso (sezione A).
A. Sulla ricevibilità
42. Il Parlamento, il Consiglio, il governo francese e la Commissione fanno valere che le conclusioni principali del ricorso, in quanto dirette ad ottenere l’annullamento delle sole lettere b) e c), in fine, del paragrafo 4 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, sono irricevibili. Anch’io sono d’accordo.
43. Infatti, in conformità ad una costante giurisprudenza della Corte, l’annullamento parziale di un atto dell’Unione è possibile solo se gli elementi di cui è chiesto l’annullamento sono separabili dal resto dell’atto. Tale requisito non è soddisfatto quando un siffatto annullamento parziale avrebbe l’effetto di modificarne la sostanza (49).
44. Orbene, l’annullamento delle sole lettere b) e c), in fine, del suo paragrafo 4 manifestamente modificherebbe la sostanza dell’articolo 17 della direttiva 2019/790. Come fatto valere dal Parlamento, dal Consiglio, dal governo francese e dalla Commissione, le diverse disposizioni di tale articolo 17 costituiscono, nel loro insieme, un regime «complesso» di responsabilità, che traduce l’equilibrio auspicato dal legislatore dell’Unione fra i diritti e gli interessi dei prestatori di servizi di condivisione, degli utenti dei loro servizi e dei titolari dei diritti. L’annullamento delle sole disposizioni impugnate avrebbe come conseguenza quella di sostituire, a tale regime di responsabilità, un regime al contempo sensibilmente diverso e nettamente più favorevole a tali prestatori. In altre parole, procedere ad un siffatto annullamento parziale equivarrebbe, per la Corte, a rivedere questo stesso articolo 17, cosa che non può fare nell’ambito di un procedimento di annullamento ai sensi dell’articolo 263 TFUE.
45. Per contro, è pacifico fra le parti che le conclusioni formulate in subordine dalla ricorrente, con le quali essa chiede l’annullamento in toto dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, sono ricevibili. Infatti, per quanto importante sia tale articolo, il suo annullamento non modificherebbe la sostanza di tale direttiva. I numerosi articoli della stessa hanno oggetti diversi e sono ripartiti in titoli e capi differenti. L’articolo 17 di detta direttiva è, pertanto, separabile dagli altri suoi articoli, i quali potrebbero senz’altro sussistere in caso di annullamento del primo (50).
B. Nel merito
46. Il motivo unico dedotto dalla Repubblica di Polonia può essere riassunto in poche parole. In sostanza, essa fa valere che, in conformità all’articolo 17, paragrafo 4, lettere b) e c), in fine, della direttiva 2019/790, i prestatori di servizi di condivisione sono tenuti, al fine di essere esentati da ogni responsabilità in caso di «comunicazione al pubblico» illecita di opere o altri materiali protetti sui loro servizi, a procedere ad una sorveglianza preventiva dei contenuti che gli utenti intendono mettere in rete. Per farlo, essi devono utilizzare strumenti informatici che consentano il filtraggio automatico di detti contenuti. Orbene, tale sorveglianza preventiva costituirebbe una limitazione nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione, garantito all’articolo 11 della Carta. Tale limitazione non sarebbe compatibile con siffatto strumento poiché arrecherebbe pregiudizio al «contenuto essenziale» di tale diritto fondamentale o, quantomeno, non rispetterebbe il principio di proporzionalità.
47. In difesa, il Parlamento e il Consiglio, sostenuti dai governi spagnolo e francese, nonché dalla Commissione, contestano ognuno di tali punti. Li esaminerò dunque uno alla volta nelle sezioni che seguono. Mi soffermerò, anzitutto, sulla portata delle disposizioni impugnate (sezione 1). Tratterò, successivamente, la questione della limitazione nell’esercizio della libertà di espressione e di informazione (sezione 2) e, infine, quella della compatibilità di tale limitazione con la Carta (sezione 3).
1. Sulla portata delle disposizioni impugnate
48. Per meglio cogliere la portata delle condizioni di esenzione da responsabilità previste all’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) e lettera c), in fine, della direttiva 2019/790, è utile ricordare, quale elemento di paragone, quelle figuranti all’articolo 14 della direttiva 2000/31. In sostanza, ai sensi di tale articolo, un prestatore è esonerato da qualsiasi responsabilità che può derivare da un’informazione illecita che memorizza su richiesta di un utente del suo servizio a condizione che, primo, non ne sia al corrente o che, secondo, se del caso, abbia immediatamente rimosso tale informazione o ne abbia bloccato l’accesso. In pratica, non ci si aspetta da un tale prestatore che questi sorvegli le informazioni presenti sui suoi server e che ricerchi, in maniera attiva, quelle illecite ivi presenti (51). Per contro, qualora l’esistenza e l’ubicazione di una simile informazione illecita venga portata a sua conoscenza, in genere tramite una notifica inviata da un terzo, tale prestatore deve reagire rimuovendo l’informazione in questione o bloccandone l’accesso, ricorrendo ad un sistema di «notifica e rimozione» (notice and take down) (52).
49. Per contro, come fatto valere dalla ricorrente, al fine di soddisfare le condizioni previste dalle disposizioni impugnate, i prestatori di servizi di condivisione devono svolgere una sorveglianza preventiva delle informazioni messe in rete dagli utenti di tali servizi [sezione a)]. Orbene, al fine di svolgere una siffatta sorveglianza, tali prestatori dovranno servirsi, in numerose situazioni, di strumenti informatici che consentano il filtraggio automatico di detti contenuti [sezione b)].
a) Una sorveglianza preventiva dei contenuti messi in rete dagli utenti…
50. In primo luogo, ricordo che, da un lato, in conformità all’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) della direttiva 2019/790, i prestatori di servizi di condivisione devono compiere, «secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, i massimi sforzi» per «assicurare che non siano disponibili» opere e altri materiali protetti specifici per i quali essi abbiano ricevuto le informazioni pertinenti e necessarie dai titolari dei diritti.
51. Dall’altro, in conformità alla lettera c) di tale paragrafo, quando ricevono una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, relativa alla presenza di opere o altri materiali protetti sui loro servizi, questi stessi prestatori devono non solo agire tempestivamente per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web tali materiali (53), ma anche compiere i «massimi sforzi» per «impedirne il caricamento in futuro» – seguendo, questa volta, una logica di «notifica e blocco permanente» (notice and stay down).
52. In breve, le disposizioni impugnate fanno gravare sui prestatori di servizi di condivisione obblighi di diligenza – o, in altre parole, obblighi di mezzo (54) – in materia di sorveglianza dei loro servizi. Al fine di «assicurare che non siano disponibili» opere e altri materiali protetti identificati dai titolari di diritti e di «impedirne il caricamento in futuro», tali prestatori devono adottare «tutte le misure che un operatore diligente adotterebbe» (55) per rilevare e bloccare o rimuovere, in maniera attiva, all’interno della massa dei contenuti che gli utenti mettono in rete, quelli che riproducono i materiali in questione (56).
53. Tale interpretazione è confermata dall’obiettivo perseguito all’articolo 17 della direttiva 2019/790. Infatti, nella vigenza dell’articolo 14 della direttiva 2000/31, i titolari dei diritti dovevano sorvegliare i servizi di condivisione e portare a conoscenza dei loro prestatori, tramite notifiche, i contenuti contraffatti che vi si trovavano, affinché questi ultimi li rimuovessero. Orbene, come ricordato dal Consiglio, il legislatore dell’Unione ha ritenuto, al momento dell’adozione di detto articolo 17, che un siffatto sistema facesse gravare un onere eccessivo sui titolari dei diritti e non consentisse loro di controllare in maniera efficace l’utilizzazione delle loro opere e altri materiali protetti su tali servizi (57). In particolare, i contenuti rimossi venivano spesso rimessi in rete poco tempo dopo, il che costringeva questi ultimi a moltiplicare le notifiche (58). Al fine di ovviare al problema, le disposizioni impugnate trasferiscono a questi stessi prestatori l’onere di sorvegliare i loro servizi (59).
54. In secondo luogo, come fatto valere dalla Repubblica di Polonia, al fine di realizzare gli obiettivi di cui alle disposizioni impugnate, i prestatori di servizi di condivisione devono tentare di prevenire – ex ante – la messa in rete dei contenuti contraffatti, e non più semplicemente di rimuovere – ex post – siffatti contenuti.
55. A tal riguardo, dal considerando 66 della direttiva 2019/790 risulta che, in conformità all’articolo 17, paragrafo 4, lettera b), di tale direttiva, i prestatori di servizi di condivisione devono cercare di «assicurare» che le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti non «siano disponibili» sui loro servizi. La lettera c) di tale paragrafo è ancora più esplicita quanto alla natura delle misure attese, poiché essa indica che tali prestatori devono assicurarsi di «impedir[e] il caricamento» in futuro delle opere o dei materiali protetti oggetto di segnalazione dei titolari dei diritti. L’inciso «conformemente alla lettera b)» sottolinea, inoltre, che in queste due lettere ci si aspetta la stessa cosa da detti prestatori: essi devono cercare di prevenire la messa in rete – o la rimessa in rete, nell’ambito dello «stay down» – di determinati contenuti illeciti sui loro servizi.
56. Tale interpretazione è, ancora una volta, confermata dall’obiettivo, perseguito all’articolo 17 della direttiva 2019/790, consistente nel consentire ai titolari dei diritti di controllare più facilmente l’utilizzo delle loro opere sui servizi di condivisione. Come fatto valere dal Consiglio, tale disposizione mira a riaffermare, nell’ambiente digitale, il carattere esclusivo del diritto di «comunicazione al pubblico». Gli obblighi di diligenza imposti ai prestatori di servizi di condivisione dalle disposizioni impugnate sono intesi ad assicurare che tali titolari possano effettivamente «frapporsi tra eventuali utenti della loro opera e la comunicazione al pubblico che detti utenti potrebbero voler effettuare» (60) su tali servizi. Come sottolineato dal Parlamento e dal Consiglio, i prestatori devono dunque cercare di intervenire prima della messa in rete dei contenuti, ossia prima che le opere o i materiali protetti che essi possono riprodurre siano effettivamente «comunicati al pubblico» in violazione di tale diritto esclusivo.
b) …che richiederà, in numerose situazioni, l’utilizzazione di strumenti di filtraggio
57. In questa fase delle presenti conclusioni, mi sembra utile spiegare che un certo numero di strumenti informatici consentono di rilevare automaticamente la messa in rete o la presenza, su un server, di determinate informazioni. In particolare, esistono, a tal fine, strumenti di riconoscimento automatico di contenuto (Automatic Content Recognition, o «ACR»), che si basano su diverse tecniche, ossia – andando dalla più semplice alla più complessa – l’«hash numerico» (hashing), la «marcatura numerica» (watermarking) e l’«impronta digitale» (fingerprinting) (61).
58. Orbene, dalla seconda metà degli anni 2000, strumenti del genere, i quali utilizzano in particolare quest’ultima tecnica (62), sono stati predisposti, in maniera volontaria, da taluni prestatori di servizi di condivisione, segnatamente (63) al fine di ricercare attivamente i contenuti contraffatti sui loro servizi (64). Gli strumenti di riconoscimento tramite «impronta digitale» possono, infatti, filtrare automaticamente le opere e gli altri materiali protetti dei titolari dei diritti fra i contenuti caricati su detti servizi, raffrontando tali contenuti, al momento della loro messa in rete o una volta effettuata la stessa, con informazioni di riferimento fornite da detti titolari (65). Quanto tale raffronto individua una corrispondenza («match»), detti strumenti offrono in generale ai titolari dei diritti interessati la scelta di decidere, manualmente o automaticamente, di bloccare il contenuto in questione, di autorizzare la sua messa in rete e di seguire la sua popolarità tramite statistiche di pubblico, o, ancora, di «monetizzarlo» inserendovi della pubblicità (66).
59. La proposta di direttiva copriva siffatti sviluppi tecnologici. L’analisi d’impatto sottolineava l’efficacia degli strumenti di riconoscimento tramite «impronta digitale» in materia di contraffazione e la loro accresciuta disponibilità sul mercato. In tal senso, siffatta proposta era intesa, lo ricordo (67), a rendere obbligatoria la predisposizione di simili strumenti da parte dei prestatori di servizi di condivisione, al fine di costringere coloro che non lo avevano ancora fatto ad «aggiornarsi» e di obbligare gli altri ad offrire ai titolari dei diritti un accesso trasparente ai loro strumenti di riconoscimento (68).
60. Come non hanno mancato di sottolineare il Parlamento, il Consiglio e il governo spagnolo, la versione finale della direttiva 2019/790 non contiene più riferimenti espressi agli strumenti di riconoscimento automatico di contenuto. Le lettere b) e c) del paragrafo 4 dell’articolo 17 di tale direttiva sono redatte in termini generici. Tali disposizioni non impongono, formalmente, ai prestatori di servizi di condivisione l’adozione di misure o di tecniche specifiche al fine di realizzare gli obiettivi da esse perseguiti (69).
61. Secondo le parti convenute e gli intervenienti, le disposizioni impugnate non obbligherebbero dunque tali prestatori a ricorrere a siffatti strumenti. Essi disporrebbero di un «margine di manovra» per quanto riguarda le misure e le tecniche da attuare al fine di conseguire gli obiettivi di cui a tali disposizioni. In tale contesto, detti prestatori potrebbero «scegliere» di utilizzare simili strumenti – o di continuare a farlo, nel caso di quelli che già lo fanno –, oppure di sviluppare «soluzioni innovative» (70). In ogni caso, in conformità all’articolo 17, paragrafo 5, della direttiva 2019/790, le misure imposte a questi stessi prestatori dovrebbero essere esaminate caso per caso, alla luce del principio di proporzionalità.
62. Ciò premesso, come sostenuto dalla Repubblica di Polonia, mi sembra che le disposizioni impugnate effettivamente obblighino i prestatori di servizi di condivisione, in numerose situazioni, ad utilizzare tali strumenti di riconoscimento di contenuto (71). A mio avviso, il legislatore dell’Unione ha semplicemente cambiato metodo fra la proposta di direttiva e la sua adozione quale direttiva 2019/790. Piuttosto che prevedere direttamente un obbligo di predisporre tali strumenti, esso li ha imposti indirettamente, tramite le condizioni di esenzione da responsabilità previste a tali disposizioni.
63. Infatti, da un lato, come sottolineato correttamente dalla ricorrente, è opportuno ricordare il contesto fattuale nel quale si inseriscono le disposizioni impugnate. L’articolo 17 della direttiva 2019/790 riguarda i prestatori di servizi che memorizzano e danno accesso al pubblico a «grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti». In altre parole, si tratta di operatori che gestiscono un volume significativo, ovvero gigantesco, di contenuti. Inoltre, tali servizi di condivisione vengono forniti ininterrottamente e sono accessibili ad un numero considerevole di utenti, cosicché quantità significative di nuovi contenuti possono essere messe in rete in qualsiasi momento.
64. In un contesto del genere, mi sembra evidente che, come fatto valere dalla ricorrente, i prestatori di servizi di condivisione non potrebbero far verificare dai loro preposti la totalità o anche la maggior parte dei contenuti messi in rete (72), circostanza che il Parlamento del resto ammette. Pertanto, non vedo con quali mezzi, se non con l’utilizzo di uno strumento di riconoscimento automatico che consente loro di filtrare i contenuti caricati sui loro servizi, tali prestatori potrebbero ragionevolmente «assicurare che non siano disponibili» opere e materiali protetti identificati dai titolari dei diritti e «impedirne il caricamento in futuro» sui loro servizi, in conformità agli obiettivi di cui alle disposizioni impugnate (73) – e il riferimento del Parlamento e del Consiglio ad eventuali «soluzioni innovative» apporta in proposito un aiuto solo relativo (74). Del resto, le parti convenute e gli intervenienti hanno ammesso a malincuore, in udienza, in risposta ai quesiti della Corte, che tali strumenti saranno, molto spesso, de facto, indispensabili al riguardo (75).
65. Dall’altro, ricordo che i prestatori di servizi di condivisione, per adempiere agli obblighi di diligenza imposti loro, devono, in conformità all’articolo 17, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2019/790, prendere misure conformi agli «elevati standard di diligenza professionale di settore». Come precisato dal considerando 66, secondo comma, di tale direttiva, è necessario tenere conto, al riguardo, delle «migliori pratiche del settore» e dello «stato dell’arte».
66. Orbene, come ho spiegato al paragrafo 58 delle presenti conclusioni, gli strumenti di riconoscimento tramite «impronta digitale» vengono già utilizzati da diversi prestatori di servizi di condivisione, e riguardano svariati tipi di contenuti (76). Gli altri prestatori che accettano siffatti contenuti sui loro servizi sembrano dunque tenuti, al fine di soddisfare gli obblighi di diligenza risultanti dalle disposizioni impugnate, a conformarsi alle «migliori pratiche del settore» e allo «stato dell’arte» predisponendo siffatti strumenti per filtrare tali categorie di contenuti.
67. È vero che, come sottolineato dalle parti convenute e dagli intervenienti, in conformità all’articolo 17, paragrafo 5, della direttiva 2019/790, le misure che ci si aspetta dai prestatori di servizi di condivisione devono, in ogni caso, essere conformi al principio di proporzionalità. Devono essere presi in considerazione al riguardo, tra gli altri, primo, «la tipologia, il pubblico e la dimensione del servizio e la tipologia di opere o altri materiali caricati dagli utenti del servizio» e, secondo, «la disponibilità di strumenti adeguati ed efficaci e il relativo costo per i prestatori di servizi» (77). In tale contesto, non si può escludere che, in taluni casi particolari, sia contrario a tale principio esigere da taluni prestatori che essi utilizzino uno strumento di riconoscimento di contenuto. Sembra parimenti che, allo stato attuale della tecnologia, tali strumenti non siano né adeguati né efficaci nel caso di alcuni tipi particolari di opere e di materiali protetti (78).
68. Tuttavia, a parte tali casi particolari, è chiaro, a mio avviso, che, in tutte le situazioni in cui diversi strumenti adeguati ed efficaci siano disponibili sul mercato e non siano eccessivamente costosi, i prestatori di servizi di condivisione sono a priori tenuti a predisporli al fine di dimostrare di avere compiuto i «massimi sforzi» per prevenire la messa in rete di contenuti illeciti e, in tal modo, soddisfare le disposizioni impugnate (79). Se del caso, essi, in conformità al principio di proporzionalità, possono scegliere fra gli strumenti disponibili quelli che più si adattino alle loro situazioni e alle risorse di cui dispongono (80) – ovvero, per i più abbienti fra loro, sviluppare un siffatto strumento internamente.
69. In sintesi, al fine di dimostrare, in conformità alle disposizioni impugnate, di aver compiuto «secondo elevati standard di diligenza professionale di settore, i massimi sforzi» per «assicurare che non siano disponibili» opere e materiali protetti identificati dai titolari dei diritti e «impedirne il caricamento in futuro» sui loro servizi, i prestatori di servizi di condivisione devono, in un numero elevato di casi, predisporre strumenti di riconoscimento automatico di contenuto, al fine di filtrare i contenuti che gli utenti mettono in rete e, se del caso, bloccare taluni di essi prima del loro caricamento (81).
2. Sull’esistenza di una limitazione nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione
70. Chiarita la portata delle disposizioni impugnate, occorre procedere adesso all’esame di tali disposizioni sotto il profilo del diritto alla libertà di espressione e di informazione.
71. Il diritto garantito all’articolo 11 della Carta, che «include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera», corrisponde a quello previsto all’articolo 10 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU») (82). Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, questi due diritti hanno dunque lo stesso significato o, quantomeno, la stessa portata. Ne consegue che l’articolo 11 della Carta deve essere interpretato alla luce dell’articolo 10 della CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU»).
72. Tale diritto fondamentale è innegabilmente rilevante nella specie. Infatti, come menzionato dalla Repubblica di Polonia e dalla Commissione nelle loro rispettive osservazioni, i servizi di condivisione di cui all’articolo 17 della direttiva 2019/790 rivestono un’importanza particolare per la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee.
73. Come sostenuto dalla ricorrente, la messa in rete di contenuti su detti servizi – che si tratti di video, di fotografie, di testi, ecc. – rientra dunque nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione (83). Una siffatta messa in rete può parimenti riguardare altre libertà connesse. In particolare, qualora i contenuti in questione costituiscano l’espressione artistica degli utenti che li caricano, la loro messa in rete rientra nell’esercizio della libertà delle arti, garantita all’articolo 13 della Carta, nonché all’articolo 10 della CEDU (84).
74. Preciso che ciò vale a prescindere dalla questione se tali contenuti violino o meno diritti d’autore. L’argomento contrario addotto dal Parlamento prende le mosse, a mio avviso, da un’approssimazione giuridica. Infatti, il fatto che un’informazione sia protetta dai diritti d’autore non ha l’effetto di escluderla a priori dall’ambito della libertà di espressione (85). Se, di norma, è giustificato restringere la diffusione di una siffatta informazione, ciò rileva solo nella fase dell’esame delle condizioni di ammissibilità di una simile restrizione a tale libertà (86).
75. Orbene, secondo la ricorrente, le misure di filtraggio che i prestatori di servizi di condivisione sono costretti a predisporre per adempiere all’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) e lettera c), in fine, della direttiva 2019/790 costituirebbero, per loro natura, «misure preventive» di controllo delle informazioni degli utenti. Tali misure darebbero luogo a «restrizioni ex ante», ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU relativa all’articolo 10 della CEDU. Le disposizioni impugnate comporterebbero dunque la predisposizione, sui servizi di condivisione, di una «censura generale automatizzata di natura preventiva» operata dai loro prestatori. Dette disposizioni costituirebbero in questo un’«ingerenza», particolarmente grave, del legislatore dell’Unione nella libertà di espressione e di informazione di detti utenti.
76. Per contro, le parti convenute e gli intervenienti contestano che le disposizioni impugnate comportino una siffatta «censura» o una qualsivoglia «ingerenza» in tale libertà. In particolare, secondo il Consiglio, tali disposizioni – o l’articolo 17 della direttiva 2019/790 in generale – non avrebbero per oggetto una restrizione ex ante delle informazioni che possono essere diffuse su tali servizi. Gli utenti resterebbero liberi di caricarvi i contenuti che desiderano. Semplicemente, in tutte le situazioni in cui i contenuti messi in rete sono protetti dai diritti d’autore, questi stessi prestatori dovrebbero ottenere un’autorizzazione dei titolari dei diritti interessati e, in sua assenza, sarebbero responsabili ex post.
77. Al pari della ricorrente, ritengo che le disposizioni impugnate comportino effettivamente un’«ingerenza» nella libertà di espressione degli utenti dei servizi di condivisione. Mi preme cionondimeno apportare anzitutto una precisazione di ordine terminologico. Il termine «censura» è, effettivamente, polisemico. Ciò premesso, dalle osservazioni della ricorrente emerge chiaramente che essa fa riferimento, con tale termine, all’idea di un controllo preliminare delle informazioni prima della loro diffusione. In tale contesto, le considerazioni del Parlamento, del Consiglio e del governo spagnolo secondo le quali il termine «censura» non sarebbe pertinente nella specie, in quanto l’articolo 17 della direttiva 2019/790 non implica alcun controllo «politico o morale» delle informazioni messe in rete sui servizi di condivisione sono, a mio avviso, fuori luogo. Al fine di evitare ogni confusione supplementare, mi limiterò ad utilizzare, nella presente sezione, i termini «misure preventive» e «restrizioni ex ante».
78. Ciò premesso, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 non si limita a prevedere, come sostenuto dal Consiglio, che i prestatori di servizi di condivisione debbano ottenere un’autorizzazione per i contenuti protetti messi in rete dagli utenti dei loro servizi e, in mancanza, ne siano direttamente responsabili. Come ho illustrato nella sezione precedente, le disposizioni impugnate prevedono parimenti che detti prestatori siano esentati da tale responsabilità quando compiono i «massimi sforzi» per prevenire la messa in rete, da parte di tali utenti, di contenuti che riproducono le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti. Questi stessi prestatori sono quindi indotti a procedere al filtraggio e al blocco preventivi dei contenuti in questione.
79. Orbene, come fatto valere dalla ricorrente, il filtraggio è, per sua natura, una «misura preventiva» di controllo delle informazioni diffuse su tali servizi, e le misure di blocco che possono conseguirne costituiscono «restrizioni ex ante», ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU relativa all’articolo 10 della CEDU (87): al fine non di reprimere, bensì di prevenire eventuali violazioni del diritto d’autore, le informazioni che gli utenti intendono mettere in rete vengono controllate, e quelle considerate idonee a comportare una siffatta violazione sono oggetto di restrizione preliminarmente alla loro diffusione (88).
80. In tali situazioni, contrariamente a quanto fatto valere dal Consiglio, gli utenti non sono dunque «liberi» di mettere in rete i contenuti desiderati sui servizi di condivisione. Le misure di filtraggio e di blocco attuate dai loro prestatori restringeranno i contenuti che essi possono caricare. Ne consegue un’«ingerenza» nell’esercizio della libertà di comunicazione di detti utenti. Il filtraggio e il blocco di contenuti prima della loro diffusione comportano, inoltre, un’«ingerenza» nella libertà del pubblico di ricevere informazioni (89).
81. Il Parlamento e il Consiglio replicano che i prestatori di servizi di condivisione possono, in quanto operatori privati, scegliere liberamente le informazioni che desiderano vedere diffuse sui loro servizi e, quindi, decidere di filtrare e di bloccare taluni contenuti. Anche ammesso che ciò costituisca un’«ingerenza» nella libertà di espressione degli utenti, quest’ultima non sarebbe, in ogni caso, imputabile al legislatore dell’Unione.
82. Tale argomento amalgama, a mio avviso, due situazioni. È vero che i prestatori di servizi di condivisione possono, nell’ambito della libertà di impresa e della libertà contrattuale garantite loro all’articolo 16 della Carta, definire, alle condizioni di utilizzazione dei loro servizi o, ancora, di «norme della community», una politica in materia di contenuti ed esercitare, di propria iniziativa, una forma di «autoregolamentazione» procedendo al filtraggio e al blocco di contenuti che violino, a loro avviso, tali regole. In tale situazione non vi è «ingerenza da parte delle autorità pubbliche», ai sensi dell’articolo 10 della CEDU e dell’articolo 11 della Carta nella libertà di espressione degli utenti (90).
83. Tuttavia, nella specie, non si tratta, a mio avviso, dell’«autoregolamentazione» dei prestatori di servizi di condivisione. Indipendentemente dalla questione se il divieto di mettere in rete contenuti contraffatti figuri nelle loro condizioni generali di utilizzazione o nelle loro «norme della community», il filtraggio e il blocco di contenuti vengono realizzati per soddisfare le disposizioni impugnate (91).
84. Di conseguenza, a mio avviso, l’«ingerenza» nella libertà di espressione degli utenti è certamente imputabile al legislatore dell’Unione. Questi ne è, infatti, l’istigatore. Del resto, il Parlamento e il Consiglio riconoscono essi stessi che le disposizioni impugnate sono intese, in sostanza, ad attribuire ai prestatori di servizi di condivisione l’onere di controllare le violazioni del diritto d’autore commesse su tali servizi. In qualche modo, il legislatore ha delegato a tali prestatori il compito di controllare la corretta applicazione del diritto d’autore nell’ambiente digitale. Orbene, il legislatore non può al contempo effettuare una siffatta delega e scaricare ogni responsabilità su detti prestatori per le conseguenti ingerenze nei diritti fondamentali degli utenti (92).
85. La mia convinzione al riguardo non è inficiata dall’argomento del Consiglio secondo cui le disposizioni impugnate non «obbligherebbero» i prestatori di servizi di condivisione a procedere al filtraggio e al blocco dei contenuti messi in rete dagli utenti dei loro servizi, per il fatto che l’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2019/790 non imporrebbe, stricto sensu, alcun «obbligo» a tali prestatori, ma si limiterebbe a prevedere un meccanismo di esenzione da responsabilità al quale essi avrebbero la «possibilità» di ricorrere qualora non abbiano ottenuto un’autorizzazione dai titolari dei diritti.
86. Infatti, a mio avviso, al fine di valutare la compatibilità dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 con l’articolo 11 della Carta, occorre tenere conto non solo dei suoi termini, bensì anche dei suoi effetti concreti. Orbene, alla luce del fatto che, da un lato, i prestatori di servizi di condivisione non potranno ottenere un’autorizzazione dei titolari dei diritti per un certo numero di opere e di altri materiali protetti (93) mentre, dall’altro, gli utenti potranno, potenzialmente, comunque mettere in rete quantità di contenuti che riproducono i materiali in questione, il ricorso al meccanismo di esenzione previsto all’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2019/790 sarà, per tali prestatori, non una «possibilità», bensì una necessità, pena sopportare un rischio di responsabilità smisurato. Pertanto, in un elevato numero di casi, le condizioni di esenzione previste alle disposizioni impugnate costituiranno, in pratica, veri e propri obblighi per detti prestatori. Del resto, osservo che il paragrafo 5 di detto articolo 17 si riferisce a sua volta agli «obblighi [dei prestatori di servizi di condivisione] di cui al paragrafo 4» (il corsivo è mio).
87. A mio avviso, un siffatto meccanismo di responsabilità/esenzione è una tecnica altrettanto efficace di un obbligo diretto per costringere gli operatori economici interessati a procedere al filtraggio preventivo dei contenuti dei loro utenti. Come ho indicato al paragrafo 62 delle presenti conclusioni, il legislatore dell’Unione ha semplicemente cambiato metodo a tal riguardo. Tuttavia, questi diversi metodi hanno gli stessi effetti e, per questo motivo, devono essere considerati in maniera identica sotto il profilo dei diritti fondamentali (94).
3. Sulla compatibilità di tale limitazione con la Carta
88. Dalla sezione che precede emerge che, come fatto valere dalla Repubblica di Polonia, le disposizioni impugnate comportano una limitazione nell’esercizio del diritto alla libertà di espressione, come garantito all’articolo 11 della Carta.
89. Ciò premesso, la libertà di espressione non costituisce una prerogativa assoluta. In conformità all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, limitazioni all’esercizio di tale libertà sono ammissibili a condizione che esse, primo, siano «previste dalla legge», secondo, rispettino il «contenuto essenziale» di tale libertà e, terzo, rispettino il principio di proporzionalità.
90. In maniera analoga, in conformità all’articolo 10, paragrafo 2, della CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte EDU, un’ingerenza nella libertà di espressione è ammissibile a condizione che essa, in primo luogo, sia «prevista dalla legge»; in secondo luogo, persegua uno o più obiettivi legittimi definiti a detto paragrafo 2 e, in terzo luogo, sia «necessaria in una società democratica» (95). Pur se tali condizioni differiscono parzialmente, nelle loro formulazioni, da quelle previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, si deve ritenere, ancora una volta, che esse abbiano lo stesso significato o, quantomeno, la stessa portata (96).
91. Pertanto, nelle sezioni che seguono, verificherò il rispetto delle tre condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, interpretandole al contempo alla luce della giurisprudenza rilevante della Corte EDU. In tale contesto, illustrerò le ragioni per le quali la limitazione in questione è «prevista dalla legge» [sezione a)], perché essa rispetta il «contenuto essenziale» del diritto alla libertà di espressione [sezione b)] e perché, sempreché l’articolo 17 della direttiva 2019/790 sia interpretato correttamente, essa rispetta il principio di proporzionalità [sezione c)].
a) La limitazione in questione è «prevista dalla legge»
92. In conformità ad una giurisprudenza costante della Corte, la condizione secondo cui ogni limitazione all’esercizio dei diritti fondamentali deve essere «prevista dalla legge», ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, letta alla luce della giurisprudenza della Corte EDU relativa alla condizione equivalente prevista all’articolo 10, paragrafo 2, della CEDU, implica non solo che tale limitazione deve avere una base giuridica («esistenza della legge»), ma anche che tale base giuridica deve avere determinate qualità di accessibilità e di prevedibilità («qualità di legge») (97).
93. Nella specie, da un lato, la limitazione in questione ha manifestamente una base giuridica, poiché essa risulta da disposizioni adottate dal legislatore dell’Unione.
94. Per quanto riguarda, dall’altro, la «qualità» di tale base giuridica, ricordo che, in conformità alla giurisprudenza della Corte (98) e a quella della Corte EDU (99), la base giuridica che comporta una limitazione all’esercizio di un diritto fondamentale deve essere sufficientemente accessibile e prevedibile nei suoi effetti, vale a dire enunciata con sufficiente chiarezza e precisione da consentire agli interessati, ricorrendo se del caso a consulenti esperti, di regolare la loro condotta.
95. Orbene, ritengo che le disposizioni impugnate presentino un grado di chiarezza e di precisione sufficiente per soddisfare tale standard. È vero che la definizione di «prestatore di servizi di condivisione di contenuti online» prevista all’articolo 2, punto 6, della direttiva 2019/790 e le disposizioni impugnate contengono diverse nozioni aperte – «grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti»; «massimi sforzi»; «elevati standard di diligenza professionale di settore», ecc. – che generano un livello di incertezza con riferimento agli operatori economici presi in considerazione e agli obblighi imposti loro in ciascuna situazione. Tuttavia, stando alle spiegazioni fornite dal Parlamento e dal Consiglio, il ricorso a tali nozioni mira a garantire che tali disposizioni possano adeguarsi a diversi tipi di operatori e di situazioni, nonché all’evoluzione della prassi e delle tecnologie, al fine di resistere alla prova del tempo. Orbene, in conformità alla giurisprudenza della Corte EDU, il legislatore dell’Unione, senza arrecare pregiudizio al requisito di «prevedibilità», può scegliere di dotare i testi che adotta di una certa flessibilità piuttosto che di una certezza del diritto assoluta (100). Inoltre, i chiarimenti apportati nelle presenti conclusioni, nonché quelli che la Corte fornirà nella sua emananda sentenza e in decisioni future, contribuiranno a precisare tali nozioni e ad eliminare i dubbi che le circondano – il che, ancora una volta, soddisfa il requisito di «prevedibilità» (101).
96. Fatta questa precisazione, osservo che la Corte (102) e la Corte EDU (103) ricollegano parimenti al requisito di «prevedibilità» la questione se la base giuridica che comporta l’ingerenza presenti garanzie sufficienti contro il rischio di violazioni arbitrarie o abusive dei diritti fondamentali (in conformità al principio della «preminenza del diritto»). Tale aspetto viene contestato dalla ricorrente nella specie.
97. Cionondimeno, la questione se le disposizioni impugnate presentino garanzie sufficienti per proteggere la libertà di espressione degli utenti dei servizi di condivisione contro le misure di filtraggio e di blocco eccessive o arbitrarie riguarda anche il carattere proporzionato della limitazione risultante da tali disposizioni (104). Di conseguenza, al fine di evitare le ripetizioni, riservo tale questione all’esame del requisito relativo al rispetto del principio di proporzionalità (105).
b) La limitazione in questione rispetta il «contenuto essenziale» del diritto alla libertà di espressione
98. Si deve ricordare che il requisito di cui all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, secondo cui qualsiasi limitazione all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti da tale strumento deve «rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà», implica che, quando una misura leda tale «contenuto essenziale», essa non può essere giustificata. Siffatta misura è in tal caso considerata contraria alla Carta e, qualora si tratti di un atto dell’Unione, essa deve essere annullata o dichiarata invalida, senza che sia necessario esaminare la condizione relativa al rispetto del principio di proporzionalità (106).
99. Infatti, il legislatore dell’Unione può limitare l’esercizio di determinati diritti fondamentali nell’interesse comune, al fine di proteggere altri diritti e interessi. Esso può farlo, in particolare, al fine di proteggere un altro diritto fondamentale. In tale contesto, lo stesso dispone di un certo potere discrezionale per bilanciare e trovare un «giusto equilibrio» fra i diversi diritti e interessi coinvolti (107). Cionondimeno, tale potere discrezionale conosce un limite assoluto. Il «contenuto essenziale» di un diritto fondamentale costituisce un «nocciolo intoccabile», che deve restare scevro da qualsivoglia interferenza. Pertanto, nessun obiettivo, per quanto legittimo esso sia, giustifica che vengano arrecate determinate violazioni – eccezionalmente gravi – ai diritti fondamentali. In altre parole, il fine non giustifica qualsiasi mezzo.
100. Nella specie, secondo la Repubblica di Polonia, le disposizioni impugnate violano il «contenuto essenziale» del diritto alla libertà di espressione. Infatti, la sorveglianza preventiva che, in applicazione di tali disposizioni, deve essere effettuata dai prestatori di servizi di condivisione sui contenuti messi in rete dai loro utenti rimetterebbe in discussione tale diritto in quanto tale, poiché essa implica l’ingerenza in tali contenuti, e il loro eventuale blocco, ancor prima della loro diffusione.
101. Al pari delle parti convenute e degli intervenienti, non sono di tale avviso.
102. È vero che le misure preventive di controllo dell’informazione sono generalmente considerate ingerenze particolarmente serie nella libertà di espressione (108), a causa degli eccessi che esse possono comportare. In linea di principio, tali misure preventive vengono condannate in una società democratica, per il fatto che, limitando talune informazioni ancora prima della loro diffusione, esse impediscono ogni dibattito pubblico sul contenuto, privando in tal modo la libertà di espressione della sua funzione stessa di vettore del pluralismo (109). Per questi motivi, come sottolineato dalla ricorrente, numerosi Stati membri vietano il controllo ex ante generalizzato dell’informazione nelle loro rispettive costituzioni.
103. Tali considerazioni sono pienamente pertinenti per quanto riguarda Internet. Come fatto valere dalla ricorrente, tale rete riveste un’importanza particolare per la libertà di ricevere o comunicare informazioni o idee (110). Lo stesso vale, più specificamente, per le grandi piattaforme e social networks che, consentendo a chiunque di pubblicare in rete i contenuti che desidera e al pubblico di accedervi, costituiscono strumenti «senza precedenti» per l’esercizio di tale libertà (111). Siffatte piattaforme contribuiscono quindi ad una forma di «democratizzazione» della produzione di informazioni e, benché gestite da gestori privati, sono divenute, di fatto, infrastrutture essenziali per l’espressione online (112). Allo stato attuale dei mezzi di comunicazione, il diritto alla libertà di espressione implica dunque, in particolare, la libertà di accedere a tali piattaforme e di esprimersi in tali sedi, in linea di principio, senza ingerenza da parte di autorità pubbliche (113).
104. Orbene, se dette autorità dovessero imporre, direttamente o indirettamente (114), ai prestatori intermedi che controllano tali infrastrutture di espressione l’obbligo di sorvegliare preventivamente, in via generale, i contenuti degli utenti dei loro servizi alla ricerca di qualsiasi tipo di informazioni illecite, ovvero semplicemente indesiderabili, tale libertà di comunicazione verrebbe rimessa in discussione in quanto tale. Il «contenuto essenziale» del diritto alla libertà di espressione, come previsto all’articolo 11 della Carta, sarebbe in tal caso, a mio avviso, leso.
105. In tale contesto, ritengo che l’articolo 15 della direttiva 2000/31 rivesta un’importanza fondamentale. Prevedendo che i prestatori intermedi non possano vedersi imporre un «obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano», tale disposizione impedisce che l’informazione online sia soggetta ad una sorveglianza preventiva generalizzata, delegata a tali intermediari. Essa garantisce, con ciò, che Internet resti uno spazio libero e aperto (115).
106. Per questa ragione, sono propenso a considerare il divieto previsto a tale articolo 15 un principio generale del diritto che governa Internet, nella misura in cui concretizza, nell’ambiente digitale, la libertà fondamentale di comunicazione (116). Osservo peraltro che la Corte ha già ravvicinato, nella sua giurisprudenza, il rispetto di tale libertà e tale divieto (117). L’una è, infatti, imprescindibile dall’altro. Ne consegue, a mio avviso, che detto divieto eccede il contesto di detto articolo 15 e si impone non soltanto agli Stati membri, ma anche al legislatore dell’Unione.
107. Tuttavia, contrariamente a quanto fatto valere dalla ricorrente, il diritto fondamentale alla libertà di espressione, come concretizzato dal divieto degli «obblighi generali di sorveglianza», non osta a tutti i tipi di obbligo di sorveglianza.
108. Infatti, come ricordato dalla Commissione, la Corte, nella sua giurisprudenza relativa alle ingiunzioni che possono essere pronunciate nei confronti degli intermediari online (118), ha ammesso che sia possibile ingiungere ad un siffatto intermediario di «prevenire» talune infrazioni, esercitando una forma di sorveglianza mirata del suo servizio (119). Essa ha distinto, così, gli obblighi sorveglianza «generali» da quelli applicabili in casi «specifici» (120). In maniera simile, la Corte EDU non considera le misure preventive di controllo dell’informazione, inclusi gli obblighi di blocco, incompatibili di per sé con l’articolo 10 della CEDU, a condizione che essi si inseriscano in un contesto specifico (121). Tale giudice ha persino ammesso, nella sua sentenza Delfi AS. c. Estonia, che ci si possa aspettare da taluni intermediari che essi sorveglino attivamente i loro servizi alla ricerca di alcuni tipi di informazioni illecite (122).
109. La ricorrente replica che, per l’appunto, l’obbligo di sorveglianza imposto ai prestatori di servizi di condivisione in applicazione delle disposizioni impugnate è «generale». Infatti, per «assicurare che non siano disponibili» opere e altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti e «impedirne il caricamento in futuro» sui loro servizi, tali prestatori devono, in pratica, filtrare la totalità dei contenuti caricati da tutti gli utenti.
110. Tuttavia, al pari delle parti convenute e degli intervenienti, ritengo che tali disposizioni impongano, in realtà, un obbligo «specifico» di sorveglianza (123). Devo cionondimeno riconoscere che la giurisprudenza della Corte (124) ha conosciuto un’evoluzione recente quanto al criterio che distingue il «generale» dallo «specifico».
111. Inizialmente, la Corte sembrava fare riferimento alla quantità di informazioni da ispezionare. Nella sentenza L’Oréal e a. (125), la Corte ha dichiarato che il gestore di un mercato online non poteva essere obbligato a procedere ad «una vigilanza attiva di tutti i dati di ciascuno dei suoi clienti per prevenire qualsiasi futura violazione dei diritti di proprietà intellettuale». Nella sentenza Scarlet Extended, essa ha ritenuto che un fornitore di accesso ad Internet non potesse essere costretto, tramite un’ingiunzione, a predisporre un sistema di filtraggio applicabile a «tutte le comunicazioni elettroniche che transitano per i suoi servizi» e dunque «indistintamente a tutta la sua clientela» e ciò al fine di «identificare nella rete di tale fornitore la circolazione di file contenenti un’opera musicale, cinematografica o audiovisiva rispetto alla quale il richiedente affermi di vantare diritti di proprietà intellettuale, onde bloccare il trasferimento di file il cui scambio pregiudichi il diritto d’autore» (126). Nella sentenza SABAM (127), la Corte ha adottato lo stesso ragionamento in relazione all’obbligo, per il gestore di una piattaforma di social network, di predisporre un sistema di filtraggio simile. Infine, nella sentenza Mc Fadden (128), essa ha ritenuto che il gestore di una rete locale senza fili non possa vedersi imporre l’obbligo di sorvegliare l’«insieme delle informazioni trasmesse» tramite tale rete, anche se si trattava di bloccare le copie di un’unica opera musicale identificata dal titolare dei diritti (129).
112. Attualmente, la Corte sembra concentrarsi sulla precisione di ciò che viene ricercato. A tal riguardo, nella sentenza Glawischnig-Piesczek (130), la quale riguardava questa volta il settore della diffamazione, la Corte ha ritenuto che l’obbligo, per il gestore di un social network, di sorvegliare la totalità delle informazioni caricate su tale rete (131) dovesse essere considerato «specifico» poiché si trattava di ricercare e bloccare un’informazione diffamatoria «precisa» (132); che il prestatore non fosse obbligato ad effettuare una «valutazione autonoma» della liceità delle informazioni filtrate e che, al contrario, esso potesse «ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati» (133).
113. Tale evoluzione della giurisprudenza della Corte (134) è, a mio avviso, giustificata. Anche se ne preciserò i limiti in seguito (135), indico qui che ritenere che un obbligo di sorveglianza sia «generale» allorché esso costringe, de facto, un prestatore intermedio ad effettuare un filtraggio, con l’ausilio di strumenti informatici, della totalità delle informazioni messe in rete dagli utenti del suo servizio, quand’anche si trattasse di ricercare infrazioni specifiche, equivarrebbe, in modo deprecabile, ad ignorare gli sviluppi tecnologici che rendono possibile un siffatto filtraggio e a privare il legislatore dell’Unione di uno strumento utile alla lotta contro certi tipi di contenuti illeciti.
114. Nella specie, per conseguire gli obiettivi di cui alle disposizioni impugnate, i prestatori di servizi di condivisione devono effettivamente sorvegliare la totalità dei contenuti che i loro utenti mettono in rete. Tuttavia, si tratta di ricercare, fra tali contenuti, le «opere e [gli] altri materiali specifici» per i quali i titolari dei diritti avranno previamente comunicato loro le «informazioni pertinenti e necessarie» [articolo 17, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2019/790] oppure una «segnalazione sufficientemente motivata» [lettera c) di detto paragrafo 4]. Illustrerò più specificamente quali contenuti dovranno essere bloccati nel prosieguo delle presenti conclusioni (136). Cionondimeno, nella presente fase dell’analisi, tali elementi sono sufficienti, a mio avviso, a dimostrare che tali disposizioni ben prevedono, indirettamente, un obbligo di sorveglianza «specifico» e ad escludere una violazione del «contenuto essenziale» del diritto alla libertà di espressione (137).
115. Per concludere, preciso che, se il legislatore dell’Unione non può delegare agli intermediari online l’onere di procedere ad una sorveglianza preventiva generalizzata delle informazioni condivise o trasmesse grazie ai loro servizi, esso può, a mio avviso, senza arrecare pregiudizio al «contenuto essenziale» della libertà di espressione, fare la scelta di imporre determinate misure di sorveglianza attiva, concernenti talune informazioni illecite specifiche, a determinati intermediari online. Osservo peraltro che l’articolo 17 della direttiva 2019/790 si inserisce, al riguardo, nella scia di una serie di comunicazioni e raccomandazioni della Commissione (138), nonché di nuove normative (139) intese, in tal senso, a far contribuire taluni intermediari – in particolare le grandi «piattaforme» – alla lotta contro determinati tipi di contenuti illeciti. Cionondimeno, in ciascun caso, dovrà essere assicurato il rispetto del principio di proporzionalità. Una siffatta forma di delega del controllo della legalità online (140) a taluni intermediari è accompagnata, segnatamente, da rischi per la libertà di espressione degli utenti dei loro servizi e non può dunque essere fatta senza garanzie sufficienti per questi ultimi (141).
c) La limitazione in questione rispetta il principio di proporzionalità
116. Resta adesso da esaminare la condizione concernente il rispetto del principio di proporzionalità, la quale è suddivisa, ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, in due sottocondizioni: la limitazione in questione deve essere, in primo luogo, «necessari[a]» e, in secondo luogo, «rispond[ere] effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».
117. Il rispetto della seconda sottocondizione è pacifico fra le parti. Alla luce dell’obiettivo generale perseguito all’articolo 17 della direttiva 2019/790 (142), la limitazione in questione risponde all’«esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui», ossia diritti d’autore e diritti connessi dei titolari. Ricordo che la proprietà intellettuale è protetta in quanto diritto fondamentale, segnatamente (143), all’articolo 17, paragrafo 2, della Carta e all’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla CEDU (144). Le disposizioni impugnate costituiscono, in tal senso, «misure positive di protezione» adottate dal legislatore dell’Unione al fine di assicurare a detti titolari l’esercizio reale ed efficace dei loro diritti di proprietà intellettuale nei loro rapporti con i prestatori di servizi di condivisione (145).
118. Per contro, le parti sono in disaccordo sulla questione se la limitazione in questione rispetti la prima sottocondizione. A tal riguardo, preciso che l’esame del carattere «necessario», ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta, di una limitazione all’esercizio di un diritto fondamentale da essa garantito include, in realtà, il controllo di tre requisiti cumulativi: occorre verificare, infatti, se tale limitazione sia (1) «appropriata», (2) «necessaria», nonché (3) «proporzionata» stricto sensu (146). Esaminerò in via successiva questi tre requisiti nelle sezioni che seguono.
1) La limitazione in questione è «idonea»
119. Il requisito concernente il carattere «idoneo» della limitazione in questione non sembra essere contestato dalla Repubblica di Polonia. In ogni caso, al pari del Parlamento e del Consiglio, lo reputo soddisfatto.
120. Infatti, nell’ambito dell’analisi del carattere idoneo di una determinata misura, la Corte deve verificare non se tale misura costituisca il mezzo migliore per conseguire l’obiettivo perseguito, bensì se essa sia idonea a contribuire alla realizzazione di tale obiettivo (147).
121. Orbene, nella specie, gli obblighi di sorveglianza gravanti sui prestatori di servizi di condivisione in applicazione delle disposizioni impugnate sono idonei a contribuire all’obiettivo perseguito dal legislatore dell’Unione. Trasferendo a tali prestatori l’onere di sorvegliare i loro servizi e di lottare attivamente contro i contenuti contraffatti che possono ivi trovarsi, tali disposizioni, da un lato, inducono fortemente detti prestatori a concludere accordi di licenza con i titolari dei diritti (148) e, dall’altro, consentono a detti titolari di controllare più agevolmente l’utilizzo delle loro opere e dei loro materiali protetti su tali servizi (149).
2) La limitazione in questione è «necessaria»
122. La Repubblica di Polonia fa valere, per contro, che la limitazione all’esercizio del diritto alla libertà di espressione risultante dalla lettera b) e dalla lettera c), in fine, del paragrafo 4 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 eccederebbe quanto «necessario» alla realizzazione dell’obiettivo perseguito dal legislatore dell’Unione. A suo avviso, gli obblighi previsti alla lettera a) e alla lettera c), in principio, di tale paragrafo sarebbero sufficienti al riguardo. Da un lato, l’obbligo incombente ai prestatori di servizi di condivisione, in conformità a detta lettera a), di compiere i «massimi sforzi» per ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti rafforzerebbe la posizione di negoziazione di questi ultimi. Dall’altro, l’obbligo gravante su questi stessi prestatori, ai sensi di detta lettera c), in principio, di agire tempestivamente, non appena ricevuta una segnalazione sufficientemente motivata, per bloccare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere o altri materiali protetti oggetto della segnalazione garantirebbe una protezione efficace dei diritti di tali titolari.
123. Non sono d’accordo.
124. A tal riguardo, ricordo che il test di «necessità» si risolve nel verificare l’esistenza di misure alternative altrettanto efficaci della misura scelta per conseguire l’obiettivo perseguito essendo al contempo meno restrittive (150).
125. Orbene, come sostenuto, in sostanza, dal Parlamento e dal Consiglio, un regime di responsabilità che si limiti ad imporre gli obblighi previsti alla lettera a) e alla lettera c), in principio, del paragrafo 4 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 chiaramente non sarebbe altrettanto efficace per conseguire l’obiettivo perseguito dal legislatore dell’Unione di un regime che preveda, inoltre, gli obblighi risultanti dalla lettera b) e dalla lettera c), in fine, di tale paragrafo – anche se i primi obblighi sono effettivamente meno restrittivi per il diritto alla libertà di espressione rispetto ai secondi (151).
126. Infatti, da un lato, se, come fatto valere dalla ricorrente, l’obbligo per i prestatori di servizi di condivisione di compiere i «massimi sforzi» per ottenere un’autorizzazione dei titolari dei diritti rafforza già, di per sé, la posizione di tali titolari nella negoziazione di accordi di licenza con tali prestatori, l’articolo 17 della direttiva 2019/790 non mira unicamente ad assicurare che detti titolari ricevano una remunerazione equa per l’utilizzo delle loro opere e di altri materiali protetti su tali servizi. Si tratta, più ampiamente, di garantire che questi stessi titolari possano controllare effettivamente un simile utilizzo e, in particolare, se lo desiderano, impedire che tali materiali siano disponibili su siffatti servizi.
127. In proposito, è innegabile, dall’altro, che, come sottolineato dalle parti convenute, un sistema di notifica e rimozione, come quello risultante dall’articolo 14 della direttiva 2000/31 e ripreso, in sostanza, all’articolo 17, paragrafo 4, lettera c), in principio, della direttiva 2019/790 non consente ai titolari interessati di opporsi all’utilizzo illecito delle loro opere sui servizi di condivisione in maniera altrettanto efficace di un sistema, come quello risultante dalle disposizioni impugnate, che impone, inoltre, ai prestatori di tali servizi obblighi di sorveglianza.
3) La limitazione in questione è «proporzionata» stricto sensu
128. Secondo una giurisprudenza costante della Corte, una limitazione all’esercizio di un diritto fondamentale garantito dalla Carta è considerata «proporzionata», nel senso stretto del termine, se gli inconvenienti causati dalla misura in questione non sono sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti (152).
129. Nella specie, le disposizioni impugnate contrappongono, da un lato, il diritto alla libertà di espressione garantito all’articolo 11 della Carta e, dall’altro, il diritto di proprietà intellettuale, protetto all’articolo 17, paragrafo 2, di tale strumento. Come ricordato dal Parlamento, dal Consiglio e dal governo spagnolo, non vi è una «preminenza automatica» del primo diritto sul secondo (153). La valutazione della proporzionalità di tali disposizioni deve dunque essere effettuata, per riprendere i termini impiegati dalla Corte, «nel rispetto della necessaria conciliazione tra i requisiti connessi alla tutela di questi diversi diritti fondamentali» e di un «giusto equilibrio tra di essi» (154). Peraltro, in materia di diritto d’autore, la Corte ha particolarmente insistito sulla necessità di mantenere, nell’ambiente digitale, tale «giusto equilibrio» (155).
130. Orbene, la Repubblica di Polonia fa valere che il legislatore dell’Unione non ha, appunto, mantenuto tale equilibrio all’articolo 17 della direttiva 2019/790. A suo avviso, il pregiudizio causato alla libertà di espressione dalle disposizioni impugnate sarebbe smisurato rispetto ai vantaggi che esse sono idonee a procurare in termini di protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
131. Da parte mia, ritengo, al pari del Parlamento, del Consiglio e della Commissione, che il legislatore dell’Unione potesse fare la scelta di ritornare sull’equilibrio inerente al regime di responsabilità applicabile ai prestatori di servizi di condivisione [sottosezione i)]. Il nuovo regime di responsabilità adottato comporta cionondimeno rischi importanti per la libertà di espressione [sottosezione ii)], che rendono necessario prevedere garanzie sufficienti per ridurre al minimo tali rischi [sottosezione iii)], cosa che, a mio avviso, il legislatore dell’Unione ha fatto [sottosezione iv)].
i) Il legislatore dell’Unione poteva legittimamente sostituire un nuovo equilibrio a quello inizialmente attuato
132. L’esenzione da responsabilità prevista, per i prestatori intermedi, all’articolo 14 della direttiva 2000/31 riflette un equilibrio fra, segnatamente, la libertà di espressione e i diritti di proprietà intellettuale, auspicato dal legislatore dell’Unione al momento dell’adozione di tale direttiva. All’epoca, quest’ultimo intendeva favorire lo sviluppo di tali prestatori, al fine di stimolare più in generale la crescita del commercio elettronico e dei «servizi della società dell’informazione» nel mercato interno. Si trattava quindi di non imporre a detti prestatori una responsabilità tale da mettere in pericolo la loro attività. Gli interessi dei titolari dei diritti dovevano essere salvaguardati e bilanciati con la libertà di espressione degli utenti di Internet nell’ambito del sistema di «notifica e rimozione», nonché nell’ambito delle ingiunzioni che possono essere pronunciate nei confronti di questi stessi prestatori (156).
133. Come fatto valere dal Consiglio, le circostanze sono indubbiamente cambiate da allora. La comparsa dei servizi del «Web 2.0» ha comportato vantaggi così come rischi economici e sociali nuovi, con un impatto sui vari interessi coinvolti. In tale contesto, il legislatore dell’Unione poteva legittimamente riesaminare le scelte che lo stesso aveva fatto quasi venti anni prima, effettuare un apprezzamento di tale cambiamento di circostanze e valutare tali vantaggi e tali rischi (157).
134. A tal riguardo, come sottolineato dal Parlamento, dal Consiglio e dal governo francese, il legislatore dell’Unione dispone di un ampio potere discrezionale nei settori in cui la sua azione richiede scelte di natura politica, economica e sociale e in cui esso è chiamato ad effettuare valutazioni e accertamenti complessi (158). Adeguare il diritto d’autore all’ambiente digitale e fissare, in materia, un regime di responsabilità per i servizi di condivisione online che assicuri un giusto equilibrio fra tutti i diritti e gli interessi coinvolti è, indubbiamente, un compito «complesso» (159).
135. In maniera simile, la Corte EDU riconosce alle pubbliche autorità un ampio potere discrezionale quando esse devono trovare un equilibrio fra diversi diritti protetti dalla CEDU (160). Tale potere discrezionale era tanto più ampio nella specie in quanto si trattava, per il legislatore dell’Unione, di disciplinare, in linea di principio, non discorsi politici, bensì l’utilizzo di opere e altri materiali protetti (161).
136. In un contesto ampiamente dibattuto (162), il legislatore dell’Unione ha fatto una scelta politica a favore delle industrie creative. Esso ha ritenuto che l’equilibrio anteriore fra i diritti e gli interessi coinvolti non fosse più soddisfacente e che, al fine di continuare ad assicurare ai titolari dei diritti un livello elevato di protezione (163), occorresse adottare un nuovo regime di responsabilità per taluni prestatori di servizi del «Web 2.0», imponendo loro determinati obblighi di sorveglianza dei contenuti messi in rete dagli utenti dei loro servizi. Alla luce dell’ampio potere discrezionale di cui disponeva il legislatore, ritengo che una siffatta scelta non fosse, nel suo principio stesso, sproporzionata.
137. Più specificamente, il carattere proporzionato delle disposizioni impugnate risiede, a mio avviso, nel concorso degli elementi addotti dalle parti convenute e dagli intervenienti, ossia, in primo luogo, l’importanza del danno economico causato ai titolari dei diritti dalla messa in rete illecita di loro opere sui servizi di condivisione online, alla luce della quantità gigantesca di contenuto caricato su tali servizi e della rapidità dello scambio di informazioni su Internet (164); in secondo luogo, il fatto che, per queste stesse ragioni, il sistema di «notifica e rimozione» solo difficilmente consente a tali titolari di controllare l’utilizzo delle loro opere su detti servizi; in terzo luogo, le difficoltà che essi incontrano per perseguire gli utenti responsabili e, in quarto luogo, il fatto che gli obblighi di sorveglianza riguardano prestatori intermedi particolari. Su quest’ultimo punto, osservo che i prestatori di servizi di condivisione, tramite la promozione dei contenuti che essi effettuano (165), esercitano una certa influenza sulle informazioni alle quali il pubblico accede. Tali aspetti tendono, in una certa misura (166), a ravvicinare tali prestatori agli intermediari tradizionali come gli editori, cosicché può essere proporzionato adottare, per quanto li riguarda, un regime di responsabilità specifico, diverso da quello applicabile agli altri prestatori di servizi di hosting (167).
138. Inoltre, come fatto valere dai governi spagnolo e francese, la Corte EDU, nella sua sentenza Delfi AS c. Estonia, ha dichiarato che non era sproporzionato, nell’ambito di un bilanciamento fra la libertà di espressione, ai sensi dell’articolo 10 della CEDU, e il diritto all’onore, garantito all’articolo 8 di tale convenzione, considerare un grande portale online di notizie legate all’attualità responsabile di non aver impedito la pubblicazione di certi tipi di commenti illeciti lasciati dagli utenti sul suo sito Internet a seguito di un articolo oppure, quantomeno, di non averli rimossi tempestivamente di propria iniziativa.
139. Orbene, in tale sentenza, la Corte EDU si è focalizzata, in primo luogo, sull’ampiezza del pregiudizio causato da siffatti commenti, alla luce della velocità di circolazione delle informazioni online (168) e, in secondo luogo, sul fatto che, se il sistema di «notifica e rimozione» può costituire spesso uno strumento idoneo di bilanciamento dei diritti e degli interessi di tutti gli interessati, non era sufficiente per far cessare il grave pregiudizio risultante da siffatti commenti (169). La Corte EDU ha parimenti sottolineato, in terzo luogo, che sarebbe stato difficile per la vittima perseguire gli autori dei commenti e, in quarto luogo, che il gestore del portale di notizie di attualità esercitava una certa influenza sui commenti postati dagli utenti, cosicché poteva essere giustificato adottare un approccio specifico in materia di responsabilità per quanto riguarda un siffatto intermediario (170). Una certa analogia con la presente causa è dunque possibile (171).
ii) Rischi inerenti ad un regime di responsabilità come quello risultante dalle disposizioni impugnate
140. Come sostenuto, in sostanza, dal Parlamento, nella misura in cui il filtraggio che i prestatori di servizi di condivisione devono effettuare in applicazione delle disposizioni impugnate impedirà la diffusione, su tali servizi, di contenuti che violano i diritti di autore o i diritti connessi, la limitazione all’esercizio del diritto alla libertà di espressione risultante da tali disposizioni è, per quanto riguarda tali contenuti, giustificata.
141. Cionondimeno, il nesso che il legislatore dell’Unione ha istituito, in dette disposizioni, fra responsabilità dei prestatori di servizi di condivisione e efficacia di tale filtraggio comporta un rischio importante per la libertà di espressione, ossia quello di un «blocco eccessivo» di contenuti leciti.
142. Un siffatto rischio di «blocco eccessivo» esiste, in generale, qualora le pubbliche autorità considerino i prestatori intermedi responsabili delle informazioni illecite fornite dagli utenti dei loro servizi. Al fine di sottrarsi a qualsivoglia rischio di responsabilità, tali intermediari possono avere la tendenza a dar prova di zelo e a bloccare in maniera esagerata tali informazioni al minimo dubbio sulla loro liceità (172).
143. Nella specie, il rischio è, più specificamente, che i prestatori di servizi di condivisione, al fine di evitare ogni rischio di responsabilità nei confronti dei titolari dei diritti, impediscano in maniera sistematica la messa a disposizione, sui loro servizi, di tutti i contenuti che riproducono le opere e gli altri materiali protetti per i quali essi hanno ricevuto «informazioni pertinenti e necessarie» o una «segnalazione sufficientemente motivata» da questi ultimi, inclusi quelli che non violano i loro diritti (173).
144. Infatti, a parte il fatto che alcuni degli utenti che desiderano mettere in rete i contenuti interessati potrebbero disporre di una licenza sulle opere e sui materiali in questione, i titolari dei diritti non hanno un monopolio assoluto sull’utilizzo dei loro materiali protetti. L’articolo 5, paragrafo 3, della direttiva 2001/29 contiene, a tal riguardo, un elenco di eccezioni e limitazioni al diritto esclusivo di «comunicazione al pubblico». Tali eccezioni e limitazioni assicurano, in linea di principio, un «giusto equilibrio» tra, da un lato, gli interessi di tali titolari alla protezione della loro proprietà intellettuale, e, dall’altro, la tutela degli interessi e dei diritti fondamentali degli utenti dei materiali protetti, nonché dell’interesse generale (174) – segnatamente l’accesso del pubblico alla cultura. In particolare, diverse di dette eccezioni e limitazioni, fra le quali quelle relative alla citazione, alla critica e alla rassegna (175), nonché quelle relative alla caricatura, alla parodia o al pastiche (176) fanno prevalere, nei loro rispettivi ambiti di applicazione, il diritto alla libertà di espressione e di creazione degli utenti sull’interesse di detti titolari.
145. Orbene, una parte significativa dei contenuti messi in rete dagli utenti sui servizi di condivisione consiste proprio in utilizzi, e rispettivamente in riappropriazioni creative, di opere e altri materiali protetti idonei ad essere coperti da tali eccezioni e limitazioni (177).
146. Cionondimeno, la questione se una siffatta eccezione o limitazione sia applicabile ad un determinato contenuto dipende dal contesto ed esige una certa analisi (178). La linea che separa un utilizzo legittimo dalla contraffazione può rivelarsi, in diversi casi, discutibile (179). In tutte siffatte situazioni equivoche, ai prestatori di servizi di condivisione potrebbe sembrare più semplice impedire la messa a disposizione dei contenuti interessati piuttosto che dover far valere essi stessi, nell’ambito di un’eventuale azione per responsabilità intentata dai titolari dei diritti, l’applicazione di tali eccezioni o limitazioni (180).
147. Il rischio di «blocco eccessivo» che ho appena descritto è accresciuto, nella specie, dal fatto che le condizioni di esenzione fissate all’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) e lettera c), in fine, della direttiva 2019/790 obbligano de facto, in un elevato numero di casi, i prestatori di servizi di condivisione a ricorrere a strumenti di riconoscimento automatico di contenuto.
148. Non si devono perdere di vista, a tal riguardo, i limiti inerenti agli strumenti in questione, limiti che la ricorrente ha debitamente sottolineato e che, del resto, sono già stati constatati dalla Corte nelle sue sentenze Scarlet Extended e SABAM (181). Infatti, gli strumenti di riconoscimento automatico di contenuto rilevano, appunto, contenuti, e non violazioni al diritto d’autore. Tali strumenti, in particolare quelli che funzionano secondo la tecnica dell’«impronta digitale», sono in grado di rilevare corrispondenze, ossia riconoscere che il contenuto di un determinato file riproduce, in tutto o in parte, quello di un file di riferimento (182). Per contro, come fatto valere dalla Repubblica di Polonia, detti strumenti non sono in grado, allo stato attuale, di valutare il contesto nel quale l’opera riprodotta viene utilizzata e, segnatamente, di individuare l’applicazione di un’eccezione o limitazione al diritto d’autore (183). Il rischio di «blocco eccessivo» è tanto più significativo quanto più aumenta la capacità di questi stessi strumenti di riconoscere corrispondenze su estratti sempre più corti (ad esempio, alcuni secondi per un fonogramma). La loro utilizzazione comporta dunque il rischio di privare gli utenti di uno spazio di espressione e di creazione consentito da dette eccezioni e limitazioni (184). Inoltre, la capacità degli strumenti di riconoscimento automatico di individuare contenuti contraffatti dipende dalla precisione e dalla veridicità delle informazioni fornite dai titolari dei diritti. L’utilizzazione di tali strumenti può dunque comportare reclami ingiustificati concernenti, ad esempio, opere rientranti nel dominio pubblico (185), sulla base di informazioni di riferimento erronee o abusive (rischio cosiddetto di «reclamo eccessivo») (186).
iii) Necessità di prevedere garanzie sufficienti per ridurre al minimo tali rischi
149. Alla luce dei rischi di «blocco eccessivo» descritti nella sottosezione precedente, un regime di responsabilità come quello risultante dalle disposizioni impugnate deve essere accompagnato, a mio avviso, da garanzie sufficienti per ridurre al minimo tali rischi e, pertanto, assicurare che la portata dell’ingerenza nella libertà di espressione sia regolamentata con precisione(187). In via generale, ogni tipo di delega, da parte delle autorità pubbliche, del controllo della legittimità online ai prestatori intermedi (188), la quale assuma la forma di obblighi di sorveglianza imposti direttamente o indirettamente a tali intermediari, deve essere accompagnata da tali garanzie.
150. Più specificamente, ritengo che un siffatto regime debba inserirsi in un contesto normativo che fissa regole chiare e precise disciplinanti la portata e l’applicazione delle misure di filtraggio che devono essere attuate dai prestatori di servizi interessati, in modo da assicurare agli utenti di tali servizi una protezione efficace contro il blocco abusivo o arbitrario delle informazioni che essi desiderano mettere in rete (189).
151. Sottolineo parimenti che, qualora la limitazione dei diritti fondamentali derivi dalla legislazione dell’Unione stessa, e sia quindi ad essa imputabile, come avviene nella specie (190), il legislatore dell’Unione ha una parte importante di responsabilità al riguardo. In un’ipotesi del genere, esso non può lasciare completamente agli Stati membri – o, a fortiori, ai prestatori di servizi incaricati di attuare tale legislazione – il compito di prevedere siffatte garanzie. Al contrario, esso deve stabilirne quantomeno la sostanza (191). Ciò premesso, poiché si tratta, nella specie, di una direttiva, concernente per di più un settore tecnico, talune modalità di applicazione dovranno essere specificate dagli Stati membri – nonché dalla Commissione (192).
152. Aggiungerò che la necessità, per il legislatore dell’Unione, di prevedere la sostanza di tali garanzie è indispensabile per assicurare l’applicazione uniforme della legislazione dell’Unione in tutti gli Stati membri – fermo restando che una siffatta uniformità è a maggior ragione necessaria poiché è controversa, nella specie, una direttiva di armonizzazione adottata sulla base dell’articolo 114 TFUE. I prestatori di servizi di condivisione, i quali operano a livello internazionale, non dovrebbero essere tenuti a sottoporsi a 27 regimi nazionali di responsabilità che possono divergere per quanto riguarda la portata degli obblighi di filtraggio imposti loro. Soprattutto, gli utenti di tali servizi dovrebbero beneficiare di una protezione sostanzialmente identica nei confronti delle misure di blocco abusive o arbitrarie, indipendentemente dallo Stato membro in cui si trovano.
153. In sintesi, pur se il legislatore dell’Unione dispone di un ampio potere discrezionale per decidere del principio di un regime di responsabilità come quello previsto nelle decisioni impugnate, esso, per contro, non può esimersi dall’adottare garanzie sufficienti per ridurre al minimo i rischi che ne risultano per la libertà di espressione. Spetta alla Corte, a mio avviso, procedere ad un controllo scrupoloso del rispetto di tale requisito (193).
iv) Garanzie previste nel caso di specie
154. La Repubblica di Polonia sostiene che il legislatore dell’Unione non ha soddisfatto detto requisito nel caso di specie. A suo avviso, le disposizioni impugnate non sarebbero accompagnate da alcuna garanzia idonea a delimitare la portata dell’ingerenza nella libertà di espressione degli utenti dei servizi di condivisione.
155. Per contro, le parti convenute e gli intervenienti fanno valere che l’articolo 17 della direttiva 2019/790 contiene un «sistema di garanzie completo». Le disposizioni impugnate, infatti, sarebbero indissociabili dai paragrafi 5, 7, 8 e 9 di tale articolo. Siffatti paragrafi fisserebbero regole chiare e precise che definiscono la portata e l’applicazione delle misure che devono essere attuate dai prestatori di servizi di condivisione e preserverebbero, in tal modo, un «giusto equilibrio» fra i diritti di proprietà intellettuale dei titolari e la libertà di espressione.
156. Il paragrafo 5 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, il quale indica, lo ricordo, che le misure che devono essere prese da ciascun prestatore devono essere valutate, alla luce del principio di proporzionalità, tenendo conto di elementi come la «dimensione del servizio» o il «costo» degli strumenti disponibili, mi sembra essere rilevante più per la questione del rispetto della libertà d’impresa, la quale non è oggetto della presente causa, che per quanto riguarda la libertà di espressione. Non ritengo dunque necessario ritornarci sopra.
157. Per contro, i paragrafi 7, 8 e 9 di tale articolo contengono effettivamente, a mio avviso, garanzie significative per proteggere gli utenti dei servizi di condivisione nei confronti delle misure di blocco abusive o arbitrarie dei loro contenuti. Le esaminerò dunque nelle sottosezioni che seguono.
– Diritto agli utilizzi legittimi dei materiali protetti (paragrafo 7) e meccanismo di reclamo (paragrafo 9)
158. Le parti convenute e gli intervenienti hanno addotto, correttamente, il fatto che una delle principali garanzie dirette a limitare il rischio che i prestatori di servizi di condivisione impediscano, in applicazione delle disposizioni impugnate, la messa a disposizione, sui loro servizi, dei contenuti che riproducono in maniera legittima le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti figura al paragrafo 7 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790.
159. Infatti, da un lato, il primo comma di tale paragrafo prevede che la «cooperazione tra i prestatori di servizi di condivisione (…) e i titolari dei diritti (194) non deve impedire la disponibilità delle opere o di altri materiali caricati dagli utenti, che non violino il diritto d’autore o i diritti connessi, anche nei casi in cui tali opere o altri materiali siano oggetto di un’eccezione o limitazione» (195).
160. Dall’altro, in conformità al secondo comma di detto paragrafo, gli Stati membri devono provvedere affinché gli utenti possano avvalersi delle eccezioni o limitazioni relative (a) alla citazione, alla critica e alla rassegna, nonché (b) ad utilizzi a scopo di caricatura, parodia o pastiche (196) quando mettono in rete contenuti tramite i servizi di condivisione.
161. Ne risulta che il legislatore dell’Unione ha espressamente riconosciuto diritti soggettivi in materia di diritto d’autore agli utenti dei servizi di condivisione. Tali utenti hanno adesso il diritto, opponibile ai prestatori di tali servizi e ai titolari dei diritti, di utilizzare in maniera legittima, su detti servizi, materiali protetti, incluso il diritto di avvalersi delle eccezioni e limitazioni al diritto d’autore e ai diritti connessi (197). Tale riconoscimento, da parte del legislatore, dell’importanza di tali eccezioni e limitazioni per gli utenti coincide con la giurisprudenza della Corte che, a sua volta, ha recentemente riconosciuto che esse «comportano diritti» a vantaggio di questi ultimi (198).
162. Sottolineo che, in conformità all’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790, gli utenti possono avvalersi dell’insieme delle eccezioni e delle limitazioni previste dal diritto dell’Unione (199), e in particolare di quelle enunciate all’articolo 5 della direttiva 2001/29 – nella misura in cui, cionondimeno, esse figurino nel diritto nazionale applicabile. Orbene, mentre tale articolo 5 lascia agli Stati membri la facoltà di trasporre le eccezioni e limitazioni che esso elenca (200), questo stesso paragrafo 7 obbliga ormai questi ultimi a prevedere, quantomeno, le eccezioni e limitazioni relative alla citazione e alla parodia nel loro diritto interno (201), alla luce dell’importanza particolare delle stesse per la libertà di espressione.
163. Ne consegue, in concreto, che i prestatori dei servizi di condivisione non sono legalmente autorizzati a bloccare o rimuovere i contenuti oggetto degli utilizzi legittimi di opere o altri materiali protetti con la motivazione che tali contenuti violano il diritto d’autore (202). Essi non possono in particolare più escludere, nelle loro condizioni generali di utilizzazione o nell’ambito di accordi contrattuali con i titolari dei diritti, l’applicazione delle eccezioni e limitazioni, prevedendo, ad esempio, che una mera allegazione da parte di questi ultimi di una violazione del diritto d’autore sarà sufficiente a giustificare una simile misura di blocco o di rimozione (203). Tali prestatori, al contrario, devono informare i loro utenti, in queste stesse condizioni generali, della possibilità di utilizzare opere e altri materiali protetti conformemente a dette eccezioni e limitazioni (204).
164. A mio avviso, adottando il paragrafo 7 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, il legislatore dell’Unione, consapevole dei rischi di «blocco eccessivo» (205) che possono risultare dal regime di responsabilità da esso attuato, e al fine di garantire un «giusto equilibrio» fra i diritti e gli interessi coinvolti e di proteggere la libertà di espressione degli utenti dei servizi di condivisione (206), ha previsto un limite chiaro e preciso alle misure di filtraggio e di blocco che devono essere attuate dai prestatori di tali servizi in applicazione del paragrafo 4 di tale articolo.
165. A tal riguardo, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno sottolineato, correttamente, che questo stesso paragrafo 7, alla luce del carattere imperativo dei termini impiegati al suo primo comma – «non deve» (207) –, impone un obbligo di risultato ai prestatori di servizi di condivisione: essi sono tenuti al risultato di non impedire la disponibilità, sui loro servizi, dei contenuti che riproducono in maniera legittima opere e altri materiali protetti, anche qualora tali opere e materiali siano stati identificati dai titolari dei diritti. Il limite delle misure di filtraggio e di blocco ammissibili è dunque tracciato in modo netto: esse non devono avere per oggetto o per effetto di impedire tali utilizzi legittimi. Siffatta disposizione contribuisce dunque a contrastare la tendenza allo «zelo» di tali prestatori e, quindi, a regolamentare la portata dell’ingerenza nella libertà di espressione affinché essa sia limitata alla diffusione dei contenuti che violano le norme del diritto d’autore.
166. La Repubblica di Polonia replica cionondimeno che, alla luce delle limitazioni inerenti al funzionamento degli strumenti di riconoscimento di contenuto, menzionate al paragrafo 148 delle presenti conclusioni, e segnatamente della loro incapacità di individuare l’applicazione delle eccezioni e delle limitazioni al diritto d’autore, l’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790 costituirebbe un pio desiderio piuttosto che una garanzia effettiva. Di fatto, i contenuti rientranti in tali eccezioni e limitazioni saranno bloccati automaticamente da detti strumenti. Tale disposizione non sarebbe dunque idonea ad assicurare agli utenti dei servizi di condivisione una protezione efficace contro il blocco abusivo o arbitrario dei loro contenuti.
167. L’argomentazione della ricorrente sul punto riflette una fondamentale divergenza di opinioni fra le parti e gli intervenienti per quanto riguarda la portata di tale paragrafo 7 e il modo concreto in cui i diritti degli utenti devono essere rispettati nella prassi. Infatti, due interpretazioni distinte di tale disposizione sono state discusse dinanzi alla Corte a tal riguardo.
168. Secondo una prima interpretazione, sulla quale la Repubblica di Polonia fonda il suo ricorso, e che viene inoltre fatta valere dai governi spagnolo e francese, il (solo) meccanismo (208) che assicura, in pratica, che le misure di filtraggio e di blocco adottate dai prestatori di servizi di condivisione, in applicazione delle disposizioni impugnate, non impediscano la disponibilità, sui loro servizi, degli utilizzi legittimi delle opere e degli altri materiali protetti sarebbe il «meccanismo di reclamo e ricorso» che, in conformità al paragrafo 9 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, tali prestatori devono mettere a disposizione degli utenti dei loro servizi «in caso di controversie in merito alla disabilitazione dell’accesso a, o alla rimozione di, specifiche opere o altri materiali da essi caricati».
169. In concreto, i prestatori di servizi di condivisione, come auspicato dai titolari dei diritti, dovrebbero bloccare ex ante tutti i contenuti che riproducono in tutto o in parte le opere e gli altri materiali protetti identificati da questi ultimi – indipendentemente dal fatto che essi violino oppure no i loro diritti – con l’onere per un utente che ritenga di fare un utilizzo legittimo di tali materiali, ad esempio in virtù di un’eccezione o limitazione, di formulare un reclamo in tal senso. Ammesso che tale reclamo sia fondato, il contenuto interessato sarebbe messo in rete, ex post, al termine del suo esame. Preciso che, se la ricorrente e i governi spagnolo e francese assumono una posizione simile per quanto riguarda la loro comprensione dell’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790, essi hanno una posizione radicalmente opposta quanto alle conseguenze che devono esserne tratte (209).
170. Secondo una seconda interpretazione, fatta valere dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, il diritto degli utenti dei servizi di condivisione di fare utilizzi legittimi di materiali protetti, previsto all’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790, dovrebbe essere preso in considerazione ex ante dai prestatori di tali servizi, nel processo stesso di filtraggio. Infatti, le disposizioni impugnate e tale paragrafo 7 dovrebbero essere letti congiuntamente, e gli obblighi da essi previsti si applicherebbero «simultaneamente». I «massimi sforzi» che tali prestatori devono compiere, in conformità a tali disposizioni, per prevenire la messa in rete delle opere e dei materiali protetti identificati dai titolari dei diritti non possono dunque tradursi, in pratica, in un blocco preventivo e sistematico di tali utilizzi legittimi. Il meccanismo di reclamo e ricorso di cui al paragrafo 9 di tale articolo 17 costituirebbe una garanzia supplementare, e ultima, per le situazioni in cui, nonostante l’obbligo figurante a questo stesso paragrafo 7, detti prestatori blocchino ugualmente, per errore, siffatti contenuti legittimi.
171. Aderisco a quest’ultima interpretazione, la quale discende, a mio avviso, da un’analisi letterale, sistematica e storica dell’articolo 17 della direttiva 2019/790.
172. Anzitutto, sul piano testuale, ricordo che, ai sensi dell’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790, la cooperazione tra titolari dei diritti e prestatori di servizi di condivisione non deve «impedire la disponibilità» di contenuti che riproducono in maniera legittima opere e altri materiali protetti. L’interpretazione secondo la quale tali contenuti potrebbero essere sistematicamente bloccati ex ante, purché gli utenti possano ottenerne il ripristino ex post, è lungi dall’essere, a mio avviso, il modo più naturale di comprendere tale testo (210).
173. Inoltre, sul piano sistematico, come fatto valere dalla Commissione, le disposizioni impugnate e questo stesso paragrafo 7 devono essere letti alla luce del paragrafo 9, terzo comma, di detto articolo 17, ai sensi del quale detta direttiva «non incide in alcun modo» sugli utilizzi legittimi di opere e materiali protetti. Orbene, se i contenuti interessati dovessero essere sistematicamente bloccati ex ante, con l’onere per gli utenti di formulare un reclamo al fine di ottenerne la messa in rete, si «inciderebbe» evidentemente, in una certa maniera su tali utilizzi legittimi.
174. Osservo parimenti che la questione degli utilizzi legittimi di materiali protetti viene menzionata non solo al considerando 70 della direttiva 2019/790, il quale verte sul meccanismo di reclamo, ma anche al suo considerando 66, primo comma (211), relativo alle misure preventive che devono essere attuate dai prestatori di servizi di condivisione in applicazione delle disposizioni impugnate. Inoltre, ai sensi di detto considerando 70, primo comma, tale meccanismo è inteso a «sostenere» – e non a «consentire» – siffatti utilizzi legittimi.
175. Infine, i lavori preparatori tendono a confermare tale interpretazione. A tal riguardo, osservo che l’articolo 17, paragrafo 9, della direttiva 2019/790 risale all’articolo 13, paragrafo 2, della proposta di direttiva. Tale proposta non conteneva una disposizione relativa agli utilizzi legittimi delle opere e di altri materiali protetti. Una simile disposizione è stata aggiunta, tramite emendamenti, al momento della prima lettura del testo in sede di Parlamento e di Consiglio. In tali emendamenti, il meccanismo di reclamo e ricorso era specificamente inteso a consentire tali utilizzi legittimi (212). Orbene, dopo il primo rigetto del testo da parte del Parlamento il 5 luglio 2018, nelle versioni successive del testo, e in quella alla fine adottata, la questione dei diritti degli utenti e quella del meccanismo di reclamo e ricorso sono state separate in due disposizioni distinte.
176. Tale iter legislativo dimostra parimenti, a mio avviso, che l’intenzione del legislatore dell’Unione si è evoluta al riguardo. Mentre l’articolo 13 della proposta di direttiva era unilateralmente a favore dei titolari dei diritti, tale articolo 13 si è trasformato, al momento della sua adozione sotto forma dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, in una disposizione complessa che tenta di riconoscere e bilanciare i diversi interessi in gioco. Come fatto valere dal Consiglio, il legislatore ha fatto la scelta di proteggere, in tale disposizione, tanto i titolari dei diritti quanto gli utenti. Come sottolineato dal Parlamento, tale articolo 17 riflette un compromesso delicato al riguardo. Tale evoluzione non può essere ignorata al momento della sua interpretazione (213).
177. L’interpretazione, addotta dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, secondo la quale i diritti degli utenti in forza dell’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790, devono essere presi in considerazione ex ante, e non solo ex post, assicura inoltre la proporzionalità della limitazione all’esercizio del diritto alla libertà di espressione risultante dalle disposizioni impugnate (214).
178. A tal riguardo, è vero che il meccanismo di reclamo e ricorso di cui all’articolo 17, paragrafo 9, della direttiva 2019/790 costituisce al contempo una garanzia essenziale e un grande passo in avanti rispetto alla direttiva 2000/31 (215). Si tratta di una componente necessaria di ogni sistema di filtraggio, alla luce del rischio di «blocco eccessivo» che ne discende. Il legislatore dell’Unione ha anche munito tale meccanismo di «sottogaranzie» procedurali. Detto meccanismo deve essere «celere ed efficace» e i reclami così depositati devono essere trattati «senza indebito ritardo». In altri termini, i prestatori di servizi di condivisione sono tenuti ad agire, in materia, con la stessa rapidità di cui devono dare prova nel caso delle notifiche ricevute dai titolari dei diritti, nell’ambito dell’articolo 17, paragrafo 4, lettera c), della direttiva 2019/790 (216). Inoltre, i titolari dei diritti devono giustificare «debitamente» le loro domande di blocco e i reclami devono essere soggetti a verifica umana.
179. Per di più, in conformità a questo stesso paragrafo 9, gli Stati membri devono parimenti garantire che meccanismi di ricorso stragiudiziale siano disponibili per la risoluzione delle controversie fra utenti e titolari dei diritti. Simili meccanismi sono utili per consentire la risoluzione imparziale di tali controversie. Ancor più importante, a mio avviso, gli Stati membri sono tenuti a prevedere «mezzi di ricorso giurisdizionali efficaci» in materia. A tal riguardo, nella sua sentenza UPC Telekabel Wien (217), la Corte ha sottolineato, in sostanza, che un siffatto diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo è indispensabile ad assicurare l’esercizio, online, del diritto alla libertà di espressione.
180. Tuttavia, pur se tali garanzie procedurali sono importanti, esse non sarebbero sufficienti, da sole, a garantire un «giusto equilibrio» fra il diritto d’autore e la libertà di espressione degli utenti.
181. In primo luogo, in conformità alla giurisprudenza della Corte e di quella della Corte EDU, l’esistenza di siffatte garanzie procedurali non dispensa le pubbliche autorità dal provvedere a ridurre al minimo l’effetto collaterale di una misura di filtraggio e di blocco. Si tratta in tal caso di requisiti distinti, e cumulativi.
182. Infatti, questi due organi giurisdizionali hanno ripetutamente dichiarato che tutte le misure di filtraggio e di blocco devono essere «rigorosamente mirate», nel senso che esse devono riguardare i contenuti illeciti e non avere un effetto arbitrario o eccessivo sui contenuti leciti (218). Nella sua sentenza L’Oréal e a. (219), la Corte ha dichiarato, nello stesso senso, che le misure di sorveglianza imposte ad un intermediario non devono creare ostacoli alle utilizzazioni lecite del suo servizio. Infine, nella sua sentenza UPC Telekabel Wien (220), essa ha dichiarato che una misura di blocco non deve «[privare] inutilmente» gli utenti di Internet della possibilità di condividere informazioni in modo lecito e di accedervi.
183. Tale giurisprudenza non implica che il diritto alla libertà di espressione osti a siffatte misure quando esse siano idonee a comportare il minimo blocco di contenuti leciti. Il termine «inutilmente», utilizzato dalla Corte riflette, a mio avviso, l’idea secondo la quale l’efficacia della protezione dei diritti dei titolari può giustificare taluni casi di «blocco eccessivo».
184. Cionondimeno, deve sussistere, anche in tal caso, un «giusto equilibrio» fra l’efficacia del filtraggio e il suo effetto collaterale. Come risulta, in sostanza, dalla giurisprudenza della Corte EDU, non è possibile esigere, in una società democratica, un’efficacia assoluta – e, pertanto, un «rischio zero» quanto alle eventuali violazioni dei diritti d’autore – qualora ciò avesse come effetto il blocco di un numero non trascurabile di contenuti leciti (221).
185. Il governo francese replica che, secondo la sua interpretazione dell’articolo 17 della direttiva 2019/790, le misure di filtraggio che i prestatori di servizi di condivisione devono attuare, in applicazione delle disposizioni impugnate, soddisferebbero tale requisito, poiché esse sarebbero «rigorosamente mirate» ai contenuti che riproducono in tutto o in parte le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti.
186. Tale argomentazione non può essere accolta. Infatti, dalle sentenze Scarlet Extended e SABAM risulta che un sistema di filtraggio che blocchi in maniera sistematica i contenuti che facciano un’utilizzazione legittima di materiale protetto arrecherebbe un pregiudizio eccessivo alla libertà di espressione e di informazione (222). Ciò vale, a mio avviso, proprio in quanto l’effetto collaterale di un siffatto filtraggio è troppo importante per essere compatibile con tale libertà – e ciò indipendentemente dal fatto che gli utenti lesi beneficino o meno di un diritto di ricorso contro il blocco di loro informazioni, aspetto che la Corte non ha neanche menzionato in tali sentenze.
187. E ciò per valide ragioni. Nella specie, da un lato, il blocco preventivo della totalità dei contenuti che riproducono le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti avrebbe per effetto quello di fare sistematicamente gravare il peso dell’inerzia sugli utenti, poiché la diffusione dei contenuti legittimi non potrebbe avere luogo senza che essi formulino un reclamo, con successo. Se tali utenti dovessero far valere sistematicamente i loro diritti nell’ambito del meccanismo di ricorso, è fortemente probabile che una parte significativa di essi rinuncerebbe a farlo, in assenza, segnatamente, di conoscenze sufficienti per valutare se l’utilizzo che gli stessi fanno di tali materiali sia legittimo e se, pertanto, esistano motivi per formulare un siffatto reclamo (223). Il «blocco eccessivo» preventivo di tutti questi utilizzi legittimi, e l’inversione sistematica a carico degli utenti dell’onere di dimostrare tale legittimità, rischierebbero pertanto di comportare, a breve o a lungo termine, un «chilling effect» sulla libertà di espressione e di creazione, che si tradurrebbe in un calo dell’attività di questi stessi utenti (224).
188. Dall’altro, lo scambio di informazioni online è caratterizzato, segnatamente, dalla sua rapidità. Alcuni tipi di contenuti caricati sui servizi di condivisione vengono ricercati dal pubblico solo per un breve periodo, in particolare quelli che si riferiscono ad eventi di attualità (225). Tali contenuti divengono dunque, molto spesso, obsoleti dopo qualche giorno. Ritardare la messa in rete di tali contenuti tramite un blocco ex ante sistematico rischierebbe di far perdere loro qualsivoglia attualità e ogni interesse per il pubblico. Pertanto, diversamente dai governi spagnolo e francese, ritengo che un siffatto blocco sistematico sarebbe particolarmente problematico, anche qualora fosse soltanto «temporaneo», poiché l’eventuale ripristino dei contenuti al termine dell’esame dei reclami degli utenti non consentirebbe di riparare il danno causato alla libertà di espressione di questi ultimi (226).
189. In secondo luogo, osservo che la Corte insiste, nella sua recente giurisprudenza, sulla necessità di «salvaguardare l’effetto utile» delle eccezioni e delle limitazioni al diritto d’autore, alla luce della loro importanza per il mantenimento di un «giusto equilibrio» fra i diritti e gli interessi coinvolti, in particolare allorché esse mirano a garantire il rispetto della libertà di espressione – come avviene nel caso dell’utilizzo a fini di citazione, di critica o di rassegna e dell’utilizzo a fini di caricatura, di parodia o di pastiche (227).
190. Orbene, appunto al fine di «salvaguardare l’effetto utile» di tali eccezioni e limitazioni, è necessario assicurarsi, a mio avviso, che le misure preventive adottate in applicazione delle disposizioni impugnate non ostacolino in maniera sistematica il diritto degli utenti di farne uso. Se i titolari dei diritti dispongono, nell’ambiente digitale, di possibilità di controllo dei loro materiali protetti senza equivalente nel «mondo reale» – poiché gli strumenti di riconoscimento di contenuto danno loro virtualmente i mezzi per prevenire tutti gli utilizzi di tali materiali, inclusi quelli che non ricadono nel loro monopolio, come la parodia –, occorre proteggere nella stessa misura queste stesse eccezioni e limitazioni. Il pericolo, al riguardo, sarebbe che si garantisca una tutela massima di talune creazioni intellettuali a scapito di altre forme di creazione altrettanto socialmente auspicabili (228).
191. Discende dall’insieme delle considerazioni che precedono, a mio avviso, che, in conformità ad una lettura congiunta delle disposizioni impugnate e del paragrafo 7 dell’articolo17 della direttiva 2019/790, le misure di filtraggio che i prestatori di servizi di condivisione sono tenuti ad attuare devono essere conformi a due obblighi cumulativi: esse devono tentare di prevenire la messa in rete di contenuti che riproducono in maniera illecita le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti, non impedendo al contempo la disponibilità dei contenuti che riproducono tali materiali in maniera lecita.
192. Contrariamente a quanto fatto valere dalla ricorrente, i prestatori di servizi non possono dunque «applicare ogni misura disponibile» per proteggere i diritti di proprietà intellettuale dei titolari (229). I «massimi sforzi» e la «diligenza professionale» di cui essi devono dare prova al riguardo devono essere letti alla luce dell’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790. Poiché tali prestatori si trovano in una posizione professionale bilaterale rispetto agli utenti e ai titolari dei diritti, essi devono agire «diligentemente» nei confronti di queste due categorie.
193. L’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790 obbliga dunque tali prestatori – ma anche le autorità amministrative e giudiziarie degli Stati membri, quando esse supervisionano l’attuazione di tale articolo (230) – a considerare l’effetto collaterale delle misure di filtraggio che essi attuano (231). Essi non possono dunque bloccare preventivamente e sistematicamente i contenuti rientranti, segnatamente, nelle eccezioni e limitazioni al diritto d’autore. Essi devono tenere conto, ex ante, del rispetto dei diritti degli utenti. Invito la Corte a dichiarare senza esitazioni, nella sua emananda sentenza, che è questa la giusta interpretazione di tale articolo 17.
– Divieto di obblighi generali di sorveglianza (paragrafo 8)
194. Il paragrafo 8 dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 dispone che «[l]’applicazione [di tale articolo] non comporta alcun obbligo generale di sorveglianza». Pertanto, le disposizioni impugnate devono essere lette anche alla luce di tale paragrafo.
195. Orbene, ribadendo il divieto di un siffatto «obbligo» (232), il legislatore dell’Unione ha istituito, a mio avviso, un’altra garanzia essenziale significativa per la libertà di espressione. Infatti, tale divieto delimita la portata delle misure di filtraggio che ci si può aspettare da ogni prestatore intermedio e, nella specie, dai prestatori di servizi di condivisione.
196. Taluni insegnamenti possono essere ricavati, al riguardo, dalla sentenza Glawischnig-Piesczek, menzionata in precedenza (233). In tale sentenza, la Corte, interpretando detto divieto, nella sua versione risultante dall’articolo 15 della direttiva 2000/31, ha ritenuto che il gestore di un social network potesse vedersi imporre, tramite un’ingiunzione giudiziaria, l’obbligo di ricercare e di bloccare, fra le informazioni caricate su tale rete, «un’informazione precisa (…) il cui contenuto sia stato analizzato e valutato da un giudice competente (…) che, in esito alla sua valutazione, l’abbia dichiarata illecita» (234). Il giudice poteva dunque esigere da tale gestore che questi bloccasse l’accesso a tutte le informazioni identiche alla medesima. L’ingiunzione poteva anche estendersi alle informazioni di contenuto equivalente, a condizione che detto gestore non fosse obbligato ad effettuare una «valutazione autonoma» della loro liceità e che potesse, al contrario, «ricorrere a tecniche e mezzi di ricerca automatizzati» (235).
197. Ne consegue, in maniera generale, che, se i prestatori intermedi si trovano in una posizione favorevole, sotto il profilo tecnico, per lottare contro la presenza di determinate informazioni illecite diffuse tramite i loro servizi (236), non ci si può aspettare dagli stessi che essi procedano a «valutazioni autonome» della legalità delle informazioni in questione. Tali prestatori intermedi non presentano generalmente la competenza e soprattutto l’indipendenza necessarie – a fortiori allorché gravi sugli stessi la minaccia di una pesante responsabilità (237). Essi non possono dunque essere trasformati in arbitri della legalità online, incaricati di definire questioni giuridiche complesse (238).
198. Di conseguenza, al fine di ridurre al minimo il rischio di «blocco eccessivo» e, quindi, di garantire il rispetto del diritto alla libertà di espressione, un prestatore intermedio può essere unicamente tenuto, a mio avviso, a filtrare e a bloccare informazioni la cui illiceità sia stata previamente accertata da un giudice o, altrimenti, informazioni il cui carattere illecito sia di immediata evidenza, vale a dire manifesto, senza, segnatamente, che ne sia necessaria la contestualizzazione (239).
199. Osservo, peraltro, che gli obblighi di sorveglianza che la Corte EDU, nella sua sentenza Delfi A.S. c. Estonia, ha considerato giustificati riguardavano informazioni manifestamente illecite (240). Nella sua successiva giurisprudenza, la Corte EDU ha precisato che, nel caso delle informazioni la cui natura illecita non sia di immediata evidenza e necessiti un’analisi contestuale, una simile sorveglianza non può essere richiesta (241). Per quest’ultimo tipo di informazioni è necessaria, per ottenerne la rimozione, una segnalazione sufficientemente motivata, che fornisca gli elementi di contesto idonei a rendere evidente l’illegittimità, ovvero, qualora una simile segnalazione non sia sufficiente al riguardo, un’ingiunzione giudiziaria.
200. In maniera specifica, come ho spiegato nelle mie conclusioni nelle cause riunite YouTube e Cyando (242), trasposte al settore del diritto d’autore, dalla sentenza Glawischnig-Piesczek discende che pur se, in conformità all’articolo 15 della direttiva 2000/31, un prestatore intermedio non può essere obbligato a procedere ad un filtraggio generalizzato delle informazioni che memorizza alla ricerca di qualsiasi contraffazione, tale disposizione non osterebbe, a priori, a che tale prestatore sia obbligato a procedere ad un blocco riguardante un file specifico, che fa un uso illecito di un’opera protetta, previamente accertato da un giudice. Detta disposizione non osterebbe, in tale contesto, a che il prestatore sia tenuto a rilevare e a bloccare non solo le copie identiche di tale file ma anche altri file equivalenti, vale a dire quelli che fanno uno stesso uso dell’opera di cui trattasi.
201. Tale interpretazione è trasponibile, a mio avviso, mutatis mutandis, all’articolo 17, paragrafo 8, della direttiva 2019/790. Nella misura in cui, nel sistema di tale articolo 17, il carattere illecito dei contenuti da filtrare non è stato previamente accertato da un organo giurisdizionale, non può che trattarsi, come è stato illustrato al paragrafo 198 delle presenti conclusioni, di ricercare contenuti che, alla luce delle informazioni fornite dai titolari dei diritti, appaiono essere contraffazioni manifeste. In applicazione delle disposizioni impugnate, lette alla luce di tale paragrafo 8, le misure di filtraggio che i prestatori di servizi di condivisione sono tenuti ad attuare, in applicazione delle disposizioni impugnate, devono dunque limitarsi, a mio avviso, ai contenuti che sono «identici» o «equivalenti» alle opere e agli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti (243).
202. La prima categoria menzionata al paragrafo precedente riguarda, concretamente, le riproduzioni identiche, senza elementi supplementari o valore aggiunto, delle opere e altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti. La seconda fa riferimento ai contenuti che riproducono tali materiali nello stesso modo, presentando al contempo modifiche insignificanti, cosicché il pubblico non li distinguerebbe dai materiali originali (ad esempio in caso di semplici alterazioni tecniche destinate ad eludere il sistema di filtraggio, come un cambiamento di formato, l’inversione o la modifica della velocità dell’immagine, ecc.) (244). La rilevazione di queste due categorie di contenuti non esigerà dai prestatori di servizi di condivisione che essi effettuino una «valutazione autonoma» della loro legalità – la contraffazione risulterà manifesta alla luce delle informazioni «pertinenti e necessarie» fornite dai titolari dei diritti – e potrà essere realizzata con l’ausilio di «tecniche e mezzi di ricerca automatizzati» (245).
203. Per contro, non si può esigere dai prestatori di servizi di condivisione che essi filtrino preventivamente anche i contenuti che, pur riproducendo opere e materiali protetti identificati dai titolari dei diritti, differiscono sensibilmente da questi ultimi, come avviene nel caso dei riutilizzi di estratti di opere in altri contesti, dei contenuti «trasformativi», ecc., idonei ad essere coperti da eccezioni e limitazioni al diritto d’autore. L’identificazione delle contraffazioni che possono essere ivi presenti implicherebbe, da parte di tali prestatori, «valutazioni autonome», poiché essi sarebbero tenuti a valutare il contesto di tali utilizzi. Orbene, come sostenuto dalla Repubblica di Polonia, le questioni complesse del diritto d’autore relative, segnatamente, alla portata esatta delle eccezioni e limitazioni, non possono essere lasciate a detti prestatori. Non spetta a questi stessi prestatori decidere in merito ai limiti della creatività online, verificando essi stessi, ad esempio, se il contenuto che un utente progetta di caricare soddisfi i requisiti della parodia. Una siffatta delega comporterebbe un rischio di «blocco eccessivo» inaccettabile. Simili questioni devono essere lasciate al giudice.
– Conseguenze che discendono da quanto suesposto
204. Dalle sezioni che precedono risulta, a mio avviso, che l’articolo 17 della direttiva 2019/790 contiene garanzie sufficiente per regolamentare la portata della limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà di espressione risultante dalle disposizioni impugnate.
205. Da un lato, in conformità al paragrafo 7 di tale articolo, i prestatori di servizi di condivisione non sono autorizzati a bloccare ex ante, in applicazione delle disposizioni impugnate, la totalità dei contenuti che riproducono le opere e gli altri materiali protetti identificati dai titolari dei diritti, inclusi quelli che possono essere leciti. Dall’altro, in forza del paragrafo 8 di detto articolo, tali prestatori possono essere tenuti a rilevare e bloccare soltanto i contenuti che sono «identici» e «equivalenti» a tali materiali, ossia la cui illiceità appare manifesta alla luce delle informazioni «pertinenti e necessarie» fornite dai titolari dei diritti. In simili casi, poiché la contraffazione è altamente probabile, tali contenuti possono essere presunti illeciti. È dunque proporzionato bloccarli ex ante, incombendo agli utenti interessati di dimostrarne la liceità – ad esempio, il fatto che essi dispongono di una licenza, oppure che l’opera rientra in realtà nel pubblico dominio (246) – nell’ambito del meccanismo di reclamo. In sintesi, i «massimi sforzi» imposti ai prestatori di servizi di condivisione, in conformità alle disposizioni impugnate, consistono nel bloccare tali contraffazioni manifeste (247).
206. Viceversa, in tutte le situazioni equivoche – brevi estratti di opere riprese in contenuti più lunghi, opere «trasformative», ecc. – nelle quali, in particolare, sia ragionevolmente ipotizzabile l’applicazione di eccezioni e limitazioni al diritto d’autore, i contenuti interessati non possono essere oggetto di una misura di blocco preventivo.
207. Infatti, come sottolineato dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, l’obbligo di risultato, previsto all’articolo 17, paragrafo 7, primo comma, della direttiva 2019/790, di non impedire la messa in rete di contenuti legittimi è, al riguardo, più vincolante degli obblighi di «massimi sforzi» risultanti dalle disposizioni impugnate, i quali costituiscono obblighi di mezzo (248). Ciò significa che il legislatore dell’Unione ha inteso assicurare, a mio avviso correttamente, che, in una simile ipotesi, i prestatori di servizi di condivisione privilegino la libertà di espressione. In altri termini, il legislatore ha ritenuto che i «falsi positivi», consistenti nel bloccare contenuti legali, siano più gravi dei «falsi negativi», che si risolvono nel far passare taluni contenuti illeciti.
208. Pertanto, come sostenuto dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione, in tali situazioni equivoche, si deve presumere che i contenuti interessati siano leciti e, di conseguenza, la loro messa in rete non può essere ostacolata.
209. La difficoltà risiede nella definizione di soluzioni pratiche per attuare tale dicotomia con l’ausilio degli strumenti di riconoscimento automatico di contenuto che, in numerose situazioni, i prestatori di servizi di condivisione dovranno utilizzare. La ricorrente ha peraltro fatto valere che il legislatore dell’Unione non ha previsto, nella direttiva 2019/790, alcuna soluzione concreta al riguardo.
210. Ciò premesso, a mio avviso, spettava al legislatore dell’Unione, come ho indicato, prevedere la sostanza delle garanzie necessarie per ridurre al minimo i rischi in materia di libertà di espressione risultanti dalle disposizioni impugnate. Per contro, come fatto valere dal Consiglio, in un settore che implica l’adozione di misure tecniche, come quello di cui alla presente causa, e alla luce del fatto che l’articolo 17 della direttiva 2019/790 si applicherà a diversi tipi di prestatori, di servizi e di materiali protetti, spetta agli Stati membri e alla Commissione concretizzarne le modalità (249).
211. In pratica, tali soluzioni consisteranno nell’integrare, negli strumenti di riconoscimento di contenuto, parametri che consentono di aiutare a distinguere il manifesto dall’equivoco. Ciò può variare a seconda dei tipi di materiali protetti e di eccezioni in questione. Si tratterà, ad esempio, di tenere conto dei tassi di corrispondenza rilevati da tali strumenti, nonché di fissare soglie al di sopra delle quali il blocco automatico di un contenuto è giustificato, e al di sotto delle quali è ragionevolmente ipotizzabile l’applicazione di un’eccezione, come la citazione (250). Una siffatta soluzione potrebbe essere abbinata ad un meccanismo che consenta agli utenti di indicare (flagging), al momento o immediatamente dopo la messa in rete, se, a loro avviso, essi beneficiano di un’eccezione o di una limitazione, il che implicherebbe, per il prestatore interessato, di procedere ad una revisione manuale del contenuto in questione al fine di verificare se l’applicazione di tale eccezione o limitazione sia manifestamente esclusa o, al contrario, ragionevolmente ipotizzabile (251).
212. In generale, per quanto riguarda i diversi tipi di prestatori, di servizi e di opere o materiali protetti, la definizione di tali soluzioni non può né essere abbandonata a detti prestatori né, contrariamente a quanto fatto valere dal governo francese, essere totalmente lasciata ai titolari dei diritti (252). Alla luce dell’importanza di dette soluzioni per la libertà di espressione degli utenti, esse dovranno essere definite non in maniera opaca da queste sole parti private, bensì in maniera trasparente sotto la supervisione di autorità pubbliche.
213. A mio avviso, è esattamente in ciò che risiede l’utilità del dialogo fra parti interessate previsto dal legislatore dell’Unione all’articolo 17, paragrafo 10, della direttiva 2019/790. Tale disposizione prevede l’obbligo per la Commissione, in cooperazione con gli Stati membri, di organizzare dialoghi fra i prestatori di servizi di condivisione, i titolari dei diritti, le organizzazioni di utenti e altre parti interessate pertinenti al fine di discutere le «migliori prassi per la cooperazione tra i prestatori di servizi di condivisione di contenuti online e i titolari dei diritti». Su tale base, la Commissione deve emettere orientamenti sull’applicazione di tale articolo 17, in particolare per quanto concerne il modo di attuare le disposizioni impugnate. In tale iter, si deve tenere «specialmente conto» della «necessità di pervenire a un equilibrio tra i diritti fondamentali e il ricorso a eccezioni e limitazioni». In tal senso, la Commissione, con l’ausilio delle parti interessate, è tenuta a proporre soluzioni pratiche che consentano un’attuazione delle disposizioni impugnate, nel rispetto dei paragrafi 7 e 8 di detto articolo 17 (253).
214. Infine, preciso che, come sostenuto dalla Commissione, e in sintonia con quanto ho indicato al paragrafo 183 delle presenti conclusioni, l’obbligo previsto all’articolo 17, paragrafo 7, della direttiva 2019/790 non significa che i meccanismi che diano luogo ad un numero trascurabile di casi di «falsi positivi» sarebbero automaticamente contrari a tale disposizione. Cionondimeno, il tasso di errore dovrebbe essere il più basso possibile. Ne consegue che, nei casi in cui non fosse possibile, allo stato attuale della tecnologia, ad esempio nel caso di taluni tipi di opere e materiali protetti, utilizzare uno strumento di filtraggio automatico senza dar luogo ad un tasso di «falso positivo» non trascurabile, l’impiego di un siffatto strumento dovrebbe essere escluso, a mio avviso, ai sensi di tale paragrafo 7 (254).
215. L’interpretazione suggerita nelle presenti conclusioni non viene rimessa in discussione dall’argomento dei governi spagnolo e francese secondo il quale sarebbe imperativo bloccare preventivamente la totalità dei contenuti che riproducono in tutto o in parte i materiali protetti identificati dai titolari dei diritti, al fine di eliminare qualsiasi rischio di diffusione di un contenuto illecito su un servizio di condivisione, fermo restando che una siffatta diffusione sarebbe idonea a causare loro un danno «irreparabile», alla luce della rapidità dello scambio di informazioni su Internet.
216. Infatti, se, a mio avviso, il rischio di un danno grave e imminente generato da un tentativo di messa in rete di un contenuto manifestamente contraffatto è idoneo a giustificare una misura di blocco preventivo di tale contenuto (255), detti titolari non possono esigere il «rischio zero» quanto ad eventuali violazioni dei loro diritti, come ho indicato al paragrafo 184 delle presenti conclusioni. Sarebbe sproporzionato applicare siffatte misure a tutti i casi, più discutibili, di potenziali danni, eventualmente causati, ad esempio, da contenuti «trasformativi» che possono rientrare o meno nell’ambito delle eccezioni e limitazioni al diritto d’autore, i quali non sono in concorrenza diretta con i materiali protetti originali (256). Per tali situazioni, adottare simili misure preventive rischierebbe, al contrario, di causare danni «irreparabili» alla libertà di espressione, per le ragioni che ho illustrato al paragrafo 188 di tali conclusioni.
217. Inoltre, la Corte ha ripetutamente dichiarato «che non deriva in alcun modo dall’articolo 17, paragrafo 2, della Carta che il diritto di proprietà intellettuale sia intangibile e che, pertanto, la sua tutela debba essere garantita in modo assoluto» (257).
218. Del resto, l’interpretazione suggerita nelle presenti conclusioni non lascia i titolari dei diritti senza protezione per quanto attiene a tali contenuti equivoci. Non si tratta segnatamente di ritornare sulla portata del diritto di comunicazione al pubblico in quanto tale (258). Invero, il fatto che certi contenuti che riproducono in maniera illecita le loro opere e altri materiali protetti non vengano bloccati al momento della messa in rete non impedisce a tali titolari, segnatamente (259), di chiedere la rimozione, nonché il blocco permanente dei contenuti in questione tramite una segnalazione, in conformità all’articolo 17, paragrafo 4, lettera c), della direttiva 2019/790 (260), contenente spiegazioni ragionevoli sui motivi per i quali, ad esempio, l’applicazione di un’eccezione dovrebbe essere esclusa (261). Il prestatore interessato, da parte sua, dovrà esaminare tale segnalazione con diligenza e decidere se, alla luce di questi nuovi elementi, l’illiceità sia manifesta (262). Ammesso che sia questo il caso, il prestatore interessato dovrà, pena impegnare la propria responsabilità, bloccare tempestivamente l’accesso al contenuto o rimuoverlo dal suo sito Internet. Come sottolineato dalla Commissione, dal considerando 66, secondo comma, della direttiva 2019/790 (263) risulta che il legislatore dell’Unione aveva previsto che, in determinati casi, tale modus operandi fosse l’unico in grado di garantire che un dato contenuto non fosse disponibile. Nell’ipotesi in cui l’illegalità non sia manifesta alla luce di tali spiegazioni, poiché il contenuto in questione solleva questioni giuridiche complesse e/o nuove in materia di diritto d’autore, sarà in linea di principio necessario l’intervento del giudice, unico competente a risolvere tali questioni. Spetterà in tal caso ai titolari dei diritti adire un’autorità giudiziaria, sulla base segnatamente dell’articolo 8, paragrafo 3, della direttiva 2001/29, affinché siffatta autorità statuisca su tale contenuto e, ammesso che sia illecito, ne disponga il blocco.
219. Come osservato correttamente dal Parlamento, ciò assicura un «giusto equilibrio» fra gli adempimenti imposti agli utenti, in taluni casi, per ottenere la messa in rete dei loro contenuti, e quelli richiesti ai titolari dei diritti, in altri casi, per ottenerne la rimozione (264).
4. Conclusione quanto alla compatibilità della limitazione in questione con la Carta
220. Risulta dall’insieme delle considerazioni che precedono che la limitazione all’esercizio del diritto alla libertà di espressione e di informazione risultante dalle disposizioni impugnate, come interpretate nelle presenti conclusioni, soddisfa tutte le condizioni previste all’articolo 52, paragrafo 1, della Carta. Ritengo dunque che tale limitazione sia compatibile con siffatto strumento. Di conseguenza, il ricorso della Repubblica di Polonia deve, a mio avviso, essere respinto (265).
C. Post-scriptum
221. Successivamente alla redazione delle presenti conclusioni, nel corso della loro traduzione da parte dei servizi della Corte, sono stati pubblicati due importanti documenti.
222. Da un lato, è stata pronunciata la sentenza YouTube e Cyando (266). Il ragionamento adottato dalla Corte in tale sentenza in relazione alle direttive 2000/31 e 2001/29, che non posso esaminare in dettaglio in questa sede, non rimette in discussione, a mio avviso, le considerazioni svolte nelle presenti conclusioni (267).
223. Dall’altro, la Commissione ha pubblicato i suoi orientamenti sull’applicazione dell’articolo 17 della direttiva 2019/790 (268). In sostanza, questi ultimi riprendono quanto sostenuto dalla Commissione dinnanzi alla Corte e riflettono le spiegazioni figuranti ai paragrafi da 158 a 219 delle presenti conclusioni. Cionondimeno, detti orientamenti indicano anche, in maniera inedita, che i titolari dei diritti dovrebbero avere la possibilità di «riservare» (earmark) i materiali la cui messa in rete non autorizzata sia «idonea a causare loro un danno economico significativo». Tali prestatori dovrebbero dare prova di una diligenza particolare nei confronti di detti materiali. Viene inoltre indicato che questi ultimi non adempierebbero ai loro obblighi di «massimi sforzi» qualora consentissero la messa in rete di contenuti che riproducono questi stessi materiali nonostante siffatte «riserve». Se ciò dovesse essere inteso nel senso che questi stessi prestatori dovrebbero bloccare ex ante taluni contenuti dietro la mera allegazione di un rischio di danno economico importante da parte dei titolari dei diritti – fermo restando che gli orientamenti non contengono altri criteri che limitino in maniera oggettiva il meccanismo di «riserva» a taluni casi particolari (269) –, quand’anche tali contenuti non fossero manifestamente contraffatti, non posso aderirvi, salvo ritornare sulla totalità delle considerazioni svolte in tali conclusioni.
VI. Sulle spese
224. Ai sensi dell’articolo 138, paragrafo 1, del regolamento di procedura della Corte, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché, a mio avviso, il ricorso della Repubblica di Polonia deve essere respinto e il Parlamento e il Consiglio ne hanno fatto domanda, tale Stato membro dovrebbe essere condannato alle spese. Cionondimeno, i governi spagnolo e francese, nonché la Commissione, i quali sono intervenuti nella controversia, dovranno sopportare le proprie spese, in conformità all’articolo 140, paragrafo 1, di tale regolamento.
VII. Conclusione
225. Alla luce dell’insieme delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di:
– respingere il ricorso della Repubblica di Polonia;
– condannare tale Stato membro alle spese, e
– condannare il Regno di Spagna, la Repubblica francese e la Commissione europea a sopportare le proprie spese.