Language of document : ECLI:EU:C:2020:861

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

PRIIT PIKAMÄE

presentate il 27 ottobre 2020 (1)

Causa C481/19

DB

contro

Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob)

nei confronti di

Presidenza del Consiglio dei Ministri

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte costituzionale (Italia)]

«Rinvio pregiudiziale – Ravvicinamento delle legislazioni – Abusi di mercato – Direttiva 2003/6/CE – Articolo 14, paragrafo 3 – Regolamento (UE) 596/2014 – Articolo 30, paragrafo 1, lettera b) – Omessa collaborazione con le autorità competenti – Sanzioni amministrative e/o altre misure amministrative – Interpretazione conforme ai diritti fondamentali – Articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – Diritto al silenzio – Portata»






1.        Nella presente causa, alla Corte viene sottoposta una domanda di pronuncia pregiudiziale da parte della Corte costituzionale (Italia) vertente sull’interpretazione e sulla validità dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) (2), e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione (3), che impongono agli Stati membri l’obbligo di sanzionare le violazioni dell’obbligo di collaborazione con l’autorità incaricata della vigilanza sul mercato (in prosieguo: l’«autorità di vigilanza»).

2.        In particolare, la Corte costituzionale domanda alla Corte la questione se tali disposizioni possano essere interpretate in maniera conforme al diritto al silenzio (nemo tenetur se detegere), quale si desumerebbe dagli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») e, eventualmente, quale sia la portata da riconoscere a tale diritto.

3.        In sintesi, la Corte, nella sua futura sentenza, avrà l’occasione di pronunciarsi su un certo numero di questioni giuridiche delicate, in particolare sull’applicabilità del diritto al silenzio nell’ambito di procedimenti amministrativi che possano sfociare nell’irrogazione di una sanzione di natura penale, nonché sulla portata esatta di tale diritto, la cui determinazione è resa problematica dall’esistenza di un’asserita divergenza al riguardo tra la giurisprudenza in materia della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU») e quella della Corte.

I.      Contesto normativo

A.      La CEDU

4.        L’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, (in prosieguo: la «CEDU») prevede quanto segue:

«1.      Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.

(...)

2.      Ogni persona accusata di un reato è presunta innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

(...)».

B.      Diritto dell’Unione

1.      La Carta

5.        L’articolo 47, paragrafo 2, della Carta è così formulato:

«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge (...)».

6.        Ai sensi dell’articolo 48, paragrafo 1, della Carta:

«Ogni imputato è considerato innocente fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata».

2.      La direttiva 2003/6

7.        L’articolo 12 della direttiva 2003/6 prevede quanto segue:

«1.      All’autorità competente sono conferiti tutti i poteri di vigilanza e di indagine necessari per l’esercizio delle sue funzioni. Essa esercita tali poteri:

a)      direttamente, o

b)      in collaborazione con altre autorità o con i gestori di mercato, o

c)      sotto la sua responsabilità mediante delega a tali autorità o ai gestori di mercato, oppure

d)      mediante una richiesta alle competenti autorità giudiziarie.

2.      Fatto salvo l’articolo 6, paragrafo 7, i poteri di cui al paragrafo 1 del presente articolo sono esercitati in conformità della legislazione nazionale e includono almeno il diritto di:

(...)

b)      richiedere informazioni a qualsiasi persona, incluse quelle che intervengono successivamente nella trasmissione degli ordini o nell’esecuzione delle operazioni in questione, e ai loro mandanti e, se necessario, convocare e procedere all’audizione di una persona;

(...)».

8.        L’articolo 14 di tale direttiva dispone come segue:

«1.      Fatto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive.

2.      La Commissione stila, in conformità della procedura di cui all’articolo 17, paragrafo 2, un elenco indicativo delle misure e delle sanzioni amministrative di cui al paragrafo 1.

3.      Gli Stati membri fissano le sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini di cui all’articolo 12.

4.      Gli Stati membri provvedono affinché l’autorità competente possa divulgare al pubblico le misure o sanzioni applicate per il mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva, salvo il caso in cui la divulgazione possa mettere gravemente a rischio i mercati finanziari o possa arrecare un danno sproporzionato alle parti coinvolte».

3.      Il regolamento n. 596/2014

9.        L’articolo 23 del regolamento n. 596/2014, dal titolo «Poteri delle autorità competenti», così prevede:

«1.      Le autorità competenti esercitano le loro funzioni e i loro poteri attraverso le seguenti modalità:

a)      direttamente;

b)      in collaborazione con altre autorità o con imprese che gestiscono il mercato;

c)      sotto la loro responsabilità mediante delega a tali autorità o a imprese che gestiscono il mercato;

d)      rivolgendosi alle competenti autorità giudiziarie.

2.      Per adempiere ai compiti loro assegnati dal presente regolamento, le autorità competenti dispongono almeno, conformemente al diritto nazionale, dei seguenti poteri di controllo e di indagine:

(...)

b)      di richiedere o esigere informazioni da chiunque, inclusi coloro che, successivamente, partecipano alla trasmissione di ordini o all’esecuzione delle operazioni di cui trattasi, nonché i loro superiori e, laddove opportuno, convocarli allo scopo di ottenere delle informazioni;

(...)».

10.      L’articolo 30 di tale regolamento, intitolato «Sanzioni amministrative e altre misure amministrative», stabilisce quanto segue:

«1.      Fatti salvi le sanzioni penali e i poteri di controllo delle autorità competenti a norma dell’articolo 23, gli Stati membri, conformemente al diritto nazionale, provvedono affinché le autorità competenti abbiano il potere di adottare le sanzioni amministrative e altre misure amministrative adeguate in relazione almeno alle seguenti violazioni:

(...)

b)      l’omessa collaborazione o il mancato seguito dato nell’ambito di un’indagine, un’ispezione o una richiesta di cui all’articolo 23, paragrafo 2.

(...)».

C.      Diritto italiano

11.      La Repubblica italiana ha recepito la direttiva 2003/6 attraverso l’articolo 9 della legge 18 aprile 2005, n. 62 – Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004 (GURI n. 96, del 27 aprile 2005 – Supplemento ordinario alla GURI n. 76). Tale articolo ha inserito nel Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52 (in prosieguo: il «testo unico»), di cui al decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Supplemento ordinario alla GURI n.71, del 26 marzo 1998), numerose disposizioni, tra le quali l’articolo 187 bis, riguardante l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, e l’articolo 187 quinquiesdecies, relativo alle sanzioni applicabili in caso di omessa collaborazione alle indagini.

12.      L’articolo 187 bis del testo unico, nella versione vigente all’epoca dei fatti della causa principale, era intitolato «Abuso di informazioni privilegiate» ed era così redatto:

«1.      Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato, è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro ventimila a euro tre milioni chiunque, essendo in possesso di informazioni privilegiate in ragione della sua qualità di membro di organi di amministrazione, direzione o controllo dell’emittente, della partecipazione al capitale dell’emittente, ovvero dell’esercizio di un’attività lavorativa, di una professione o di una funzione, anche pubblica, o di un ufficio:

a)      acquista, vende o compie altre operazioni, direttamente o indirettamente, per conto proprio o per conto di terzi su strumenti finanziari utilizzando le informazioni medesime;

b)      comunica informazioni ad altri, al di fuori del normale esercizio del lavoro, della professione, della funzione o dell’ufficio;

c)      raccomanda o induce altri, sulla base di esse, al compimento di taluna delle operazioni indicate nella lettera a).

2.      La stessa sanzione di cui al comma 1 si applica a chiunque essendo in possesso di informazioni privilegiate a motivo della preparazione o esecuzione di attività delittuose compie taluna delle azioni di cui al medesimo comma 1.

(...)

4.      La sanzione prevista al comma 1 si applica anche a chiunque, in possesso di informazioni privilegiate, conoscendo o potendo conoscere in base ad ordinaria diligenza il carattere privilegiato delle stesse, compie taluno dei fatti ivi descritti.

5.      Le sanzioni amministrative pecuniarie previste dai commi 1, 2 e 4 sono aumentate fino al triplo o fino al maggiore importo di dieci volte il prodotto o il profitto conseguito dall’illecito quando, per le qualità personali del colpevole ovvero per l’entità del prodotto o del profitto conseguito dall’illecito, esse appaiono inadeguate anche se applicate nel massimo.

(...)».

13.      Nella versione in vigore all’epoca dei fatti della causa principale, l’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico era intitolato «Tutela dell’attività di vigilanza della Consob» e disponeva quanto segue:

«1.      Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Consob ovvero ritarda l’esercizio delle sue funzioni è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila ad euro duecentomila».

14.      Nella versione attualmente in vigore, lo stesso articolo 187 quinquiesdecies del testo unico recante la rubrica «Tutela dell’attività di vigilanza della Banca d’Italia e della Consob» è così redatto:

«1.      Fuori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, è punito ai sensi del presente articolo chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della Consob, ovvero non coopera con le medesime autorità al fine dell’espletamento delle relative funzioni di vigilanza, ovvero ritarda l’esercizio delle stesse.

1 bis.            Se la violazione è commessa da una persona fisica, si applica nei confronti di quest’ultima la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila fino a euro cinque milioni.

1 ter.            Se la violazione è commessa da una società o un ente, si applica nei confronti di questi ultimi la sanzione amministrativa pecuniaria da euro diecimila fino a euro cinque milioni, ovvero fino al dieci per cento del fatturato, quando tale importo è superiore a euro cinque milioni e il fatturato è determinabile ai sensi dell’articolo 195, comma 1 bis. Fermo restando quanto previsto per le società e gli enti nei confronti dei quali sono accertate le violazioni, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria prevista dal comma 1 bis nei confronti degli esponenti aziendali e del personale della società o dell’ente nei casi previsti dall’articolo 190 bis, comma 1, lettera a).

1 quater.      Se il vantaggio ottenuto dall’autore della violazione come conseguenza della violazione stessa è superiore ai limiti massimi indicati nel presente articolo, la sanzione amministrativa pecuniaria è elevata fino al doppio dell’ammontare del vantaggio ottenuto, purché tale ammontare sia determinabile».

II.    Fatti, procedimento principale e questioni pregiudiziali

15.      Con delibera n. 18199 del 18 maggio 2012, la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (Consob, Italia) ha irrogato a DB sanzioni pecuniarie per l’infrazione amministrativa di insider trading, comprendente un duplice profilo: le operazioni di abuso di informazioni privilegiate e la comunicazione illecita di informazioni privilegiate commesse tra il 19 e il 26 febbraio 2009. Essa gli ha altresì inflitto una sanzione pecuniaria dell’importo di EUR 50 000 per l’infrazione amministrativa di cui all’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico, per avere rinviato più volte la data dell’audizione alla quale era stato convocato nella sua qualità di persona informata dei fatti e per essersi rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte una volta presentatovisi. Inoltre, la Consob ha inflitto a DB la sanzione della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità di cui all’articolo 187 quater, paragrafo 1, del testo unico per la durata di diciotto mesi e ha disposto la confisca per equivalente del profitto o dei mezzi impiegati per ottenerlo in forza dell’articolo 187 sexies del testo unico.

16.      Nell’ambito del procedimento principale che ha dato luogo al presente rinvio pregiudiziale, DB ha dapprima proposto opposizione dinanzi alla Corte d’appello di Roma, deducendo, tra l’altro, l’illegittimità della sanzione inflittagli ai sensi dell’articolo 187 quinquiesdecies del decreto legislativo n. 58 del 24 febbraio 1998. A seguito del rigetto di tale opposizione, DB ha proposto ricorso per cassazione. Con ordinanza del 16 febbraio 2018, la Corte suprema di cassazione (Italia) ha sollevato due questioni incidentali di legittimità costituzionale da sottoporre all’esame della Corte costituzionale.

17.      La prima di tali questioni verte sull’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico, quale inserito dall’articolo 9 della legge n. 62 del 18 aprile 2005, nella parte in cui tale disposizione sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della Consob o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni, anche nei confronti di colui al quale la medesima Consob, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate.

18.      Nella sua ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale rileva che l’articolo 187 quinquiesdecies contrasterebbe con vari principi, taluni derivanti dalla legge nazionale (il diritto di difesa e il principio della parità delle parti nel processo, previsti, rispettivamente, all’articolo 24, secondo comma, e all’articolo 111, secondo comma, della Costituzione italiana), altri derivanti dal diritto internazionale e dal diritto dell’Unione (il diritto a un processo equo, di cui all’articolo 6 della CEDU, all’articolo 14 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all’articolo 47 della Carta), diritti, questi ultimi, la cui violazione può comportare l’incostituzionalità della disposizione interessata, in forza degli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione italiana.

19.      Secondo la Corte costituzionale, non sembra che il «diritto al silenzio», fondato sulle disposizioni costituzionali, sulle disposizioni del diritto dell’Unione e del diritto internazionale fatte valere, possa di per sé legittimare il rifiuto di un soggetto di presentarsi all’audizione disposta dalla Consob, né il suo ritardo nel presentarsi a tale audizione, purché sia garantito, diversamente da quanto sarebbe avvenuto nel caso di specie, il suo diritto a non rispondere alle domande che gli vengano rivolte durante tale audizione.

20.      Infatti, secondo la Corte costituzionale, la formulazione dell’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico, nella versione applicabile alla data dei fatti come in quella attualmente vigente, si estenderebbe anche all’ipotesi in cui l’audizione personale sia disposta nei confronti di colui che la Consob abbia già individuato, sulla base delle informazioni in proprio possesso, come il possibile autore di un illecito il cui accertamento ricade entro la sua competenza. Occorrerebbe pertanto stabilire se il diritto al silenzio si applichi non soltanto nei procedimenti penali, ma anche nelle audizioni personali disposte dalla Consob nell’ambito della sua attività di vigilanza. Orbene, gli argomenti fondati sia sull’articolo 24 della Costituzione italiana sia sull’articolo 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, deporrebbero a favore di una risposta affermativa a tale questione.

21.      Una conclusione opposta comporterebbe il rischio che, per effetto dell’obbligo di cooperazione con l’autorità di vigilanza, il sospetto autore di un illecito amministrativo che possa condurre ad una sanzione di natura «punitiva» possa altresì contribuire, di fatto, alla formulazione di un’accusa in sede penale nei propri confronti. Infatti, nell’ordinamento italiano l’abuso di informazioni privilegiate sarebbe previsto al tempo stesso come illecito amministrativo (articolo 187 bis del testo unico) e come illecito penale (articolo 184 del testo unico). I procedimenti applicabili in materia potrebbero essere avviati e condotti parallelamente, come è in effetti accaduto nei confronti di DB, nei limiti in cui ciò sia compatibile con il principio ne bis in idem (4).

22.      Inoltre, la Corte costituzionale fa valere che i dubbi così sollevati sarebbero confortati dalla giurisprudenza della Corte EDU concernente l’articolo 6 della CEDU.

23.      Secondo la Corte costituzionale, dato che l’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano in esecuzione di uno specifico obbligo imposto dall’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e costituisce oggi la puntuale attuazione dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, e che entrambe le disposizioni sembrano imporre alle autorità di vigilanza degli Stati membri il dovere di sanzionare anche il silenzio mantenuto durante un’audizione dalla persona che abbia compiuto operazioni configuranti illeciti rientranti nella competenza di tali autorità, un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 187 quinquiesdecies rischierebbe di porsi in contrasto con il diritto dell’Unione. Infatti, si potrebbe dubitare della compatibilità di un simile dovere di sanzione con gli articoli 47 e 48 della Carta, i quali pure sembrano riconoscere un diritto fondamentale dell’individuo a non contribuire alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria, nei medesimi limiti desumibili dall’articolo 6 della CEDU e dell’articolo 24 della Costituzione italiana.

24.      Al riguardo, la Corte costituzionale precisa di conoscere la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea relativa al diritto al silenzio in materia di illeciti anticoncorrenziali la quale, obbligando l’autore dell’illecito a rispondere a quesiti di mero fatto, si risolverebbe tuttavia in una limitazione significativa della portata del principio nemo tenetur se detegere, in quanto quest’ultimo implica, in materia penale, il diritto dell’interessato a non fornire alcun contributo dichiarativo – nemmeno indiretto – alla propria incolpazione. La Corte costituzionale rileva che la giurisprudenza in questione – che si sarebbe formata con riguardo a persone giuridiche e non fisiche, e in larga misura in epoca antecedente all’adozione della Carta e all’attribuzione alla stessa del medesimo valore giuridico dei Trattati – appare difficilmente conciliabile con il carattere «punitivo», riconosciuto dalla stessa Corte nella sentenza Di Puma e Zecca (5), delle sanzioni amministrative previste nell’ordinamento giuridico italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate. Tale carattere parrebbe suggerire, secondo tale giurisdizione, la necessità di riconoscere al presunto autore dell’illecito una garanzia analoga a quella che gli viene riconosciuta in materia penale.

25.      Inoltre, la Corte costituzionale ritiene che la giurisprudenza della Corte non sia compiutamente in linea con la giurisprudenza della Corte EDU, che parrebbe invece riconoscere un’estensione ben maggiore al diritto al silenzio di cui beneficia l’incolpato, anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura «punitiva».

26.      Poiché la Corte e il legislatore dell’Unione non hanno finora affrontato la questione se gli articoli 47 e 48 della Carta, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU concernente l’articolo 6 della CEDU, impongano di riconoscere l’esistenza di tale diritto anche nell’ambito di procedimenti amministrativi che possano sfociare nell’irrogazione di sanzioni di natura «punitiva», il giudice del rinvio ritiene necessario, prima di pronunciarsi sulla questione di legittimità costituzionale ad esso sottoposta, adire la Corte per ottenere un chiarimento sull’interpretazione, ed eventualmente sulla validità, alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta, dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 quale applicabile ratione temporis, nonché dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014. In particolare, occorrerebbe determinare se tali disposizioni consentano ad uno Stato membro di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità di vigilanza dalle quali possa emergere la sua responsabilità per un illecito punito con sanzioni penali o con sanzioni amministrative di natura «punitiva».

27.      Di conseguenza, la Corte costituzionale ha deciso di sospendere il giudizio e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”;

2)      se, in caso di risposta negativa a tale prima questione, l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6, in quanto tuttora applicabile ratione  temporis, e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento nº 596/2014 siano compatibili con gli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, anche alla luce della giurisprudenza della Corte [EDU] in materia di articolo 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”».

III. Procedimento dinanzi alla Corte

28.      Tali questioni hanno formato oggetto di osservazioni scritte da parte di DB, del governo italiano, del governo spagnolo, del Consiglio dell’Unione europea, del Parlamento europeo e della Commissione europea.

29.      Le difese orali di queste stesse parti interessate sono state sentite all’udienza del 13 luglio 2020.

IV.    Analisi

A.      Sulla ricevibilità delle questioni pregiudiziali

30.      Nei suoi atti scritti, il Consiglio osserva che la Corte Costituzionale stessa precisa, nell’ordinanza di rinvio, che solo la direttiva 2003/6 si applica ratione temporis ai fatti controversi nella causa principale, mentre il regolamento n. 596/2014, che ha abrogato e sostituito tale direttiva, disciplina attualmente la materia senza tuttavia essere altrimenti connesso alla situazione all’origine del procedimento nazionale in questione.

31.      Sottolineando che la sola disposizione pertinente ai fini della causa principale è l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6, la Corte costituzionale sembra riconoscere implicitamente, secondo il Consiglio, che le risposte alle sue questioni vertenti sull’interpretazione e sulla validità dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 non sono necessarie per dirimere la controversia all’origine della causa, ma che esse sono essenzialmente destinate a chiarire la situazione normativa per il futuro.

32.      Occorre così porsi, in via preliminare, la questione se l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 sia anch’esso pertinente per consentire alla Corte costituzionale di pronunciarsi sul rinvio da parte della Corte suprema di cassazione.

33.      A tal fine, ricordo innanzitutto che, secondo giurisprudenza costante, le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevate dal giudice nazionale nel contesto di diritto e di fatto che esso individua sotto la propria responsabilità, e del quale non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza. Quest’ultima può essere esclusa solo in casi eccezionali, qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta o l’esame della validità non ha alcun rapporto con l’esistenza effettiva o con l’oggetto del procedimento principale o, ancora, qualora la questione sia di tipo ipotetico o quando la Corte non disponga degli elementi di fatto e di diritto necessari per rispondere in modo utile alle questioni che le sono sottoposte nonché per comprendere le ragioni per le quali il giudice nazionale ritiene di aver bisogno delle risposte a tali questioni al fine di risolvere la controversia dinanzi ad esso pendente (6).

34.      Nella fattispecie, mi pare che l’argomento addotto dal Consiglio si basi sulla constatazione che l’ordinanza di rinvio non soddisfa al requisito enunciato all’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura della Corte, in quanto, da un lato, tale decisione non espone le ragioni che hanno indotto la Corte costituzionale a interrogarsi sull’interpretazione e sulla validità del regolamento n. 596/2014 e, dall’altro, essa non comprova il collegamento tra tale regolamento e la normativa applicabile alla controversia nella causa principale. Tali lacune avrebbero, secondo il Consiglio, l’effetto di indurre la Corte a formulare un parere consultivo su questioni ipotetiche e comporterebbe quindi l’irricevibilità parziale del presente rinvio pregiudiziale.

35.      Non posso condividere tale tesi per i motivi seguenti.

36.      Riguardo al primo aspetto relativo al requisito di cui all’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, rilevo che, nell’ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale afferma chiaramente che l’interpretazione richiesta è giustificata dal fatto che un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico rischierebbe di porsi in contrasto anche con l’obbligo di sanzione che discende attualmente dall’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014. Così facendo, la Corte costituzionale riconosce implicitamente, a mio parere, che la sua decisione verterà non soltanto sull’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico nella sua versione in vigore all’epoca dei fatti della causa principale, ma anche sulla stessa disposizione nella sua versione attualmente in vigore. Infatti, come afferma la Commissione nelle sue osservazioni scritte, l’articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 recante norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale (GURI n. 62 del 14 marzo 1953) prevede che la Corte costituzionale, quando accoglie un’istanza o un ricorso relativo alla legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, si pronuncia, nei limiti dell’oggetto del ricorso, non soltanto sulle disposizioni legislative illegittime, ma anche su quelle la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata. Orbene, la mancanza di riferimento espresso nell’ordinanza di rinvio a tale disposizione, che delimita la portata delle decisioni che accolgono la domanda o il ricorso sulla legittimità costituzionale in maniera non certamente estranea a quelle di altre Corti costituzionali dell’Unione, non sembra affatto sufficiente a giustificare la conclusione secondo la quale il primo aspetto di detto requisito non sarebbe rispettato.

37.      Quanto al secondo aspetto, basti rilevare che, nell’ordinanza di rinvio, la Corte costituzionale espone che la disposizione nazionale controversa, ossia l’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico, recepiva, all’epoca dei fatti della causa principale, l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6, e recepisce, attualmente, l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014. Orbene, se è vero che la «normativa applicabile alla causa principale» è l’articolo 187 quinquiesdecies del testo unico nella versione che recepiva la direttiva 2003/6, è altrettanto vero che, tenuto conto della coerenza esistente tra le disposizioni della direttiva 2003/6 e quelle del regolamento n. 596/2014, il collegamento tra quest’ultimo e la normativa applicabile alla causa principale deve considerarsi, a mio modo di vedere, comprovato.

38.      Di conseguenza, propongo alla Corte di dichiarare le questioni ricevibili.

B.      Nel merito

1.      Riformulazione delle questioni pregiudiziali

39.      Risulta dalla lettura dell’ordinanza di rinvio che la Corte Costituzionale cerca di ottenere, inter alia, chiarimenti sulla portata che essa è tenuta a riconoscere al diritto di mantenere il silenzio delle persone fisiche, in considerazione della pretesa divergenza su questo punto tra la giurisprudenza della Corte EDU e quella della Corte (7).

40.      Alla luce della formulazione delle questioni pregiudiziali, come pure del rapporto di subordinazione tra la risposta alla prima questione e l’esame della seconda, tale problematica rischierebbe, a mio parere, di rimanere al di fuori della valutazione operata dalla Corte nella sua futura sentenza.

41.      Mi sembra quindi necessario, allo scopo di fornire al giudice del rinvio una risposta utile che gli consenta di modellare il contenuto della sua sentenza di costituzionalità, procedere ad una riformulazione delle questioni da esso sottoposte alla Corte.

42.      Si deve infatti ricordare che, nell’ambito della procedura di cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte, istituita dall’articolo 267 TFUE, la facoltà di cui la Corte dispone di riformulare le questioni che le sono sottoposte trova la sua giustificazione nel fatto che spetta a quest’ultima fornire al giudice nazionale una soluzione utile che gli consenta di dirimere la controversia di cui è investito (8).

43.      D’altra parte, preciso che la riformulazione delle questioni pregiudiziali mi sembra in generale un esercizio delicato che richiede un grado elevato di circospezione da parte della Corte al fine di evitare ogni sconfinamento nella competenza del giudice del rinvio, al quale solo spetta valutare la rilevanza delle questioni di diritto sollevate dalla controversia di cui è investito nonché la necessità di una pronuncia pregiudiziale per essere in grado di adottare la propria sentenza (9).

44.      Nella fattispecie, talune delle parti interessate hanno proposto che la prima questione sia riformulata in maniera tale che risulti sostanzialmente diretta a stabilire se l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta, debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi rifiuti di rispondere a domande dell’autorità di vigilanza dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative aventi natura penale.

45.      Una siffatta riformulazione equivale, a mio modo di vedere, a snaturare l’oggetto della prima questione, che verte sulla possibilità stessa per gli Stati membri, nel momento in cui adottano provvedimenti di attuazione o di esecuzione, di interpretare le suddette disposizioni in maniera conforme al diritto al silenzio, e ad eludere de facto la problematica connessa alla validità delle disposizioni di cui trattasi, che forma oggetto della seconda questione.

46.      Al fine di evitare un tale risultato, ritengo che la riformulazione debba mirare a stabilire se, alla luce della formulazione dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, tali disposizioni possano essere interpretate conformemente ai diritti fondamentali e, in particolare, al diritto al silenzio, quale si desumerebbe dagli articoli 47 e 48 della Carta, ovvero se una siffatta interpretazione sia invece contra legem. È chiaro che, in caso di risposta affermativa, ogni dubbio relativo alla validità di tali disposizioni alla luce dei suddetti articoli della Carta sarà escluso. Inoltre, tale riformulazione deve dare alla Corte la possibilità di pronunciarsi sulla problematica relativa alla portata esatta del diritto al silenzio, quale esposta al paragrafo 39 delle presenti conclusioni.

47.      Alla luce di tali considerazioni, propongo alla Corte di riformulare le due questioni pregiudiziali sollevate dal giudice del rinvio nei seguenti termini:

Quale portata si deve attribuire al diritto al silenzio delle persone fisiche, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di illeciti anticoncorrenziali, nell’ipotesi in cui le formulazioni dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 permettano di interpretare tali articoli in maniera conforme al suddetto diritto?

2.      Esame della questione riformulata

48.      Seguendo la logica interna della questione riformulata, verificherò se, alla luce della formulazione degli articoli in questione, un’interpretazione conforme al diritto al silenzio sia possibile, nel qual caso la validità di tali disposizioni non potrebbe essere messa in discussione. Per rispondere, si deve stabilire se tali disposizioni debbano essere intese nel senso che non impongono agli Stati membri di sanzionare coloro che rifiutino di rispondere a domande rivolte dall’autorità di vigilanza che possano far risultare una loro responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di natura penale (10) [(sub b)]. Occorre tuttavia rilevare che tale questione presuppone una risposta affermativa alla questione riguardante l’applicabilità del diritto a mantenere il silenzio non soltanto nell’ambito dei procedimenti penali, ma anche nei procedimenti amministrativi che possono sfociare nell’irrogazione delle suddette sanzioni. Pur adducendo vari argomenti che depongono a favore di una siffatta risposta, il giudice del rinvio sembra chiedere alla Corte di dissipare ogni dubbio residuo al riguardo. Affronterò quindi in primo luogo tale punto [(sub a)]. Infine, mi esprimerò sulla portata da attribuire in tale contesto al diritto al silenzio quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta [(sub c)].

a)      Sul riconoscimento del diritto al silenzio nei procedimenti amministrativi che possono sfociare nellirrogazione di sanzioni di natura penale

49.      Innanzitutto, si deve osservare che né l’articolo 47, paragrafo 2 (diritto ad un processo equo), né l’articolo 48, paragrafo 2 (presunzione d’innocenza) della Carta sanciscono espressamente un diritto al silenzio.

50.      Tuttavia, conformemente alla clausola di omogeneità contenuta nell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, secondo la quale il significato e la portata dei diritti sanciti da quest’ultima che corrispondono ai diritti garantiti dalla CEDU devono essere «uguali a quelli conferiti» loro dall’omologo articolo della CEDU, le spiegazioni relative alla Carta stabiliscono, in merito all’articolo 47, secondo comma, della medesima, che le garanzie derivanti dall’articolo 6, paragrafo 1, della CEDU «si applicano in modo analogo nell’Unione», e, in merito all’articolo 48, paragrafo 2, della Carta, che tale diritto ha «significato e portata identici» a quello garantito dall’articolo 6, paragrafo 2, della CEDU (11).

51.      Benché la formulazione dell’articolo 6 della CEDU sia anch’essa priva di qualunque riferimento al diritto al silenzio, si deve ricordare che la Corte EDU ha ripetutamente dichiarato che, malgrado la mancanza di un siffatto riconoscimento esplicito, il diritto al silenzio e il diritto di non collaborare alla propria incolpazione, in quanto componente del diritto al silenzio, costituiscono «norme internazionali generalmente riconosciute che sono al centro della nozione di processo equo sancita dall’articolo 6 della [CEDU]» (12).

52.      Per quanto riguarda l’ambito di applicazione ratione materiae dell’articolo 6 della CEDU, risulta dalla formulazione di quest’ultimo che il profilo penale di tale disposizione trova applicazione ogniqualvolta si sia in presenza di un’«accusa penale».

53.      Orbene, è noto che la nozione di «penale» ha formato oggetto di un’interpretazione estensiva da parte della Corte EDU allo scopo di ricomprendere non soltanto i procedimenti che possano sfociare nell’irrogazione di sanzioni considerate come rientranti nella sfera penale dal legislatore nazionale, ma anche quelli che, pur essendo qualificati da quest’ultimo come amministrativi, fiscali o disciplinari, presentano natura essenzialmente penale. Una siffatta interpretazione autonoma è fondata sui criteri elaborati a partire dalla sentenza Engel (13), e successivamente adottati dalla Corte nella sentenza Bonda (14), e cioè la qualificazione dell’illecito nel diritto nazionale, la natura di tale illecito e il grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere (in prosieguo: i «criteri della sentenza Bonda»).

54.      Occorre passare brevemente in rassegna tali criteri, così come delineati dalla giurisprudenza della Corte EDU (15).

55.      Il primo criterio, relativo alla qualificazione dell’infrazione secondo il diritto nazionale, non è pertinente laddove si tratti di una sanzione qualificata come amministrativa (16). In tal caso, è necessario passare all’esame degli altri due criteri.

56.      Il secondo criterio, diretto a individuare la vera natura dell’illecito, si valuta sulla base di un certo numero di fattori, fermo restando che un illecito sarà generalmente di natura penale in particolare qualora la sanzione prevista dal diritto nazionale riguardi il pubblico in generale e non un gruppo di destinatari ben definito (17), qualora la definizione di tale sanzione obbedisca a finalità di prevenzione e di repressione (18), anziché mirare unicamente alla riparazione dei danni patrimoniali (19), e qualora la disposizione nazionale sanzionatoria tuteli un interesse giuridico la cui protezione è normalmente garantita dal diritto penale (20).

57.      Il terzo criterio verte in particolare sul grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere, il quale è determinato con riferimento alla sanzione di cui è a priori passibile la persona interessata, e non a quella effettivamente inflitta (21). Le pene privative della libertà sono, per definizione, di natura penale (22), così come le sanzioni pecuniarie che possono tradursi in una pena accessoria detentiva in caso di inadempimento o che comporti un’iscrizione nel casellario giudiziale (23).

58.      Il secondo e il terzo criterio sono, in linea di principio, alternativi. Si può tuttavia adottare un approccio cumulativo qualora un’analisi distinta di ciascun criterio non permetta di giungere ad una conclusione chiara quanto all’esistenza di un’accusa penale (24).

59.      Orbene, qualora dalla valutazione vertente su tali criteri risulti che il procedimento amministrativo controverso può dar luogo ad una sanzione di natura «penale», è la serie completa delle garanzie connesse al profilo penale dell’articolo 6 della CEDU, ivi compreso il diritto al silenzio, che trova applicazione. Infatti, quando la Corte EDU accerta che la sanzione che può essere inflitta in esito al procedimento in esame ha natura penale, tale giurisidizione non si pone alcuna questione ulteriore in merito all’applicabilità del diritto specifico di cui trattasi, dato che una tale applicabilità costituisce la conseguenza ineludibile di una siffatta qualificazione della sanzione (25).

60.      In ogni caso, si deve sottolineare che, come giustamente osserva il giudice del rinvio, il diritto al silenzio è stato ripetutamente riconosciuto a persone che non avevano risposto alle domande delle autorità amministrative nell’ambito di procedimenti di accertamento di illeciti amministrativi. In tali occasioni, è stata appunto la natura penale delle sanzioni applicabili dall’autorità amministrativa agli illeciti oggetto dell’indagine condotta da quest’ultima a essere considerata determinante dalla Corte EDU (26).

61.      Tenuto conto di quanto precede, si deve concludere che, ogniqualvolta le sanzioni esaminate sono qualificate come penali alla luce dei criteri della sentenza Bonda, il riconoscimento del diritto al silenzio presenta carattere automatico.

b)      Sulla possibilità di interpretare le disposizioni controverse in maniera conforme al diritto al silenzio

62.      Occorre a questo punto determinare se, alla luce delle formulazioni dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6, e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, sia possibile interpretare tali disposizioni in maniera conforme al diritto al silenzio, vale a dire nel senso che esse non impongono agli Stati membri di sanzionare chiunque rifiuti di rispondere a domande dell’autorità di vigilanza che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi natura penale. Infatti, è solo nell’ipotesi in cui tale possibilità sia confermata che la questione vertente sulla validità di tali disposizioni alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta comporterebbe una risposta affermativa.

63.      A tal fine, si deve innanzitutto definire brevemente il contesto giuridico nel quale si collocano le disposizioni oggetto di tale questione.

64.      La direttiva 2003/6 è volta a combattere gli abusi di mercato. Come risulta dai suoi considerando 2 e 12, essa vieta gli abusi di informazioni privilegiate nonché le operazioni dirette alla manipolazione del mercato al fine di garantire l’integrità dei mercati finanziari e di rafforzare la fiducia degli investitori in tali mercati, fiducia che si fonda in particolare sulla garanzia che tali investitori siano posti su un piano di parità e tutelati contro l’utilizzazione illecita delle informazioni privilegiate (27).

65.      Al fine di garantire a tale quadro normativo un’efficacia adeguata, ogni violazione dei divieti adottati in applicazione della direttiva 2003/6 dev’essere tempestivamente scoperta e sanzionata (28). In quest’ottica, l’articolo 14 di tale direttiva enuncia gli obblighi ai quali gli Stati membri sono tenuti a conformare il proprio regime nazionale di sanzioni.

66.      Pur perseguendo i medesimi obiettivi della direttiva 2003/6 (29), il regolamento n. 596/2014 intende stabilire un quadro normativo più uniforme e più rigoroso, in particolare rafforzando i poteri di vigilanza, di indagine e di sanzione dell’autorità di vigilanza (30). In materia di sanzioni, l’articolo 30 di tale regolamento amplia la serie degli obblighi ai quali gli Stati membri devono conformare il proprio regime nazionale.

67.      Per quanto riguarda le disposizioni che la Corte è chiamata ad interpretare nella presente causa, si deve osservare che l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 dispone che gli Stati membri devono determinare le sanzioni amministrative da applicare in caso di omessa collaborazione nell’ambito di un’indagine condotta dall’autorità di vigilanza. Orbene, il riferimento esplicito contenuto in tale articolo all’articolo 12 della direttiva stessa impone di procedere ad una lettura congiunta della disposizione in questione e dell’articolo 12 che, per quanto riguarda il contenuto minimo dei poteri dell’autorità di vigilanza, dispone, al paragrafo 2, lettera b), che tali poteri devono includere il diritto di «richiedere informazioni a qualsiasi persona, incluse quelle che intervengono successivamente nella trasmissione degli ordini o nell’esecuzione delle operazioni in questione, e ai loro mandanti e, se necessario, convocare e procedere all’audizione di una persona» (31). In altri termini, l’articolo 12 della direttiva 2003/6 indica che l’estensione della categoria di persone nei confronti delle quali tale diritto dell’autorità di vigilanza può essere esercitato non incontra in linea di principio alcun limite.

68.      Quanto all’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, esso prevede, in sostanza, che gli Stati membri debbano far sì che l’autorità di vigilanza disponga del potere di infliggere sanzioni e adottare misure amministrative per quanto riguarda l’«omessa collaborazione o il mancato seguito dato [ad] un’indagine, un’ispezione o una richiesta». Poiché rinvia espressamente all’articolo 23 di questo stesso regolamento, il suddetto articolo 30 deve necessariamente essere letto congiuntamente a tale ultima disposizione, che, al paragrafo 2, determina il contenuto minimo dei poteri di vigilanza e di indagine dell’autorità di vigilanza nel senso che tali poteri includono in particolare quello di «richiedere o esigere informazioni da chiunque, inclusi coloro che, successivamente, partecipano alla trasmissione di ordini o all’esecuzione delle operazioni di cui trattasi, nonché i loro superiori e, laddove opportuno, [di] convocarli allo scopo di ottenere delle informazioni» (32).

69.      La potenza semantica dei termini «qualsiasi» e «chiunque», unitamente al fatto che non è espressamente escluso che gli Stati membri possano sanzionare per omessa collaborazione le persone le cui risposte possano far emergere la loro responsabilità per un illecito rientrante nella competenza dell’autorità di vigilanza, può, secondo le osservazioni scritte del governo italiano, legittimare un’interpretazione dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6, e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, secondo la quale gli Stati membri sarebbero tenuti a sanzionare in via amministrativa anche dette persone.

70.      Ritengo tuttavia che tale conclusione sia errata.

71.      A questo proposito, tengo a sottolineare, da un lato, che i termini «qualsiasi» e «chiunque» si riferiscono, nei due atti normativi in questione, alle persone alle quali l’autorità di vigilanza è legittimata a chiedere informazioni o a quelle che tale autorità è legittimata a convocare per interrogare, e non direttamente alle persone che essa è tenuta a sanzionare per omessa collaborazione nell’ambito di un’indagine condotta da tale autorità, il che non è ininfluente sulla solidità della suddetta interpretazione letterale. Dall’altro lato, e soprattutto, considero che un’interpretazione che valorizzi la mancata esclusione espressa della possibilità di sanzionare le persone le cui risposte possano far emergere la loro responsabilità per l’illecito rientrante nella competenza dell’autorità di vigilanza procede necessariamente dalla premessa secondo la quale sia l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 che l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 impongono agli Stati membri di fare in modo che la violazione dell’obbligo di collaborazione nell’ambito delle indagini condotte da tale autorità sia punita con sanzioni amministrative aventi natura penale. Infatti, come illustrato sopra, il diritto al silenzio trova applicazione unicamente nei procedimenti penali o nei procedimenti amministrativi che possano dar luogo all’irrogazione di sanzioni aventi tale natura.

72.      Orbene, anticipo fin da ora che l’impiego degli altri metodi esegetici tradizionali della Corte, come l’interpretazione sistematica e storica delle disposizioni in questione, evidenzia, a mio parere, il carattere erroneo di tale lettura delle disposizioni in esame.

73.      Un’interpretazione sistematica dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 implica innanzitutto che si tenga conto del paragrafo 1 della stessa disposizione, ai sensi del quale «[f]atto salvo il diritto degli Stati membri di imporre sanzioni penali, gli Stati membri sono tenuti a garantire, conformemente al loro ordinamento nazionale, che possano essere adottate le opportune misure amministrative o irrogate le opportune sanzioni amministrative a carico delle persone responsabili del mancato rispetto delle disposizioni adottate in attuazione della presente direttiva. Gli Stati membri sono tenuti a garantire che tali misure siano efficaci, proporzionate e dissuasive». Orbene, da tale paragrafo risulta che, quando si tratta di emanare misure volte a reprimere le violazioni delle disposizioni nazionali che recepiscono la direttiva 2003/6, gli Stati membri dispongono di un ampio potere discrezionale. In generale, non soltanto essi non sono espressamente tenuti a prevedere, oltre ad eventuali sanzioni penali, sanzioni amministrative aventi natura penale, ma sono addirittura legittimati ad imporre semplici «opportune misure amministrative» anziché sanzioni amministrative in senso proprio. Inoltre, anche nel caso in cui gli Stati membri decidano di introdurre nella loro legislazione nazionale delle «sanzioni amministrative», il potere discrezionale di cui essi dispongono quanto alla portata di tali sanzioni è limitato soltanto dall’obbligo di garantire che esse siano «efficaci, proporzionate e dissuasive» (33). Tale obbligo non implica necessariamente, a mio parere, quello di prevedere sanzioni di natura penale, dato che anche sanzioni prive di tale natura possono, in linea di principio, essere efficaci, proporzionate e dissuasive (34). Non vedo infatti come si possa escludere che una sanzione che non soddisfi il secondo criterio della sentenza Bonda in ragione della sua finalità esclusivamente preventiva o riparatrice o il terzo criterio della sentenza Bonda in ragione del suo esiguo ammontare possa essere conforme alle suddette caratteristiche.

74.      Del resto, mi sembra che questa lettura sia in linea con un passaggio delle conclusioni presentate dall’avvocato generale Kokott nella causa Spector Photo Group e Van Raemdonck (35). Dopo aver affermato che l’articolo 14 della direttiva 2003/6 fa parte delle disposizioni di tale direttiva che enunciano «norme minime» e che «gli Stati membri sono legittimati ad adottare disposizioni che eccedono tale base», l’avvocato generale precisa infatti che «gli Stati membri devono prevedere misure amministrative che siano efficaci e dissuasive» e che, di conseguenza, per quanto riguarda le modalità di irrogazione delle sanzioni, la direttiva 2003/6 comporta solo «un’armonizzazione minima» (36).

75.      Per quanto riguarda l’interpretazione sistematica dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014, ritengo che neppure essa giustifichi una conclusione secondo la quale tale disposizione dev’essere interpretata nel senso che impone agli Stati membri di adottare un regime di sanzioni amministrative aventi natura penale. Vero è che l’articolo 30, paragrafo 1, di tale regolamento limita il potere discrezionale degli Stati membri in quanto prevede sostanzialmente che questi ultimi sono tenuti ad introdurre sia misure amministrative che sanzioni amministrative ai fini della repressione delle violazioni delle sue disposizioni, senza lasciar loro la possibilità di scegliere tra questi due meccanismi sanzionatori. Tuttavia, si deve rilevare che la violazione dell’obbligo di collaborazione è sottratta all’applicazione dell’articolo 30, paragrafo 2, di detto regolamento, che include, tra le misure e le sanzioni amministrative che le autorità di vigilanza devono quanto meno essere autorizzate ad infliggere oltre alle sanzioni penali, talune sanzioni aventi presumibilmente natura penale secondo i criteri della sentenza Bonda (37).

76.      Sono quindi i criteri che l’autorità di vigilanza deve applicare, conformemente al diritto nazionale, per determinare il tipo e il livello della sanzione, entro i limiti previsti dall’articolo 31, paragrafo 1, lettere da a) a g) (38), del regolamento n. 596/2014, nonché il diverso peso che, secondo lo stesso diritto, tale autorità deve attribuire a tali criteri, che sono determinanti, a mio modo di vedere, per concludere nel senso di un’eventuale natura penale della sanzione.

77.      L’interpretazione storica dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 evidenzia anch’essa, a mio parere, che, nell’adottare tali due atti normativi, il legislatore dell’Unione non intendeva imporre agli Stati membri l’obbligo di reprimere la violazione dei provvedimenti di recepimento della direttiva 2003/6 o delle disposizioni del regolamento n. 596/2014 mediante sanzioni penali o amministrative di natura penale, dato che tale direttiva e tale regolamento perseguivano una semplice armonizzazione minima dei regimi sanzionatori nazionali. Ciò si desume in tutta evidenza, per quanto riguarda la direttiva 2003/6, dalla proposta di direttiva nella quale la Commissione precisava che «la disciplina stessa delle sanzioni rimane di competenza degli Stati membri» e che «[l]e sanzioni devono essere efficaci, proporzionate e dissuasive. Ogni Stato membro ha comunque facoltà di stabilire le sanzioni applicabili in caso di violazione delle disposizioni o per omessa collaborazione alle indagini di cui all’articolo 12 della presente direttiva» (39). Quanto al regolamento n. 596/2014, l’intento di perseguire il medesimo grado di armonizzazione è altrettanto palese nel passaggio della proposta di regolamento nel quale la Commissione afferma che «il presente regolamento introduce delle regole minime relative a misure amministrative, sanzioni e ammende. Questo non impedisce ai singoli Stati membri di stabilire norme più rigorose» (40).

78.      Tenuto conto dell’ampio potere discrezionale lasciato agli Stati membri ai fini dell’attuazione degli obblighi gravanti su di essi ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 nel contesto del perseguimento di un grado minimo di armonizzazione, non è sorprendente, a mio parere, che il legislatore dell’Unione non si sia preoccupato di precisare che, ove sanzioni amministrative aventi natura penale siano adottate a livello nazionale, esse non potranno essere applicate a coloro che nel contesto di un’indagine riguardante un’infrazione passibile di tali sanzioni rifiutino di rispondere alle domande dell’autorità di vigilanza che possano far emergere una loro responsabilità per la violazione di cui trattasi. Infatti, lasciando agli Stati membri la libertà di stabilire la natura e la portata delle sanzioni da prevedere in caso di violazione dell’obbligo di collaborazione con l’autorità di vigilanza, il legislatore ha necessariamente ammesso, a mio parere, che l’irrogazione di una sanzione possa essere esclusa in conseguenza del riconoscimento dei diritti fondamentali che la Carta associa alle sanzioni aventi natura penale. In altri termini, come fa valere il Consiglio nelle sue osservazioni scritte, il fatto che sia l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 che l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 siano redatti in termini generali e incondizionati non significa che eccezioni connesse al rispetto di un diritto fondamentale non possano essere introdotte per via interpretativa.

79.      Al riguardo, si deve rilevare che il considerando 44 della direttiva 2003/6 (41) e il considerando 77 del regolamento n. 596/2014 (42) codificano il principio secondo il quale le disposizioni del diritto derivato dell’Unione devono essere interpretate in maniera conforme ai diritti fondamentali (43). Nel caso in esame, tale principio impone di interpretare l’obbligo di sanzionare l’omessa collaborazione con l’autorità di vigilanza conformemente al diritto al silenzio, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta, che deve essere riconosciuto ogniqualvolta un procedimento può sfociare nell’irrogazione di sanzioni di natura penale.

80.      Per contro, si deve precisare che, contrariamente a quanto sembra prospettare il giudice del rinvio, il principio summenzionato non richiede che, nell’ambito dell’interpretazione dell’obbligo di sanzionare un’omessa collaborazione con l’autorità di vigilanza, si tenga conto della necessità di rispettare i livelli di tutela dei diritti fondamentali garantiti dagli ordinamenti degli Stati membri, nell’ipotesi in cui tali livelli siano più elevati di quelli garantiti dal diritto dell’Unione.

81.      Innanzitutto, una lettura del genere non è corroborata, come sembra sostenere il giudice del rinvio, dalle espressioni «conformemente al[l’]ordinamento nazionale» e «conformemente al diritto nazionale» contenute, rispettivamente, nell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 e nell’articolo 30, paragrafo 1, del regolamento n. 596/2014, che si riferiscono all’obbligo di sanzione gravante sugli Stati membri. Infatti, l’introduzione di tali espressioni mira semplicemente, a mio modo di vedere, a mettere in rilievo il fatto che le norme in materia di sanzioni richiedono un’attuazione da parte del legislatore nazionale (44).

82.      In ogni caso, una siffatta lettura è già stata confutata, sul piano generale, dalla Corte nella sua sentenza Melloni (45). Nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, il Tribunal Constitucional (Corte costituzionale, Spagna) chiedeva, con la terza questione pregiudiziale, se l’articolo 53 della Carta (46) autorizzi uno Stato membro ad applicare il livello di tutela dei diritti fondamentali più elevato garantito dalla sua Costituzione. A tale riguardo, la Grande Sezione della Corte ha risposto in senso negativo, in ragione del fatto che una simile interpretazione del suddetto articolo 53 pregiudicherebbe il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione (47).

83.      Analogamente, una siffatta lettura pregiudicherebbe, nella causa in esame, il principio del primato del diritto dell’Unione, in quanto consentirebbe ad uno Stato membro di ostacolare l’applicazione di disposizioni del diritto dell’Unione pienamente conformi alla Carta, e cioè l’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6 e l’articolo 30, paragrafo 1, del regolamento n. 596/2014, per il solo motivo che esse non rispetterebbero i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione di tale Stato. Inoltre, essa pregiudicherebbe un’applicazione uniforme ed efficace del diritto dell’Unione, in quanto metterebbe in discussione l’uniformità del livello di tutela del diritto al silenzio in caso di sanzione dell’inadempimento all’obbligo di collaborazione con l’autorità di vigilanza, e potrebbe ostare all’armonizzazione dei poteri sanzionatori delle autorità di vigilanza relativi a detto inadempimento.

84.      Alla luce delle considerazioni summenzionate, ritengo che le formulazioni dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento n. 596/2014 permettano di interpretare tali disposizioni in maniera conforme al diritto al silenzio, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta, e che la validità delle medesime alla luce di questi ultimi non possa quindi essere messa in dubbio. È pertanto possibile affrontare la problematica connessa alla portata del diritto in questione.

c)      Sulla portata del diritto al silenzio ai sensi degli articoli 47 e 48 della Carta

85.      Come è stato detto al paragrafo 39 delle presenti conclusioni, il giudice del rinvio interpella la Corte anche sulla portata da riconoscere al diritto delle persone fisiche al silenzio, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta, nell’ambito di procedimenti amministrativi avviati al fine di irrogare sanzioni aventi natura penale, come quelle previste dalla legge nazionale diretta a reprimere gli abusi di mercato (48). A questo proposito, il giudice del rinvio sottolinea che la giurisprudenza della Corte EDU relativa all’articolo 6 della CEDU sembra conferire a tale diritto una portata più ampia di quella risultante dalla giurisprudenza della Corte in materia di illeciti anticoncorrenziali.

86.      Tale problematica sarà esaminata nei paragrafi successivi. In particolare, mi soffermerò sulla questione riguardante la possibilità di attribuire nel caso di specie al diritto al silenzio, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta, la stessa portata ad esso riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte, questione alla quale risponderò in senso negativo (sub 1). Tenterò allora, conformemente a quanto prescritto dalla clausola di omogeneità contenuta nell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta e nelle spiegazioni relative a quest’ultima (49), di definire la portata di tale diritto nel caso di specie con riferimento alla giurisprudenza della Corte EDU riguardante l’articolo 6 della CEDU (sub 2).

87.      Prima di iniziare tale analisi, si impone una precisazione. Il giudice del rinvio ha già escluso, a mio parere correttamente, che il diritto al silenzio possa di per sé legittimare il rifiuto di un soggetto di presentarsi all’audizione disposta dall’autorità di vigilanza o il suo indebito ritardo a presentarsi a tale audizione, fatta salva la possibilità per tale giudice di valutare se e in che misura tale rifiuto possa essere motivato dal fatto che l’interessato non abbia ottenuto la garanzia che il suo diritto al silenzio sia rispettato. Per questo motivo la mia analisi verterà unicamente sull’ipotesi di fatto del rifiuto di rispondere alle domande della suddetta autorità.

1)      Il diritto al silenzio nella giurisprudenza della Corte

88.      Per quanto a mia conoscenza, la Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata sulla portata del diritto al silenzio unicamente nel settore del diritto della concorrenza.

89.      Il punto di partenza di qualsiasi esame di tale giurisprudenza è la sentenza di principio Orkem/Commissione (50).

90.      Nella causa che ha dato luogo a tale sentenza, la società ricorrente aveva sollevato un motivo fondato sull’argomento secondo il quale la richiesta di informazioni rivoltale dalla Commissione a seguito di un accertamento effettuato da quest’ultima in merito all’eventuale partecipazione di detta società ad accordi o pratiche concordate aveva l’effetto di obbligarla ad autoaccusarsi confessando di aver trasgredito le regole di concorrenza. In risposta a tale argomento, la Corte aveva innanzitutto rilevato, da una parte, l’inesistenza di un tale diritto nell’ordinamento giuridico comunitario e, dall’altra, l’esistenza di un «obbligo di attiva collaborazione» gravante sulle imprese nei cui confronti venisse disposta un’indagine diretta a determinare se esse avessero commesso un’infrazione delle norme sulla concorrenza. La Corte aveva poi considerato che talune limitazioni ai poteri di indagine della Commissione potevano tuttavia essere riconosciute in ragione della necessità di rispettare i diritti della difesa delle imprese, al fine di far sì che tali diritti non potessero essere irrimediabilmente compromessi nell’ambito di procedimenti di indagine previa suscettibili di essere determinanti per la costituzione della prova dell’illegittimità della condotta di tali imprese (51). Tali limitazioni sono così definite dalla Corte: «[B]enché (...) la Commissione possa obbligare un’impresa a fornirle tutte le informazioni necessarie per quanto attiene ai fatti di cui quest’ultima sia a conoscenza ed a comunicarle, se del caso, i relativi documenti di cui sia in possesso, pur potendo essi servire ad accertare che l’impresa stessa o un’altra impresa hanno tenuto un comportamento anticoncorrenziale, essa non può però (...) imporre all’impresa l’obbligo di fornire risposte attraverso le quali questa sarebbe indotta ad ammettere l’esistenza della trasgressione, che deve invece essere provata dalla Commissione» (52).

91.      Orbene, emerge dalle sentenze pronunciate in seguito, come lascia intendere il giudice del rinvio, che la definizione di tali limitazioni non è stata sostanzialmente alterata dalla Corte (53). Al contrario, essa ha considerato che la portata così conferita al diritto al silenzio è conforme agli articoli 47 e 48 della Carta in ragione del fatto che l’esigenza di garantire l’effettività del diritto della concorrenza impone di procedere ad una ponderazione del diritto al silenzio e dell’interesse pubblico a perseguire le infrazioni al diritto della concorrenza (54). Infatti, il riconoscimento di un diritto al silenzio esteso anche all’insieme delle domande puramente fattuali («diritto al silenzio assoluto») andrebbe, secondo tale giurisprudenza, oltre quanto è necessario per preservare i diritti della difesa delle imprese e costituirebbe un ostacolo ingiustificato allo svolgimento da parte della Commissione del compito affidatole di vigilare sul rispetto delle regole di concorrenza nel mercato interno. Sempre secondo tale giurisprudenza, nulla impedisce all’impresa che ha risposto a domande puramente fattuali di dimostrare, in un momento successivo nell’ambito del procedimento amministrativo o nel corso di un procedimento dinanzi al giudice dell’Unione, che i fatti esposti nelle sue risposte hanno un significato diverso da quello considerato dalla Commissione.

92.      In sintesi, secondo la Corte, il diritto al silenzio non si estende alle risposte ai quesiti vertenti sui fatti, a meno che essi non siano volti ad ottenere la confessione dell’impresa interessata riguardo all’infrazione su cui verte l’indagine della Commissione. In altri termini, come la Corte ha precisato nella sentenza Limburgse Vinyl Maatschappij e a./Commissione, la tutela garantita da tale diritto implica che si determini se una risposta dell’impresa destinataria di detti quesiti equivarrebbe effettivamente all’ammissione di un’infrazione (55).

93.      In caso contrario, il quesito è considerato «puramente fattuale» (56) o «di mero fatto» (57) e, pertanto, esso non rientra nell’ambito di applicazione del diritto al silenzio, anche se la risposta dell’impresa interessata può essere utilizzata per provare, nei suoi confronti, l’esistenza di una violazione delle regole di concorrenza.

94.      Nelle sue osservazioni scritte, il governo italiano sostiene, sostanzialmente, che tale giurisprudenza può applicarsi per analogia laddove si tratti di stabilire la portata del diritto al silenzio delle persone fisiche nell’ambito di procedimenti amministrativi diretti a rivelare l’esistenza di abusi di mercato. Più in particolare, l’esigenza di garantire l’efficacia delle disposizioni del diritto derivato che impongono di reprimere tali abusi, quali l’articolo 14 della direttiva 2003/6 e l’articolo 30 del regolamento n. 596/2014, renderebbe necessaria, secondo detto governo, la determinazione della portata del diritto al silenzio attraverso una ponderazione tra quest’ultimo e l’interesse pubblico a garantire l’integrità dei mercati finanziari e a rafforzare la fiducia degli investitori in tali mercati (58).

95.      Non posso condividere questa tesi.

96.      Elaborata con riferimento alle imprese oggetto di indagini relative a infrazioni al diritto della concorrenza, tale giurisprudenza riguarda chiaramente soltanto le persone giuridiche, come rileva del resto il giudice del rinvio. Le imprese e le associazioni di imprese sono infatti i soli soggetti del diritto della concorrenza dell’Unione, nonché i soli soggetti a cui la Commissione può infliggere ammende per violazione degli articoli 101 e 102 TFUE (59). Non mi pare invece che la questione relativa alla portata del diritto al silenzio delle persone fisiche non mi pare, invece, che sia stata finora esaminata dalla Corte.

2)      Il diritto al silenzio nella giurisprudenza della Corte EDU

97.      A differenza della Corte, la Corte EDU non si è mai pronunciata, salvo errore da parte mia, sulla possibilità per una persona giuridica di far valere il diritto al silenzio nell’ambito di un procedimento penale o amministrativo avviato nei suoi confronti ai fini dell’irrogazione di sanzioni di natura penale. In altri termini, la portata di tale diritto, così come definita nelle sue grandi linee nei paragrafi seguenti, è stata fino a questo momento riconosciuta solo nei confronti di persone fisiche (60).

98.      Ciò risulta molto chiaramente dal modo in cui la Corte EDU ha caratterizzato la ragion d’essere del diritto al silenzio e del diritto a non autoincriminarsi, quest’ultimo quale componente del primo. Tale ragion d’essere attiene infatti, secondo la Corte EDU, alla tutela delle persone oggetto di un’«accusa penale» contro una coercizione abusiva da parte delle autorità. Secondo tale giursdizione, siffatta tutela è volta ad evitare gli errori giudiziari e a garantire il risultato perseguito dall’articolo 6 della CEDU (61), e, più in particolare, a garantire che, in una causa penale, l’accusa cerchi di fondare le sue tesi senza ricorrere ad elementi di prova ottenuti dietro costrizione o pressione, in spregio alla volontà dell’accusato. Quest’ultimo elemento è rafforzato dalla precisazione secondo la quale il diritto di non autoincriminarsi «riguarda in primo luogo il rispetto della decisione di un accusato di rimanere in silenzio» (62).

99.      In altri termini, come la Commissione ha espresso correttamente nelle sue osservazioni scritte, il rispetto della persona e della sua libertà all’autodeterminazione, mediante la prevenzione di ogni costrizione esercitata dalle pubbliche autorità sulla formazione della sua volontà, è al centro delle finalità del diritto al silenzio come prospettato dalla Corte EDU. Pertanto, il diritto di cui trattasi è inteso da tale giudice come una componente della dignità umana, come giustamente osservato dal giudice Martens nella sua opinione dissenziente annessa alla sentenza Saunders c. Regno Unito, la quale precisa che la Corte EDU sembra essersi allineata al punto di vista secondo cui «il rispetto della dignità e della libertà dell’uomo esige che ogni sospettato sia totalmente libero di decidere sull’atteggiamento da adottare di fronte alle accuse formulate nei suoi confronti» (63) (64). Di conseguenza, la portata attribuita al diritto al silenzio da tale giurisprudenza non sembra potersi applicare così com’è alle persone giuridiche (65).

100. Con riguardo alla portata che la Corte EDU riconosce al diritto al silenzio delle persone fisiche, si deve innanzitutto ricordare che, secondo tale giudice, questo diritto attiene alla tutela delle persone oggetto di un’accusa penale contro una coercizione abusiva da parte delle autorità.

101. Ne consegue che, nell’ambito dell’esame inteso a determinare se l’articolo 6 della CEDU sia stato violato, la Corte EDU si domanda innanzitutto se sia stata effettivamente esercitata una costrizione al fine di ottenere elementi di prova e verifica poi se una tale costrizione debba essere qualificata come illecita. Nella sua giurisprudenza, tale giurisdizione ha individuato varie situazioni che fanno temere l’esistenza di una costrizione abusiva, la prima delle quali è «quella di un sospettato che, di fronte alla minaccia di subire sanzioni in caso di mancata testimonianza, o testimonia o è punito per aver rifiutato di farlo» (66). Al fine di stabilire se tale timore si traduca in realtà, la Corte EDU valuta la natura e il grado della costrizione, quali evidenziati dal tipo e dalla severità della sanzione connessa al rifiuto di rispondere (67), e l’esistenza di adeguate garanzie nel procedimento in questione (68).

102. La Corte EDU ha tuttavia ripetutamente affermato che non tutte le forme di costrizione diretta nei confronti di un accusato per indurlo a formulare dichiarazioni incriminanti contro la sua volontà non sono tali da comportare una violazione dell’articolo 6 della CEDU. Infatti, poiché il diritto al silenzio non è, secondo tale giurisdizione, di carattere assoluto (69), il grado di costrizione applicato dalle autorità è incompatibile con tale disposizione se ha l’effetto di privare il diritto al silenzio della sua stessa sostanza (70). L’aspetto decisivo nell’ambito di tale valutazione è, secondo la Corte EDU, l’utilizzazione che viene fatta nel corso di un procedimento penale degli elementi ottenuti sotto costrizione (71) sia nel contesto del procedimento stesso che al di fuori di tale contesto (72).

103. Quest’ultimo criterio permette in particolare di individuare il carattere eventualmente abusivo della coercizione ogniqualvolta le domande poste alla persona accusata vertono su fatti. Tale problematica è stata affrontata per la prima volta dalla Corte EDU nella causa Saunders c. Regno Unito. In risposta all’argomento sollevato dal governo britannico secondo il quale il diritto di non contribuire alla propria incriminazione non era applicabile nelle circostanze di tale causa in ragione del fatto che il ricorrente non era stato obbligato a fornire risposte di natura autoincriminatoria, la Corte EDU ha dichiarato preliminarmente che il diritto al silenzio «non può ragionevolmente limitarsi alle confessioni di atti illeciti o alle osservazioni che lo chiamano direttamente in causa», poiché essa ha precisato che «[u]na testimonianza ottenuta sotto costrizione, che sembra a prima vista priva di carattere incriminatorio – come osservazioni che discolpano il loro autore o semplici informazioni su questioni di fatto – può successivamente essere utilizzata in un procedimento penale a sostegno della tesi dell’accusa» (73) (74).

104. Al riguardo, delle precisazioni essenziali sono state apportate in seguito nella sentenza Corbet c. Francia. Infatti, dopo aver constatato l’esistenza di una coercizione nonché l’assenza di carattere autoincriminatorio nelle dichiarazioni degli accusati, la Corte EDU ha considerato, per quanto riguarda l’utilizzazione delle dichiarazioni vertenti su fatti ottenute sotto costrizione, che l’esistenza di una violazione dell’articolo 6 della CEDU presuppone che tali dichiarazioni abbiano «influito sul verdetto di colpevolezza o sulla pena» (75). Mi pare che, poiché il linguaggio proprio della materia penale in senso stretto si giustifica unicamente con la specificità del quadro fattuale di tale causa, tale principio debba essere considerato applicabile anche quando le dichiarazioni in questione abbiano influito sulla condanna o sulla sanzione inflitta in esito ad un procedimento amministrativo rientrante nella materia penale ai sensi dell’articolo 6 della CEDU.

105. La Corte EDU ha inoltre precisato che la portata del diritto al silenzio non può essere limitata ponderandola con un interesse di natura pubblica. Tale orientamento è stato adottato a partire dalla sentenza Sanders c. Regno Unito, nella quale la Corte EDU ha respinto la tesi del governo secondo la quale l’interesse pubblico essenziale a perseguire le frodi in materia societaria e a sanzionare i responsabili poteva giustificare il fatto che il diritto di non autoincriminarsi non fosse riconosciuto alla persona accusata (76).

106. Pertanto, la portata del diritto al silenzio delle persone fisiche nell’ambito di procedimenti amministrativi che possano sfociare nell’irrogazione di una sanzione a carattere penale, come quello di cui alla causa principale, ricomprende anche le risposte alle domande vertenti sui fatti che non implicano necessariamente una confessione di colpevolezza, a condizione che queste risposte abbiano influito sulla motivazione della decisione adottata o sulla sanzione inflitta in esito a tale procedimento. Ai fini della determinazione di tale portata, l’interesse pubblico al perseguimento dell’infrazione in questione è privo di qualunque rilevanza.

107. A questo proposito, è necessario prendere una posizione sull’argomento svolto dalla Commissione, sia nelle sue osservazioni scritte che nel corso dell’udienza, secondo il quale il principio derivante dalla sentenza pronunciata dalla Grande Sezione della Corte EDU nella causa Jussila c. Finlandia (in prosieguo: la «sentenza Jussila») (77) (78), e applicato dal Tribunale dell’Unione europea nella sentenza Schindler Holding Ltd e a./Commissione (79), autorizzerebbe un’applicazione «temperata» del diritto al silenzio nei settori come quello della repressione degli abusi di mercato, di modo che tale diritto presenterebbe una portata altrettanto ridotta di quello riconosciuto alle persone giuridiche dalla giurisprudenza della Corte in materia di comportamenti anticoncorrenziali.

108. Occorre ricordare che, in tale causa, la Corte EDU era investita della questione relativa alla compatibilità con l’articolo 6 della CEDU dell’omissione di un’udienza in un procedimento di appello riguardante una maggiorazione d’imposta decisa dal fisco finlandese. In tale occasione, la Corte EDU ha consolidato il principio secondo il quale, tra tutti i procedimenti che sfociano nell’irrogazione di sanzioni qualificabili come penali ai sensi dell’articolo 6 della CEDU, dev’essere operata una distinzione tra i procedimenti e le sanzioni facenti parte del «nucleo centrale del diritto penale», che comportano un «carattere infamante» per coloro che ne sono oggetto, e quelli che si situano all’esterno di tale nucleo. Infatti, dopo aver ricordato che l’interpretazione autonoma della nozione di «accusa penale» adottata dalla Corte EDU aveva comportato un’estensione progressiva dell’applicazione del profilo penale dell’articolo 6 della CEDU a settori non rientranti formalmente nelle categorie tradizionali del diritto penale, la Corte EDU ha precisato che, per quanto riguarda le categorie che non fanno parte del nucleo centrale del diritto penale, le garanzie connesse al profilo penale dell’articolo 6 della CEDU «non devono necessariamente applicarsi in tutto il loro rigore» (80).

109. Dato che il diritto al silenzio fa parte di tali garanzie, potrebbe in effetti sostenersi che l’ampiezza della portata riconosciuta dalla Corte EDU a tale diritto dipende dall’appartenenza al nucleo centrale del diritto penale del settore in cui l’articolo 6 della CEDU viene applicato, in modo che, in caso negativo, tale portata debba essere considerata più ridotta e corrispondere così a quella riconosciutagli dalla giurisprudenza della Corte in materia di illeciti anticoncorrenziali.

110. A mio modo di vedere, tale argomento non può essere accolto nella presente causa, in quanto la Corte EDU ha già considerato, nella sentenza Grande Stevens e altri c. Italia, che le sanzioni adottate dal legislatore italiano al fine di recepire la direttiva 2003/6 rientravano effettivamente nel nucleo centrale del diritto penale, dato che il loro carattere infamante derivava dalla loro idoneità a recare pregiudizio all’onorabilità professionale e al credito delle persone interessate (81).

111. In ogni caso, nutro dubbi quanto alla possibilità stessa di far valere il principio desumibile dalla sentenza Jussila per giustificare un’interpretazione più restrittiva della portata del diritto al silenzio.

112. Innanzitutto, si deve sottolineare che, benché il Tribunale abbia effettivamente applicato tale principio in alcune occasioni (82), la Corte non se ne è mai servita, pur essendo stata invitata a farlo per tre volte dai suoi avvocati generali (83).

113. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che l’applicazione di questo principio è doppiamente delimitata. In primo luogo, se è vero che il punto 43 di tale sentenza fa riferimento in maniera generica alle «garanzie offerte dal profilo penale dell’articolo 6», si deve altresì rilevare che la giurisprudenza successiva della Corte EDU ha chiaramente lasciato intendere che l’applicazione meno rigorosa del profilo penale dell’articolo 6 della CEDU riguarda unicamente talune delle suddette garanzie. A titolo illustrativo, tale giurisdizione ha considerato, nella sentenza Kammerer c. Austria, che l’orientamento adottato nella sentenza Jussila «non era limitato alla questione dell’omissione di un’udienza ma poteva essere esteso ad altre garanzie procedurali rientranti nell’articolo 6, come, nella presente causa, la presenza dell’accusata all’udienza» (84) (85). Alla luce di tale considerazione, mi sembra dubbio che possa essere ammessa un’applicazione meno rigorosa di una garanzia come il diritto al silenzio, che si colloca, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, «al centro della nozione di processo equo». In secondo luogo, condivido pienamente l’interpretazione secondo la quale il principio derivante dalla sentenza Jussila non implica una soppressione o una limitazione della portata della garanzia in esame, ma semplicemente la sostituzione di quest’ultima con modalità alternative di tutela del diritto al processo equo (86) (87). Tale sentenza ha infatti concluso che l’articolo 6 della CEDU non era stato violato in esito ad una valutazione contestuale vertente sulla natura delle problematiche giuridiche sottoposte al giudice e intesa a determinare se tale natura autorizzi eccezionalmente le autorità nazionali a respingere la domanda relativa alla tenuta di un’udienza.

114. Ne consegue che il principio introdotto dalla sentenza Jussila non potrebbe giustificare il fatto che le risposte alle domande dell’autorità di vigilanza vertenti su fatti che servono a dimostrare l’esistenza di un illecito siano ricomprese nel diritto al silenzio, se non nel caso in cui delle modalità alternative di tutela del diritto al processo equo non siano applicabili, il che dovrebbe essere verificato attraverso una valutazione di natura contestuale.

115. A mio parere, questa seconda considerazione permette altresì di escludere la rilevanza della sentenza A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia (in prosieguo: la «sentenza Menarini») (88), anch’essa menzionata dalla Commissione in tale contesto in ragione dell’analogo principio ivi espresso e secondo il quale «[a]nche se [le differenze tra un procedimento amministrativo e un procedimento penale in senso stretto] non possono esonerare gli Stati contraenti dal loro obbligo di rispettare tutte le garanzie offerte dal profilo penale dell’articolo 6, esse possono tuttavia influire sulle modalità della loro applicazione» (89). In tale sentenza, la risposta negativa data dalla Corte EDU all’interrogativo riguardante la violazione del diritto di chiunque a vedere la propria causa trattata in maniera equa da un organo dotato di piena giurisdizione in occasione del sindacato esercitato dal giudice amministrativo italiano sulle decisioni dell’autorità garante della concorrenza nazionale, era in sostanza motivata dal fatto che, anche se la legge e la giurisprudenza italiana inducevano il giudice amministrativo a limitarsi ad effettuare un mero sindacato di legittimità, il Consiglio di Stato aveva operato, nelle circostanze del caso di specie, un sindacato di piena giurisdizione (90).

116. Di conseguenza, sono del parere che né il principio derivante dalla sentenza Jussila né quello della sentenza Menarini possano essere addotti per suffragare l’argomento secondo il quale il diritto delle persone fisiche al silenzio nell’ambito dei procedimenti amministrativi che possono sfociare nell’irrogazione di una sanzione di natura penale deve avere una portata altrettanto ridotta di quella che gli viene riconosciuta quando ne beneficia una persona giuridica dalla giurisprudenza della Corte in materia di comportamenti anticoncorrenziali.

117. In conclusione, ritengo che, tenuto conto della clausola di omogeneità di cui all’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, la portata da riconoscere al diritto al silenzio delle persone fisiche, quale si desume dagli articoli 47 e 48 di quest’ultima, nell’ambito dei procedimenti amministrativi che possono sfociare nell’irrogazione di una sanzione di natura penale, debba corrispondere a quella definita dalla giurisprudenza pertinente della Corte EDU, e, in particolare, laddove si tratti di risposte a domande vertenti su fatti, dalla sentenza Corbet e altri c. Francia (91).

V.      Conclusione

118. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere nei seguenti termini alle due questioni pregiudiziali poste dalla Corte costituzionale (Italia), così come riformulate:

Le formulazioni dell’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) e dell’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione permettono di interpretare tali articoli in maniera conforme al diritto al silenzio, quale si desume dagli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dato che tali articoli debbono essere intesi nel senso che non impongono agli Stati membri di sanzionare coloro che rifiutano di rispondere a domande dell’autorità di vigilanza da cui possa emergere la propria responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di natura penale. La portata da riconoscere al diritto al silenzio delle persone fisiche nell’ambito di procedimenti amministrativi che possano sfociare nell’irrogazione di una sanzione di natura penale è, in forza della clausola di omogeneità contenuta nell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali, quella che risulta dalla giurisprudenza in materia della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale tale diritto ricomprende, in particolare, le risposte alle domande vertenti su fatti a condizione che esse influiscano sulla condanna o sulla sanzione inflitta in esito ai suddetti procedimenti.


1      Lingua originale: il francese.


2      GU 2003, L 96, pag. 16.


3      GU 2014, L 173, pag. 1.


4      V., a questo proposito, sentenza del 20 marzo 2018, Garlsson Real Estate e a. (C‑537/16, EU:C:2018:193, punti da 42 a 63).


5      Sentenza del 20 marzo 2018 (C‑596/16 e C‑597/16, EU:C:2018:192).


6      V., ex multis, sentenza del 12 dicembre 2019, Slovenské elektrárne (C‑376/18, EU:C:2019:1068, punto 24 e giurisprudenza citata).


7      V. punto 9.2 dell’ordinanza di rinvio.


8      V. sentenza del 14 maggio 2020, T-Systems Magyarország (C‑263/19, EU:C:2020:373, punto 45 e giurisprudenza citata).


9      V. sentenza del 22 febbraio 2018, Kubota (UK) e EP Barrus (C‑545/16, EU:C:2018:101, punto 18 e giurisprudenza citata).


10      Ho sostituito l’espressione «natura punitiva», utilizzata nella questione pregiudiziale, con l’espressione «natura penale» in quanto dall’ordinanza di rinvio risulta che la prima è considerata come conseguenza del fatto che ricorrono i criteri derivanti dalla sentenza del 5 giugno 2012, Bonda (C‑489/10, EU:C:2012:319).


11      GU 2007, C 303, pag. 17.


12      V. Corte EDU, 25 febbraio 1993, Funke c. Francia (CE:ECHR:1993:0225JUD001082884, § 44); e Corte EDU, 28 ottobre 1994, Murray c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:0208JUD001873191, § 45).


13      Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e a. c. Paesi Bassi (CE:EHCR:1976:0608JUD000510071, § 82).


14      Sentenza del 5 giugno 2012 (C‑489/10, EU:C:2012:319, punti da 37 a 43). V., altresì, sentenza del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 35).


15      Per un’esposizione esauriente di tali elementi, v. conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa Bonda (C‑489/10, EU:C:2011:845, paragrafi da 47 a 50), e conclusioni dell’avvocato generale Campos Sánchez-Bordona nella causa Menci (C‑524/15, EU:C:2017:667, paragrafi da 44 a 48).


16      Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e a. c. Paesi Bassi (CE:EHCR:1976:0608JUD000510071, § 82).


17      Corte EDU, 2 settembre 1998, Lauko c. Slovacchia (CE:ECHR:1998:0902JUD002613895, § 58).


18      Corte EDU, 25 giugno 2009, Maresti c. Croazia (CE:ECHR:2009:0625JUD005575907, § 59).


19      Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, § 38).


20      Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 90).


21      Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 98).


22      Corte EDU, 8 giugno 1976, Engel e a. c. Paesi Bassi (CE:EHCR:1976:0608JUD000510071, § 82).


23      Corte EDU, 31 maggio 2011, Zugic c. Croazia (CE:ECHR:2011:0531JUD000369908, § 68).


24      Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, §§ 30 e 31).


25      V., in particolare, Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 101), nella quale la Corte EDU conclude così la valutazione relativa all’applicabilità dell’articolo 6 della CEDU: «La Corte ritiene che le ammende inflitte ai ricorrenti abbiano natura penale, di modo che l’articolo 6, § 1, trova applicazione, nella fattispecie, sotto il suo profilo penale» (il corsivo è mio).


26      V. Corte EDU, 3 maggio 2001, J.B. c. Svizzera (CE:EHCR:2001:0503JUD003182796) (procedimento di indagine per evasione fiscale); Corte EDU, 4 ottobre 2005, Shannon c. Regno Unito (CE:EHCR:2005:1004JUD000656303) (procedimento per falso in scrittura contabile e intesa fraudolenta), nonché Corte EDU, 5 aprile 2012, Chambaz c Svizzera (CE:EHCR:2012:0405JUD001166304) (procedimento d’indagine per evasione fiscale).


27      Sentenze del 23 dicembre 2009, Spector Photo Group e Van Raemdonck (C‑45/08, EU:C:2009:806, punto 47); del 7 luglio 2011, IMC Securities (C‑445/09, EU:C:2011:459, punto 27); del 28 giugno 2012, Geltl (C‑19/11, EU:C:2012:397, punto 33), nonché dell’11 marzo 2015, Lafonta (C‑628/13, EU:C:2015:162, punto 21).


28      V. considerando 38 della direttiva 2003/6.


29      V. considerando 24 del regolamento n. 596/2014.


30      V. considerando 4 del regolamento n. 596/2914.


31      Il corsivo è mio.


32      Il corsivo è mio.


33      Alcune piccole precisazioni sulla definizione di tale limite discendono dall’ultima frase del considerando 38 della direttiva 2003/6, secondo il quale: «[l]e sanzioni dovrebbero essere sufficientemente dissuasive, proporzionate alla gravità della violazione e agli utili realizzati e dovrebbero essere applicate coerentemente».


34      Per contro, la qualificazione penale di tali sanzioni può derivare dai criteri enunciati dalla legge nazionale per valutare il loro carattere efficace, proporzionato e dissuasivo. V., al riguardo, sentenza del 23 dicembre 2009, Spector Photo Group e Van Raemdonck (C‑45/08, EU:C:2009:806, punto 71), nella quale la Corte precisa che: «l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva 2003/6 non stabilisce alcun criterio per la valutazione del carattere efficace, proporzionato e dissuasivo di una sanzione. La definizione di tali criteri rientra nella legislazione nazionale».


35      Conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa Spector Photo Group e Van Raemdonck (C‑45/08, EU:C:2009:534).


36      Conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa Spector Photo Group e Van Raemdonck (C‑45/08, EU:C:2009:534, paragrafo 77).


37      V., in questo senso, conclusioni dell’avvocato generale Campos Sánchez-Bordona nella causa Garlsson Real Estate e a. (C‑537/16, EU:C:2017:668, paragrafo 46). Così come l’avvocato generale, mi riferisco in particolare alle sanzioni amministrative seguenti: la revoca o la sospensione dell’autorizzazione di una società di investimento; l’interdizione temporanea o permanente dall’esercizio di funzioni dirigenziali in società di investimento; l’interdizione temporanea da attività di negoziazione per conto proprio; sanzioni amministrative pecuniarie massime di valore pari ad almeno tre volte l’importo dei guadagni ottenuti o delle perdite evitate grazie alla violazione, quando possono essere determinati; sanzioni amministrative di importo fino a EUR 5 000 000, nel caso di una persona fisica, o di EUR 15 000 000, nel caso di una persona giuridica. Si deve osservare, comunque, che, oltre a tali sanzioni, l’elenco di cui all’articolo 30, paragrafo 2, del regolamento n. 596/2014 comprende anche semplici misure amministrative (l’ingiunzione diretta al soggetto responsabile della violazione di porre termine alla condotta in questione o di non reiterarla nonché l’avvertimento pubblico che indica il responsabile della violazione e la natura della stessa) nonché una sanzione la cui natura puramente amministrativa non mi sembra contestabile (la restituzione dei guadagni realizzati o delle perdite evitate grazie alla violazione, purché possano essere determinati).


38      Si tratta della gravità e della durata della violazione, nonché di una serie di altre circostanze legate all’autore della violazione, e cioè il grado di responsabilità di quest’ultimo, la sua capacità finanziaria, l’ammontare dei profitti realizzati o delle perdite evitate nella misura in cui possano essere determinati, il livello di cooperazione con l’autorità di vigilanza, le precedenti violazioni da lui commesse e le misure da lui adottate al fine di evitare il ripetersi della violazione.


39      Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) [COM (2001) 281 def. –2001/0118 (COD)] (GU 2001, C 240E, pag. 265).


40      Proposta di regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio relativo all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) [COM (2011) 651 def. - 2011/0295 (COD)].


41      Tale considerando è così formulato: «La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti segnatamente dalla [Carta]».


42      Ai sensi di tale considerando: «Il presente regolamento rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti dalla [Carta]. Il presente regolamento dovrebbe essere quindi interpretato e applicato conformemente a tali diritti e principi (...)».


43      V., ex multis, sentenza del 19 novembre 2009, Sturgeon e a. (C‑402/07 e C‑432/07, EU:C:2009:716, punto 48 e giurisprudenza citata).


44      Al riguardo, occorre altresì attirare l’attenzione sulla proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) [COM (2001) 281 def. – 2001/0118 (COD)] (GU 2001, C 240E, pag. 265), articolo 14, nella quale, in un’epoca in cui la Carta non era stata ancora adottata, la Commissione precisa che «[n]el fissare le sanzioni e nel predisporre le procedure sanzionatorie, gli Stati membri devono attenersi ai principi sanciti dalla [CEDU]», senza menzionare in alcun modo dei diritti sanciti sul piano nazionale.


45      Sentenza del 26 febbraio 2013 (C‑399/11, EU:C:2013:107, punti da 56 a 64).


46      L’articolo 53 della Carta dispone: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa e lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare dalla [CEDU], e dalle costituzioni degli Stati membri» (il corsivo è mio).


47      V., altresì, sentenze del 26 febbraio 2013, Åkerberg Fransson (C‑617/10, EU:C:2013:105, punto 29); dell’11 settembre 2014, A (C‑112/13, EU:C:2014:2195, punto 44); del 29 luglio 2019, Pelham e a. (C‑476/17, EU:C:2019:624, punto 80), nonché del 29 luglio 2019, Spiegel Online (C‑516/17, EU:C:2019:625, punto 19).


48      Il giudice del rinvio e talune parti interessate ricordano correttamente che la Corte ha già risposto in senso affermativo alla questione relativa alla natura penale ai sensi della giurisprudenza Bonda del procedimento a carico del ricorrente nella causa principale e la sanzione in cui esso incorre per violazione dell’articolo 187 bis del testo unico. V. sentenza del 20 marzo 2018, Di Puma e Zecca (C‑596/16 e C‑597/16, EU:C:2018:192, punto 38).


49      V. paragrafo 50 delle presenti conclusioni.


50      Sentenza del 18 ottobre 1989 (374/87, EU:C:1989:387).


51      Sentenza del 18 ottobre 1989, Orkem/Commissione (374/87, EU:C:1989:387, punti da 27 a 33).


52      Sentenza del 18 ottobre 1989, Orkem/Commissione (374/87, EU:C:1989:387, punti 34 e 35).


53      V., in particolare, sentenze del 20 febbraio 2001, Mannesmannröhren-Werke/Commissione (T‑112/98, EU:T:2001:61, punto 65); del 15 ottobre 2002, Limburgse Vinyl Maatschappij e a./Commissione (C‑238/99 P, C‑244/99 P, C‑245/99 P, C‑247/99 P, da C‑250/99 P a C‑252/99 P e C‑254/99 P, EU:C:2002:582, punto 273); del 29 giugno 2006, Commissione/SGL Carbon (C‑301/04 P, EU:C:2006:432, punto 41); del 24 settembre 2009, Erste Group Bank e a./Commissione (C‑125/07 P, C‑133/07 P e C‑137/07 P, EU:C:2009:576, punto 271), nonché del 25 gennaio 2007, Dalmine/Commissione (C‑407/04 P, EU:C:2007:53, punto 34).


54      V., in particolare, sentenze del 20 febbraio 2001, Mannesmannröhren-Werke/Commissione (T‑112/98, EU:T:2001:61, punti 66 e 78); del 29 giugno 2006, Commissione/SGL Carbon (C‑301/04 P, EU:C:2006:432, punto 49); del 28 aprile 2010, Amann & Söhne e Cousin Filterie/Commissione (T‑446/05, EU:T:2010:165, punti 326 e 328), nonché del 14 marzo 2014, Buzzi Unicem/Commissione (T‑297/11, EU:T:2014:122, punti 60 e 62).


55      Sentenza del 15 ottobre 2002 (C‑238/99 P, C‑244/99 P, C‑245/99 P, C‑247/99 P, da C‑250/99 P a C‑252/99 P e C‑254/99 P, EU:C:2002:582, punto 273). V., al riguardo, conclusioni dell’avvocato generale Wahl nella causa Heidelberg Cement/Commissione (C‑247/14 P, EU:C:2015:694, paragrafo 154).


56      Sentenza del 14 dicembre 2006, Raiffeisen Zentralbank Österreich e a./Commissione (da T‑259/02 a T‑264/02 e T‑271/02, EU:T:2006:396, punto 539).


57      Sentenza del 20 febbraio 2001, Mannesmannröhren-Werke/Commissione (T‑112/98, EU:T:2001:61, punto 77).


58      V. considerando 2 della direttiva 2003/6 e del regolamento n. 596/2014.


59      V. conclusioni dell’avvocato generale Geelhoed nella causa Commissione/SGL Carbon (C‑301/04 P, EU:C:2006:53, paragrafo 63).


60      V., in questo senso, Wils W., «Self-Incrimination in EC Antitrust Enforcement: A Legal and Economic Analysis», World Competition: Law and Economic Revew, vol. 26, n. 4, 2003, pag. 577; e Oliver P., «Companies and their Fundamental Rights: a Comparative Perspective», International and Comparative Law Quarterly, Wolters Kluwer, vol. 64, no 3, 2015, pag. 686. Come hanno sottolineato talune delle parti interessate nella presente causa, è del resto la stessa interpretazione data dal legislatore dell’Unione nella direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali (GU 2016, L 65, pag. 1), il cui articolo 7 tutela il «diritto al silenzio» e il «diritto di non autoincriminarsi». V., in particolare, il suo considerando 13, ai sensi del quale: «[l]a presente direttiva prende atto di diversi livelli ed esigenze di tutela di alcuni aspetti della presunzione d’innocenza con riferimento alle persone fisiche e giuridiche. Per quanto riguarda le persone fisiche, tale protezione rispecchia la consolidata giurisprudenza della Corte [EDU]. La [Corte] ha tuttavia riconosciuto che i diritti derivanti dalla presunzione di innocenza non sorgono in capo alle persone giuridiche allo stesso modo rispetto a quanto accade per le persone fisiche».


61      Corte EDU, 8 febbraio 1996, Murray c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:0208JUD001873191, § 45).


62      Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:1217JUD001918791, § 69).


63      Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:1217JUD001918791), punti 9 e 10 dell’opinione dissenziente del giudice Martens, alla quale si è associato il giudice Kuris.


64      Il corsivo è mio.


65      D’altro canto, può dedursi dalla sua giurisprudenza relativa ad altri diritti fondamentali che la Corte EDU opera talora una distinzione tra il livello di tutela concesso alle persone fisiche, da un lato, e alle persone giuridiche, dall’altro. L’esempio classico è la sentenza Niemitz c. Germania (Corte EDU, 16 dicembre 1992, CE:ECHR:1992:1216JUD001371088), nella quale la Corte EDU ha dichiarato che una perquisizione effettuata dalla polizia presso lo studio di un avvocato indipendente in cui quest’ultimo viveva costituiva una violazione del suo «domicilio». Tuttavia, tale Corte ha affermato che il diritto di ingerenza degli Stati conformemente all’articolo 8, paragrafo 2, della CEDU potrebbe spingersi oltre «nel caso di locali o attività aziendali o commerciali rispetto ad altri casi» (§ 31). Occorre rilevare che, nella sentenza del 18 giugno 2015, Deutsche Bahn e a./Commissione (C‑583/13 P, EU:C:2015:404), la Corte si è basata su questa giurisprudenza per confermare la valutazione del Tribunale secondo la quale l’assenza di autorizzazione giudiziaria preventiva non era idonea a comportare, di per sé, l’illegittimità di una misura di accertamento adottata dalla Commissione nell’ambito dei suoi poteri di indagine in materia di concorrenza (punti da 20 a 25).


66      Corte EDU, 13 settembre 2016, Ibrahim e altri c. Regno Unito (CE:ECHR:2016:0913JUD005054108, § 267).


67      Corte EDU, 21 dicembre 2000, Heaney e McGuinness c. Irlanda (CE:ECHR:2000:1221JUD003472097, § 53) (pena di sei mesi di reclusione).


68      Corte EDU, 29 giugno 2007, O’Halloran e Francis c. Regno Unito (CE:ECHR:2007:0629JUD001580902, § 59).


69      V., in particolare, Corte EDU, 21 dicembre 2000, Heaney e McGuinness c. Irlanda (CE:ECHR:2000:1221JUD003472097, § 47).


70      Corte EDU, 8 febbraio 1996, Murray c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:0208JUD001873191, § 49).


71      Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:1217JUD001918791, § 71).


72      Corte EDU, 8 aprile 2004, Weh c. Austria (CE:ECHR:2004:0408JUD003854497, §§ da 42 a 44).


73      Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:1217JUD001918791, § 71).


74      Il corsivo è mio.


75      Corte EDU, 19 marzo 2015, Corbet e altri c. Francia (CE:ECHR:2015:0319JUD000749411, § 34).


76      Corte EDU, 17 dicembre 1996, Saunders c. Regno Unito (CE:ECHR:1996:1217JUD001918791, § 74). Vero è che tale ponderazione sembra essere confermata dalla Corte EDU nella sentenza dell’11 luglio 2006, Jalloh c. Germania (CE:ECHR:2006:0711JUD005481000, § 117), ma è altrettanto vero che la sentenza 13 settembre 2016, Ibrahim e altri c. Regno Unito (CE:ECHR:2016:0913JUD005054108, § 252) limita le circostanze che autorizzano la presa in considerazione dell’interesse pubblico a quelle connesse alla repressione delle infrazioni che rientrino in ambiti particolarmente sensibili, come il terrorismo e altri crimini gravi.


77      Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301).


78      Alla lettura delle osservazioni scritte della Commissione, tale argomento sembra essere addotto nell’ambito dell’interpretazione proposta secondo la quale la giurisprudenza della Corte EDU sul diritto al silenzio si applica alle persone fisiche, mentre quella della Corte si applica alle sole persone giuridiche. Dal canto mio, ritengo che tale argomento meriti di essere esaminato in maniera autonoma.


79      Sentenza del 13 luglio 2011 (T‑138/07, EU:T:2011:362, punto 52).


80      Corte EDU, 23 novembre 2006, Jussila c. Finlandia (CE:ECHR:2006:1123JUD007305301, § 43).


81      Corte EDU, 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia (CE:ECHR:2014:0304JUD001864010, § 122).


82      Oltre alla sentenza citata al paragrafo 107 delle presenti conclusioni, sentenze del 13 settembre 2013, Total/Commissione (T‑548/08, non pubblicata, EU:T:2013:434, punti da 183 a 185), e dell’11 luglio 2014, Sasol e a./Commissione (T‑541/08, EU:T:2014:628, punti da 206 a 208).


83      Conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa KME Germany e a./Commissione (C‑272/09 P, EU:C:2011:63, paragrafo 67); dell’avvocato generale Mengozzi nella causa Elf Aquitaine/Commissione (C‑521/09 P, EU:C:2011:89, paragrafi 30 e 31). nonché conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa Schindler Holding e a./Commissione (C‑501/11 P, EU:C:2013:248, paragrafi da 25 a 27).


84      Corte EDU, 12 maggio 2010, Kammerer c. Austria (CE:ECHR:2010:0512JUD003243506, § 27) (traduzione libera). V., altresì, in questo senso, Corte EDU, 10 luglio 2014, Marčan c. Croazia (CE:ECHR:2014:0710JUD004082012, § 35).


85      Il corsivo è mio.


86      V. Smits C. e Waelbroeck, D., «When the Judge Prosecutes, Power Prevails Over Law», in Govaere I., Quick R. e Bronckers M. (ed.), Trade and Competition Law in the EU and Beyond, Edward Elgar Publishing, 2011, pag. 452.


87      Ciò mi sembra sintetizzato dall’ultima frase del punto 42 della sentenza, così formulata: «Occorre qui [...] considerare innanzitutto il principio di equità sancito dall’articolo 6, la cui importanza è fondamentale [...]»


88      Corte EDU, 27 settembre 2011, A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia (CE:ECHR:2011:0927JUD004350908).


89      Corte EDU, 27 settembre 2011, A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia (CE:ECHR:2011:0927JUD004350908, § 62).


90      Corte EDU, 27 settembre 2011, A. Menarini Diagnostics s.r.l. c. Italia (CE:ECHR:2011:0927JUD004350908), opinione concordante del giudice Sajó. V., al riguardo, Muguet-Poullennec G. e Domenicucci D.P., «Amende infligée par une autorité de concurrence et droit à une protection juridictionnelle effective: les enseignements de l’arrêt Menarini de la CEDH», Revue Lamy de la concurrence, n. 30, 1° gennaio 2012.


91      Corte EDU, 19 marzo 2015, Corbet e altri c. Francia (CE:ECHR:2015:0319JUD000749411).