Language of document : ECLI:EU:C:2020:796

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

GIOVANNI PITRUZZELLA

presentate il 6 ottobre 2020(1)

Causa C344/19

D.J.

contro

Radiotelevizija Slovenija

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Vrhovno sodišče Republike Slovenije (Corte suprema, Slovenia)]

«Rinvio pregiudiziale – Tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori – Organizzazione dell’orario di lavoro – Nozioni di orario di lavoro e riposo – Servizio di reperibilità – Lavoro specifico relativo alla manutenzione di trasmettitori televisivi situati in alta montagna»






1.        A quali condizioni il tempo che un lavoratore trascorre in reperibilità può essere considerato come orario di lavoro?

2.        La nozione di orario di lavoro contenuta nella direttiva 2003/88/CE (2) può spingersi fino a ricomprendere situazioni nelle quali il lavoratore, pur non «al lavoro», si trovi in un situazione tale da non consentirgli un effettivo riposo? E quali sono le caratteristiche di un «riposo effettivo» in linea con le finalità di protezione della salute e della sicurezza del lavoratore della medesima direttiva?

3.        Si può immaginare che esistano «zone grigie» in cui il lavoratore non è in orario di lavoro ma neppure in periodo di riposo?

4.        Sono questi i quesiti sullo sfondo della causa odierna che, esaminata in maniera coordinata insieme con la C‑580/19, offre l’occasione alla Corte per confrontarsi con il tema della qualificazione giuridica dei periodi di guardia e di reperibilità alla luce della direttiva 2003/88.

5.        La Corte si è già più volte pronunciata sul tema ma la causa odierna, in ragione delle particolarità del caso concreto (peculiare collocazione geografica del luogo di lavoro), richiede un riesame dei principi fin qui affermati per valutarne possibili evoluzioni.

6.        Più nel dettaglio, si tratta di capire se i periodi di reperibilità continuativa, con possibilità per il lavoratore di essere contattato e, eventualmente, di dover rientrare sul luogo di lavoro nel giro di un’ora, debbano essere considerati come orario di lavoro oppure come periodo di riposo ai sensi del suddetto articolo 2, della direttiva 2003/88.

7.        Ciò avuto riguardo, in particolare, alla circostanza per cui il ricorrente, tecnico specialista di un’emittente televisiva, si tratteneva in prossimità del luogo di lavoro durante tali periodi di reperibilità a causa delle difficoltà di accesso e della lontananza dello stesso dalla propria abitazione.

I.      Quadro giuridico

A.      Diritto dell’Unione

8.        Il considerando 5 della direttiva 2003/88 afferma che:

«Tutti i lavoratori dovrebbero avere periodi di riposo adeguati. Il concetto di “riposo” deve essere espresso in unità di tempo, vale a dire in giorni, ore e frazioni d’ora. I lavoratori della Comunità devono beneficiare di periodi minimi di riposo giornaliero, settimanale e annuale e di adeguati periodi di pausa. È anche necessario, in tale contesto, prevedere un limite massimo di ore di lavoro settimanali».

9.        L’articolo 2 della direttiva 2003/88 prevede che:

«Ai sensi della presente direttiva si intende per:

1)      “orario di lavoro”: qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali;

2)      “periodo di riposo”: qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro;

(…)

9)      “riposo adeguato”: il fatto che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari, la cui durata è espressa in unità di tempo, e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione del lavoro, causino lesioni a sé stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine».

B.      Diritto sloveno

10.      L’articolo 142 della Zakon o delovnih razmerjih (legge sui rapporti di lavoro, ZDR-1, JO RS n. 21/2013 e seguenti) prevede che:

«(1)      L’orario di lavoro comprende l’orario di lavoro effettivo e il periodo di riposo ai sensi dell’articolo 154 della presente legge nonché i periodi di assenza giustificata dal lavoro in conformità alla legge e a un contratto di lavoro collettivo o a un atto di portata generale.

(2)      Costituisce orario di lavoro effettivo qualsiasi periodo durante il quale il dipendente lavora, dovendosi intendere come tale il periodo in cui il dipendente si tiene a disposizione del datore di lavoro e adempie ai propri obblighi professionali ai sensi del contratto di lavoro.

(3)      L’orario di lavoro effettivo costituisce la base per il calcolo della produttività del lavoro».

11.      L’articolo 46 della Kolektivna pogodba za javni sektor (contratto collettivo per il settore pubblico, KPJS, JO RS n. 57/2008 e seguenti) stabilisce che:

«Ai dipendenti pubblici spetta un’integrazione salariale per i periodi di reperibilità continuativa nella misura del 20% della tariffa oraria dello stipendio di base. I periodi di reperibilità continuativa non sono considerati come orario di lavoro per i dipendenti pubblici».

12.      L’articolo 6 del regolamento interno di Radiotelevizija Slovenia, del 22 dicembre 2010 (in prosieguo: il «regolamento interno»), sull’orario di lavoro, prevede che:

«Nell’ambito delle unità o dei servizi è consentito introdurre dei servizi di guardia o un’altra forma di reperibilità qualora il lavoro debba essere svolto senza interruzioni o in un determinato giorno oppure entro un determinato termine per garantire una tutela contro le calamità naturali o incidenti di altro tipo o altre circostanze eccezionali indipendenti dalla volontà del datore di lavoro e che quest’ultimo non può impedire».

13.      L’articolo 8 del suddetto regolamento interno dispone che:

«Il periodo di guardia è il periodo durante il quale il dipendente non può disporre liberamente del proprio tempo e deve essere a disposizione sul suo posto di lavoro o in altro luogo di lavoro stabilito dalla dirigenza in modo tale per cui detto lavoratore possa avviare il suo lavoro abituale e/o talune attività e compiti connessi al suo lavoro. Si considera come periodo di guardia anche il tempo impiegato dal dipendente per recarsi sul luogo di lavoro in qualità di passeggero».

14.      Ai sensi dell’articolo 9 del medesimo regolamento interno:

«L’intero periodo di guardia è considerato come orario di lavoro».

15.      Infine, l’articolo 16 del regolamento interno stabilisce che:

«Per il dipendente, il periodo di reperibilità continuativa può essere determinato sulla base di un processo di produzione e di ripartizione annuale del lavoro a livello delle UO (unità organizzative) o delle UPP (unità di produzione programmatiche). La reperibilità continuativa comporta che il dipendente possa essere contattato al di fuori del suo orario di lavoro, per telefono o con l’ausilio di altri strumenti, affinché, in caso di necessità, esso possa rendersi sul luogo di lavoro. Il periodo di tempo massimo accettabile per raggiungere il luogo di lavoro è di un’ora. La reperibilità continuativa deve essere imposta per iscritto in accordo con il dipendente con almeno due giorni di preavviso. La richiesta scritta (formulario 5) per il periodo di reperibilità continuativa può essere effettuata su base mensile, settimanale o giornaliera.

Per i dipendenti, i periodi di reperibilità continuativa non vengono considerati come orario di lavoro».

II.    Fatti, procedimento principale e questioni pregiudiziali

16.      Il ricorrente ha svolto attività di lavoro dipendente come tecnico specialista presso i centri di trasmissione di Pohorje (Slovenia) e, in seguito, di Krvavec (Slovenia) precisamente dal 1° agosto 2008 al 31 gennaio 2015.

17.      La natura del lavoro, la distanza dei suddetti centri di trasmissione dal domicilio del ricorrente – tale per cui risultava impossibile fare rientro da uno dei suddetti centri alla propria residenza abituale tutti i giorni, anche in condizioni metereologiche favorevoli – nonché la periodica difficoltà di accesso agli stessi, imponevano che il ricorrente soggiornasse presso i centri di trasmissione.

18.      Pertanto, il datore di lavoro ha predisposto la permanenza di DJ e di un altro tecnico, presenti contemporaneamente in ognuno dei suddetti centri di trasmissione, negli edifici degli stessi (con cucina, zona giorno, zona notte e bagno).

19.      Dopo lo svolgimento dell’attività lavorativa, i due tecnici potevano riposarsi nella zona giorno o dedicarsi ad attività di tempo libero nelle vicinanze, nei limiti delle possibilità offerte dalle rispettive località.

20.      I due tecnici si avvicendavano nel lavoro secondo turni o fasce orarie: uno dalle ore 6:00 alle ore 18:00 e l’altro dalle ore 12:00 alle ore 24:00. DJ lavorava per lo più durante questa seconda fascia oraria.

21.      Il lavoro svolto nel periodo così determinato veniva considerato «lavoro ordinario», il quale esigeva la presenza sul posto di lavoro e comprendeva, in media, da due a tre ore di lavoro «effettivo», mentre il tempo rimanente consisteva nel sedere dinanzi allo schermo, nel sorvegliare le trasmissioni in onda e nell’attendere eventuali allarmi per i quali fosse necessario intervenire.

22.      Il datore di lavoro corrispondeva uno stipendio a DJ sulla base delle 12 ore di lavoro ordinario come sopra organizzato (quindi per la presenza effettiva di DJ sul luogo di lavoro) e conteggiava, invece, il periodo dalle ore 24:00 alle ore 6:00 del mattino come periodo di riposo, per il quale non versava all’interessato alcuna retribuzione. Le rimanenti sei ore della giornata (dalle 6:00 alle 12:00) venivano considerate dal datore di lavoro come periodo di reperibilità continuativa.

23.      Nell’ambito di tale periodo, il dipendente poteva allontanarsi dal centro di trasmissione e recarsi ovunque, senza limitazioni. Il dipendente doveva però essere raggiungibile in caso di chiamata e, se necessario, doveva rientrare al lavoro nel giro di un’ora, fermo restando che solo le attività urgenti dovevano essere svolte immediatamente, mentre le restanti potevano anche essere rimandate al giorno successivo.

24.      A compenso di tali periodi di reperibilità continuativa, il datore di lavoro ha versato a DJ un’integrazione salariale (indennità) nella misura del 20% dello stipendio di base. Nei casi in cui, durante tali periodi di reperibilità continuativa, si rendeva necessario, a seguito di una chiamata, un intervento effettivo del dipendente (con rientro sul posto di lavoro), il tempo così impiegato veniva conteggiato e remunerato come lavoro ordinario, in conformità all’articolo 16 del regolamento interno.

25.      DJ ha proposto un’azione giudiziaria per ottenere il pagamento, sulla base della stessa tariffa prevista per le ore di lavoro straordinario, delle ore in cui gli è stata imposta la reperibilità continuativa (sei ore al giorno). A sostegno della sua richiesta, il ricorrente ha addotto innanzitutto la circostanza che egli viveva nel sito nel quale prestava la propria attività lavorativa e che, per tale motivo, si sarebbe dovuto considerare come presente sul posto di lavoro, di fatto, per 24 ore al giorno. In proposito, il ricorrente riteneva di non poter disporre liberamente del proprio tempo neanche durante i periodi in cui era libero poiché era tenuto, durante i periodi di reperibilità continuativa, a rispondere alle chiamate e, se necessario, a rientrare sul proprio luogo di lavoro nel giro di un’ora. Inoltre, nelle vicinanze dei centri di trasmissione, le possibilità di dedicarsi ad attività di svago erano scarse e, conseguentemente, il ricorrente, nella maggior parte dei casi, rimaneva per tutto il tempo nei locali dei centri di trasmissione.

26.      Le giurisdizioni di primo e secondo grado hanno respinto la domanda di pagamento delle ore di lavoro straordinario di DJ.

27.      Il ricorrente ha allora introdotto un ricorso per cassazione dinanzi al giudice del rinvio, nel quale ha ribadito che la nozione di orario di lavoro effettivo non ricomprenderebbe soltanto il periodo durante il quale il lavoratore presta effettivamente attività lavorative ma anche tutto quel tempo in cui egli è presente sul sito indicato dal datore di lavoro. Il datore di lavoro avrebbe in realtà imposto al ricorrente turni di lavoro di più giorni e avrebbe abusato dell’istituto della reperibilità continuativa allo scopo di penalizzare DJ sotto il profilo della remunerazione per il tempo in cui quest’ultimo doveva tenersi a disposizione.

28.      Il giudice del rinvio evidenzia che l’oggetto della presente controversia è la retribuzione del periodo trascorso dal ricorrente in condizione di reperibilità continuativa. Sebbene una questione del genere non rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2003/88, egli ritiene di potersi pronunciare sul merito della domanda proposta da DJ solo dopo la risoluzione delle questioni pregiudiziali qui sollevate.

29.      A tal riguardo, il giudice del rinvio ritiene che la presente controversia presenti dei profili differenti da altri casi sui quali la Corte si è già pronunciata.

30.      Innanzitutto, a differenza del caso che ha dato luogo alla sentenza del 3 ottobre 2000 Simap (C‑303/98, EU:C:2000:528), la presenza fisica di DJ durante il periodo di reperibilità continuativa e la sua disponibilità sul posto di lavoro non erano né necessarie né richieste, salvo nel caso in cui fosse necessario intervenire e, a differenza del caso che ha dato luogo alla sentenza del 9 settembre 2003, Jaeger (C‑151/02, EU:C:2003:437), è a causa della posizione geografica (e non della necessità di essere contattabile) che le possibilità di DJ di gestire il proprio tempo libero e di dedicarsi ai propri interessi erano più limitate.

31.      Inoltre, con riferimento al caso che ha dato luogo alla sentenza del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C‑266/14, EU:C:2015:578), la presente causa se ne differenzia poiché i tempi di spostamento per recarsi presso i clienti, da qualificarsi come orario di lavoro, non possono essere posti sullo stesso piano dei periodi di reperibilità continuativa.

32.      Infine, anche il caso che ha dato luogo alla sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82), differisce da quello di cui alla presente controversia in quanto, non solo a DJ non era stato imposto di mantenersi reperibile in un luogo determinato, ma il lasso di tempo entro il quale si richiedeva il suo eventuale intervento era significativamente più lungo (un’ora invece di otto minuti).

33.      In tale contesto, il Vrhovno sodišče (Corte suprema, Slovenia) ha sospeso il procedimento principale e sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se l’articolo 2 della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che, nelle circostanze quali quelle di cui al presente procedimento, si considera quale orario di lavoro il periodo di reperibilità continuativa, durante il quale il lavoratore che effettua la propria prestazione professionale presso una stazione di trasmissione televisiva deve, nel periodo in cui è libero dal servizio (non essendo necessaria la sua presenza fisica sul posto di lavoro), essere raggiungibile telefonicamente e, se necessario, rientrare sul posto di lavoro entro un’ora?

2)      Se sulla definizione della natura di reperibilità continuativa in circostanze quali quelle di cui al presente procedimento influisca il fatto che il lavoratore soggiorni in un alloggio ricavato nel sito dove egli svolge il proprio lavoro (centro di trasmissione televisiva), in quanto le caratteristiche geografiche del sito rendono impossibile (o più difficile) un rientro giornaliero presso la propria abitazione (“giù a valle”)?

3)      Se la risposta ai due quesiti precedenti debba essere differente qualora si tratti di un sito in cui le possibilità di dedicarsi ad attività di svago nel tempo libero sono limitate a causa delle caratteristiche geografiche del luogo e se il lavoratore incontra maggiori limitazioni nella gestione del proprio tempo libero e nel perseguimento dei propri interessi (rispetto a quanto accadrebbe se soggiornasse presso la propria abitazione)?».

III. Analisi giuridica

A.      Osservazioni preliminari

1.      Sulla ricevibilità

34.      La direttiva 2003/88, fondata sull’articolo 153, paragrafo 2, TFUE, si limita a disciplinare taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro al fine di garantire la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori e non si applica, ai sensi del paragrafo 5 dello stesso articolo, alla questione della retribuzione dei lavoratori che rientrano nel suo ambito di applicazione, eccezion fatta per l’ipotesi particolare di ferie annuali retribuite, di cui all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva stessa (3); essa, pertanto, in linea di principio, non si applica alla retribuzione dei lavoratori.

35.      Il fatto che l’oggetto del procedimento principale sia la richiesta di pagamento a titolo retributivo, come ore di lavoro straordinario, delle ore di reperibilità continuativa, non implica che non vadano risolte le questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte nella presente causa.

36.      Infatti, risulta dalla decisione di rinvio che il giudice nazionale chiede indicazioni in merito all’interpretazione dell’articolo 2 della direttiva 2003/88, interpretazione ritenuta necessaria per dirimere la controversia in via principale. Il fatto che tale controversia verta, in definitiva, su una questione retributiva è privo di pertinenza, dato che spetta al giudice nazionale e non alla Corte risolvere tale questione nell’ambito del procedimento principale (4).

37.      Ritengo, pertanto, che le questioni pregiudiziali poste dal giudice del rinvio siano ricevibili.

B.      Finalità della direttiva, nozione di orario di lavoro e di servizio di guardia

38.      La direttiva 2003/88 ha come obiettivo quello di fissare prescrizioni minime destinate a migliorare la tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro, obiettivo che viene raggiunto, tra l’altro, mediante il ravvicinamento delle disposizioni nazionali riguardanti l’orario di lavoro (5).

39.      Questa aspirazione è un elemento chiave nella costruzione del diritto sociale europeo. Dopo aver fissato, sulla base dell’articolo 153 del TFUE, i principi generali per la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori nella direttiva 89/391/CEE del Consiglio del 12 giugno 1989, il legislatore ha dato forma concreta a tali linee guida attraverso una serie di direttive specifiche. Tra queste, appunto, la direttiva 2003/88 che ha codificato la precedente direttiva 93/104/CE del Consiglio del 23 novembre 1993 (6).

40.      Ai fini del raggiungimento dei predetti obiettivi, le disposizioni della direttiva 2003/88 fissano periodi minimi di riposo giornaliero e settimanale nonché un tetto di quarantotto ore per la durata media della settimana lavorativa, comprese le ore di lavoro straordinario.

41.      Attraverso le suddette previsioni è attuato l’articolo 31 della Carta dei diritti fondamentali, che, dopo avere riconosciuto, al suo paragrafo 1, che «ogni lavoratore ha diritto a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose», dispone, al paragrafo 2, che «ogni lavoratore ha diritto a una limitazione della durata massima del lavoro, a periodi di riposo giornalieri e settimanali e a ferie retribuite». Tale diritto si collega direttamente al rispetto della dignità umana tutelata in modo più ampio nel titolo I della Carta (7).

42.      È in tale quadro sistematico che la Corte ha affermato che le regole enunciate dalla direttiva 2003/88 costituiscono disposizioni della normativa sociale dell’Unione che rivestono importanza particolare e di cui ogni lavoratore deve poter beneficiare quali prescrizioni minime necessarie per garantire la tutela della sua sicurezza e della sua salute (8), tutela quest’ultima che non rientra solo nell’interesse individuale del lavoratore, ma anche in quello del datore di lavoro e nell’interesse generale (9).

43.      Una prima conseguenza che, a mio avviso, può essere tratta dal nesso di strumentalità tra la direttiva 2003/88 e i diritti sociali fondamentali riconosciuti dalla Carta è che l’interpretazione della direttiva 2003/88 e la determinazione del suo campo di applicazione devono essere idonee a consentire il pieno ed effettivo godimento delle posizioni soggettive da essa riconosciute ai lavoratori, eliminando ogni ostacolo che di fatto ne possa limitare o pregiudicare il suddetto godimento (10).

44.      A tal fine, nell’interpretare e nell’attuare la direttiva 2003/88 va tenuto presente che, come più volte sottolineato dalla Corte, il lavoratore dev’essere considerato come la parte debole nel contratto di lavoro, sicché è necessario impedire al datore di lavoro di disporre della facoltà di imporgli una restrizione dei suoi diritti (11).

45.      Ciò premesso, la ratio  protettiva ha costituito il faro che ha guidato la Corte nell’opera interpretativa della direttiva 2003/88.

46.      Un chiaro e significativo esempio dell’interpretazione teleologicamente orientata della Corte è anzitutto rinvenibile nella lettura che essa ha dato delle definizioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo»; una lettura che ha prodotto effetti dirompenti sugli equilibri regolativi presenti in numerosi Stati membri (12).

47.      La direttiva, nel delineare la nozione di orario di lavoro,  utile ai fini dell’applicazione delle tutele in essa previste, si riferisce, infatti, a «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni (13) (...)»; in modo speculare, per periodo di riposo si intende «qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro» (articolo 2, paragrafi 1 e 2).

48.      Come precisato in più occasioni dalla Corte, le nozioni di «orario di lavoro» e di «periodo di riposo», ai sensi della direttiva 2003/88, costituiscono nozioni di diritto dell’Unione che occorre definire secondo criteri oggettivi, facendo riferimento al sistema e alla finalità di tale direttiva, intesa a stabilire prescrizioni minime destinate a migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei dipendenti (14); esse dunque «non devono essere interpretate in funzione delle prescrizioni delle varie normative degli Stati membri (…). Soltanto una siffatta interpretazione autonoma può assicurare la piena efficacia di tale direttiva nonché l’applicazione uniforme delle dette nozioni in tutti gli Stati membri (…). Il fatto che la definizione della nozione di orario di lavoro si riferisca alle “normative e/o prassi nazionali” non significa che gli Stati membri possano definire unilateralmente la portata di tale nozione. Inoltre tali Stati non possono subordinare a qualsivoglia condizione il diritto dei lavoratori a che i periodi di lavoro, e, correlativamente, quelli di riposo, siano tenuti in debito conto, poiché un diritto del genere deriva direttamente dalle disposizioni di tale direttiva. Qualsiasi altra interpretazione vanificherebbe lo scopo della direttiva 93/104 (15), che è quello di armonizzare la tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori mediante prescrizioni minime» (16).

49.      La Corte adotta, dunque, un approccio decisamente binario: il tempo del lavoratore è lavoro o è riposo.

50.      Le nozioni di «orario di lavoro» e «periodo di riposo», infatti, «si escludono a vicenda» (17). Allo stato attuale del diritto dell’Unione, «le ore di guardia trascorse da un lavoratore nell’ambito delle sue attività svolte per il datore di lavoro devono essere qualificate come “orario di lavoro” o come “periodo di riposo”» (18).

51.      In dottrina si è sostenuto che «questo sistema binario ha il vantaggio della semplicità ma non è privo di inconvenienti» (19). Si è detto, infatti, tra l’altro, che, durante il periodo di reperibilità, anche se il lavoratore non svolge alcun lavoro, la sua libertà di movimento, la qualità del suo riposo, la capacità di occuparsi dei propri interessi è limitata anche se non del tutto esclusa; può capitare che, qualificando il periodo di reperibilità come riposo, egli sia sistematicamente in reperibilità tra due periodi di lavoro.

52.      Su questo tema si è svolto un ampio dibattito dottrinale relativo alla possibilità di individuare un tertium genus  tra orario e riposo (20).

53.      Allo stato attuale, pur comprendendo le esigenze alla base delle proposte di superamento della rigida dicotomia esistente (21), tale superamento può, a mio avviso, essere eventualmente introdotto solo dal legislatore europeo.

54.      Osservo sul punto che nell’eventuale introduzione di una «zona grigia» tra lavoro e riposo (22) intravedo qualche rischio in termini di applicazione concreta in tutti i Paesi, e dunque di certezza del diritto.

55.      Mi pare, in ogni caso, assai arduo arrivare a questo superamento in via interpretativa a fronte di un testo normativo chiaro e inequivoco: qualsiasi periodo che non rientra nell’orario di lavoro è periodo di riposo (23).

56.      Tornando agli elementi caratterizzanti la nozione di orario, previsti dall’articolo 2 della direttiva 2003/88, essi sono stati efficacemente sintetizzati in: 1) un criterio spaziale (essere sul posto di lavoro); 2) un criterio di autorità (essere a disposizione del datore di lavoro) e 3) un criterio professionale (essere nell’esercizio della propria attività o delle proprie funzioni) (24).

57.      Come vedremo, la Corte, nell’ottica di un’interpretazione teleologicamente orientata, ha dovuto discostarsi da un’interpretazione letterale di questa disposizione della direttiva (25).

58.      Nelle sentenze in materia di servizio di guardia, infatti, la Corte, ha seguito una linea evolutiva coerente, per offrire un solido quadro interpretativo delle nozioni di orario e riposo, al fine di ascrivere all’una o all’altra nozione i periodi trascorsi dai lavoratori in quella particolare situazione.

59.      La Corte, già dalle prime pronunce sul tema (26), ha distinto le due ipotesi di: 1) servizio di guardia svolto secondo un regime di presenza fisica sul luogo di lavoro (periodo di guardia sul luogo di lavoro) e 2) servizio di guardia secondo il sistema per cui i lavoratori devono essere reperibili in permanenza senza per questo essere obbligati ad essere presenti nel luogo di lavoro (periodo di reperibilità continuativa).

60.      La prima ipotesi non crea particolari problemi interpretativi, essendo ormai pacifico che un lavoratore, obbligato a essere presente e disponibile sul luogo di lavoro per prestare la sua opera professionale, dev’essere considerato nell’esercizio delle sue funzioni e, pertanto, in orario di lavoro (27), anche per il tempo in cui non svolge in concreto attività lavorativa.

61.      La seconda ipotesi, che è anche quella cui è ascrivibile la fattispecie oggetto della causa odierna, è senz’altro più complessa dal punto di vista interpretativo.

62.      Nel caso di reperibilità, infatti, la Corte ha affermato principi differenti, anche in ragione delle questioni pregiudiziali poste, che tuttavia possono essere ricondotti coerentemente alla prospettiva teleologica sopra citata.

63.      Si è partiti nella sentenza Simap, riguardante medici di unità di pronto soccorso in servizio di guardia presso un centro sanitario; essi dovevano essere presenti presso il loro luogo di lavoro per una parte del tempo, mentre per la rimanente parte dovevano essere semplicemente «reperibili».

64.      Per quanto riguarda la seconda situazione, pur essendo a disposizione del loro datore di lavoro, in quanto dovevano poter essere reperibili, i medici potevano gestire il loro tempo in modo più libero e dedicarsi ai propri interessi. Il suddetto tempo, pertanto, rientrava nella categoria del «periodo di riposo», fatta eccezione per il tempo effettivamente trascorso in servizio a seguito della chiamata.

65.      Il caso Matzak (28) si distingue da Simap per il fatto che il lavoratore non si trova sul luogo di lavoro per rispondere immediatamente alla chiamata, ma si trova in un luogo determinato dal datore di lavoro (29) (in questo caso il domicilio del lavoratore) con l’obbligo di rispondere alla chiamata entro 8 minuti.

66.      In sostanza, la Corte ha ritenuto che un servizio di reperibilità come quello del sig. Matzak dovesse essere considerato nella sua interezza come orario di lavoro in quanto, pur non effettuato sul luogo di lavoro, era soggetto a vincoli geografici (reperibilità in un luogo determinato dal datore di lavoro) e temporali (obbligo, una volta richiamato, di ritornare sul posto di lavoro entro un periodo di tempo molto limitato) tali da limitare in modo molto significativo la libertà del lavoratore di dedicarsi, nel tempo di riposo, ai propri interessi personali e sociali.

67.      Trovarsi in un «luogo determinato dal datore di lavoro» è stato ritenuto dalla Corte equivalente a trovarsi «sul luogo di lavoro» in quanto combinato al fatto che la risposta alla chiamata doveva avvenire in un tempo talmente breve da essere prossimo a «immediatamente».

68.      La Corte, dunque, come già fatto in relazione ai servizi di guardia forniti sul luogo di lavoro (30), dalla coesistenza di due elementi della nozione di orario di lavoro ha dedotto la sussistenza del terzo: essere presente in un luogo determinato dal datore di lavoro e essere a disposizione per lo svolgimento di attività lavorativa integrano anche l’esercizio della propria attività lavorativa solo nel caso in cui il tempo di reazione alla chiamata sia particolarmente limitato.

69.      Dalla giurisprudenza della Corte si può dunque desumere che, per considerare orario di lavoro il periodo trascorso in reperibilità continuativa, occorrono tre condizioni: 1) che il lavoratore sia presente in un luogo determinato dal datore di lavoro; 2) che il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro per rispondere alla chiamata e 3) che il tempo di reazione alla chiamata sia particolarmente limitato.

70.      Ciò che oggi viene richiesto alla Corte è di valutare se, alla luce della più volte citata prospettiva di interpretazione teleologica della direttiva 2003/88, la sussistenza di questi elementi sia sempre necessaria per qualificare come orario di lavoro il periodo di reperibilità e se tali obblighi debbano essere valutati in concreto alla luce dei vincoli che gravano sul lavoratore, al fine di determinare se essi siano tali da ostacolare le sue effettive possibilità di dedicarsi ai propri interessi nel periodo di riposo.

C.      Le questioni pregiudiziali: vincoli imposti dal datore di lavoro e riposo effettivo

71.      Con le tre questioni pregiudiziali il giudice nazionale chiede, in sostanza, se l’articolo 2, numeri 1 e 2, della direttiva 2003/88 debba essere interpretato nel senso che la reperibilità continuativa imposta al lavoratore nelle circostanze del caso di specie debba essere qualificata come «orario di lavoro» o, al contrario, come «periodo di riposo» ai sensi delle definizioni della direttiva stessa.

72.      Le circostanze particolari descritte dal giudice del rinvio, che lo hanno indotto ad avere dei dubbi sulla possibile ricomprensione di un caso come quello oggetto del suo giudizio all’interno delle situazioni già analizzate dalla Corte, sono: a) il fatto che il lavoratore dovesse essere raggiungibile telefonicamente e, se necessario, rientrare sul posto di lavoro entro un’ora; b) il fatto che il lavoratore soggiornasse in un alloggio ricavato nel sito dove egli svolgeva il proprio lavoro perché le caratteristiche geografiche del sito rendevano impossibile (o più difficile) un rientro giornaliero presso la propria abitazione e c) il fatto che si trattasse di un sito in cui le possibilità di dedicarsi ad attività di svago nel tempo libero erano limitate a causa delle caratteristiche geografiche del luogo.

73.      Le valutazioni da fare alla luce di quanto fin qui esposto riguardano: il luogo in cui il lavoratore deve trovarsi durante il periodo di reperibilità; il tempo di reazione alla chiamata; le caratteristiche geografiche del luogo di lavoro.

74.      Quanto al primo elemento, quello spaziale, risulta con chiarezza dal fascicolo, e la circostanza ha trovato conferma anche in udienza, che il lavoratore non era giuridicamente obbligato a permanere, durante il periodo di reperibilità, sul luogo di lavoro e neppure in un luogo determinato dal datore di lavoro: egli era, infatti, libero di trascorrere il proprio tempo dove volesse e l’unico vincolo impostogli era la risposta alla chiamata nel tempo di reazione di un’ora.

75.      Il secondo elemento, quello temporale, appare ben lontano da poter essere considerato prossimo a una reazione «immediata»: un’ora appare, infatti, essere un tempo di reazione adeguato a consentire una programmazione di un periodo di riposo in attesa della chiamata.

76.      Come si evince dalle questioni pregiudiziali è il terzo elemento, quello relativo alle particolarità geografiche che caratterizzano il sito in cui si trova il luogo di lavoro, a far venire dei dubbi al giudice nazionale in relazione all’effettiva ascrivibilità del tempo trascorso dal lavoratore in reperibilità a periodi di riposo. Si legge, infatti, nel fascicolo che la stazione televisiva cui è addetto il lavoratore si trova in alta montagna, lontano da centri abitati, collegata alla valle da un impianto di risalita attivo solo in alcuni periodi; che il lavoratore non dispone di un autonomo mezzo di trasporto, dal momento che viene accompagnato e ripreso da mezzi del datore di lavoro all’inizio e alla fine del periodo che trascorrerà nella stazione televisiva; che il domicilio del lavoratore non è raggiungibile in giornata dal lavoratore e che, pertanto, egli è tenuto a soggiornare in locali attigui alla stazione televisiva per l’intero periodo, in un alloggio messo a disposizione del datore di lavoro.

77.      A mio avviso una tale circostanza, la particolarità geografica della sede di lavoro, non è idonea a modificare la qualificazione del periodo di reperibilità da periodo di riposo a orario di lavoro né sotto il profilo della lontananza e della connessa difficile raggiungibilità del proprio domicilio da parte del lavoratore, né sotto il profilo della limitazione per il lavoratore della possibilità di dedicarsi ad attività di svago.

78.      La sede di lavoro fa parte delle scelte organizzative dell’imprenditore e l’adibizione all’uno o all’altro sito di un lavoratore è rimesso al potere direttivo del datore di lavoro. Il lavoratore subordinato è pertanto tenuto ad adempiere alla propria obbligazione lavorativa nel luogo indicato dal datore di lavoro, nell’interesse dell’impresa.

79.      Sotto il primo profilo, il fatto che la prestazione lavorativa debba essere svolta in un luogo lontano dal domicilio del lavoratore è assai frequente nella comune esperienza (31) e in moltissimi casi per il lavoratore è impossibile, o particolarmente difficile, raggiungere la propria abitazione al termine della giornata lavorativa.

80.      In questi casi il lavoratore può scegliere se modificare il proprio domicilio in funzione delle esigenze lavorative o trascorrere parte della settimana o periodi anche più lunghi lontano da casa. Il datore di lavoro non può essere obbligato a stabilire la sede di lavoro in funzione del domicilio del lavoratore.

81.      In alcune situazioni, poi, la collocazione del luogo di svolgimento della prestazione lavorativa è per sua natura lontano da centri abitati e tale da tenere il lavoratore lontano da casa anche per periodi molto lunghi: si pensi ad esempio al lavoro marittimo, a quello su piattaforme petrolifere.

82.      Una tale circostanza, infine, non dipende direttamente dall’obbligo di reperibilità continuativa: le caratteristiche descritte nel fascicolo infatti sembrano essere tali da escludere che il lavoratore avesse potuto fare ritorno a casa ogni giorno, anche in assenza di obblighi di reperibilità.

83.      Ne consegue che la lontananza della sede di lavoro, in particolar modo se temporanea, dal domicilio del lavoratore non può avere alcun ruolo nella qualificazione del periodo di reperibilità.

84.      Si aggiunga che le moderne tecnologie consentono, molto più che in passato, di essere «connessi» con i propri familiari e con i propri affetti anche da lontano.

85.      Sotto il secondo profilo, la limitata possibilità per il lavoratore di dedicarsi ad attività di svago sembra essere un criterio non idoneo a incidere sulla qualificazione del periodo di reperibilità.

86.      Il diritto dell’Unione, infatti, garantisce al lavoratore il diritto di potere usufruire di periodi di riposo, alternati a quelli di lavoro, tali da consentirgli di recuperare le energie psicofisiche. Anche la nozione di «riposo adeguato» (32) si limita a garantire che i lavoratori dispongano di periodi di riposo regolari e sufficientemente lunghi e continui per evitare che essi, a causa della stanchezza, della fatica o di altri fattori che perturbano l’organizzazione del lavoro, causino lesioni a sé stessi, ad altri lavoratori o a terzi o danneggino la loro salute, a breve o a lungo termine.

87.      Il solo fatto che il lavoratore sia limitato, e non del tutto impedito, a dedicarsi ad attività di svago sembra del tutto compatibile con la nozione di periodo di riposo adeguato sopra citato.

88.      Nel caso odierno, dal fascicolo e anche da alcune precisazioni delle parti in udienza, risulterebbe che il lavoratore, pur se in un contesto geografico peculiare, era in condizioni tali da potersi dedicare a molteplici attività durante il periodo di reperibilità (33).

89.      Quanto, infine, alla messa a disposizione di un alloggio per il lavoratore nelle vicinanze del luogo di lavoro, tale circostanza non può incidere sulla qualificazione del periodo di reperibilità: la Corte nel caso Grigore ha già risolto la questione nel senso che la qualificazione di un periodo di reperibilità continuativa come «orario di lavoro» ai sensi dell’articolo 2, punto 1, della direttiva 2003/88, non dipende dalla messa a disposizione di un alloggio di servizio (34).

90.      Nel caso che ci occupa, dunque, mi sembra di poter concludere, fatti salvi gli accertamenti di fatto rimessi al giudice nazionale, che le parziali limitazioni alla libertà di movimento e a quella di dedicarsi ai propri interessi personali e sociali non derivino direttamente da vincoli imposti dal datore di lavoro ma da oggettive circostanze particolari che non sono riconducibili alla responsabilità contrattuale del datore di lavoro e che non sono tali da pregiudicare l’effettività del riposo del lavoratore durante i periodi di reperibilità continuativa.

91.      Per la soluzione del caso odierno trovano conferma, dunque, i principi fin qui espressi dalla Corte: i fattori determinanti per la qualificazione del periodo di reperibilità come orario di lavoro sono i vincoli imposti dal datore di lavoro, tali da non consentire al lavoratore la fruizione di un’adeguata situazione di riposo (35).

92.      L’ulteriore tassello che la Corte oggi potrebbe aggiungere, sempre nella più volte citata prospettiva teleologica di interpretazione delle nozioni contenute nella direttiva 2003/88, è quello di non considerare elemento necessario ai fini della configurazione del periodo di reperibilità continuativa come orario di lavoro il fatto che il lavoratore si trovi in un luogo determinato dal datore di lavoro ma che sia sufficiente la circostanza che il lavoratore sia a disposizione del datore di lavoro e debba intervenire per svolgere la propria effettiva attività lavorativa in un tempo molto breve.

93.      Come si è visto nella recente sentenza Matzak la Corte ha interpretato in modo flessibile l’espressione usata dalla direttiva che, tra i requisiti dell’orario di lavoro, introduce quello di essere «al lavoro», intendendo non solo il luogo di lavoro ma anche un diverso luogo stabilito dal datore di lavoro.

94.      Quando il lavoratore non si trova sul luogo di lavoro, anche in alcuni precedenti casi esaminati dalla Corte, è la soggezione ai vincoli imposti dal datore di lavoro, e in particolare il tempo di reazione alla chiamata, a svolgere un ruolo determinante e non già il trovarsi in un luogo determinato dal datore di lavoro o in prossimità del luogo di lavoro.

95.      Nei casi Grigore e Tyco, infatti, la circostanza che il lavoratore si trovasse o meno in un luogo specifico stabilito dal datore di lavoro o in prossimità del luogo di lavoro è stata ritenuta neutra rispetto alla qualificazione del periodo di reperibilità.

96.      Nel caso Grigore la Corte, premesso che l’attribuzione di un alloggio di servizio in prossimità del luogo di lavoro non costituisse un fattore determinante per qualificare in termini di lavoro o riposo il periodo di reperibilità, ha tuttavia rimesso al giudice nazionale la valutazione sulla base del seguente criterio: il periodo di reperibilità potrebbe essere considerato orario di lavoro se si accertasse la sussistenza di «obblighi che rendono impossibile al lavoratore interessato la scelta del luogo di permanenza durante i periodi di inattività al lavoro». Essi, infatti, ove accertati, «devono essere considerati come rientranti nell’esercizio delle sue funzioni» (36).

97.      Nel caso Tyco (37) la Corte ha, invece, affermato che in un caso come quello oggetto del procedimento principale, il tempo di viaggio di lavoratori, che non hanno un luogo fisso di lavoro tra la loro abitazione e i clienti indicati dal datore di lavoro, deve essere considerato orario di lavoro dal momento che quei lavoratori, pur avendo un certo grado di libertà durante i viaggi, erano comunque obbligati ad agire secondo le specifiche istruzioni del datore di lavoro.

98.      La lettura dei precedenti della Corte, nella prospettiva di interpretazione teleologica cui più volte ho già fatto riferimento, mi induce, pertanto, a ritenere che il fattore determinante nella qualificazione dei periodi di reperibilità continuativa sia l’intensità dei vincoli derivanti dalla soggezione del lavoratore alle direttive del datore di lavoro e, in particolare, il tempo di reazione alla chiamata.

99.      Il tempo di reazione alla chiamata è fattore determinante perché influenza direttamente in modo oggettivo e inequivoco la libertà del lavoratore di dedicarsi ai propri interessi e, in sostanza, di riposare: un tempo di reazione alla chiamata di pochi minuti non consente alcuna programmazione, pur modificabile, del proprio periodo di riposo.

100. Un tempo di reazione alla chiamata ragionevole consente invece al lavoratore di dedicarsi ad altre attività nel periodo di reperibilità, pur nella consapevolezza di un possibile richiamo in servizio.

101. Il tempo di reazione, a mio avviso, influenza anche il luogo in cui il lavoratore deve trovarsi durante il periodo di reperibilità (38): è evidente che un tempo di reazione molto breve impone al lavoratore di essere presente durante la reperibilità in un determinato raggio geografico che, in sostanza, è determinato dal datore di lavoro (39). Quest’ultimo, cioè, anche se non imponesse al lavoratore di stare in un luogo determinato, se gli imponesse un tempo di reazione alla chiamata brevissimo, di fatto gli imporrebbe anche un rilevante vincolo alla sua libertà di movimento.

102. Ritengo, dunque, che non è tanto il luogo in cui il lavoratore si trovi durante il periodo di reperibilità a svolgere un ruolo decisivo per la qualificazione del periodo stesso in termini di riposo o lavoro, quanto il vincolo alla libertà di movimento del lavoratore stesso che discende dal tempo di reazione alla chiamata imposto.

103. Non colgo, infatti, grandi differenze in termini di vincoli al lavoratore tra la situazione in cui lo stesso sia obbligato a stare nel proprio domicilio durante il periodo di reperibilità e quella in cui non abbia questo obbligo ma sia tenuto a rispondere alla chiamata in un tempo particolarmente breve.

104. Come sopra accennato è, pertanto, a mio avviso, l’intensità dei vincoli derivanti dalla soggezione alle direttive del datore di lavoro a svolgere un ruolo determinante per la qualificazione del periodo di reperibilità come lavoro o come riposo. I vincoli derivanti da tale soggezione possono essere i più vari ma, in primo luogo, deve considerarsi decisivo il tempo di reazione alla chiamata.

105. L’imposizione di un luogo ove trascorrere il periodo di reperibilità può svolgere un ruolo, come sintomo della predetta intensità della soggezione alle direttive del datore di lavoro, solo in una valutazione complessiva.

106. Anche analizzando la situazione dal punto di vista del datore di lavoro, la possibilità di raggiungere il lavoratore con mezzi elettronici portatili (cellulari, tablet, pc portatili), che permettono di contattarlo in qualsiasi momento, rende meno giustificato e comprensibile che il datore di lavoro esiga che, durante il periodo di reperibilità il lavoratore sia fisicamente presente in un luogo da lui determinato. Ciò che è di primaria importanza per il datore di lavoro è il periodo di tempo entro il quale il lavoratore, ovunque si trovi, deve poter raggiungere il luogo assegnatogli dal datore di lavoro.

107. Identificato il fattore determinante per la qualificazione del periodo di reperibilità in termini di lavoro o riposo, è necessario offrire ai giudici nazionali alcuni criteri aggiuntivi da utilizzare quando il vincolo principale, il tempo di reazione alla chiamata, non sia macroscopicamente così breve da impedire un effettivo riposo del lavoratore.

108. Quando il tempo di reazione alla chiamata è macroscopicamente breve, infatti, limitato cioè a pochi minuti, ritengo che ciò sia sufficiente per qualificare il periodo di reperibilità come orario di lavoro, senza ulteriori accertamenti in ragione delle considerazioni sopra svolte: la libertà di movimento del lavoratore è, in questo caso, talmente compressa da dover considerare anche il luogo di permanenza vincolato dalle prescrizioni del datore di lavoro.

109. Nel caso in cui, invece, il tempo di reazione alla chiamata sia breve ma non tale da impedire in modo quasi assoluto la libertà di scelta del lavoratore del luogo in cui trascorrere il periodo di reperibilità possono soccorrere criteri aggiuntivi, da esaminare congiuntamente, prestando attenzione all’effetto complessivo che tutte le condizioni di attuazione in un sistema di reperibilità possono avere sul riposo del lavoratore: i vincoli complessivamente imposti limitano cioè le possibilità per il lavoratore di curare i propri interessi personali e familiari e la sua libertà di movimento dal luogo di lavoro o sono tali da impedirli in modo pressoché assoluto? È naturale, infatti, che il periodo di reperibilità imponga alcuni vincoli e limitazioni alla libertà del lavoratore; scopo del diritto dell’Unione è quello di evitare che tali limitazioni siano talmente invasive da non consentire al lavoratore un riposo effettivo.

110. Intendo in questo senso l’attenzione da porre all’effettività del riposo del lavoratore. Sarei invece più cauto nell’utilizzare come criterio, pure autorevolmente proposto (40), quello della «qualità del tempo» di cui il lavoratore può fruire quando si trova in servizio di reperibilità. Ritengo, infatti, che un tale criterio possa rivelarsi eccessivamente soggettivo e dunque prestarsi a diverse interpretazioni dei giudici nazionali, anche in ragione delle diverse sensibilità nei singoli Paesi, che non gioverebbero alla certezza del diritto.

111. Nelle osservazioni scritte e in udienza le parti intervenute (41) hanno proposto numerosi criteri, consistenti in vincoli da cui possa dipendere la qualificazione del periodo di reperibilità come lavoro o riposo: obbligatorietà o meno della risposta alla chiamata; margine di manovra del lavoratore di fronte alla stessa chiamata (possibilità di intervento a distanza, eventuale sostituibilità con altro lavoratore); previsioni di sanzioni per il mancato intervento o per il ritardo alla chiamata; grado di urgenza dell’intervento, livello di responsabilità del lavoratore, caratteristiche specifiche della professione, distanza da coprire tra il luogo in cui si trova il lavoratore e il luogo del rientro in servizio, vincoli geografici che possono rallentare il percorso verso il luogo di lavoro, necessità di indossare abbigliamento da lavoro, disponibilità di un veicolo di servizio.

112. In aggiunta a questi il criterio della ragionevole aspettativa di essere richiamato in servizio, oggetto della seconda questione pregiudiziale nella causa C‑580/19, che sembra far riferimento all’incidenza della frequenza degli interventi sulla natura di effettivo periodo di riposo del periodo di reperibilità.

113. A mio avviso la Corte dovrebbe limitarsi a dettare criteri generali e obiettivi senza entrare troppo nello specifico di situazioni particolari e lasciando, invece, ai giudici nazionali l’apprezzamento di tutte le circostanze di fatto.

114. Credo che, dunque, sarebbe opportuno limitarsi a esemplificare alcuni criteri suppletivi, da utilizzare nei casi dubbi come sopra esposto, che siano tuttavia riconducibili all’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro – e al connesso stato di soggezione del lavoratore, soggetto debole del rapporto – e non derivanti da situazioni oggettive estranee alla sfera di controllo del datore di lavoro.

115. Escluderei, pertanto, che possano essere oggetto di valutazione circostanze come la distanza da coprire per raggiungere il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa (salvo che sia diverso da quello abituale e non dipenda, dunque, dalla specifica volontà del datore di lavoro), o vincoli geografici, anch’essi, come detto, indipendenti dalla disponibilità del datore di lavoro.

116. Escluderei, altresì, di attribuire una particolare rilevanza al livello di responsabilità e alle specifiche mansioni svolte: la reperibilità è una modalità di organizzazione del lavoro rimessa al potere direttivo del datore di lavoro. Per il lavoratore la risposta alla chiamata rappresenta l’adempimento dell’obbligazione lavorativa per la quale deve usare la normale diligenza. Ritengo, pertanto, che la prestazione lavorativa debba essere adempiuta da parte del lavoratore a favore dell’impresa con il medesimo impegno e ciò indipendentemente dalla qualifica ricoperta e dal livello di responsabilità. Sarebbe, infatti, difficile fare una valutazione oggettiva dell’interesse dell’impresa, dal momento che ciò che può apparire poco rilevante per qualcuno può essere di estrema importanza per un altro. Ragionamento analogo vale per il criterio del grado di urgenza dell’intervento e per la natura e la rilevanza degli interessi coinvolti nell’attività svolta.

117. È vero che il grado di pressione psicologica sul lavoratore può variare a seconda del livello di responsabilità ma, a mio avviso, questo è un elemento troppo soggettivo per poter avere un rilievo nella qualificazione.

118. Discorso diverso, a mio avviso, deve farsi per alcuni criteri che riguardano circostanze nella disponibilità del datore di lavoro: il margine di manovra del lavoratore di fronte alla chiamata, ad esempio, potrebbe essere utilizzato come criterio suppletivo sia nel caso in cui consista in una flessibilità nel tempo di reazione alla chiamata, sia nel caso in cui consista nella possibilità di intervenire a distanza senza recarsi sul luogo di lavoro, sia ancora nel caso in cui il lavoratore possa contare sulla sua possibile sostituibilità con altro lavoratore già sul luogo di lavoro o che sia in condizione di raggiungerlo più agevolmente.

119. Lo stesso deve dirsi per le conseguenze previste in caso di ritardato o mancato intervento in caso di chiamata durante il periodo di reperibilità.

120. Come detto, la risposta alla chiamata in caso di reperibilità consiste per il lavoratore nell’adempimento della prestazione lavorativa. Il datore di lavoro può tuttavia prevedere conseguenze più o meno significative per l’inesatto adempimento. La mancata espressa previsione di sanzioni per il mancato o ritardato adempimento, come pure l’entità di eventuali sanzioni previste, potrebbero giocare un ruolo nella qualificazione del periodo di reperibilità.

121. Anche circostanze apparentemente di minor rilievo, come la necessità di indossare un abbigliamento tecnico per il lavoro e la disponibilità di una vettura di servizio per raggiungere il luogo dell’intervento, potrebbero svolgere un ruolo nella qualificazione del periodo di reperibilità, in particolare nella valutazione dell’adeguatezza o meno del tempo per rispondere alla chiamata.

122. Se, infatti, il lavoratore disponesse di un tempo relativamente breve per reagire alla chiamata in servizio durante la reperibilità continuativa e il datore di lavoro gli imponesse di indossare, nel medesimo arco temporale, un abbigliamento specifico di particolare complessità che richiede tempi particolarmente lunghi per essere indossato, tale circostanza potrebbe incidere sulla predetta valutazione di adeguatezza.

123. Come pure, al contrario, la messa a disposizione, da parte del datore di lavoro, di un mezzo di servizio per raggiungere il luogo dell’intervento in caso di chiamata, che può, in ipotesi, derogare al rispetto di alcune disposizioni della disciplina sulla circolazione stradale in ragione della rilevanza degli interessi coinvolti nell’intervento, potrebbe incidere sulla valutazione di adeguatezza in termini di facilitazione e dunque far ritenere congruo anche un tempo di reazione che, senza questa circostanza, potrebbe apparire inadeguato a consentire un effettivo riposo.

124. Altra circostanza, pure nella disponibilità del datore di lavoro, che ritengo possa incidere, nei casi dubbi, sulla qualificazione del periodo di reperibilità continuativa attiene alla collocazione temporale e alla durata del periodo di reperibilità. Se esso, infatti, è frequentemente collocato di notte o nei giorni festivi, o è particolarmente lungo, il grado di penosità per il lavoratore è maggiore rispetto a una collocazione diurna o in giorni feriali.

125. Quanto, infine, alla circostanza relativa alla probabile frequenza degli interventi, come detto, oggetto specifico della seconda questione pregiudiziale nella causa collegata C‑580/19, essa, a mio avviso, può rientrare tra le circostanze valutabili nei casi dubbi, senza però alcun automatismo: una bassa frequenza di interventi non consente di qualificare il periodo di reperibilità continuativa come riposo, come un’altra frequenza non consente di considerarlo orario di lavoro.

126. L’elemento che può giocare un ruolo in una complessiva valutazione è se, e in che misura, il lavoratore debba, di norma, aspettarsi di essere chiamato durante il servizio di guardia (42).

127. Questa circostanza è, almeno in parte, nella disponibilità del potere direttivo del datore di lavoro che, nella sua organizzazione aziendale, può fare valutazioni prognostiche sulle necessità di intervento.

128. Se gli interventi si ripetono spesso durante i periodi di reperibilità continuativa, il coinvolgimento del lavoratore diventa così rilevante da ridurre in modo quasi assoluto la sua possibilità di programmazione del tempo libero durante tali periodi e, se unito alla circostanza di un tempo breve di reazione alla chiamata, rischiano di mettere in serio pericolo l’effettività del suo riposo.

129. Sulla base dei criteri fin qui esposti, sarà compito dei giudici nazionali, verificate le circostanze del caso concreto, con un approccio che miri a considerare l’effetto complessivo che tutte le condizioni di attuazione di un sistema di reperibilità continuativa possono avere sull’effettività del riposo del lavoratore, dover qualificare il tempo trascorso in reperibilità continuativa dal lavoratore come orario di lavoro o come periodo di riposo. Essi devono accertare in concreto se il tempo trascorso in reperibilità continuativa sia, come di norma, un periodo di riposo o, in ragione di vincoli particolarmente stringenti introdotti da parte del datore di lavoro, perda i propri naturali contorni per trasformarsi in orario di lavoro.

IV.    Conclusione

130. Alla luce delle considerazioni svolte, suggerisco alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali poste dal Giudice del rinvio nei termini che seguono:

«1)      L’articolo 2 della direttiva n. 2003/88 deve essere interpretato nel senso che, ai fini della qualificazione come orario di lavoro o periodo di riposo di un periodo di reperibilità continuativa, il fattore determinante sia l’intensità dei vincoli derivanti dalla soggezione del lavoratore alle direttive del datore di lavoro e, in particolare, il tempo di reazione alla chiamata.

Nel caso in cui il tempo di reazione alla chiamata sia breve, ma non tale da impedire in modo assoluto la libertà di scelta del lavoratore del luogo in cui trascorrere il periodo di reperibilità, possono soccorrere criteri aggiuntivi, da esaminare complessivamente, prestando attenzione all’effetto complessivo che tutte le condizioni di attuazione in un sistema di reperibilità continuativa possono avere sul riposo del lavoratore.

Tali criteri suppletivi devono essere riconducibili all’esercizio del potere direttivo del datore di lavoro – e al connesso stato di soggezione del lavoratore, soggetto debole del rapporto – e non derivanti da situazioni oggettive estranee alla sfera di controllo del datore di lavoro.

Essi, in via esemplificativa, possono consistere nel margine di manovra del lavoratore di fronte alla chiamata, nelle conseguenze previste in caso di ritardato o mancato intervento in caso di chiamata, nella necessità di indossare un abbigliamento tecnico per il lavoro, nella disponibilità di una vettura di servizio per raggiungere il luogo dell’intervento, nella collocazione temporale e nella durata del periodo di reperibilità, nella probabile frequenza degli interventi.

Nelle circostanze del caso di specie, il periodo di reperibilità continuativa di un lavoratore che lavora in un luogo di difficile accessibilità, senza vincoli di luogo imposti dal datore di lavoro e con un tempo di reazione alla chiamata di un’ora, fermi restando gli accertamenti di fatto rimessi al giudice nazionale sulla base dei criteri sopra esposti, non appare qualificabile come «orario di lavoro».

2)      Il fatto che il lavoratore soggiorni, per determinati periodi, in un’abitazione situata in prossimità del luogo in cui svolge il suo lavoro (centro di trasmissione televisiva), perché le caratteristiche geografiche del luogo rendono impossibile (o più difficile) il ritorno a casa ogni giorno, non influisce sulla qualificazione giuridica del periodo di reperibilità continuativa.

3)      La risposta alle domande precedenti, fermi restando gli accertamenti di fatto rimessi al giudice nazionale sulla base dei criteri sopra esposti, non è diversa se si tratta di un luogo in cui le possibilità di svolgere attività ricreative sono limitate a causa delle caratteristiche geografiche del luogo e se il lavoratore è più limitato nella gestione del proprio tempo e nel perseguimento dei propri interessi (rispetto a quanto accadrebbe se rimanesse a casa).


1      Lingua originale: l’italiano.


2      Direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU 2003, L 299, pag. 9).


3      V., da ultimo, sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punti 23 e 24) e già sentenza del 26 luglio 2017, Hälvä e a. (C‑175/16, EU:C:2017:617, punto 25 e giurisprudenza citata).


4      V. sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punto 26).


5      V., in tal senso, sentenze del 9 novembre 2017, Maio Marques da Rosa (C‑306/16, EU:C:2017:844, punto 45) e del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C‑266/14, EU:C:2015:578, punto 23).


6      La giurisprudenza della Corte è, infatti, costante nell’affermare che poiché gli articoli da 1 a 8 della direttiva 2003/88 sono formulati in termini sostanzialmente identici a quelli degli articoli da 1 a 8 della direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti dell’organizzazione dell’orario di lavoro (GU 1993, L 307, pag. 18), come modificata dalla direttiva 2000/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 2000 (GU 2000, L 195, pag. 41), l’interpretazione di tali articoli da parte della Corte può essere trasposta agli articoli precedentemente indicati della direttiva 2003/88; ex multis, v. sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punto 32) e ordinanza del 4 marzo 2011, Grigore (C‑258/10, non pubblicata, EU:C:2011:122, punto 39 e giurisprudenza citata).


7      V., in tal senso, anche le conclusioni dell’avvocato generale Tanchev nella causa King (C‑214/16, EU:C:2017:439, paragrafo 36).


8      V. sentenze del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones Obreras (C‑266/14, EU:C:2015:578, punto 24) e del 1° dicembre 2005, Dellas e a. (C‑14/04, EU:C:2005:728, punto 49) e giurisprudenza ivi citata; ordinanza del 4 marzo 2011, Grigore (C‑258/10, non pubblicata, EU:C:2011:122, punto 41).


9      V. le conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften (C‑684/16, EU:C:2018:338, punto 52).


10      V. le mie conclusioni nella causa CCOO (C‑55/18, EU:C:2019:87, punto 39).


11      V. sentenza del 25 novembre 2010, Fuß (C‑429/09, EU:C:2010:717, punto 80 e giurisprudenza ivi citata). V. anche sentenza del 6 novembre 2018, Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften (C‑684/16, EU:C:2018:874, punto 41).


12      In questo senso, in dottrina v. V. Leccese, «Directiva 2003/88/EC concerning certain aspects of the organisation of working time», in E. Ales, M. Bell, O. Deinert, S. Robin-Olivier (a cura di), International and European Labour Law. Article-by-Article Commentary, Nomos Verlagsgesellshaft, Baden-Baden, 2018, pag. 1285-1332, in particolare pag. 1291.


13      Il corsivo è mio.


14      V. sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punto 62) e sentenza del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C‑266/14, EU:C:2015:578, punto 27).


15      Il medesimo, come sopra detto, della direttiva 2003/88 per la quale dunque restano valide le precedenti interpretazioni offerte dalla Corte sulle disposizioni della direttiva previgente.


16      V. sentenza del 9 settembre 2003, Jaeger (C‑151/02, EU:C:2003:437, punti 58 e 59).


17      V. sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punto 55); sentenza del 3 ottobre 2000, Simap (C‑303/98, EU:C:2000:528, punto 47) e sentenza del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C‑266/14, EU:C:2015:578, punto 26).


18      V. sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punto 55).


19      F. Kéfer e J. Clesse, «Le temps de garde inactif, entre le temps de travail et le temps de repos», in Revue de la Faculté de droit de l’Université Liège, 2006, pag. 161.


20      V., per tutti, A. Supiot, «Alla ricerca della concordanza dei tempi (le disavventure europee del “tempo di lavoro”)», in Lav. dir., 1997, pag 15 e seguenti; nella dottrina italiana già P. Ichino, L’orario di lavoro e i riposi. Artt. 2107-2109, in P. Schlesinger (collana diretta da ), Il Codice Civile. Commentario, Giuffrè Editore, Milano, 1987, pag. 27. Più recentemente, J.-E. Ray, «Les astreintes, un temps du troisième type», in Dr. soc. (F), 1999, pag. 250; J. Barthelemy, «Temps de travail et de repos: l’apport du droit communautaire», in Dr. soc. (F), 2001, pag. 78.


21      V.L. Mitrus, «Potential implictions of the Matzak judgement (quality of rest time, right to disconnect)», in European Labour Law Journal, 2019, pag. 393, secondo cui «il rapporto binario tra “orario di lavoro” e “periodo di riposo” non sempre soddisfa le esigenze del mercato del lavoro attuale».


22      Tutte le parti intervenute all’udienza si sono dette contrarie all’introduzione di un tertium genus tra lavoro e riposo.


23      L’unica leva, estranea alle finalità della direttiva 2003/88, utilizzabile dai legislatori nazionali per un’ulteriore flessibilizzazione della nozione di orario di lavoro, nel senso di remunerare le limitazioni imposte al lavoratore durante il periodo di reperibilità continuativa, è quella retributiva. La Corte ha, infatti, ribadito il principio della libertà delle legislazioni nazionali di prevedere retribuzioni differenziate per remunerare situazioni nelle quali il lavoratore è in periodi di reperibilità continuativa; v. sentenza del 21 febbraio 2018, Matzak (C‑518/15, EU:C:2018:82, punto 52), in cui si legge che «l’articolo 2 della direttiva 2003/88 deve essere interpretato nel senso che esso non impone agli Stati membri di determinare la retribuzione dei periodi di guardia al proprio domicilio come quelli di cui al procedimento principale in funzione della qualificazione di tali periodi come “orario di lavoro” o “periodo di riposo”»; v. ordinanza del 4 marzo 2011, Grigore (C‑258/10, non pubblicata, EU:C:2011:122, punto 84) in cui si legge che «la direttiva 2003/88 dev’essere interpretata nel senso che l’obbligo del datore di lavoro di versare le retribuzioni e gli emolumenti analoghi per il periodo durante il quale la guardia forestale è tenuta a garantire la sorveglianza della particella boschiva di cui è responsabile dipende non da detta direttiva, ma delle pertinenti disposizioni del diritto nazionale».


24      V. conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C‑266/14, EU:C:2015:391, punto 31) e dottrina ivi richiamata alla nota 12.


25      In questo senso anche la Commissione nelle sue osservazioni scritte al punto 40.


26      V. sentenza del 3 ottobre 2000, Simap (C‑303/98, EU:C:2000:528, punti 48 a 50).


27      V. sentenza del 3 ottobre 2000, Simap (C‑303/98, EU:C:2000:528, punto 48).


28      Riguardante, come noto, il servizio di guardia in reperibilità di un vigile del fuoco volontario che, durante la reperibilità, era tenuto a stare nel proprio domicilio in attesa della chiamata a cui era tenuto a rispondere, pena sanzioni disciplinari, raggiungendo nel tempo di 8 minuti la caserma dei vigili del fuoco, già pronto in abiti da lavoro.


29      Il corsivo è mio.


30      Dove dalla coesistenza di due elementi della nozione di orario di lavoro contenuta nell’articolo 2 della direttiva 2003/88 (quello spaziale, cioè la presenza sul luogo di lavoro e quello di autorità, cioè l’essere a disposizione del datore di lavoro) aveva dedotto la presenza del terzo (quello professionale e cioè essere nell’esercizio della propria attività o delle proprie funzioni).


31      In questo senso anche la Commissione nelle sue osservazioni scritte, punto 61.


32      Articolo 2, punto 9), della direttiva 2003/88.


33      Il datore di lavoro ha infatti affermato che, dal procedimento in via principale, risulta che i lavoratori hanno perseguito diversi interessi e attività durante il periodo di reperibilità: alcuni sciavano, camminavano, altri scendevano a valle con la funivia, facevano la spesa o guardavano film o serie televisive (verbale di udienza, pag. 6).


34      V. ordinanza del 4 marzo 2011, Grigore (C‑258/10, non pubblicata, EU:C:2011:122, punto 70).


35      In questo senso anche V. Leccese, «Il diritto del lavoro europeo: l’orario di lavoro. Un focus sulla giurisprudenza della Corte di giustizia», 2016, pag. 7, inedito a quanto consta ma reperibile in http://giustizia.lazio.it/appello.it/form_conv_didattico/Leccese%20‑%20Diritto%20lavoro%20europeo%20e%20orario%20lavoroLECCESE.pdf, secondo cui «non v’è dubbio che la pietra miliare di tutto il ragionamento sia proprio rappresentata da un giudizio teleologico, che investe l’adeguatezza del riposo consentito al lavoratore rispetto al fine posto dalla direttiva».


36      V. ordinanza del 4 marzo 2011, Grigore (C‑258/10, non pubblicata, EU:C:2011:122, punto 68).


37      V. sentenza del 10 settembre 2015, Federación de Servicios Privados del sindicato Comisiones obreras (C‑266/14, EU:C:2015:578).


38      L’obbligo di rispondere alla chiamata in un tempo particolarmente breve «limita la libertà del lavoratore di gestire il proprio tempo. Esso implica limitazioni sia geografiche che temporali alle attività del lavoratore»; così L. Mitrus, «Potential implications of the Matzak judgment (quality of rest time, right to disconnect)», in European Labour Law Journal, 2019, pag. 391.


39      A. Frankart e M. Glorieux, «Temps de garde: regards rétrospectifs et prospectifs à la lumière des développements européens», in La loi sur le travail 40 ans d’application de la loi du 16 mars 1971 (sous la coordination scientifique de S. Gilson et L. Dear), Anthémis, Limal, 2011, pag. 374.


40      V. conclusioni dell’avvocato generale Sharpston nella causa Matzak (C‑518/15, EU:C:2017:619, punto 57).


41      In particolare nella causa C‑580/19, nel corso dell’udienza comune.


42      Così il governo finlandese nelle sue osservazioni scritte presentate nella causa collegata C‑580/19 (punto 22).