Language of document : ECLI:EU:C:2004:307

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ANTONIO TIZZANO

presentate il 18 maggio 2004 (1)

Causa C-200/02

Man Lavette Chen

Kunqian Catherine Zhu

contro

Secretary of State for the Home Department

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dall’Immigration Appellate Authority di Hatton Cross (Regno Unito)]

«Art. 18 CE – Direttive 73/148/CEE e 90/364/CEE – Minore, cittadino di uno Stato membro – Diritto di soggiorno in un altro Stato membro – Diritto della madre, cittadina di un Paese terzo, di soggiornare in tale Stato membro – Discriminazione in base alla nazionalità»





I –    Introduzione

1.     L’Immigration Appellate Authority (commissione di ricorso in materia di immigrazione) di Hatton Cross (Regno Unito) ci chiede se il diritto comunitario osti, nelle particolari e inconsuete circostanze del caso di specie, al rifiuto di uno Stato membro di concedere un permesso di soggiorno stabile ad una bambina in tenera età, cittadina di un altro Stato membro, che è vissuta sin dalla nascita nel territorio del primo Stato, e a sua madre, cittadina di uno Stato terzo.

II – Il diritto comunitario rilevante

2.     Come è noto, l’art. 17 CE istituisce una cittadinanza dell’Unione, che si aggiunge alla cittadinanza nazionale, e comporta in particolare, ai sensi dell’art. 18 CE, oltre agli altri diritti e doveri previsti dal Trattato «il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso».

3.     Tra le disposizioni di diritto derivato rilevanti in materia di circolazione e soggiorno, va qui ricordata in primo luogo la direttiva 73/148/CEE del Consiglio, del 21 maggio 1973, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri all’interno della Comunità in materia di stabilimento e di prestazione di servizi (in prosieguo: la «direttiva 73/148») (2).

4.     Ai sensi del suo art. 1

«1.      Gli Stati membri sopprimono, alle condizioni previste dalla presente direttiva, le restrizioni al trasferimento e al soggiorno:

(…)

b)      dei cittadini degli Stati membri che desiderino recarsi in un altro Stato membro in qualità di destinatari di una prestazione di servizi;

(…)

d)      degli ascendenti e discendenti dei cittadini suddetti e del coniuge di tali cittadini che sono a loro carico, qualunque sia la loro cittadinanza».

5.     L’art. 4, n. 2, primo comma, precisa che «[p]er i prestatori e per i destinatari di servizi il diritto di soggiorno corrisponde alla durata della prestazione».

6.     La direttiva 90/364/CEE del Consiglio, del 28 giugno 1990, relativa al diritto di soggiorno (in prosieguo: la «direttiva 90/364») (3), disciplina il diritto di circolazione e soggiorno delle persone non economicamente attive. Il suo art. 1 così dispone:

«1.      Gli Stati membri accordano il diritto di soggiorno ai cittadini degli Stati membri che non beneficiano di questo diritto in virtù di altre disposizioni del diritto comunitario nonché ai loro familiari quali sono definiti nel paragrafo 2, a condizione che essi dispongano per sé e per i propri familiari di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di risorse sufficienti per evitare che essi diventino durante il soggiorno un onere per l’assistenza sociale dello Stato membro ospitante.

(…)

2.      Hanno il diritto di installarsi in un altro Stato membro con il titolare del diritto di soggiorno, qualunque sia la loro nazionalità:

a)      il coniuge ed i loro discendenti a carico;

b)      gli ascendenti del titolare del diritto di soggiorno e del coniuge che sono a carico».

III – Fatti e procedimento

7.     Le questioni pregiudiziali sono state sollevate nell’ambito di un ricorso presentato innanzi all’Immigration Appellate Authority da Kunqian Catherine Zhu, cittadina irlandese nata il 16 settembre 2000 a Belfast (Regno Unito) (in prosieguo: la «piccola Catherine» o anche: la «prima ricorrente»), e da sua madre, Man Chen, cittadina cinese (in prosieguo: la «madre» o la«Signora Chen» o anche: la «seconda ricorrente»), contro il rifiuto del Secretary of State for the Home Department (in prosieguo: il «Secretary of State») di concedere loro un permesso di soggiorno stabile nel Regno Unito.

8.     La Signora Chen lavora con il marito, anch’egli cittadino cinese, per una società che ha sede nella Repubblica Popolare Cinese. Si tratta di un’impresa di considerevoli dimensioni, che produce ed esporta sostanze chimiche in varie parti del mondo, in particolare nel Regno Unito ed in altri Stati membri dell’Unione europea.

9.     Il Signor Chen è uno dei direttori di tale società, di cui detiene una partecipazione di controllo. Nelle sue funzioni di direttore egli effettua frequenti viaggi d’affari nel Regno Unito e in altri Stati membri dell’Unione europea.

10.   Prima della nascita di Catherine la coppia aveva un solo figlio, Huixiang Zhu, nato nella Repubblica Popolare Cinese nel 1998. I coniugi Chen avevano deciso di avere un secondo figlio, ma incontravano ostacoli nella politica di contenimento delle nascite, politica c.d. «del figlio unico», che la Repubblica Popolare Cinese adotta per dissuadere le coppie residenti in Cina dall’avere un secondo figlio.

11.   Nel corso dell’anno 2000, per evitare che la nascita del secondogenito, ormai imminente, potesse comportare le conseguenze negative legate alla suddetta politica demografica, la Signora Chen ha deciso di partorire all’estero e a questo fine si è recata nel Regno Unito.

12.   Catherine è venuta al mondo il 16 settembre 2000, a Belfast, nell’Irlanda del Nord.

13.   La scelta del luogo di nascita non è stata casuale. Devo ricordare infatti che, qualora siano soddisfatte certe condizioni, chiunque nasca nel territorio dell’isola d’Irlanda, anche al di fuori dei confini politici dell’Irlanda (Eire), acquista la cittadinanza irlandese. Come risulta dal fascicolo, fu proprio in considerazione di questa particolarità del diritto irlandese, ad essi segnalata da legali appositamente consultati, che i coniugi Chen decisero di far nascere la piccola a Belfast. Essi intendevano infatti sfruttare la cittadinanza comunitaria della bambina per assicurare a lei e alla madre la possibilità di stabilirsi nel Regno Unito.

14.   La situazione della piccola Catherine rispondeva infatti alle indicate condizioni previste dal diritto irlandese; essa ha quindi acquisito con la nascita la cittadinanza irlandese e con essa la cittadinanza dell’Unione. La bambina non ha per contro acquisito la cittadinanza britannica, perché non soddisfaceva ai requisiti posti a tal fine dalla rilevante legislazione del Regno Unito.

15.   In seguito, essendosi trasferita con la piccola a Cardiff, nel Galles, la Signora Chen ha presentato alle autorità britanniche domanda di permesso di soggiorno stabile nel Regno Unito per sé e per la figlia Catherine.

16.   Le domande sono state respinte con decisione del Secretary of State del 15 giugno 2000. Contro tale decisione la piccola Catherine e la madre hanno presentato ricorso innanzi all’Immigration Appellate Authority.

17.   Tale giudice  ha  constatato che la decisione impugnata era in linea di principio conforme al diritto nazionale applicabile nella specie. Una serie di circostanze, però, lo hanno indotto a chiedersi se essa fosse altresì conforme al diritto comunitario.

18.   A questo proposito, il giudice ha rilevato essenzialmente che la piccola Catherine, in quanto cittadina dell’Unione, potrebbe essere titolare di un diritto di soggiorno attribuitole direttamente dalle disposizioni dell’ordinamento comunitario; la madre, da parte sua, potrebbe godere di un diritto derivato da quello della figlia, in quanto è la responsabile principale della sua assistenza e del suo allevamento.

19.   Più specificamente poi, quanto alla bambina, ci si dovrebbe chiedere se il diritto di rimanere nel Regno Unito non discenda in primo luogo dalla sua qualità di destinataria di servizi, ai sensi della direttiva 73/148: la piccola Catherine è infatti destinataria nel Regno Unito di servizi di puericultura e di servizi medici forniti da privati a pagamento.

20.   Inoltre, madre e figlia, che sono sempre vissute sotto lo stesso tetto, costituiscono un nucleo familiare economicamente autosufficiente grazie ai mezzi che la madre mette a disposizione. Esse non sono state a carico di fondi pubblici britannici, né sembra ragionevole verranno ad esserlo. Entrambe sono titolari di un’assicurazione malattia. Non è da escludere pertanto, osserva il giudice del rinvio, che esse godano di un diritto di soggiorno in forza della direttiva 90/364.

21.   Infine, il giudice rileva che la piccola Catherine ha il diritto di entrare nel territorio della Repubblica Popolare Cinese per non più di 30 giorni alla volta e solo su autorizzazione del governo di quel Paese, di cui non ha la cittadinanza. Negare alla piccola o a sua madre il diritto di soggiornare nel Regno Unito potrebbe pertanto costituire un’interferenza illecita nella loro vita familiare, perché la possibilità di continuare a condurre una vita comune ne sarebbe grandemente ostacolata.

22.   Per queste ragioni l’Immigration Appellate Authority ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se, alla luce dei fatti della causa in esame, l’art. 1 della direttiva del Consiglio 73/148/CEE o, in alternativa, l’art. 1 della direttiva del Consiglio 90/364/CEE:

a)      conferisca alla prima ricorrente, che è minorenne e cittadina dell’Unione, il diritto di entrare in un altro Stato membro e di soggiornarvi;

b)      in caso affermativo, se, conseguentemente, esso conferisca alla seconda ricorrente, cittadina di uno Stato terzo che è anche madre e responsabile principale dell’assistenza della prima ricorrente, il diritto di risiedere con la prima ricorrente

i)      in quanto familiare a carico, o

ii)      per il fatto di aver vissuto con la prima ricorrente nel Paese d’origine di questa, ovvero

iii)      per un altro motivo speciale.

2)      Ove la prima ricorrente non sia una “cittadina di uno Stato membro” ai fini (…) della direttiva del Consiglio 73/148/CEE o dell’art. 1 della direttiva del Consiglio 90/364/CEE, quali siano i criteri rilevanti per stabilire se un bambino, che è cittadino dell’Unione, sia  [qualificabile come] “cittadino di uno Stato membro” ai fini dell’esercizio dei diritti conferiti dal diritto comunitario.

3)      Se, date le circostanze della causa in esame, i servizi di puericultura di cui è beneficiaria la prima ricorrente costituiscano servizi ai sensi della direttiva del Consiglio 73/148/CEE.

4)      Se, date le circostanze della causa in esame, alla prima ricorrente sia precluso il soggiorno nello Stato ospitante ai sensi dell’art. 1 della direttiva del Consiglio 90/364/CEE, in quanto le sue risorse provengono esclusivamente dal genitore che l’accompagna, che è cittadino di uno Stato terzo.

5)      Se, sulla base dei fatti particolari della causa in esame, l’art. 18, n. 1, CE conferisca alla prima ricorrente il diritto di entrare nello Stato membro ospitante e di soggiornarvi benché essa non abbia i requisiti per soggiornare nello Stato membro ospitante in base ad altre disposizioni del diritto comunitario.

6)      Se, in caso affermativo, la seconda ricorrente abbia conseguentemente il diritto di rimanere con la prima ricorrente durante tale periodo (4) nello Stato membro ospitante.

7)      In tale contesto, quale sia l’effetto del principio del rispetto dei diritti fondamentali (…) invocati dalle ricorrenti, [previsti in particolare dal]l’art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani, in virtù del quale ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare e del suo domicilio, in combinato disposto con l’art. 14 della stessa Convenzione, dal momento che la prima ricorrente non può vivere in Cina con la seconda ricorrente, il padre e il fratello».

23.   Nella procedura davanti alla Corte hanno presentato osservazioni le ricorrenti nella causa principale, l’Irlanda, il Regno Unito e la Commissione.

IV – Valutazione

A –    Premessa

24.   Come ho già accennato e come conferma la descrizione dei fatti, siamo qui in presenza di un caso certamente inconsueto e con caratteristiche così singolari che lo stesso dibattito tra le parti ne è risultato in qualche modo condizionato. Talvolta infatti queste sono parse preoccupate più di ricercare soluzioni altrettanto peculiari che di verificare se anche gli aspetti più eccentrici del caso non potessero essere ricondotti nel quadro delle consuete regole e principi dell’ordinamento, quali definiti dalla giurisprudenza della Corte. Come vedremo in seguito, invece, è proprio questa la via che deve essere, a mio avviso, percorsa per dare una risposta alle questioni sollevate dalla vicenda della piccola Catherine.

25.   A tal fine, conviene anzitutto accorpare i vari quesiti posti dal giudice del rinvio per far meglio emergere le questioni essenziali prospettate alla Corte ed anche per assicurare un’ordinata trattazione. Ciò può farsi, a me sembra, enucleando da quei quesiti due ordini di questioni, che si possono riassumere nei seguenti termini:

a) se la piccola Catherine abbia diritto di soggiornare stabilmente nel Regno Unito in quanto destinataria di servizi, ai sensi della direttiva 73/148, o in quanto cittadina comunitaria non attiva ma provvista di mezzi di sostentamento sufficienti e di assicurazione malattia, ai sensi della direttiva 90/364, o infine direttamente sulla base dell’art. 18 CE; e

b) se la madre goda di un diritto di soggiorno in quanto «familiare a carico» della piccola ai fini delle predette direttive, o in quanto responsabile principale dell’allevamento e dell’assistenza di Catherine, o infine in considerazione del diritto al rispetto della vita familiare sancito dall’art. 8 della CEDU.

26.   Affronterò quindi di seguito le questioni sollevate dal giudice del rinvio secondo l’indicata impostazione e prendendo in considerazione di volta in volta, nella misura in cui ciò si rivelerà necessario o opportuno, gli argomenti fatti valere dai soggetti che hanno presentato osservazioni nel corso del procedimento.

B –    Sulla natura interna della controversia

27.   Prima però di affrontare le indicate questioni devo soffermarmi su un’eccezione di irricevibilità sollevata dal governo del Regno Unito.

28.   In via preliminare, infatti, tale governo ha obiettato che la Corte non sarebbe competente a pronunciarsi sulle questioni proposte dal giudice a quo, perché la controversia riguarderebbe una situazione puramente interna. L’unico elemento di estraneità, vale a dire la cittadinanza della bambina, sarebbe l’artificioso frutto di una manovra dei coniugi Chen, che si configurerebbe come un abuso di diritto.

29.   Lascio da parte per il momento quest’ultimo aspetto, in quanto ritengo che la sua analisi potrà risultare più chiara dopo che avremo affrontato il merito delle questioni pregiudiziali (v. infra, paragrafo 109 e seguenti).

30.   Venendo invece all’eccezione relativa alla natura puramente interna della fattispecie, ricordo che, secondo il governo del Regno Unito, le ricorrenti non avrebbero mai esercitato la libertà di circolazione loro attribuita dal Trattato, perché non avrebbero mai lasciato il Regno Unito per recarsi in un altro Stato membro. Non vi sarebbero pertanto elementi di estraneità sufficienti a determinare l’applicazione del diritto comunitario alle richieste di permesso di soggiorno di cui si tratta.

31.   Credo però che l’obiezione non possa essere accolta.

32.   Ricordo anzitutto che, secondo la costante giurisprudenza comunitaria, il possesso della cittadinanza di uno Stato membro diverso da quello in cui una persona risiede è elemento sufficiente a determinare l’applicazione delle disposizioni del diritto comunitario, anche quando la persona che invoca quelle disposizioni non abbia mai varcato le frontiere dello Stato membro in cui risiede (5).

33.   In particolare, nella recente sentenza Garcia Avello, dopo aver ricordato che «[l]a cittadinanza dell’Unione, sancita dall’art. 17 CE, non ha (…) lo scopo di ampliare la sfera di applicazione ratione materiae del Trattato a situazioni nazionali che non abbiano alcun collegamento con il diritto comunitario» (6), la Corte ha avuto modo di chiarire che «[t]uttavia, sussiste un simile collegamento con il diritto comunitario nel caso di (…) cittadini di uno Stato membro i quali soggiornano legalmente nel territorio di un altro Stato membro» (7), e ciò indipendentemente dal fatto che essi abbiano esercitato le libertà di circolazione previste dal Trattato o invece, come in quel caso, siano vissuti sin dalla nascita nel territorio dello Stato membro ospite.

34.   La cittadinanza irlandese di Catherine, dunque, è elemento sufficiente a escludere che la controversia che la oppone, assieme alla madre, al Secretary of State sia puramente interna all’ordinamento britannico.

35.   Ad una conclusione diversa si potrebbe eventualmente pervenire solo ove si ritenesse che Catherine non possieda effettivamente la cittadinanza irlandese, o che comunque il possesso di quella cittadinanza non sia opponibile al governo del Regno Unito.

36.   Devo tuttavia notare che in nessuna fase della procedura, né di fronte al giudice nazionale né di fronte alla Corte, è mai stato messo in dubbio che la piccola Catherine possegga effettivamente la cittadinanza irlandese, come del resto non è stata contestata dal governo del Regno Unito la legittimità, dal punto di vista del diritto internazionale o comunitario, dell’attribuzione di quella cittadinanza da parte dello Stato irlandese.

37.   Così stando le cose, non è necessario prendere posizione sull’esistenza o meno di una norma di diritto internazionale generale secondo cui nessuno Stato sarebbe tenuto a riconoscere la cittadinanza attribuita ad un singolo da un altro Stato, in assenza di un legame reale ed effettivo dell’individuo con lo Stato nazionale (8).

38.   Mi limito a ricordare che, per quanto attiene all’ordinamento comunitario, la Corte ha affermato nelle sentenze Micheletti (9) e Kaur (10) che «la determinazione dei modi di acquisto e di perdita della cittadinanza rientra, in conformità al diritto internazionale, nella competenza di ciascuno Stato membro» (11), e che pertanto «[n]on spetta (…) alla legislazione di uno Stato membro limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un altro Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato» (12).

39.   Mi sembra pertanto di poter concludere che, in considerazione della cittadinanza irlandese della piccola Catherine, la controversia pendente davanti all’Immigration Authority rientra in linea di principio nell’ambito di applicazione del Trattato e che l’eccezione di irricevibilità sollevata dal governo del Regno Unito deve quindi essere respinta.

C –    Sul diritto di soggiorno della piccola Catherine

40.   Ciò posto, e passando al merito delle questioni più sopra enunciate [paragrafo 25, sub a)], ci si deve anzitutto chiedere quali siano i diritti di circolazione e soggiorno di cui gode nell’ordinamento comunitario una bambina, come Catherine, che sia cittadina di uno Stato membro dell’Unione ed abbia vissuto sin dalla nascita in un altro Stato membro.

–      Sulla possibilità per un minore di essere titolare dei diritti di circolazione e soggiorno

41.   A questo proposito, il governo irlandese sembra eccepire in via di principio che Catherine non potrebbe invocare i diritti di circolazione e soggiorno previsti dal Trattato.

42.   Se ho ben compreso il ragionamento di quel governo, infatti, data la sua tenera età, Catherine non sarebbe capace di esercitare autonomamente il diritto di scegliere un luogo di residenza e di stabilirsi in esso (13). Di conseguenza, non potrebbe essere considerata come destinataria dei diritti riconosciuti ai cittadini di uno Stato membro dalla direttiva 90/364 (14).

43.   Questo ragionamento non può essere condiviso. A me sembra infatti che esso nasca da una confusione tra la capacità di un soggetto ad essere titolare di diritti ed obblighi (capacità giuridica) (15) e la capacità dello stesso a porre in essere atti produttivi di effetti giuridici (capacità di agire) (16).

44.   Il fatto che il minore non possa autonomamente esercitare un diritto, non significa infatti che egli non abbia la capacità di essere destinatario della norma giuridica sulla quale quel diritto si fonda.

45.   Il ragionamento deve invece procedere in senso opposto. Poiché, secondo un principio generale comune (non solo) agli ordinamenti degli Stati membri, la capacità giuridica si acquista con la nascita, anche il minore è un soggetto di diritto e come tale, quindi, titolare dei diritti conferiti dall’ordinamento.

46.   Il fatto poi che egli non sia in grado di esercitarli autonomamente non fa venire meno la sua qualità di titolare di quei diritti. Al contrario, è proprio perché egli ha tale qualità che altri soggetti, a ciò deputati dall’ordinamento (genitori, tutore, ecc.), potranno far valere i suoi diritti, e potranno farlo non già perché ne siano essi i titolari, ma perché agiscono in nome e per conto del minore, cioè dell’unico e vero titolare di tali diritti.

47.   Nel caso di specie, comunque, la tesi sostenuta dal governo irlandese non solo non è suffragata da alcun dato testuale, ma non è giustificata neppure dalla natura dei diritti e delle libertà in questione. In effetti, essa appare incompatibile con le finalità perseguite dalle rilevanti previsioni del Trattato, cioè gli artt. 49 CE e seguenti, per quanto attiene alla libertà di circolazione dei servizi, e l’art. 18 CE, per quanto riguarda il diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione.

48.   Quanto agli artt. 49 CE e seguenti, è noto che uno degli obiettivi della libertà da essi istituita è proprio quello di facilitare la circolazione delle persone che devono muoversi per ricevere prestazioni di servizi (17).

49.   Ora, è giocoforza rilevare che un minore, anche in tenera età,  può ben essere destinatario di svariati servizi e tra questi anche di servizi di primordiale importanza (ad esempio, cure mediche).

50.   Per ciò stesso, quel minore sarà titolare dei diritti conferitigli dagli artt. 49 e seguenti CE, in quanto destinatario di servizi.  

51.   Quanto poi alle norme sul diritto di soggiorno, osservo che l’art. 18 CE, così come integrato dall’art. 1 della direttiva 90/364, intende garantire ad ogni cittadino comunitario – che soddisfi a certe condizioni – il diritto di stabilirsi in qualsiasi Stato membro, e ciò anche qualora non voglia o non possa svolgervi alcuna attività economica.

52.   Ora, considerato anche quanto ho chiarito poc’anzi (paragrafo 43 e seguenti), non vi è alcun motivo per privare un minore di un diritto attribuito in via generale a tutti i cittadini comunitari da una disposizione fondamentale del diritto comunitario, quale appunto è l’art. 18 CE. Sicché, se ricorrono le condizioni fissate dalla direttiva, anche il minore potrà vantare il diritto a soggiornare liberamente, in quanto persona economicamente non attiva, in uno Stato membro diverso da quello di cui ha la cittadinanza.

53.   Ciò del resto è chiaramente confermato dalla giurisprudenza della Corte, per la quale non vi è alcun dubbio che anche i minori possono essere titolari di diritti di soggiorno. Nella causa Echternach e Moritz (18), ad esempio, essa ha esplicitamente dichiarato che un minore, figlio di un lavoratore che abbia nel frattempo lasciato il Paese ospite, «conserva la facoltà di far valere le disposizioni del diritto comunitario» che gli consentono di restare in quel Paese per terminare gli studi già intrapresi (19).

54.   Né tale soluzione può variare in relazione all’età del minore, perché dal punto di vista dei principi la situazione non cambia.

55.   Ne concludo dunque che anche un minore in tenera età, come la piccola Catherine, può essere titolare dei diritti di circolazione e di soggiorno all’interno della Comunità.

–      Sulla sussistenza in concreto di un diritto di soggiorno della piccola Catherine

56.   Ciò posto da un punto di vista generale, si tratta allora di stabilire se, nel caso di specie, la piccola Catherine possa invocare un diritto di soggiorno, i) in quanto destinataria di servizi ai sensi della direttiva 73/148, o ii) sulla base delle previsioni dell’art. 18 CE e della direttiva 90/364.

57.   i) Comincerò con il constatare che il diritto di Catherine di soggiornare in modo duraturo nel Regno Unito non potrebbe fondarsi sulla sua qualità di destinataria di servizi di puericultura e di servizi medici (cfr. supra, paragrafo 19).

58.   Per quanto concerne i primi, infatti, anche a prescindere dal problema dell’individuazione del destinatario di tali servizi, che sembrerebbe in verità essere la madre, emerge dal fascicolo che le prestazioni in questione non sono effettuate a titolo temporaneo, ma a titolo permanente e continuativo.

59.   Ora, come ha giustamente ricordato la Commissione, la giurisprudenza comunitaria ha chiarito da tempo che la libertà di prestazione di servizi non può essere invocata in relazione ad «un’attività esercitata a titolo permanente, o comunque senza prevedibili limitazioni di durata» (20), perché in tal caso verrebbero invece in rilievo le disposizioni del Trattato relative allo stabilimento. Ciò vale in primo luogo per il prestatore, ma vale evidentemente, ed a maggior ragione, per il destinatario di servizi, che può invocare quella libertà solo nella misura in cui non intenda stabilirsi definitivamente nel Paese ospite (21).

60.   Ma uno stabile diritto di soggiorno di Catherine non potrebbe fondarsi neppure in relazione ad eventuali servizi medici. Questi infatti, per la loro stessa natura, sono forniti per una durata limitata. Se quindi ne fosse effettivamente destinataria (il che peraltro dal fascicolo non risulta con chiarezza), la piccola Catherine potrebbe vantare, secondo quanto esplicitamente prevede l’art. 4, n. 2, primo comma, della direttiva 73/148, il diritto di rimanere nel Regno Unito solo per i periodi necessari a ricevere quelle cure.

61.   Essa potrebbe cioè invocare un diritto di soggiorno temporaneo in corrispondenza per l’appunto «alla durata della prestazione», ma non potrebbe ottenere, in applicazione della suddetta direttiva, un permesso di soggiorno stabile.

62.   ii) Rimane allora da valutare se Catherine possa invocare un diritto di soggiorno nel Regno Unito in forza dell’art. 18 CE e della direttiva 90/364.

63.   L’art. 18 CE, lo ricordo, attribuisce a ogni cittadino dell’Unione il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, salve le limitazioni e le condizioni previste dal Trattato e dalle norme di diritto derivato.

64.   Ai fini del presente caso, tali limitazioni e condizioni sono definite dalla direttiva 90/364.

65.   L’art. 1, in particolare, nell’accordare «il diritto di soggiorno ai cittadini degli Stati membri che non beneficiano di questo diritto in virtù di altre disposizioni del diritto comunitario», impone la «condizione che essi dispongano per sé e per i propri familiari di un’assicurazione malattia che copre tutti i rischi nello Stato membro ospitante e di risorse sufficienti per evitare che essi diventino durante il soggiorno un onere per l’assistenza sociale dello Stato membro ospitante».

66.   Ora, come risulta dall’ordinanza del giudice del rinvio, la piccola Catherine è beneficiaria di un’assicurazione malattia adeguata e dispone altresì, per il tramite dei suoi familiari, di risorse sufficienti a scongiurare il pericolo che essa divenga «durante il soggiorno un onere per l’assistenza sociale dello Stato membro ospitante».

67.   Si direbbe dunque che entrambi i requisiti posti dalla direttiva siano rispettati.

68.   Non è questo tuttavia l’avviso dei governi intervenienti, i quali ritengono che la piccola Catherine non sia economicamente autosufficiente, perché le risorse finanziarie di cui essa dispone le sono in realtà garantite dalla madre.

69.   Secondo quei governi, il diritto di soggiorno istituito dalla direttiva 90/364 sarebbe in sostanza limitato ai soli soggetti che siano essi stessi titolari – «in [their] own right», suggerisce il governo irlandese – di redditi o rendite che garantiscano la disponibilità di risorse sufficienti.

70.   Devo tuttavia constatare che, come sottolinea a giusto titolo la Commissione, una tale limitazione del diritto di soggiorno non trova alcuna conferma nella lettera della direttiva, che si limita infatti a richiedere che le persone che invocano quel diritto «dispongano (…) di risorse sufficienti» (22).

71.   Né mi sembra del resto che una limitazione siffatta sarebbe coerente con le finalità della direttiva.

72.   Com’è noto, questa fu adottata per ampliare la portata del diritto di circolazione e di soggiorno, estendendolo a tutti i cittadini comunitari con i noti limiti volti ad evitare un «onere eccessivo per le finanze pubbliche dello Stato membro ospitante» (cfr. il quarto “considerando”).

73.   Con l’introduzione da parte del Trattato di Maastricht dell’art. 8 A nel Trattato CE, ora divenuto art. 18 CE, la libertà di circolazione e soggiorno è stata poi enunciata come diritto fondamentale dei cittadini comunitari, sia pur nei limiti e alle condizioni fissati (tra l’altro) dalla direttiva 90/364.

74.   In questo nuovo contesto, tale direttiva diventa di conseguenza un atto che limita l’esercizio di un diritto fondamentale. Le condizioni da essa imposte devono dunque essere interpretate in senso restrittivo, come tutte le eccezioni e limitazioni imposte alle libertà sancite dal Trattato. E’ quindi da escludere che la sua lettera possa essere forzata a tal punto da inserirvi una condizione non espressamente prevista, come quella ipotizzata dai governi intervenienti.

75.   Ma vi è di più. Come la Corte ha riconosciuto nella sentenza Baumbast e R, «l’esercizio del diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione può essere subordinato ai legittimi interessi degli Stati membri» (23); «[t]uttavia, l’applicazione di tali limitazioni e condizioni dev’essere operata nel rispetto dei limiti imposti a tale riguardo dal diritto comunitario e in conformità ai principi generali del medesimo, in particolare al principio di proporzionalità. Ciò significa che i provvedimenti nazionali adottati a tal fine devono essere appropriati e necessari per l’attuazione dello scopo perseguito» (24).

76.   Ora, a me pare che un’interpretazione della direttiva come quella proposta dal Regno Unito e dall’Irlanda darebbe luogo ad un ostacolo non necessario al perseguimento delle finalità della direttiva.

77.   Ciò che importa assicurare, infatti, è che i cittadini dell’Unione che esercitano la libertà di circolazione non divengano un peso per le finanze dello Stato ospite. Se dunque è necessario a questo fine che essi «dispongano» di risorse finanziarie sufficienti, non è invece affatto necessario pretendere l’ulteriore condizione, del resto di difficile precisazione, che quelle risorse debbano loro appartenere direttamente.

78.   In conclusione, ritengo che la Corte debba rispondere al giudice del rinvio nel senso che una minore in tenera età, cittadina comunitaria, che sia beneficiaria di un’assicurazione malattia idonea a coprire tutti i rischi nello Stato membro ospitante e che, pur non essendo direttamente titolare di redditi o rendite, abbia comunque a disposizione per il tramite dei genitori risorse sufficienti a escludere che essa possa diventare un onere per le finanze dello Stato membro ospitante, soddisfa le condizioni poste dall’art. 1 della direttiva 90/364 e gode dunque del diritto di soggiornare a tempo indeterminato nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui è cittadina.

D –    Sul diritto di soggiorno della madre

79.   Ciò posto, veniamo ora alla questione relativa al diritto di soggiorno della madre di Catherine.

80.   Mi pare del tutto scontato, per cominciare, che la Signora Chen, essendo cittadina di un Paese terzo, non può invocare il diritto di soggiorno attribuito ai cittadini comunitari dall’art. 1, n. 1, lett. b), della direttiva 73/148 (v. supra, paragrafo 4) e all’art. 1, n. 1, della direttiva 90/364 (v. supra, paragrafo 6).

–      Sull’esistenza di un diritto in quanto familiare «a carico»

81.   Ciò detto, si deve del pari escludere che la Signora Chen possa invocare il diritto di soggiorno previsto dall’art. 1, n. 1, lett. d), della direttiva 73/148, nonché dall’art. 1, n. 2, lett. b), della direttiva 90/364, a favore degli ascendenti «a carico» di un cittadino comunitario titolare di un diritto di soggiorno, quale che sia la loro cittadinanza.

82.   La giurisprudenza comunitaria ha infatti precisato che è familiare «a carico» quello che dipende per il soddisfacimento dei propri bisogni materiali dal sostentamento che gli fornisce un altro familiare (25).

83.   Questo, evidentemente, non accade nel caso di specie, visto che la signora Chen è economicamente autosufficiente, anzi è proprio lei a provvedere al soddisfacimento dei bisogni materiali della figlia.  

84.   Né si può ritenere, contrariamente a quanto suggerisce il giudice del rinvio, che la nozione di familiare a carico includa anche le persone «emozionalmente dipendenti» dal cittadino comunitario titolare del diritto di soggiorno, o le persone il cui diritto a rimanere in un Paese membro «dipenda» dal diritto del cittadino comunitario.

85.   Anche a voler prescindere dalla giurisprudenza della Corte appena ricordata, osservo che solo la versione in lingua inglese usa un temine neutro come «dependent», mentre, come rileva correttamente la Commissione, in tutte le altre versioni linguistiche il termine utilizzato rimanda, senza ambiguità, ad una dipendenza materiale.

86.   Nel caso di specie, quindi, la signora Chen non può essere qualificata come «familiare a carico» di Catherine ai sensi delle suddette direttive, nonostante l’indubbio legame affettivo («emotional») che la lega alla figlia e nonostante il fatto che il suo eventuale diritto a rimanere sia legato a quello della figlia.

87.   Mi sembra pertanto che né la direttiva 73/148 né la direttiva 90/364 attribuiscano direttamente alla Signora Chen un diritto stabile di soggiorno nel Regno Unito.

–      Sull’esistenza di un diritto di soggiorno derivato

88.   Ciò posto, resta da considerare se la madre di Catherine possa invocare un diritto di soggiorno derivato da quello della figlia.

89.   Dico subito che a mio avviso tale questione dovrebbe ricevere una risposta positiva.

90.   Ritengo infatti che l’opposta conclusione sarebbe manifestamente contraria agli interessi della minore e all’esigenza di rispettare l’unità della vita familiare. Ma soprattutto, essa priverebbe di ogni effetto utile il diritto di soggiorno conferito dal Trattato alla piccola Catherine, perché evidentemente questa, non potendo restare da sola nel Regno Unito, finirebbe con il non poter godere di quel diritto.

91.   Queste stesse considerazioni sembrano ispirare anche la giurisprudenza comunitaria. Nella sentenza Baumbast e R, infatti, la Corte riconobbe che «qualora i figli godano del diritto di soggiorno nello Stato membro ospitante» il diritto comunitario «consente al genitore (...) affidatario di tali figli, indipendentemente dalla sua nazionalità, di soggiornare con i medesimi in modo da agevolare l’esercizio di tale diritto» (26). È evidente che, se una simile conclusione valeva in un caso, come quello citato, di bambini in età scolare, a maggior ragione essa deve valere nel caso di una bambina in tenera età come Catherine.

92.   La ratio della richiamata giurisprudenza sta, evidentemente, anzitutto nell’esigenzadi tutelare l’interesse del minore, tenendo presente che proprio a questa finalità deve tendere l’esercizio della facoltà, concessa al genitore (o al tutore), di scegliere il luogo di stabilimento del minore in nome e per conto dello stesso.

93.   Ora, se le si negasse il diritto di soggiorno in Gran Bretagna, la madre potrebbe esercitare in nome e per conto di Catherine il diritto di stabilimento nel territorio di quello Stato solo in un senso manifestamente contrario all’interesse della figlia, perché in tale eventualità la piccola dovrebbe essere automaticamente abbandonata dalla madre.

94.   Per questo stesso motivo, dunque, detto diniego contrasterebbe anche con il principio del rispetto dell’unità della vita familiare, principio enunciato dall’art. 8 della Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (27) ed al quale la stessa Corte di giustizia riconosce importanza fondamentale (28).

95.   Per sfuggire a tali conseguenze, dunque, la signora Chen dovrebbe solo rinunciare ad esercitare il diritto della figlia a stabilirsi in Gran Bretagna. Il che significa però che, in contrasto con la giurisprudenza appena richiamata, il diritto di circolazione e soggiorno che la cittadina irlandese Catherine ricava dall’art. 18 CE e dalla direttiva 90/364 non solo non sarebbe «agevolato», ma sarebbe addirittura privato di qualsiasi effetto utile.

96.   Già per questo motivo, quindi, ritengo che la madre di Catherine possa invocare un diritto di soggiorno derivato da quello della piccola Chen.

97.   – Sul divieto di discriminazione in base alla nazionalità

98.   Ma a parte ciò, a me pare che l’attribuzione alla Signora Chen del diritto di soggiorno trovi un decisivo sostegno nell’art. 12 CE, che vieta, nel campo di applicazione del Trattato, ogni discriminazione in base alla nazionalità.

99.   Ritengo infatti che nella specie sussistano tutte le condizioni di applicazione di detta disposizione.

100. In primo luogo, la controversia di cui si discute rientra senz’altro nel campo di applicazione del Trattato, poiché riguarda il diritto di una cittadina comunitaria a soggiornare nel territorio di uno Stato membro, in applicazione dell’art. 18 CE e della direttiva 90/364, e ciò vale anche per quanto attiene al diritto di soggiorno della madre che, come si è appena visto, è inscindibilmente connesso a quello della figlia.

101. Ricordo poi che, secondo una giurisprudenza costante, il divieto di discriminazione «impone di non trattare situazioni analoghe in maniera differente e situazioni diverse in maniera uguale» (29).

102. Ora, come è emerso nel corso della procedura e in particolar modo nel corso dell’udienza, ove Catherine fosse una cittadina britannica (30), la madre – pur essendo cittadina di uno Stato terzo – avrebbe diritto a rimanere con la figlia nel Regno Unito.

103. Ciò significa che, a parità degli altri dati di fatto astrattamente rilevanti e in presenza dunque di una «situazione analoga», la nazionalità della figlia determinerebbe un trattamento favorevole per la domanda di permesso di soggiorno della madre.

104. Ora, non vi è alcuna ragione obiettiva che giustifichi una disparità di trattamento nel caso in esame.

105. Infatti, se una cittadina di un Paese terzo, in quanto madre di un bambino inglese, ha il diritto, per questo solo fatto, di rimanere nel Regno Unito, ciò avviene evidentemente in considerazione del ruolo fondamentale della madre negli affetti e nell’educazione del bambino, nonché, più in generale, per ragioni di tutela della famiglia e della sua unità.

106. Considerazioni di tal fatta, però, si applicano egualmente ad un caso come quello di specie, in cui il bambino, pur non potendo trarre il proprio diritto di soggiorno direttamente dalla cittadinanza britannica, gode nondimeno di un diritto di soggiorno stabile nel Regno Unito, a motivo della sua cittadinanza comunitaria. E’ di tutta evidenza, infatti, che il ruolo insostituibile di una madre negli affetti e nell’educazione di un minore in tenera età non dipende in alcun modo dalla cittadinanza del bambino.

107. Pertanto, in assenza di ragioni obiettive che possano giustificare un trattamento differenziato della domanda di soggiorno della madre in base alla nazionalità del bambino, si deve ritenere che le misure britanniche in questione costituiscano una discriminazione in base alla nazionalità contraria all’art. 12 CE.

–      Considerazioni conclusive

108. Concludo quindi proponendo alla Corte di rispondere al giudice del rinvio che il provvedimento con cui le autorità di uno Stato membro rigettano la domanda di un permesso di soggiorno stabile presentata dalla madre di una cittadina comunitaria minore, titolare di un diritto di soggiorno in quello stesso Stato membro, oltre a privare di effetto utile il diritto riconosciuto alla minore dall’art. 18 CE e dall’art. 1 della direttiva 90/364, costituisce una discriminazione in base alla nazionalità vietata dall’art. 12 CE.

E –    Sull’abuso di diritto

109. Come ho già accennato (v. supra paragrafo 28 e ss.), il governo del Regno Unito ha altresì eccepito che i coniugi Chen avrebbero fatto nascere la figlia nel territorio dell’Irlanda del Nord con la palese intenzione di garantirle l’acquisito della cittadinanza irlandese e con essa il diritto di soggiorno in un altro Paese membro della Comunità. La cittadinanza irlandese di Catherine avrebbe dunque un carattere «artificioso», essendo il frutto di un preciso disegno posto in essere dai genitori per acquisire un diritto di soggiorno nella Comunità.

110. Risulta però dalla giurisprudenza della Corte che uno Stato membro ha il diritto di adottare misure volte a impedire che, grazie alle possibilità offerte dal Trattato, gli interessati si avvalgano abusivamente o fraudolentemente del diritto comunitario per sottrarsi all’impero delle leggi nazionali (31).

111. Nel caso di specie, si sarebbe dunque in presenza di un abuso di diritto, suscettibile di influenzare l’esito della presente causa.

112. Per parte mia, tuttavia, non ritengo di poter condividere tale conclusione, anche a voler prescindere dalle riserve che, sul piano generale, suscita la trasposizione a livello comunitario di una nozione di cui già nei diritti nazionali è controversa l’esistenza ed ancor più incerta la definizione.

113. Comunque, anche a volersi collocare sul terreno delle argomentazioni britanniche, a me pare che il sistema dei rapporti tra l’ordinamento comunitario e gli ordinamenti degli Stati membri, così com’è stato delineato ormai da vari decenni dalla giurisprudenza della Corte, comporti necessariamente che l’abuso di un diritto conferito dal Trattato possa verificarsi solo in circostanze eccezionali, perché il fatto che l’applicazione di una norma nazionale sia esclusa in conseguenza dell’invocazione di un diritto conferito dall’ordinamento comunitario, costituisce la normale conseguenza del principio di supremazia del diritto comunitario.

114. Né la circostanza che l’interessato si ponga consapevolmente in una situazione di fatto che determina il sorgere a suo favore di un diritto derivante dall’ordinamento comunitario, al fine di evitare in tal modo l’applicazione di una certa normativa nazionale a lui sfavorevole, può essere, di per se stessa, elemento sufficiente a determinare l’inapplicabilità delle disposizioni comunitarie rilevanti (32).

115. Perché si possa eventualmente parlare di abuso del diritto, deve invece ancora risultare da «un insieme di circostanze oggettive» che, «nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa comunitaria, l’obiettivo perseguito dalla detta normativa non è stato raggiunto» (33). Occorre cioè accertare se l’interessato, nell’invocare la norma comunitaria che attribuisce il diritto in questione, ne tradisca lo spirito e la portata.

116. Il parametro di riferimento è dunque, essenzialmente, se vi sia stato o meno un travisamento delle finalità e degli obiettivi della norma comunitaria che attribuisce il diritto in questione.

117. Ora, nella specie, tali condizioni non sono a mio avviso presenti. Non ritengo, infatti, che il comportamento dei coniugi Chen possa essere considerato tale da implicare un’«elusione della legge nazionale da parte di cittadini comunitari che invoc[a]no, a fini illegittimi o fraudolenti, il diritto comunitario» (34).

118. E’ vero che la Signora Chen, nell’avvalersi delle disposizioni del Trattato che attribuiscono un diritto di soggiorno a Catherine e, di riflesso, a se stessa in quanto madre della piccola, finisce con lo sfuggire alle disposizioni inglesi che restringono il diritto di soggiorno dei cittadini di Paesi terzi.

119. Mi sembra però che non vi sia in ciò alcun travisamento delle finalità delle disposizioni comunitarie invocate.

120. Quale sia la finalità perseguita dalle disposizioni relative al diritto di soggiorno, in particolare dall’art. 18 CE, così com’è attuato dalla direttiva 90/364 e ribadito dall’art. 45 della Carta dei diritti fondamentali, è fin troppo evidente. Si tratta infatti di eliminare qualsiasi restrizione alla circolazione e al soggiorno dei cittadini comunitari, alla sola condizione che essi non costituiscano un onere per le finanze dello Stato ospite.

121. Ora, quando un futuro genitore decida, come nel caso di specie, che il bene della propria figlia minore richiede che essa acquisti la cittadinanza comunitaria per poter poi godere dei relativi diritti, ed in particolare del diritto di stabilimento di cui all’art. 18 CE, non c’è nulla di «abusivo» nel fatto che egli si attivi, nel rispetto delle leggi, per far sì che la bambina soddisfi, al momento della nascita, le condizioni per l’acquisto della cittadinanza di uno Stato membro.

122. Così come non può ritenersi «abusivo» il fatto che quel genitore si adoperi perché la bambina possa esercitare il proprio diritto di soggiorno, legittimamente acquisito, e chieda di conseguenza di essere ammesso a soggiornare con lei nel medesimo Stato ospite.

123. Non si è qui in presenza, infatti, di persone «che invoc[a]no a fini illegittimi o fraudolenti il diritto comunitario» (35), stravolgendo la portata e le finalità delle norme di quell’ordinamento, ma di persone che, conoscendo il contenuto delle libertà previste dal diritto comunitario, se ne avvalgono con mezzi legittimi, proprio per conseguire l’obiettivo che la norma comunitaria vuole garantire: il diritto di soggiorno della bambina.

124. Neppure la disapplicazione, nei confronti della madre, delle norme britanniche sul soggiorno dei cittadini di Paesi terzi può essere considerata come frutto di un abuso di diritto. Come si è visto, infatti, essa costituisce un risultato del tutto coerente con l’obiettivo della norma comunitaria in questione ed è addirittura condizione necessaria per conseguire tale obiettivo, in quanto consente di garantire ad una cittadina comunitaria il diritto a soggiornare liberamente nel territorio di uno Stato membro.

125. In realtà il problema, se di problema si può parlare, sta nel criterio di attribuzione della cittadinanza adottato dalla legislazione irlandese, lo ius soli (36), il quale si presta a provocare situazioni come quella di cui si tratta nel caso di specie.

126. Per evitare tali situazioni, in effetti, si sarebbe potuto temperare il suddetto criterio aggiungendovi una condizione di stabile residenza del genitore nel territorio dell’isola d’Irlanda (37). Ma una tale ulteriore condizione non sussiste nella legislazione irlandese, o comunque non era applicabile alla piccola Catherine.

127. In tali circostanze, lo ripeto, non si può certo rimproverare a Catherine o alla madre di avere legittimamente utilizzato le possibilità ed i diritti loro conferiti dal diritto comunitario.

128. Del resto, se si accettasse la tesi del Regno Unito si potrebbero ipotizzare sospetti di abuso in quasi tutti i casi di acquisto intenzionale della cittadinanza di uno Stato membro. Il che potrebbe paradossalmente portare a subordinare il godimento dei diritti che conseguono alla cittadinanza dell’Unione alla condizione … dell’involontarietà dell’acquisto della cittadinanza.

129. Ma ciò equivarrebbe a «limitare gli effetti dell’attribuzione della cittadinanza di un[o] Stato membro, pretendendo un requisito ulteriore per il riconoscimento di tale cittadinanza al fine dell’esercizio delle libertà fondamentali previste dal Trattato». E ciò, come la Corte ha già chiarito, nell’ordinamento comunitario non è consentito (38).

130. A mio modo di vedere, dunque, la risposta ai quesiti sottoposti alla Corte dal giudice del rinvio non può essere influenzata dalla circostanza che i coniugi Chen hanno fatto in modo che la figlia nascesse nel territorio dell’Irlanda del Nord proprio al fine di garantirle l’acquisto della cittadinanza irlandese e con essa il diritto di soggiorno nel Regno Unito e negli altri Paesi membri della Comunità.

F –     Sul diritto al rispetto della vita familiare

131. Avendo concluso che il diritto comunitario attribuisce a Catherine il diritto di stabilirsi nel Regno Unito ed alla madre il diritto di rimanere con la figlia, ritengo non sia necessario soffermarsi sulla questione della compatibilità delle misure nazionali con la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In effetti, l’interpretazione del Trattato che si è qui proposta è del tutto in linea, come si è visto, con i  valori espressi dall’art. 8 della CEDU, in particolare con l’esigenza di rispettare l’unità della vita familiare (v. supra, paragrafo 94).

V –    Conclusioni

132. Concludo pertanto proponendo alla Corte di rispondere ai quesiti sottoposti dall’Immigration Appellate Authority di Hatton Cross nel senso che:

«1)      Una minore in tenera età, cittadina comunitaria, che sia beneficiaria di un’assicurazione malattia idonea a coprire tutti i rischi nello Stato membro ospitante e che, pur non essendo direttamente titolare di redditi o rendite, abbia comunque a disposizione per il tramite dei genitori risorse sufficienti a escludere che essa possa diventare un onere per le finanze dello Stato membro ospitante soddisfa le condizioni poste dall’art. 1 della direttiva 90/364/CEE, del Consiglio, del 28 giugno 1990, relativa al diritto di soggiorno,  e gode dunque del diritto di soggiornare a tempo indeterminato nel territorio di uno Stato membro diverso da quello di cui è cittadina.

2)       Il provvedimento con cui le autorità di uno Stato membro rigettano la domanda di un permesso di soggiorno stabile presentata dalla madre di una cittadina comunitaria, minore, titolare di un diritto di soggiorno in quello stesso Stato membro, oltre a privare di effetto utile il diritto riconosciuto alla figlia dall’art. 18 CE e dall’art. 1 della direttiva 90/364 costituisce una discriminazione in base alla nazionalità vietata dall’art. 12 CE».


1 – Lingua originale: l'italiano.


2– GU L 172, pag. 14.


3 – GU L 180, pag. 26.


4 –      Così nell’ordinanza di rinvio.


5 – V., ad esempio, sentenza 27 settembre 1988, causa 235/87, Matteucci (Racc. pag. 5589), in cui si trattava del diritto di una cittadina italiana, nata e vissuta in Belgio, dove lavorava, a non essere discriminata quanto alla concessione di una borsa di perfezionamento. In precedenza v. la nota sentenza 28 ottobre 1975, causa 36/75, Rutili (Racc. pag. 1219), in cui la Corte ha ritenuto senz'altro applicabile l’art. 48 del Trattato, divenuto ora art. 39 CE, a provvedimenti restrittivi della libertà di movimento sul territorio francese di un lavoratore italiano che era nato e vissuto in Francia, dove lavorava e svolgeva attività sindacale.


6 – Sentenza 2 ottobre 2003, causa C‑148/02, Garcia Avello (Racc. pag. I-11613, punto 26).


7 – Ibidem, punto 27.


8 – Per l’affermazione di una regola siffatta, in relazione all’istituto della protezione diplomatica, ricordo la notissima sentenza della Corte Internazionale di giustizia nel caso Nottebohm (arrêt du 6 avril 1955, Liechtenstein c. Guatemala, deuxième phase, C.I.J. Recueil 1955, pag. 4, in particolare. pag. 20 e ss).


9  – Sentenza 7 luglio 1992, causa C‑369/90, Micheletti (Racc. pag. I-4239).


10  – Sentenza 20 febbraio 2001, causa C‑192/99, Kaur (Racc. pag. I-1237).


11  – Sentenza Micheletti, cit., punto 10; sentenza Kaur, cit., punto 19. Questa constatazione, va notato, è pienamente coerente con la giurisprudenza della Corte Internazionale di Giustizia, secondo la quale «[i]l appartient (…) à tout État souverain de régler par sa propre législation l’acquisition de sa nationalité» (sentenza Nottebohm, cit., pag. 20).


12  – Sentenza Micheletti, cit., punto 10; da ultimo v. sentenza Garcia Avello, cit., punto 28.


13 – La bambina sarebbe infatti «unable to assert a choice of residence in her own right».


14 – «While a minor, and unable to exercise a choice of residence, Catherine cannot be a “national” for the purposes of Art. 1(1)».


15 – «Capacité de jouissance»; «Rechtsfähigkeit»; nella terminologia giuridica inglese «“general” legal personality» (cfr. A. Heldrich, A.F. Steiner, “Legal Personality”, in International Encyclopedia of Comparative Law, vol. IV, Persons and Family, Tübingen, Dordrecht etc., 1995, Chapter 2, Persons, pag. 4).


16 – «Handlungsfähigkeit»; «capacité d’exercice»; nella terminologia giuridica inglese «capacity» o «active legal capacity» (v. A. Heldrich, A.F. Steiner, “Capacity”, in International Encyclopedia of Comparative Law, vol. IV, cit., pag. 9).


17  – La giurisprudenza comunitaria è costante, nel senso che anche il destinatario di servizi può invocare la libertà di prestazione dei servizi prevista dal Trattato (v. in questo senso, fra tante, sentenza 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, Racc. pag. 377, punto 16, e sentenza 2 febbraio 1989, causa 186/87, Cowan, Racc. pag. 195, punto 15).


18 – Sentenza 15 marzo 1989, cause riunite 389/87 e 390/87, Echternach e Moritz (Racc. pag. 723).


19 – Sentenza Echternach e Moritz, cit., punto 21. Nella specie si trattava del regolamento (CEE) del Consiglio n. 1612/68, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità (GU L 257, pag. 2), il cui art. 12 così dispone: «I figli del cittadino di uno Stato membro, che sia o sia stato occupato sul territorio di un altro Stato membro, sono ammessi a frequentare i corsi d’insegnamento generale, di apprendistato e di formazione professionale alle stesse condizioni previste per i cittadini di tale Stato, se i figli stessi vi risiedono».


20 – Sentenza 15 ottobre 1988, causa 196/87, Steymann (Racc. pag. 6159, punto 16).


21– Sentenza Steymann, cit., punto 17, e sentenza 17 giugno 1997, causa C-70/95, Sodemare e a. (Racc. pag. I-3395, punto 38).


22 – «Disposent (…) de ressources suffisantes» nel testo francese, «have sufficient resources» in quello inglese, «über ausreichende Existenzmittel verfügen» in quello tedesco, «dispongan (…) de recursos suficientes» in quello spagnolo (i corsivi sono miei).


23 – Sentenza 17 settembre 2002, causa C-413/99, Baumbast e R (Racc. pag. I‑7091, punto 90).


24 – Punto 91. Nello stesso senso, v., in precedenza, sentenza 2 agosto 1993, cause riunite C-259/91, C-331/91 e C-332/91, Allué e a. (Racc. pag. I-4309, punto 15).


25  – Sentenza 18 giugno 1987, causa 316/85, CPAS di Courcelles/Lebon (Racc. pag. 2811, punto 22).


26 – Sentenza Baumbast e R, cit., punto 75 (il corsivo è mio). In quel caso, si trattava di un genitore di nazionalità statunitense.


27 – Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo v. le sentenze 18 febbraio 1991, Moustaquim/Belgio; 19 febbraio 1996, Gül/Svizzera; 28 novembre 1996, Ahmut/Paesi Bassi; 11 luglio 2000, Ciliz/Paesi Bassi; 21 dicembre 2000, Sen/Paesi Bassi, tutte pubblicate sul sito http://hudoc.echr.coe.int nella raccolta elettronica della giurisprudenza CEDU.


28 – V., in particolare, sentenza 11 luglio 2002, causa C-60/00, Carpenter (Racc. pag I‑6279, punti 41-45).


29 – Da ultimo, v. sentenza Garcia Avello, cit., punto 31.


30 – Si noti che un’ipotesi del genere è del tutto realistica; a tal fine, infatti, sarebbe bastato che l’altro genitore avesse avuto la cittadinanza britannica o che, pur essendo cittadino straniero, avesse avuto diritto a risiedere stabilmente nel Regno Unito (Section 1 del British Nationality Act 1981: cfr. nota n. 8 delle osservazioni scritte presentate alla Corte dal Regno Unito).


31 – V., per tutte, sentenza 9 marzo 1999, causa C-212/97, Centros (Racc. pag. I‑1459, punto 24), e la vasta giurisprudenza ricordata dalla Corte in quell’occasione.


32 – Sentenza Centros, cit., punto 27, nonché ampiamente le conclusioni dell’avvocato generale La Pergola in quella stessa causa (Racc. 1999, pag. I‑1461 e ss)


33 – Sentenza 14 dicembre 2000, causa C-110/99, Emsland-Stärke (Racc. pag. I-11569, punto 52). Nello stesso senso v. anche sentenza Centros, cit., punto 25, e sentenza 21 novembre 2002, causa C-436/00, X e Y (Racc. pag I‑10829, punto 42).


34– Così la nozione di abuso del diritto comunitario secondo la sentenza 27 settembre 2001, causa C-63/99, Gloszczuk (Racc. pag. I-6369, punto 75). Il corsivo è mio.


35 – V. sentenza Gloszczuk, cit., punto 75.


36 – Non ha alcun rilievo, invece, ai fini della presente causa, il fatto che il «suolo» cui lo ius soli si riferisce, vale a dire la città di Belfast, non sia sottoposto, per le note vicende storiche dell’isola d’Irlanda, alla sovranità dell’Irlanda (Eire), ma del Regno Unito. Il problema di cui si tratta sarebbe infatti sorto negli stessi termini qualora la bambina fosse nata nel territorio dell’Irlanda (Eire) e si fosse poi trasferita a Belfast, o a Cardiff, con la madre.


37 – Così come, sia detto per inciso, è previsto all’art. 1 e all’allegato 2 dell’«Agreement between the government of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland and the government of Ireland», fatto a Belfast il 10 aprile 1998. L’art. 1, paragrafo vi), prevede infatti che i due governi «recognise the birthright of all the people of Northern Ireland to identify themselves and be accepted as Irish or British, or both, as they may so choose, and accordingly confirm that their right to hold both British and Irish citizenship is accepted by both Governments and would not be affected by any future change in the status of Northern Ireland». L’allegato 2, a sua volta, specifica che, ai fini del predetto art. 1, «the people of Northern Ireland» comprende «all persons born in Northern Ireland and having, at the time of their birth, at least one parent who is a British citizen, an Irish citizen or is otherwise entitled to reside in Northern Ireland without any restriction on their period of residence» (i corsivi sono miei).


38 – Cfr. sentenza Micheletti, cit., punto 10; sentenza Kaur, cit., punto 19.