Language of document : ECLI:EU:T:2007:31

ORDINANZA DEL TRIBUNALE (Terza Sezione)

5 febbraio 2007 (*)

«Incidenti procedurali – Eccezione d’irricevibilità – Ricorso per risarcimento danni – Lucro cessante – Domanda di rimborso di dazi antidumping – Incompetenza»

Nella causa T-91/05,

Sinara Handel GmbH, con sede in Colonia (Germania), rappresentata dagli avv.ti K. Adamantopoulos ed E. Petritsi,

ricorrente,

contro

Consiglio dell’Unione europea, rappresentato dal sig. J.-P. Hix, in qualità di agente, assistito dall’avv. G. Berrisch,

e

Commissione delle Comunità europee, rappresentata dai sigg. N. Khan e T. Scharf, in qualità di agenti,

convenuti,

avente ad oggetto un ricorso a norma dell’art. 288 CE, mirante al risarcimento dei danni che la ricorrente asserisce di aver subìto in seguito all’adozione del regolamento (CE) del Consiglio 17 novembre 1997, n. 2320, che istituisce dazi antidumping definitivi sulle importazioni di alcuni tipi di tubi senza saldatura, di ferro o di acciai non legati, originari dell’Ungheria, della Polonia, della Russia, della Repubblica ceca, della Romania e della Repubblica slovacca, che abroga il regolamento (CEE) n. 1189/93 e chiude il procedimento nei confronti di tali importazioni originarie della Repubblica di Croazia (GU L 322, pag. 1),

IL TRIBUNALE DI PRIMO GRADO

DELLE COMUNITÀ EUROPEE (Terza Sezione),

composto dal sig. M. Jaeger, presidente, dalla sig.ra V. Tiili e dal sig. O. Czúcz, giudici,

cancelliere: sig. E. Coulon

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

 Fatti all’origine della controversia

1        Con decisione non pubblicata del 25 novembre 1994 (caso IV/35.304), adottata specificamente sulla base dell’art. 14, n. 3, del regolamento del Consiglio 6 febbraio 1962, n. 17, primo regolamento d’applicazione degli articoli [81] e [82] del trattato (GU 1962, n. 13, pag. 204), la Commissione decideva di avviare un’indagine relativamente all’esistenza eventuale di pratiche anticoncorrenziali riguardanti i tubi di acciaio al carbonio, che potevano essere in contrasto con l’art. 53 dell’accordo sullo Spazio economico europeo, nonché con l’art. 81 CE.

2        In seguito a tale indagine, la Commissione decideva, il 20 gennaio 1999, di avviare un procedimento relativo al caso IV/E-1/35.860-B – Tubi d’acciaio senza saldatura, in esito al quale adottava, in data 8 dicembre 1999, la decisione 2003/382/CE, relativa ad un procedimento d’applicazione dell’articolo 81 CE (Caso IV/E-1/35.860-B Tubi d’acciaio senza saldatura) (GU L 140, pag. 1; in prosieguo : la «decisione sull’intesa»). A termini dell’art. 1, n. 1, di tale decisione, le otto imprese destinatarie della medesima «(…) hanno violato le disposizioni dell’articolo 81, paragrafo 1, del Trattato CE, partecipando (…) ad un accordo che prevedeva fra l’altro la protezione dei rispettivi mercati nazionali dei tubi OCTG [Oil Country Tubular Goods] filettati standard e linepipe project senza saldatura».

3        Nell’art. 1, n. 2, della decisione sull’accordo si afferma che l’infrazione è durata dal 1990 al 1995 per Mannesmannröhren-Werke AG, Vallourec SA, Dalmine SpA, Sumitomo Metal Industries Limited, Nippon Steel Corporation, Kawasaki Steel Corporation e NKK Corporation. Per British Steel Limited, si precisa che l’infrazione è durata dal 1990 al febbraio 1994. In conseguenza di tale infrazione alle imprese suindicate sono state inflitte ammende il cui importo variava, a seconda dei casi, da EUR 8,1 milioni a EUR 13,5 milioni.

4        La decisione in parola veniva pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea il 6 giugno 2003.

5        D’altra parte, in seguito ad una denuncia presentata dal comitato per la difesa dell’industria dei tubi d’acciaio senza saldatura in data 19 luglio 1996, la Commissione, in applicazione del regolamento (CE) del Consiglio 22 dicembre 1995, n. 384, relativo alla difesa contro le importazioni oggetto di dumping da parte di paesi non membri della Comunità europea (GU 1996, L 56, pag. 1), modificato dal regolamento (CE) del Consiglio 2 dicembre 1996, n. 2331 (GU L 317, pag. 1), pubblicava, il 31 agosto 1996, un avviso di apertura di un procedimento antidumping relativo alle importazioni di alcuni tipi di tubi senza saldatura, di ferro o di acciai non legati, originari della Russia, della Repubblica ceca, della Romania e della Slovacchia (GU C 253, pag. 26).

6        Il 29 maggio 1997 la Commissione adottava il regolamento (CE) n. 981/97, che impone dazi antidumping provvisori sulle importazioni di alcuni tipi di tubi senza saldatura, di ferro o di acciai non legati, originari della Russia, della Repubblica ceca, della Romania e della Repubblica slovacca (GU L 141, pag. 36).

7        In data 17 novembre 1997 il Consiglio adottava il regolamento (CE) n. 2320/97, che istituisce dazi antidumping definitivi sulle importazioni di alcuni tipi di tubi senza saldatura, di ferro o di acciai non legati, originari dell’Ungheria, della Polonia, della Russia, della Repubblica ceca, della Romania e della Repubblica slovacca, che abroga il regolamento (CEE) n. 1189/93 e chiude il procedimento nei confronti di tali importazioni originarie della Repubblica di Croazia (GU L 322, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento definitivo»).

8        Il 16 luglio 2004 il Consiglio adottava il regolamento (CE) n. 1322/2004, che modifica il regolamento definitivo (GU L 246, pag. 10). A termini dell’art. 1 di tale regolamento, al regolamento definitivo è aggiunto un art. 8, ai sensi del quale l’art. 1 del medesimo regolamento, che istituisce dazi antidumping sulle importazioni da esso considerate, non è più applicabile a decorrere dal 21 luglio 2004.

9        La ricorrente, Sinara Handel GmbH, è una società di diritto tedesco che importa nella Comunità tubi senza saldatura provenienti dalla Russia. Dall’anno 2000 essa distribuisce i prodotti della società Sinarsky Pipe Works e, a partire dalla fine del 2001, della Pipe Metallurgical Co. Durante il periodo considerato dal ricorso in esame, vale a dire tra giugno 2000 e dicembre 2002, la ricorrente non ha svolto altre attività.

10      Dal mese di giugno 2000 al mese di dicembre 2002, al fine di conformarsi alle indicazioni delle autorità doganali tedesche, la ricorrente importava nella Comunità tubi originari della Russia che dichiarava come rientranti nelle voci NC di cui all’art. 1, n. 1, del regolamento definitivo. Di conseguenza, le dette autorità procedevano alla riscossione dei dazi antidumping corrispondenti a tali importazioni, per un importo totale di EUR 2 818 163,09 (rispettivamente, EUR 420 810,52 per l’anno 2000, EUR 1 385 602,36 per l’anno 2001 e EUR 1 011 750,21 per l’anno 2002).

11      Nel corso del medesimo periodo la ricorrente importava anche altri tubi senza dichiararli come merci assoggettate all’applicazione del regolamento definitivo. Le autorità doganali tedesche, che avevano ciò nonostante ritenuto che alcune di tali importazioni rientrassero nell’ambito di applicazione del regolamento, emettevano avvisi di riscossione di dazi a posteriori, che venivano contestati dalla ricorrente. Attualmente, vi sarebbero perciò sette opposizioni pendenti dinanzi alle autorità doganali, mentre un ricorso giurisdizionale sarebbe pendente dinanzi al Finanzgericht des Landes Brandenburg (Tribunale tributario del Land di Brandeburgo, Germania).

12      D’altronde, ritenendo che, soprattutto in considerazione del metodo di fabbricazione, determinati tubi che erano stati dichiarati come soggetti al regolamento definitivo in realtà non ricadessero nell’ambito di applicazione di quest’ultimo, la ricorrente contestava la loro classificazione finale presso le autorità doganali tedesche. Pertanto, due procedimenti relativi alle importazioni dichiarate come soggette al regolamento definitivo sono sempre pendenti dinanzi alle autorità doganali di Francoforte sull’Oder.

13      Da una parte, il 18 novembre 2003, la ricorrente presentava alle dette autorità, sulla base dell’art. 236 del regolamento (CEE) del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1; in prosieguo: il « CDC »), una richiesta di rimborso dei dazi percepiti sulle importazioni che essa ritiene siano state erroneamente classificate come rientranti nell’ambito di applicazione del regolamento definitivo. Tale richiesta veniva respinta con riguardo a 31 delle diverse entrate doganali contestate. Tali decisioni di rigetto formano attualmente oggetto di un ricorso in appello.

14      D’altra parte, il 22 settembre 2004, la ricorrente presentava, sulla base dell’art. 236 del CDC, una nuova richiesta  di rimborso di tutti i dazi da essa pagati per le importazioni dichiarate come soggette al regolamento definitivo, ivi comprese le importazioni la cui classificazione doganale non viene contestata, in quanto il detto regolamento sarebbe illegittimo. L’importo totale dei dazi per i quali è così chiesto a tale titolo il rimborso a livello nazionale ammonta a EUR 4 346 558,09.

 Procedimento e conclusioni delle parti

15      Con atto introduttivo depositato nella cancelleria del Tribunale il 25 febbraio 2005, la ricorrente ha presentato il ricorso in esame.

16      Con atti separati pervenuti nella cancelleria del Tribunale, rispettivamente, in data 3 e 7 giugno 2005, la Commissione e il Consiglio hanno sollevato un’eccezione d’irricevibilità, conformemente all’art. 114, n. 1, del regolamento di procedura del Tribunale.

17      La ricorrente ha presentato le proprie osservazioni sulle dette eccezioni di irricevibilità il 25 luglio 2005.

18      Nell’ambito delle misure di organizzazione del procedimento di cui all’art. 64 del proprio regolamento di procedura, il Tribunale ha invitato la ricorrente a rispondere ad alcuni quesiti scritti. È stato ottemperato a tale richiesta.

19      La ricorrente conclude che il Tribunale voglia:

–        condannare la Comunità a versarle, come risarcimento per il lucro cessante da essa subìto in conseguenza dell’adozione del regolamento definitivo per il periodo giugno 2000 - dicembre 2002, l’importo di EUR 1 633 344,33, unitamente agli interessi di mora maturati al tasso annuo dell’8%;

–        in subordine, previa sentenza interlocutoria, condannare la Comunità a versarle, a questo stesso titolo, una somma da determinare di comune accordo tra le parti o, in mancanza, con sentenza definitiva del Tribunale;

–        condannare il Consiglio e la Commissione alle spese.

20      Nelle loro eccezioni di irricevibilità, il Consiglio e la Commissione concludono che il Tribunale voglia:

–        dichiarare il ricorso irricevibile;

–        condannare la ricorrente alle spese.

21      Nelle osservazioni relative alle eccezioni di irricevibilità, la ricorrente conclude che il Tribunale voglia:

–        respingere le eccezioni di irricevibilità del Consiglio e della Commissione;

–        condannare il Consiglio e la Commissione alle spese.

 In diritto

22      Ai sensi dell’art. 114, n. 1, del regolamento di procedura, se una parte ne fa richiesta, il Tribunale può statuire sull’irricevibilità, sull’incompetenza o su un incidente senza impegnare la discussione nel merito. Conformemente al n. 3 del medesimo regolamento, il procedimento sull’eccezione d’irricevibilità prosegue oralmente, salvo decisione contraria del Tribunale.

23      Nel caso di specie, il Tribunale ritiene di essere sufficientemente edotto sulla base dei documenti del fascicolo per statuire senza proseguire il procedimento.

 Sulla domanda principale

 Argomenti delle parti

24      Il Consiglio e la Commissione sostengono che il Tribunale non è competente a conoscere del presente ricorso, in quanto quest’ultimo, in realtà, è volto ad ottenere un rimborso dei dazi antidumping asseritamente pagati.

25      Infatti, il lucro cessante invocato dalla ricorrente sarebbe equivalente all’importo dei detti dazi al netto di eventuali imposte. Ciò risulterebbe dalla lettera del perito contabile in data 7 gennaio 2005 prodotta dalla ricorrente, in cui si legge:

«A motivo del pagamento di dazi antidumping dal 2000 al 2002 per un importo totale pari ad EUR 2 818 163,09, gli utili ricavati tra il 2000 e il 2002 sono diminuiti per uno stesso importo, con la conseguenza che, a causa di tale diminuzione degli utili, anche l’importo delle imposte dovute è stato meno elevato.

Nel caso in cui non fosse stato necessario pagare i dazi antidumping per un ammontare di EUR 2 818 163,09, gli utili relativi a tali anni sarebbero aumentati di EUR 2 818 163,09.

Dato che gli utili sarebbero stati di EUR 2 818 163,09, anche le imposte dovute su tali utili sarebbero state, di conseguenza, più elevate.

(...) Qualora i dazi antidumping per un ammontare di EUR 2 818 163,09  non fossero stati esigibili per gli anni dal 2000 al 2002, avrebbe dovuto essere pagato un importo aggiuntivo di EUR 1 184 818,76  a titolo di imposta. Il danno effettivo ammonta pertanto a EUR 1 633 344,33».

26      La Commissione sottolinea quindi che il danno lamentato dalla ricorrente non è che la conseguenza, sotto il profilo contabile, del versamento dei dazi antidumping asseritamente dovuti, il che non può essere definito come lucro cessante. Essa ricorda che, nella sentenza 24 ottobre 2000, causa T-178/98, Fresh Marine/Commissione (Racc. pag. II‑3331, punto 50), il Tribunale ha dichiarato che un ricorso per risarcimento danni dev’essere dichiarato irricevibile allorché tende in realtà alla revoca di un atto divenuto definitivo e avrebbe come conseguenza, nell’ipotesi di un suo accoglimento, di eliminare gli effetti giuridici dell’atto medesimo (sentenze del Tribunale 15 marzo 1995, causa T‑514/93, Cobrecaf e a./Commissione, Racc. pag. II-621, punto 59; 4 febbraio 1998, causa T-93/95, Laga/Commissione, Racc. pag. II-195, punto 48, e causa T-94/95, Landuyt/Commissione, Racc. pag. II-213, punto 48), come avviene, ad esempio, allorché il ricorso mira alla corresponsione di una somma d’importo esattamente pari a quello dei dazi pagati dal ricorrente in esecuzione di un atto divenuto definitivo (sentenza della Corte 26 febbraio 1986, causa 175/84, Krohn/Commissione, Racc. pag. 753, punto 33).

27      La Commissione ritiene che le circostanze della specie corrispondano a tale ipotesi, in quanto la ricorrente mira ad ottenere l’eliminazione degli effetti giuridici del regolamento definitivo così come esso le è stato applicato chiedendo, a titolo di risarcimento danni, una somma pari all’importo dei dazi effettivamente versati in forza di tale regolamento.

28      Inoltre, il Consiglio, da parte sua, osserva che il rimedio giuridico appropriato contro un avviso di rettifica finalizzato alla riscossione di dazi antidumping sarebbe un ricorso proposto a norma degli artt. 243 e 245 del CDC, quali applicati dalle pertinenti disposizioni dell’ordinamento nazionale dello Stato membro interessato, ovvero una domanda di sgravio conformemente all’art. 236 del CDC. Peraltro, la ricorrente avrebbe contestato gli avvisi di pagamento emessi dalle autorità doganale tedesche eccependo, in particolare, l’illegittimità del regolamento definitivo. In tal modo, qualora il giudice competente adito nutra dubbi circa la validità del detto regolamento, esso potrebbe adire la Corte in via pregiudiziale sulla base dell’art. 234 CE. Nell’ipotesi in cui la Corte dichiarasse invalido tale regolamento, il giudice nazionale annullerebbe gli avvisi di pagamento di guisa che alla ricorrente dovrebbe essere rimborsato l’intero ammontare dei dazi antidumping asseritamente versati, maggiorato degli interessi ad un tasso mensile dello 0,5%, conformemente agli artt. 236 e 238 dell’Abgabeordnung (codice fiscale tedesco).

29      Secondo una giurisprudenza costante, la ricorrente non potrebbe chiedere il rimborso dei dazi in occasione di un ricorso per risarcimento proposto a norma dell’art. 288, secondo comma, CE. Infatti, nella sentenza 13 marzo 1992, causa C‑282/90, Vreugdenhil/Commissione (Racc. pag. I‑1937, punto 12), la Corte avrebbe dichiarato che i giudici nazionali sono i soli competenti a conoscere di un’azione per la ripetizione di importi indebitamente riscossi da un’amministrazione nazionale in base ad una normativa comunitaria dichiarata in seguito invalida. Analogamente, nella sentenza 18 settembre 1995, causa T‑167/94, Nölle/Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑2589, punto 35), il Tribunale avrebbe affermato che, nel caso in cui un singolo si ritenga leso dall’applicazione di un atto normativo comunitario che considera illegittimo, egli ha la possibilità, qualora l’applicazione dell’atto sia affidata alle autorità nazionali, di contestare, in occasione di tale applicazione, la validità dell’atto dinanzi ad un giudice nazionale nell’ambito di una controversia che lo opponga all’autorità nazionale.

30      Gli argomenti della ricorrente secondo cui essa non sarebbe stata in grado di presentare in tempo utile un ricorso di annullamento contro il regolamento definitivo sarebbero irrilevanti al riguardo. Anzitutto, la questione riguarderebbe, nella specie, il rapporto tra il ricorso per risarcimento danni e il rinvio pregiudiziale avente ad oggetto la validità del regolamento e non già il rapporto tra il ricorso per risarcimento danni e il ricorso di annullamento. In secondo luogo, il motivo per il quale alla ricorrente sarebbe stata preclusa l’impugnazione del regolamento definitivo non sarebbe la sua presa di conoscenza tardiva della decisione sull’intesa, bensì il fatto che la ricorrente non sarebbe stata individualmente interessata dal regolamento medesimo, ai sensi dell’art. 230, quarto comma, CE. Infine, l’azione per risarcimento danni non potrebbe essere esperita allo scopo di sottrarsi ai termini d’impugnazione previsti dall’art. 230, quinto comma, CE (sentenza della Corte 12 dicembre 1967, causa 4/67, Collignon/Commissione, Racc. pag. 429).

31      Per quanto riguarda la menzionata sentenza Krohn/Commissione, citata dalla ricorrente, il Consiglio rileva che i passi della sentenza richiamati da quest’ultima vertono sulla questione di stabilire l’istanza dinanzi alla quale si debba chiedere un risarcimento nelle situazioni in cui le autorità nazionali hanno applicato il diritto comunitario, e non già la questione di stabilire la somma che possa essere percepita a titolo di riparazione in forza dell’art. 288, secondo comma, CE.

32      Inoltre, contrariamente a quanto afferma la ricorrente, tenuto conto del fatto che il giudice nazionale da essa adito ha la facoltà di deferire alla Corte di giustizia, in via pregiudiziale, la questione della validità del regolamento definitivo, i rimedi giuridici nazionali offrirebbero un mezzo efficace per assicurare la tutela dei singoli interessati.

33      Il Consiglio peraltro rileva che, comunque, il diritto comunitario direttamente applicabile prevede, all’art. 236 del CDC, un rimedio giuridico specifico per il caso di un’asserita riscossione abusiva dei dazi. Secondo il diritto comunitario, un debitore delle autorità doganali dovrebbe, quindi, anzitutto rimettersi alla tutela dei giudice nazionali anziché presentare un ricorso per risarcimento danni dinanzi ai giudici comunitari.

34      Infine, il Consiglio e la Commissione osservano che, in caso di accoglimento del presente ricorso, dovrebbe ugualmente venire accolto il ricorso presentato dalla ricorrente a livello nazionale contro gli avvisi di pagamento, il che, di conseguenza, comporterebbe l’attribuzione di un doppio risarcimento a favore della ricorrente.

35      La ricorrente ritiene infondati tali argomenti.

36      Essa evidenzia che il suo ricorso è diretto ad ottenere un risarcimento per il lucro cessante subìto per effetto del regolamento definitivo illegittimo, e non il rimborso dei dazi versati. Le eccezioni di irricevibilità riguarderebbero, in realtà, unicamente il metodo di calcolo del detto lucro cessante, che costituirebbe una questione di merito, e non la vera natura del ricorso.

37      A proposito di tale metodo, la ricorrente dichiara di aver utilizzato i dazi antidumping pagati come semplici «indicatori» del pregiudizio subìto, al fine di determinare quale sarebbe stata la sua situazione qualora non avesse pagato tali dazi. La relativa perdita sarebbe quindi stata stimata in base ad una comparazione tra gli utili realizzati dopo aver pagato i dazi antidumping in vigenza del regolamento definitivo e quelli che sarebbero stati realizzati in assenza di tale pagamento. Pertanto, la somma richiesta a titolo di risarcimento, per un importo di EUR 1 633 344,33, sarebbe diversa dalla somma di EUR 2 818 163,09, versata a titolo di dazi antidumping. Tale metodo di calcolo sarebbe inoltre stato riconosciuto dalla giurisprudenza (sentenza della Corte 4 ottobre 1979, causa 238/78, Ireks-Arkady/Consiglio e Commissione, Racc. pag. 2955, punto 13).

38      Perciò, il presente ricorso non sarebbe inteso ad annullare gli effetti giuridici del regolamento definitivo. Inoltre, nel caso in cui, come nella specie, l’atto all’origine del danno non possa essere impugnato ai sensi dell’art. 230 CE, un’azione di risarcimento danni come la presente sarebbe ricevibile. Qualora il ricorso venisse accolto, l’illegittimità del regolamento definitivo sarebbe soltanto una conseguenza indiretta e riguarderebbe solo le parti del procedimento. Il danno per il quale è chiesta una riparazione non avrebbe pertanto alcun nesso con gli effetti giuridici intrinseci del detto regolamento e non avrebbe potuto essere eliminato attraverso un ricorso di annullamento, come sarebbe stato considerato ai punti 47-51 della citata sentenza Fresh Marine/Commissione.

39      La ricorrente osserva che la giurisprudenza citata dal Consiglio e dalla Commissione riguarda il caso eccezionale in cui l’azione di risarcimento miri indirettamente ad aggirare l’irricevibilità di un ricorso di annullamento. Ciò non accadrebbe nel caso di specie, tenuto conto del fatto che l’illegittimità del regolamento definitivo non sarebbe stata evidente all’epoca in cui avrebbe potuto essere presentato un ricorso di annullamento, talché la ricorrente non avrebbe mai considerato tale possibilità. Gli argomenti dedotti dalla ricorrente con riguardo all’illegittimità del regolamento definitivo avrebbero pertanto l’unico scopo di dimostrare la responsabilità del Consiglio e della Commissione e non quello di eliminare gli effetti del detto regolamento, come sarebbe stato considerato nella sentenza del Tribunale 17 dicembre 2003, causa T-146/01, DLD Trading/Consiglio (Racc. pag. II‑6005, punto 52). Gli argomenti del Consiglio ignorerebbero perciò l’autonomia dell’azione di risarcimento e non terrebbero conto del fatto che nessun singolo, fosse stato esso o meno individualmente interessato, avrebbe potuto far valere l’illegittimità del regolamento definitivo sul fondamento invocato nel presente ricorso, vale a dire la mancata presa in considerazione della decisione sull’intesa, poiché tale elemento non poteva essere conosciuto nel periodo in cui il ricorso di annullamento avrebbe dovuto essere presentato.

40      D’altronde, a differenza della situazione prevalente nelle cause citate dal Consiglio e dalla Commissione al precedente punto 26, la ricorrente non cercherebbe di ottenere il pagamento di una somma che le è stata rifiutata. Non essendo mai stato respinto un suo ricorso di annullamento, non si potrebbe sostenere che la ricorrente abbia tentato indirettamente di ottenere lo stesso risultato attraverso un’azione di risarcimento. Per di più, il Consiglio e la Commissione non terrebbero conto del contesto che fa da sfondo all’affermazione di cui al punto 50 della citata sentenza Fresh Marine/Commissione, riprodotta nella giurisprudenza ivi citata, che sarebbe applicabile solo salvo le circostanze particolari di ciascuna causa.

41      Infine, la ricorrente sostiene che il presente ricorso non può portare ad un doppio rimborso dei dazi antidumping da essa pagati, nei limiti in cui esso mira ad ottenere una riparazione per il lucro cessante da essa subìto, che è di natura giuridica diversa dal rimborso delle somme indebitamente pagate. Del resto, i giudici nazionali non sarebbero competenti ad accordare il risarcimento del danno qualora all’origine del pregiudizio si trovi il comportamento delle istituzioni comunitarie.

42      Al riguardo la ricorrente osserva che, in quanto le autorità tedesche hanno applicato il regolamento definitivo valido, senza disporre di alcun margine discrezionale, il danno asserito dev’essere ricondotto al comportamento illecito delle istituzioni comunitarie. Pertanto, il giudice comunitario godrebbe di una competenza esclusiva a conoscere del presente ricorso, non essendo necessario che la ricorrente soddisfi l’obbligo di esaurimento dei rimedi giuridici nazionali (sentenza Krohn/Commissione, cit., punto 19). D’altra parte, il riferimento del Consiglio alla citata sentenza Vreugdenhil/Commissione sarebbe erroneo, poiché nel caso presente, contrariamente alla situazione considerata in tale sentenza, il regolamento definitivo non è mai stato dichiarato invalido. Inoltre, costringere la ricorrente ad esperire i rimedi giuridici nazionali a sua disposizione prima di proporre un ricorso per risarcimento danni sarebbe contrario ai principi di sana amministrazione della giustizia e di efficacia processuale (sentenza della Corte 24 ottobre 1973, causa 43/72, Merkur Aussenhandels/Commissione Racc. pag. 1055, punti 5-7). Infatti, poiché la ricorrente ha fatto valere l’illegittimità del regolamento definitivo come motivo complementare nell’ambito della controversia nazionale riguardante la classificazione delle sue importazioni, la decisione finale dei giudici nazionali sulla sua domanda di rimborso rischierebbe di essere adottata solo in una data remota.

43      In ogni caso, la ricorrente considera che, contrariamente alle esigenze della giurisprudenza, i rimedi giuridici nazionali di cui essa dispone non sono tali da garantire una tutela efficace dei suoi interessi, tenuto conto del fatto che essa ha potuto prendere conoscenza della decisione sull’intesa e, quindi, dell’illegittimità del regolamento definitivo, solo tardivamente. Di conseguenza, essa avrebbe presentato la sua domanda di rimborso di tutti i dazi pagati, conformemente all’art. 236 del CDC, sostenendo l’illegittimità del regolamento definitivo, soltanto il 22 settembre 2004, in seguito alla pubblicazione della decisione sull’intesa in data 6 giugno 2003 e all’adozione del regolamento n. 1322/2004, il 16 luglio 2004.

44      Pertanto, al momento dell’applicazione del regolamento definitivo, la ricorrente non sarebbe stata in grado di contestare la validità di quest’ultimo dinanzi ai giudici nazionali. Inoltre, a tenore dell’art. 236 del CDC, si procede al rimborso dei dazi quando si constati che al momento del pagamento il loro importo non era dovuto. Orbene, la ricorrente sottolinea che, nel periodo controverso, il regolamento definitivo era valido e che, di conseguenza, i dazi antidumping erano legalmente dovuti. Per di più, essa sostiene che, in considerazione del termine di prescrizione di tre anni a decorrere dalla notifica al debitore dei dazi stessi, previsto dall’art. 236 CE, essa ha potuto fondare la richiesta di rimborso dei dazi sull’illegittimità del regolamento definitivo solo per i tre anni precedenti alla presentazione del ricorso in data 22 settembre 2004. Essa non potrebbe quindi ottenere il rimborso dei dazi pagati tra il mese di giugno 2000 ed i mesi di settembre o di ottobre 2001.

 Giudizio del Tribunale

45      Il Consiglio e la Commissione sostengono, fondamentalmente, che il presente ricorso costituisce, in realtà, una domanda di rimborso dei dazi antidumping versati dalla ricorrente alle autorità doganali nazionali in applicazione del regolamento definitivo. Orbene, il Tribunale sarebbe incompetente a statuire su una tale domanda.

46      Al riguardo occorre anzitutto sottolineare che, ai sensi dell’art. 236, n. 2, del CDC, «[i]l rimborso o lo sgravio dei dazi all’importazione (…) viene concesso, su richiesta presentata all’ufficio doganale interessato, entro tre anni dalla data della notifica al debitore dei dazi stessi». Inoltre, l’art. 243, n. 1, primo comma, del CDC prevede che «[c]hiunque ha il diritto di proporre ricorso contro le decisioni prese dall’autorità doganale, concernenti l’applicazione della normativa doganale, quando esse lo riguardino direttamente e individualmente». Il terzo comma della medesima disposizione precisa che «[i]l ricorso è introdotto nello Stato membro in cui la decisione è stata presa (…)». Infine, a termini dell’art. 245 del CDC, «[l]e norme di attuazione della procedura di ricorso sono adottate dagli Stati membri».

47      Occorre quindi constatare che il diritto comunitario derivato applicabile ha espressamente previsto il rimedio giuridico esperibile da un debitore di dazi all’importazione il quale ritenga che tali dazi gli siano stati indebitamente imposti dalle autorità doganali. Tale rimedio viene esperito a livello nazionale, secondo la procedura di ricorso istituita dallo Stato membro considerato, in conformità ai principi enunciati negli artt. 243-246 del CDC. Nell’ambito di tale ricorso il debitore ha inoltre la facoltà di chiedere al giudice competente investito della controversia di procedere ad un rinvio pregiudiziale per accertamento di validità della normativa comunitaria sulla cui base è stata adottata la decisione di imposizione dei dazi, conformemente all’art. 234, primo comma, lett. b), CE.

48      In occasione di un ricorso per risarcimento danni proposto successivamente ad una sentenza pronunciata nell’ambito di un siffatto rinvio pregiudiziale per accertamento di validità, la Corte ha peraltro rilevato che i giudici nazionali sono i soli competenti a conoscere di un’azione per la ripetizione di importi indebitamente riscossi da un’amministrazione nazionale in base ad una normativa comunitaria dichiarata in seguito invalida (sentenza Vreugdenhil/Commissione, cit., punto 12).

49      Nella specie è vero che, formalmente, la ricorrente definisce il danno del quale chiede il risarcimento come lucro cessante. Orbene, il Tribunale ha già dichiarato che un ricorso diretto al risarcimento di un danno commerciale, equivalente al lucro cessante connesso alla sospensione delle sue esportazioni nella Comunità nonché al costo del ripristino della sua posizione sul mercato comunitario, a seguito di un illecito della Commissione che ha portato all’istituzione di misure provvisorie contro le importazioni dei suoi prodotti, era diverso da un ricorso avente ad oggetto l’abrogazione dei dazi antidumping e dei dazi compensativi provvisori istituiti sulle importazioni dei suoi prodotti nella Comunità e lo svincolo delle somme eventualmente depositate per via di questi dazi provvisori e che, di conseguenza, un siffatto ricorso doveva essere considerato ricevibile (v., in tal senso, sentenza Fresh Marine/Commissione, cit., punto 46).

50      Tuttavia, occorre constatare che, nell’atto introduttivo, la ricorrente indica espressamente che il presente ricorso mira a compensare il lucro cessante derivante dagli importi indebitamente pagati a titolo di dazi antidumping. Inoltre, come osservano il Consiglio e la Commissione, dalle spiegazioni fornite dalla ricorrente e dagli allegati 12 e 13 al ricorso, nonché dall’allegato 2 alle osservazioni sulle eccezioni di irricevibilità, risulta che la ricorrente valuta il proprio lucro cessante pari all’importo dei dazi antidumping pagati durante il periodo controverso, al netto delle imposte che essa avrebbe dovuto versare su tale somma qualora i detti dazi non fossero stati pagati.

51      Ne consegue che, al di là della denominazione puramente formale di lucro cessante attribuita al preteso danno, occorre constatare che quest’ultimo, come viene identificato e calcolato dalla ricorrente, dev’essere considerato, in realtà, come derivante immediatamente, necessariamente ed esclusivamente dal versamento dall’importo dovuto a titolo di dazi all’importazione imposti, di guisa che il presente ricorso consiste, in definitiva, in una domanda di rimborso, al netto da imposte, dei dazi che la ricorrente asserisce di aver indebitamente pagato. Il solo fatto che il danno del quale si chiede il risarcimento non corrisponda esattamente all’importo dei dazi effettivamente versato è, al riguardo, irrilevante, nei limiti in cui la differenza è dovuta alla mera deduzione, da tale importo, di imposte che la ricorrente avrebbe asseritamente dovuto pagare qualora i dazi antidumping non le fossero stati imposti. Tale circostanza non può pertanto incidere sulla natura stessa della presente domanda.

52      Orbene, conformemente alla giurisprudenza citata supra al punto 48, siffatta domanda di rimborso rientra nella competenza esclusiva dei giudici nazionali. Contrariamente alle affermazioni della ricorrente, è ininfluente, al riguardo, la circostanza che, nella specie, il regolamento definitivo non sia stato dichiarato invalido dalla Corte nell’ambito di un rinvio pregiudiziale per accertamento di validità.

53      Infatti, anche ipotizzando che, nell’ambito della verifica dei presupposti per l’insorgere della responsabilità extracontrattuale della Comunità, il Tribunale constati che il regolamento definitivo è illegittimo, tale circostanza non potrebbe comunque far acquisire al Tribunale la competenza a conoscere di una domanda di rimborso delle somme riscosse dalle autorità doganali in forza del regolamento medesimo.

54      Da un lato, occorre al riguardo ricordare che, ai sensi dell’art. 2, n. 1, lett. b), di entrambe le decisioni relative al sistema delle risorse proprie delle Comunità europee, divenute applicabili nell’ordine per quanto riguarda i fatti del caso di specie, cioè la decisione del Consiglio 31 ottobre 1994, 94/728/CE, Euratom (GU L 293, pag. 9), e poi, a decorrere dal 1° gennaio 2002, la decisione del Consiglio 29 settembre 2000, 2000/597/CE, Euratom (GU L 253, pag. 42), costituiscono risorse proprie iscritte nel bilancio delle Comunità le entrate provenienti «dai dazi della tariffa doganale comune e da altri dazi fissati o da fissare da parte delle istituzioni delle Comunità sugli scambi con i paesi terzi».

55      Inoltre, l’art. 8, n. 1, delle dette decisioni prevede, in particolare, che le risorse proprie della Comunità di cui all’art. 2, n. 1, lett. a) e b), siano riscosse dagli Stati membri ai sensi delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative nazionali, eventualmente adattate alle esigenze della normativa comunitaria.

56      Perciò, la circostanza che la competenza a riscuotere le risorse proprie della Comunità, tra le quali figurano i dazi antidumping, appartenga alle autorità nazionali motiva il fatto che le controversie relative alla restituzione dei dazi all’importazione percepiti per conto della Comunità rientrano nella competenza dei giudici nazionali e vanno risolte da questi ultimi nell’ambito della procedura di ricorso adottata dallo Stato membro interessato in conformità dei principi di cui agli artt.  243-246 del CDC (v., in tal senso, sentenza della Corte 21 maggio 1976, causa 26/74, Roquette Frères/Commissione, Racc. pag. 677, punto 11).

57      In proposito, occorre d’altronde rilevare che, nell’ambito della procedura prevista dall’art. 11, n. 8, del regolamento (CE) n. 384/96, che consente ad un importatore di chiedere il rimborso dei dazi riscossi se viene dimostrato che il margine di dumping in base al quale essi sono stati pagati è stato eliminato o ridotto ad un livello inferiore a quello del dazio in vigore, benché la domanda di rimborso di cui trattasi sia trasmessa dall’importatore alla Commissione tramite lo Stato membro sul territorio del quale i prodotti sono stati immessi, in libera pratica, nel caso in cui la Commissione decida che la detta domanda dev’essere accolta, il rimborso così autorizzato deve di norma essere effettuato dagli Stati membri entro novanta giorni dalla decisione della Commissione, conformemente all’ultimo comma della medesima disposizione.

58      D’altra parte, occorre rilevare che, come osservano il Consiglio e la Commissione, dagli elementi che la stessa ricorrente ha fornito risulta che, in data 18 novembre 2003, essa ha presentato, a norma dell’art. 236 del CDC, una richiesta di rimborso dei dazi antidumping riscossi a seguito di importazioni dichiarate soggette al regolamento definitivo, ma che essa riteneva fossero state erroneamente qualificate come tali. Tale richiesta è stata parzialmente respinta ed è attualmente oggetto di un giudizio d’appello. Inoltre, il 22 settembre 2004, la ricorrente ha proposto, sulla base della stessa disposizione, una richiesta di rimborso per tutti i dazi antidumping da essa versati, adducendo l’illegittimità del regolamento definitivo.

59      Così, non solo l’importo totale dei dazi antidumping alla fine pagati dalla ricorrente potrebbe venire ridotto, dal momento che la classificazione di alcune delle importazioni in questione è tuttora oggetto di controversia a livello nazionale, ma, per di più, è prevedibile che, in seguito ad un rinvio pregiudiziale per accertamento di validità del regolamento definitivo, la ricorrente ottenga, da parte delle autorità doganali nazionali, il rimborso dei dazi antidumping pagati.

60      Infatti, tenuto conto del fatto che, con il presente ricorso, la ricorrente cerca, in ultima analisi, di ottenere il rimborso dei dazi antidumping che le sono stati imposti per il motivo che essi sarebbero fondati su un regolamento illegittimo, si deve sottolineare che, secondo la giurisprudenza, il singolo, qualora si consideri leso dall’applicazione di un atto normativo comunitario da lui ritenuto illegittimo, dispone della possibilità, se l’applicazione dell’atto è affidata alle autorità nazionali, di contestare la validità dell’atto stesso, in occasione di tale applicazione, dinanzi al giudice nazionale, nell’ambito di una causa intentata contro l’autorità nazionale. Tale giudice può, o persino deve, nelle ipotesi contemplate dall’art. 234 CE, sottoporre alla Corte una questione relativa alla validità dell’atto comunitario controverso (sentenza della Corte 12 aprile 1984, causa 281/82, Unifrex/Consiglio e Commissione, Racc. pag. 1969, punto 11; v., inoltre, citata sentenza Nölle/Consiglio e Commissione, punto 35).

61      È pur vero che, nella sentenza 15 febbraio 2001, causa C-239/99, Nachi Europe (Racc. pag. I‑1197, punti 35-37), la Corte ha dichiarato che il principio giuridico generale che assicura al ricorrente il diritto, nell’ambito del ricorso proposto in base all’ordinamento nazionale contro il rigetto della sua domanda, di eccepire l’illegittimità dell’atto comunitario su cui è basato il provvedimento nazionale adottato nei suoi confronti non osta assolutamente a che un regolamento divenga definitivo nei confronti di un singolo soggetto, in relazione al quale esso dev’essere considerato come una decisione individuale e che avrebbe potuto senza alcun dubbio chiederne l’annullamento in virtù dell’art. 230 CE, il che impedisce al singolo di eccepire l’illegittimità del detto regolamento di fronte al giudice nazionale (v., con riferimento ad una decisione della Commissione, sentenza della Corte 9 marzo 1994, causa C-188/92, TWD Textilwerke Deggendorf, Racc. pag. I-833, punti 24 e 25). Secondo la Corte, tale conclusione è applicabile ai regolamenti che istituiscono dazi antidumping, a causa della loro duplice natura, derivante dal fatto che questi ultimi, pur avendo, per loro natura e portata, carattere normativo, possono riguardare direttamente e individualmente, in particolare, quelle imprese produttrici ed esportatrici che possono dimostrare di essere stata individuate negli atti della Commissione o del Consiglio o prese in considerazione nelle indagini preparatorie (sentenza della Corte 21 febbraio 1984, cause riunite 239/82 e 275/82, Allied Corporation e a./Commissione, Racc. pag. 1005, punto 12) o, ancora, quegli importatori i cui prezzi di rivendita delle merci di cui è causa sono alla base della costruzione del prezzo all’esportazione nel caso di associazione tra l’esportatore e l’importatore (sentenza della Corte 11 luglio 1990, cause riunite C‑305/86 e C-160/87, Neotype Techmashexport/Commissione e Consiglio, Racc. pag. I‑2945, punto 19).

62      Tuttavia, è giocoforza constatare che, nella specie, non risulta che la ricorrente sia interessata da una di tali ipotesi. Infatti, da una parte, la ricorrente non è minimamente individuata nel regolamento n. 981/97 e nel regolamento definitivo come impresa produttrice ed esportatrice e, in quanto impresa importatrice, non può essere interessata dalle indagini preparatorie a tale titolo. D’altra parte, non risulta da tali regolamenti che i prezzi di rivendita praticati dalla ricorrente abbiano costituito la base della costruzione del prezzo all’esportazione, anche supponendo che essa sia stata associata ad un esportatore. Ad ogni modo, poiché il regolamento definitivo è stato adottato il 17 novembre 1997, una tale presa in considerazione sarebbe stata impossibile dal punto di vista cronologico, tenuto conto della data di costituzione della ricorrente, e ciò indipendentemente dal fatto che ci si attenga all’affermazione della ricorrente secondo la quale essa si sarebbe costituita secondo il diritto tedesco nel giugno 2000 ovvero all’estratto del registro delle imprese dell’Amtsgericht Köln (Tribunale cantonale di Colonia, Germania), riprodotto nell’allegato 2 del ricorso, dal quale risulta che la prima iscrizione della ricorrente nel registro risale all’11 dicembre 1997.

63      Pertanto, senza neppure che si debba stabilire se il fatto che la ricorrente non abbia il diritto di eccepire l’illegittimità del regolamento definitivo giustifichi una legittimazione della stessa a proporre il presente ricorso, occorre constatare che la ricorrente non può essere considerata direttamente né individualmente interessata dal regolamento definitivo, talché non si può ritenere che la medesima non abbia il diritto di eccepire l’illegittimità del detto regolamento nell’ambito di una controversia nazionale in applicazione della giurisprudenza derivante dalla citata sentenza Nachi Europe.

64      Perciò, non si può affatto escludere che, nutrendo dubbi circa la validità del regolamento definitivo per i motivi fatti valere dalla ricorrente, vale a dire l’asserita mancata presa in considerazione da parte del detto regolamento definitivo dell’incidenza della decisione sull’intesa, il giudice nazionale investito della controversia proceda ad un rinvio pregiudiziale per accertamento di validità del regolamento medesimo dinanzi alla Corte e che, se del caso, quest’ultima dichiari lo stesso invalido.

65      Orbene, in tale ipotesi, occorre ricordare che una sentenza con cui la Corte accerti l’invalidità di un atto delle istituzioni comunitarie impone a tutti i giudici nazionali di considerare invalido tale atto (sentenza della Corte 13 maggio 1981, causa 66/80, International Chemical Corporation, Racc. pag. 1191, punti 12 e 13), e obbliga l’autore dell’atto dichiarato illegittimo a modificarlo o ad abrogarlo (sentenza della Corte 19 ottobre 1977, cause riunite 117/76 e 16/77, Ruckdeschel e a., Racc. pag. 1753). Inoltre, spetta anzitutto alle autorità nazionali trarre, nel proprio ordinamento giuridico, le conseguenze dalla declaratoria di tale illegittimità (sentenza della Corte 30 ottobre 1975, causa 23/75, Rey Soda, Racc. pag. 1279, punto 51), il che avrebbe come conseguenza che i dazi antidumping pagati non sarebbero più legalmente dovuti e dovrebbero, in via di principio, venire rimborsati dalle autorità doganali.

66      Oltre al fatto che dalle suesposte considerazioni emerge che la ricorrente dispone di un rimedio giuridico che le consente di contestare efficacemente la validità del regolamento definitivo con la prospettiva di ottenere il rimborso dei dazi antidumping percepiti sulla base di quest’ultimo, cui la ricorrente è stata assoggettata, occorre rilevare che, qualora il Tribunale dovesse accogliere la domanda della ricorrente, quest’ultima potrebbe essere risarcita due volte in idem.

67      Da tutto quanto precede deriva che, in quanto il presente ricorso dev’essere considerato, sostanzialmente, come una domanda di rimborso dei dazi antidumping pagati dalla ricorrente alle autorità doganali tedesche, il Tribunale non è competente a conoscere di essa.

68      Nessuno degli argomenti della ricorrente può rimettere in discussione tale conclusione.

69      Anzitutto, è pur vero che, come osserva la ricorrente, nella citata sentenza Merkur Aussenhandels/Commissione (punti 5 e 6), la Corte, rispondendo all’argomento della Commissione secondo cui occorreva rimettere la controversia alle autorità amministrative e giudiziarie nazionali, le quali sarebbero state indotte a sottoporre alla Corte la questione relativa alla validità dei regolamenti contestati, ha affermato che sarebbe in contrasto con il principio di sana amministrazione della giustizia e con quello dell’economia processuale costringere la ricorrente a far ricorso ai rimedi giuridici di diritto interno e ad attendere così a lungo la sentenza definitiva.

70      Tuttavia, tale causa si distingue dal presente ricorso in quanto aveva ad oggetto una domanda di risarcimento del danno che la ricorrente asseriva di aver subìto in conseguenza della mancata fissazione, da parte della Commissione, di importi compensativi per l’esportazione di prodotti trasformati a base d’orzo. Orbene, in tale caso, un’eventuale declaratoria d’invalidità del regolamento contestato a seguito dell’illegittima omissione, da parte della Commissione, della fissazione di tali importi non avrebbe avuto affatto come conseguenza la concessione alla ricorrente della riparazione del danno da essa reclamata sulla base dell’azione per danni, di guisa che, dopo aver ottenuto tale declaratoria di illegittimità, la ricorrente avrebbe dovuto comunque adire la Corte per ottenere un risarcimento del danno subìto, poiché le autorità nazionali non sono competenti a stabilire importi del genere.

71      D’altra parte, è giocoforza constatare che, come è stato esposto nei punti precedenti, il CDC prevede espressamente una procedura specifica a livello nazionale per il caso in cui un debitore ritenga che gli siano stati indebitamente imposti dazi all’importazione.

72      In secondo luogo, la ricorrente sostiene che, a seguito del termine di prescrizione di tre anni, previsto all’art. 236 del CDC, essa verrebbe privata del diritto di ottenere il rimborso dei dazi antidumping versati per il periodo anteriore al periodo di tre anni che precede la presentazione, il 22 settembre 2002, del suo ricorso, nell’ambito del quale essa avrebbe potuto, per la prima volta, eccepire l’illegittimità del regolamento definitivo. Prima di tale data, non le sarebbe infatti stato possibile prendere conoscenza di tale illegittimità. Perciò, i rimedi giuridici nazionali non sarebbero tali da assicurare alla ricorrente una tutela efficace dei suoi diritti, contrariamente a quanto richiesto dalla giurisprudenza.

73      Tale argomento non può essere accolto. Infatti, da un lato, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 236, n. 2, del CDC, il rimborso dai dazi all’importazione viene concesso su richiesta presentata all’ufficio doganale interessato, entro tre anni dalla data della notifica al debitore dei dazi stessi. A termini del secondo comma della medesima disposizione, «[q]uesto termine viene prorogato quando l’interessato fornisce la prova che gli è stato impossibile presentare la domanda nel termine stabilito per caso fortuito o di forza maggiore». Pertanto, lo stesso art. 236 del CDC prevede un’eventuale proroga del termine di prescrizione nelle ipotesi ivi contemplate. È dunque nell’ambito del CDC che la ricorrente deve poter ottenere tale proroga, se le circostanze da essa invocate lo giustificano. La ricorrente non può, ancora una volta, aggirare la procedura specifica di rimborso dei dazi prevista dal CDC, per l’unico motivo che la sua azione sarebbe, se del caso, parzialmente prescritta.

74      D’altra parte, è giocoforza constatare che la decisione sull’intesa, adottata l’8 dicembre 1999, è stata pubblicata il 6 giugno 2003, di guisa che, a decorrere da tale data, al più tardi, si deve ritenere che la ricorrente fosse a conoscenza del fatto generatore del danno, supponendo che la pretesa illegittimità del regolamento definitivo costituisca tale fatto.

75      Orbene, anche se la ricorrente sostiene che i detti dazi antidumping le sono stati imposti sulla base del regolamento definitivo sin dal mese di giugno del 2000, gli elementi di prova forniti al riguardo non consentono di confermare la veridicità di tale affermazione. Infatti, dall’allegato 3 alle osservazioni della ricorrente sulle eccezioni di irricevibilità, che la stessa ha prodotto come prova dei pagamenti effettuati, risulta che la ricorrente ha ricevuto, dalla società di spedizione e di trasporto Wesotra (il cui coinvolgimento non viene in alcun modo spiegato dalla ricorrente), richieste mensili di pagamento di dazi all’importazione da effettuare presso lo Hauptzollamt Frankfurt an der Oder (Ufficio doganale principale di Francoforte sull’Oder, Germania). Sebbene i conti bancari che accompagnano tali richieste sembrino attestare che la ricorrente ha soddisfatto tali richieste di pagamento presso l’Ufficio doganale principale, è impossibile stabilire, sulla base dei documenti prodotti, a che titolo la ricorrente abbia pagato i dazi all’importazione di cui trattasi e, in particolare, se sia stata tenuta a farlo in forza del regolamento definitivo. Ad ogni modo, la prima di tali richieste di pagamento, relativa al mese di giugno 2000, reca la data del 6 luglio 2000. Ne consegue che, al giorno della pubblicazione della decisione sull’intesa, il 6 giugno 2003, il termine di prescrizione di tre anni a decorrere dalla data di notifica dei dazi al debitore, di cui all’art. 236, n. 2, del CDC, non era scaduto, e che la ricorrente disponeva del termine ragionevole di un mese, a partire dalla data di pubblicazione della decisione sull’intesa, per presentare una domanda di rimborso eccependo l’illegittimità del regolamento definitivo, senza che nessuno dei dazi pagati fosse prescritto.

76      In terzo luogo, la ricorrente sostiene che l’eccezione di irricevibilità per sviamento di procedura non è applicabile nell’ipotesi in cui l’atto all’origine del danno non sia impugnabile ai sensi dell’art. 230 CE.

77      Al riguardo è sufficiente sottolineare che, come rileva il Consiglio, il presente ricorso dev’essere considerato irricevibile per il motivo che si risolve in una domanda di rimborso dei dazi antidumping pagati dalla ricorrente, il che non rientra nella competenza del Tribunale, e non in quanto si tratterebbe di uno sviamento di procedura ai sensi dell’art. 230 CE.

78      In quarto luogo, la ricorrente sostiene che, in considerazione del fatto che il danno asserito deriva da un comportamento illecito delle istituzioni comunitarie, il giudice comunitario gode di una competenza esclusiva a conoscere del presente ricorso, senza che esso debba soddisfare la condizione relativa al previo esaurimento dei rimedi giurisdizionali interni.

79      È pur vero che, secondo una giurisprudenza costante, in forza del combinato disposto dell’art. 235 CE e dell’art. 288 CE, il giudice comunitario ha competenza esclusiva per statuire sui ricorsi per risarcimento di un danno imputabile alle Comunità (sentenza Vreugdenhil/Commissione, cit., punto 14, e sentenza del Tribunale 13 dicembre 1995, cause riunite T-481/93 e T-484/93, Exporteurs in Levende Varkens e a./Commissione, Racc. pag. II‑2941, punto 72). Tale principio regola la ripartizione delle competenze tra il giudice comunitario ed i giudici nazionali nell’ambito delle azioni di risarcimento dei danni subiti dai singoli a seguito del comportamento delle autorità nazionali e comunitarie. Tuttavia, non si può dispensare il giudice comunitario dal compito di accertare la vera natura del ricorso di cui è investito per il solo motivo che il preteso illecito sarebbe imputabile alle istituzioni comunitarie. Orbene, nella specie, come è stato evidenziato in precedenza, il ricorso della ricorrente mira ad ottenere il rimborso, al netto d’imposta, dei dazi antidumping versati alle autorità doganali nazionali. Se è vero che l’illecito asserito dalla ricorrente è imputabile alla Comunità, è altrettanto vero che, conformemente alla giurisprudenza ricordata sopra, ai punti 48 e 60, tale domanda rientra nelle competenze dei giudici nazionali, i quali hanno la facoltà, e addirittura l’obbligo, alle condizioni previste all’art. 234 CE, terzo comma, di interpellare la Corte di giustizia in via pregiudiziale, al fine di ottenere una decisione sulla validità del regolamento definitivo.

80      Pertanto, l’argomento della ricorrente dev’essere respinto.

81      In quinto luogo, la ricorrente sostiene che, nella citata sentenza Ireks-Arkady/Consiglio e Commissione e nella sentenza 4 ottobre 1979, cause riunite 64/76 e 113/76, 167/78 e 239/78, 27/79, 28/79 e 45/79, Dumortier Frères e a./Consiglio e Commissione (Racc. pag. 3091), la Corte avrebbe convalidato il metodo consistente nel valutare il danno subìto in misura pari ai dazi indebitamente pagati.

82      Tale argomento è ciò nondimeno irrilevante nella specie. Al riguardo occorre sottolineare che nelle sentenze richiamate dalla ricorrente (Ireks-Arkady/Consiglio e Commissione, cit., punto 13, e Dumortier Frères e a./Consiglio, cit., punto 14), la Corte ha effettivamente considerato che l’importo delle restituzioni che avrebbe dovuto essere versato ai produttori di quellmehl e di gritz di granoturco qualora fosse stata rispettata la parità di trattamento con i produttori di amido di granoturco avrebbe dovuto servire da base di calcolo per valutare l’entità del pregiudizio subìto.

83      Infatti, in tali sentenze (punto 6), un’eventuale declaratoria, da parte della Corte, di invalidità del regolamento controverso che sopprimeva le restituzioni alla produzione di quellmehl e di gritz, sulla base di una violazione del principio della parità di trattamento, in quanto tali restituzioni erano state mantenute per l’amido gonfiato, non avrebbe potuto comportare, di per sé stessa, la riparazione del danno lamentato dalla ricorrente, vale a dire la mancata concessione di restituzioni, tenuto conto del fatto che le autorità nazionali non erano competenti ad accordare tali restituzioni.

84      Al contrario, nella specie, un’eventuale sentenza della Corte, adita in via pregiudiziale dal giudice nazionale competente, che dichiarasse l’invalidità del regolamento definitivo comporterebbe automaticamente l’obbligo delle autorità doganali tedesche di rimborsare alla ricorrente le somme indebitamente riscosse in forza del detto regolamento, talché il danno asserito verrebbe interamente compensato, come è stato esposto in precedenza.

85      Occorre inoltre rilevare che, nelle citate sentenze Ireks-Arkady/Consiglio e Commissione (punto 14) e Dumortier Frères e a./Consiglio (punto 15), la Corte ha unicamente affermato che l’ammontare delle restituzioni che avrebbe dovuto essere versato ai produttori interessati qualora fosse stato rispettato il principio della parità di trattamento forniva una base di calcolo per valutare l’entità del danno subìto dagli stessi produttori; essa ha poi aggiunto che si doveva ammettere che, qualora l’abolizione delle restituzioni fosse stata effettivamente ripercossa, o avesse potuto essere ripercossa, sui prezzi, l’entità del danno non avrebbe potuto venire calcolata in relazione all’ammontare delle restituzioni non corrisposte. Secondo la Corte, in questo caso l’aumento dei prezzi sostituirebbe il versamento delle restituzioni per tenere il produttore indenne.

86      Infine, in sesto luogo, l’argomento della ricorrente secondo cui le esigenze legate ai principi di sana amministrazione della giustizia e di economia processuale portano a ritenere ricevibile la sua domanda non può giustificare un pregiudizio alla coerenza del sistema dei rimedi giuridici predisposto dal Trattato e dal CDC. Inoltre, è dubbio il fatto che, nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il ricorrente cerchi solo di ottenere il rimborso dei dazi antidumping che asserisce di avere indebitamente pagato, il rimedio giuridico del ricorso per responsabilità extracontrattuale sia il più efficace e il più favorevole, tenuto conto, in particolare, delle condizioni relative alla natura grave e manifesta dell’illecito imputabile alle istituzioni comunitarie affinché possa sorgere un diritto al risarcimento per i singoli quando l’azione delle istituzioni comporta scelte di politica economica, mentre, come è stato esposto in precedenza, la sola dichiarazione d’invalidità del regolamento definitivo basta, in via principio, a privare i dazi antidumping della base legale, e, quindi, a giustificarne il loro rimborso da parte delle autorità doganali nazionali.

87      Ad abundantiam, quanto all’argomento della ricorrente secondo cui il ricorso in esame sarebbe appunto volto ad ottenere una riparazione per il lucro cessante e le eccezioni di irricevibilità sollevate dal Consiglio e dalla Commissione, in realtà, si riferirebbero unicamente al metodo usato per calcolare tale lucro cessante, argomento che costituirebbe una questione di merito, occorre ricordare che, ai sensi dell’art. 19 dello Statuto della Corte di giustizia applicabile al procedimento dinanzi al Tribunale di primo grado in forza dell’art. 46, primo comma, dello Statuto medesimo, e ai sensi dell’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura del Tribunale, il ricorso deve, tra l’altro, indicare l’oggetto della controversia e contenere un’esposizione sommaria dei motivi dedotti. Per soddisfare tali requisiti, un ricorso diretto ad ottenere il risarcimento dei danni che si asseriscono causati da un’istituzione comunitaria deve contenere gli elementi che consentano di individuare il comportamento che la ricorrente addebita all’istituzione, le ragioni per cui essa ritiene che esista un nesso di causalità tra il comportamento ed il danno che afferma di aver subìto nonché la natura e l’entità di tale danno. Per contro, una domanda intesa a ottenere un risarcimento qualunque manca della precisione necessaria e deve, di conseguenza, essere considerata irricevibile (sentenza della Corte 2 dicembre 1971, causa 5/71, Zuckerfabrik Schöppenstedt/Consiglio, Racc. pag. 975, punto 9; sentenze del Tribunale 10 luglio 1990, causa T-64/89, Automec/Commissione, Racc. pag. II‑367, punto 73, e 8 giugno 2000, cause riunite T-79/96, T-260/97 e T‑117/98, Camar e Tico/Commissione e Consiglio, Racc. p. II‑2193, punto 181).

88      Orbene, nella specie, anche nell’ipotesi in cui il metodo di calcolo proposto dalla ricorrente non giustificasse una riqualificazione del ricorso per risarcimento di un asserito lucro cessante come domanda di rimborso dei dazi antidumping, è giocoforza constatare che la ricorrente non indica affatto in che modo tale metodo possa dare un’idea dell’entità del lucro cessante né in che cosa consista tale lucro cessante. Nel ricorso, essa indica, tutt’al più, che stava procedendo all’acquisto del laminatoio romeno Artrom SA, operazione che costituiva un investimento sotto il profilo tecnico e al contempo organizzativo, di guisa che, in quanto la ricorrente sviluppava costantemente la gamma dei tubi proposti alla clientela, sarebbe possibile affermare che la sua redditività avrebbe potuto aumentare ulteriormente se il lucro cessante fosse stato impiegato e investito per le summenzionate operazioni. Oltre al fatto che la ricorrente non indica minimamente in che misura la valutazione proposta rifletta il lucro cessante derivante dall’impossibilità di investire nella società Artrom né dimostra che tale impossibilità fosse reale, è giocoforza constatare che, al punto 28 del ricorso, la stessa ricorrente dichiara di aver realizzato l’acquisto dell’Artrom. D’altronde, dall’ulteriore esposizione della ricorrente sembra emergere che, in tal modo, essa intende non già precisare in cosa consista il preteso lucro cessante stimato pari ad EUR 1 633 344,33, ma dimostrare che tale lucro cessante potrebbe in realtà essere superiore al detto importo, senza tuttavia fornire alcuna stima di tale lucro cessante supplementare.

89      Pertanto, quand’anche si dovesse ritenere che la domanda principale non si risolva in una domanda di rimborso dei dazi antidumping, occorre concludere che essa non soddisfa i requisiti formali del ricorso previsti dall’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura.

90      Da tutto quanto precede risulta che la domanda principale dev’essere dichiarata irricevibile, senza neppure che occorra una pronuncia sull’eccezione di irricevibilità, sollevata dalla Commissione, relativa alla violazione delle forme sostanziali di cui all’art. 44, n. 1, sub c), del regolamento di procedura, in quanto il ricorso non dimostrerebbe l’esistenza di un danno.

 Sulla domanda proposta in subordine

 Argomenti delle parti

91      Nelle conclusioni del ricorso, la ricorrente chiede «in subordine, a titolo di risarcimento per lucro cessante per il periodo giugno 2000 - dicembre 2002, una somma da determinare nel corso del procedimento, previa sentenza interlocutoria del Tribunale, di comune accordo tra le parti o, in caso di mancato raggiungimento di tale accordo, da una sentenza definitiva del Tribunale».

92      Il Consiglio e la Commissione ritengono che anche la domanda diretta ad ottenere una sentenza interlocutoria del Tribunale che accerti la responsabilità della Comunità debba essere dichiarata irricevibile.

93      Secondo il Consiglio, dal ricorso emergerebbe che tale domanda viene presentata, vuoi per l’eventualità in cui il danno fatto valere nella domanda principale, ossia il lucro cessante subìto in conseguenza del pagamento dei dazi antidumping, non fosse quantificabile, vuoi al fine di ottenere il risarcimento di un danno supplementare derivante dal fatto che alla ricorrente sarebbe stato impedito investire e quindi aumentare ulteriormente la propria redditività.

94      Nella prima ipotesi, il Consiglio ritiene che la domanda sia irricevile per gli stessi motivi della domanda principale. Quanto alla seconda ipotesi, la domanda non soddisfarebbe i requisiti di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura. La ricorrente si limiterebbe, infatti, ad asserire di poter far valere che la propria redditività avrebbe potuto essere ancor più elevata qualora il mancato guadagno fosse stato utilizzato e investito per le esigenze Artrom, che essa stava acquistando, e che la sua redditività avrebbe potuto essere ancora maggiore, senza fornire il benché minimo elemento di prova con riguardo a tali affermazioni.

95      Pertanto la domanda in esame non rientrerebbe nello stesso contesto di fatto che ha portato alla pronuncia della sentenza 30 settembre 1998, causa T-149/96, Coldiretti e a./Consiglio e Commissione (Racc. pag. II‑3841, punti 49 e 50), in cui il Tribunale ha dichiarato che «stime particolareggiate delle perdite che si assumono subite» autorizzavano a considerare il ricorso sufficientemente preciso.

96      Così, secondo il Consiglio, il giudice comunitario si pronuncerebbe con sentenza interlocutoria nell’ambito di un ricorso per risarcimento solo quando risultassero soddisfatti tutti i requisiti sostanziali di cui all’art. 288, secondo comma, CE, ma difficoltà di ordine pratico impedissero il calcolo esatto del danno. L’insorgere del danno dovrebbe tuttavia essere certo e il ricorso dovrebbe fornire gli elementi atti ad identificare il carattere e la natura del danno stesso, il che sarebbe confermato dalla citata sentenza Coldiretti e a./Consiglio e Commissione, e dalla sentenza della Corte 14 maggio 1975, causa 74/74, CNTA/Commissione (Racc. pag. 533, punti 42 e 45-47), citate dalla ricorrente.

97      La Commissione sostiene che, per sua natura, una domanda subordinata è meno importante della domanda principale, di modo che la domanda subordinata in esame non potrebbe aggiungere nulla alla domanda principale, e sarebbe quindi irricevibile.

98      Ad ogni modo, la presente domanda sarebbe subordinata alla domanda principale, con la conseguenza che l’irricevibilità di quest’ultima comporterebbe l’irricevibilità della prima. Al riguardo, il Tribunale non potrebbe riqualificare la domanda subordinata come domanda supplementare senza statuire ultra petita.

99      Se il Tribunale procedesse tuttavia ad una siffatta riqualificazione, la Commissione sostiene che la domanda sarebbe irricevibile poiché non soddisfa i requisiti di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura. Il ricorso si riassumerebbe, su tale punto, in una serie di congetture che non potrebbe interpretarsi come un’argomentazione chiara, precisa e specifica. La Commissione ribadisce infine l’argomento secondo cui la ricorrente non dimostra in alcun modo che il danno discenda da una corretta applicazione del regolamento definitivo da parte delle autorità doganali nazionali e non da un’applicazione errata del medesimo regolamento. Pertanto, neppure nell’ambito della domanda subordinata la ricorrente fornirebbe una qualsiasi prova del fatto che il suo preteso danno derivi da un illecito interamente imputabile alle istituzioni comunitarie. Poiché l’esposizione dei motivi della ricorrente sarebbe insufficiente, la presente domanda sarebbe quindi irricevibile.

100    La ricorrente precisa che la sua domanda, quale risulta dal ricorso, dev’essere appunto considerata come una domanda subordinata. Essa è stata formulata per il solo caso in cui il Tribunale non le concedesse la somma esatta richiesta, a motivo vuoi dalla contestazione del metodo di calcolo utilizzato o dell’importo del lucro cessante, vuoi delle particolari difficoltà che il Tribunale potrebbe eventualmente incontrare nella determinazione del detto importo.

101    Inoltre, l’affermazione della Commissione secondo cui una domanda subordinata è, per definizione, meno importante della domanda principale sarebbe infondata. Infatti, nella specie, l’unica differenza tra le due domande della ricorrente consisterebbe nel fatto che l’una indica un importo preciso mentre l’altra invita il Tribunale a determinare tale importo con una sentenza interlocutoria. La ricorrente precisa, quindi, che nella domanda subordinata non viene lamentato alcun danno eccedente il lucro cessante.

102    La ricorrente sostiene, infine, che tutte le condizioni affinché il Tribunale emetta una sentenza interlocutoria sono soddisfatte nella specie. Da una parte, essa avrebbe esposto chiaramente il motivo per cui le istituzioni comunitarie devono essere ritenute responsabili ai sensi dell’art. 288, secondo comma, CE. D’altra parte, essa avrebbe dimostrato di aver subìto un danno preciso ed avrebbe fornito informazioni dettagliate sui criteri utilizzati per valutare l’importo del danno medesimo. Infine, essa avrebbe spiegato perché tale importo è di difficile determinazione. Il Tribunale potrebbe quindi statuire sulla questione principale, riservando ad una fase successiva la valutazione del danno. La ricorrente chiede pertanto al Tribunale di pronunciarsi in una fase preliminare e di riservare ad una fase successiva la valutazione del danno e del nesso causale tra il comportamento addebitato alla Comunità ed il detto danno, come è stato già deciso nella citata sentenza Krohn/Commissione, e nella sentenza della Corte 13 febbraio 1979, causa 101/78, Granaria (Racc. pag. 623).

 Giudizio del Tribunale

103    In limine, occorre rilevare che, alla fine del punto 149 del ricorso, la ricorrente asserisce che, qualora avesse potuto disporre della somma corrispondente ai dazi pagati, «è probabile che la [sua] redditività (…) avrebbe potuto essere ancora più elevata, se il lucro cessante fosse stato utilizzato ed investito» nella società Artrom. Pertanto, è giocoforza constatare che agli occhi della stessa ricorrente il danno derivante dalla pretesa impossibilità di investire nella suddetta società è diverso dal lucro cessante calcolato in precedenza, contrariamente a quanto essa sembra affermare nelle sue osservazioni relative alle eccezioni d’irricevibilità.

104    Nel ricorso, la ricorrente aggiunge che, «tenuto conto della [sua] redditività (…) nei primi anni di esercizio, in base al corso normale degli eventi, essa avrebbe potuto continuare a realizzare maggiori utili» e che «il danno effettivamente [da lei] sofferto poteva forse eccedere la somma di EUR 1 633 344,33, nei limiti in cui non può essere esclusa una redditività maggiore della società».

105    Infine, dopo un’analisi della giurisprudenza, la ricorrente conclude la sua domanda di sentenza interlocutoria dichiarando che, «in quanto sono state apportate prove sufficienti di un danno certo e [essa] trova difficoltà a fornire una stima definitiva di un’ulteriore lucro cessante, [essa] chiede al Tribunale di condannare la Comunità europea a risarcire il danno subìto versando la somma di EUR 1 633 344,33 a titolo di lucro cessante o, in subordine, di autorizzare le parti a regolare la questione relativa al risarcimento nell’ambito di un accordo amichevole dopo che il Tribunale si sia pronunciato, in una sentenza interlocutoria, sulla questione relativa al risarcimento».

106    Di conseguenza, nel ricorso, la ricorrente giustifica le sue difficoltà a definire con esattezza il danno subìto con la sola motivazione che il pregiudizio poteva rivelarsi superiore al lucro cessante inizialmente calcolato sulla base dei dazi antidumping da essa versati, tenuto conto, in particolare, degli investimenti che avrebbe potuto realizzare e della maggiore redditività che avrebbe verosimilmente raggiunto. Perciò, contrariamente a quanto afferma nelle sue osservazioni relative alle eccezioni di irricevibilità del Consiglio e della Commissione, la ricorrente non ha affatto sostenuto, nel ricorso, che le difficoltà incontrate nel valutare il danno riguardavano l’importo di EUR 1 633 344,33 reclamato a titolo di lucro cessante nella domanda principale o il metodo impiegato per ricavare tale importo.

107    Tale argomento, sollevato nell’ambito delle osservazioni relative alle eccezioni di irricevibilità, non è quindi ricevibile ed opera tardivamente una reinterpretazione del ricorso snaturandone perfino i termini.

108    Quanto alla ricevibilità della domanda subordinata in sé e per sé, occorre ricordare che, al fine di garantire la certezza del diritto ed una sana amministrazione della giustizia, è necessario, affinché un ricorso sia ricevibile, che gli elementi essenziali di fatto e di diritto sui quali esso è fondato emergano, anche sommariamente, purché in modo coerente e comprensibile, dall’atto introduttivo stesso (sentenze della Corte 13 dicembre 1990, causa C-347/88, Commissione/Grecia, Racc. pag. I‑4747, punto 28, e 31 marzo1992, causa C‑52/90, Commissione/Danimarca, Racc. pag. I‑2187, punti 17 e segg.; ordinanza del Tribunale 29 novembre 1993, causa T-56/92, Koelman/Commissione, Racc. pag. II-1267, punto 21; sentenza del Tribunale 18 settembre 1996, causa T‑387/94, Asia Motor France e a./Commissione, Racc. pag. II‑961, punto 106; ordinanza del Tribunale 21 novembre 1996, causa T-53/96, Syndicat des producteurs de viande bovine e a./Commissione, Racc. pag. II‑1579, punto 21, e sentenza del Tribunale 29 gennaio 1998, causa T-113/95, Dubois et fils /Consiglio e Commissione, Racc. pag. II‑125, punto 29).

109    Per essere conforme a tali requisiti, un ricorso inteso al risarcimento del danno causato da un’istituzione comunitaria deve contenere elementi che consentano di identificare, tra l’altro, il danno che il ricorrente asserisce di aver subìto e, più precisamente, il carattere e l’entità di tale danno (sentenza Exporteurs in Levende Varkens e a./Commissione, cit., punto 75; in tal senso, v., ugualmente, ordinanza Koelman/Commissione, cit., punti 22-24).

110    Solo in via del tutto eccezionale il Tribunale ha ammesso, in situazioni particolari (sentenza Automec/Commissione, cit., punti 75-77), che non è indispensabile precisare nell’atto introduttivo l’entità esatta del danno e quantificare l’importo del risarcimento chiesto. Al riguardo è stato altresì dichiarato che, nel ricorso, il ricorrente deve dimostrare, o almeno indicare, l’esistenza di tali situazioni (ordinanza del Tribunale 14 maggio 1998, causa T-262/97, Goldstein/Commissione, Racc. pag. II‑2175, punto 25).

111    Così, il fatto che la Corte e il Tribunale abbiano già avuto occasione di pronunciarsi, con sentenza interlocutoria, sul principio dell’insorgere della responsabilità della Comunità, riservando la determinazione esatta del risarcimento ad una decisione successiva, non può dispensare un ricorrente dall’osservanza dei requisiti di forma minimi di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura. Ne consegue altresì che il ricorrente che chieda al Tribunale la pronuncia di una sentenza di tal genere, non soltanto è obbligato a fornire gli elementi necessari per identificare il comportamento addebitato alla Comunità, il carattere e la natura del danno sofferto e il nesso di causalità tra il detto comportamento ed il danno, ma deve inoltre indicare le ragioni che giustifichino una deroga al requisito secondo cui il ricorso deve contenere una quantificazione del danno lamentato.

112    Il Tribunale ha così ammesso, nella sentenza richiamata dalla ricorrente, Coldiretti e a./Consiglio e Commissione, citata supra, che il ricorso, pur non quantificando in maniera definitiva i danni sofferti da ciascun allevatore, doveva nondimeno essere considerato ricevibile, dopo aver constatato che il ricorso menzionava, alle pagg. 18 e 19, le varie categorie di danni sofferti dagli allevatori di bovini, vale a dire: in primo luogo, il danno emergente derivante dalla vendita sottocosto degli animali vivi ad un prezzo che, secondo i ricorrenti, sarebbe stato inferiore del 40% alle loro aspettative; in secondo luogo, il danno emergente derivante dai costi di mantenimento degli animali invenduti alla fine del ciclo d’ingrasso; in terzo luogo, il lucro cessante derivante dalla mancata vendita di animali per l’anno in corso e, in quarto luogo, il lucro cessante derivante dal calo costante dei consumi di carne bovina negli anni immediatamente successivi. Inoltre, il Tribunale ha rilevato che gli allegati al ricorso contenevano stime particolareggiate delle pretese perdite subite dagli allevamenti bovini italiani, ed erano ivi indicati i criteri e parametri seguiti per tali valutazioni. Infine, il Tribunale ha osservato che, nonostante la produzione di tali stime, i ricorrenti avevano sottolineato le enormi difficoltà da essi incontrate per valutare e quantificare correttamente il danno sofferto da ciascun allevatore, e specificavano che proprio per questa ragione avevano chiesto che questo accertamento complesso fosse compiuto da un collegio di periti. Il Tribunale ne ha concluso che occorreva pertanto ammettere che il ricorso, integrato con le informazioni prodotte negli allegati, era sufficientemente preciso per quanto riguardava la natura ed il carattere dei danni fatti valere e non aveva impedito né ai convenuti né al Tribunale di conoscere l’entità approssimativa di tali danni.

113    Orbene, è giocoforza constatare che, nella specie, il ricorso non soddisfa tali condizioni.

114    Infatti, nel caso in cui, conformemente ad un’interpretazione restrittiva del ricorso, si ritenesse che la domanda subordinata sia intesa ad ottenere la pronuncia di una sentenza interlocutoria per il motivo che il danno potrebbe risultare superiore al lucro cessante derivante dalla perdita di utili lamentata in via principale, tale domanda dovrebbe subito essere considerata irricevibile per la parte del danno che riguarda tale lucro cessante per gli stessi motivi della domanda principale. Quanto alla parte del danno riguardante il lucro cessante che la ricorrente asserisce di aver subìto oltre al lucro cessante lamentato nella domanda principale (in prosieguo: il «lucro cessante supplementare»), è giocoforza constatare che la ricorrente si limita ad affermare che non è escluso che la sua redditività sarebbe stata maggiore qualora non le fossero stati imposti i dazi antidumping. A sostegno di tale affermazione, la ricorrente indica semplicemente che, all’epoca dei fatti, essa procedeva all’acquisto di un laminatoio romeno, operazione che avrebbe costituito un buon investimento dal punto di vista sia tecnico che organizzativo. Si doveva inoltre tenere conto del fatto che la ricorrente aggiornava costantemente la gamma di tubi offerti alla clientela, in particolare dopo aver cominciato la distribuzione per la società TMK. Perciò, la ricorrente conclude che, se il «lucro cessante fosse stato utilizzato e investito per le summenzionate esigenze (…), è possibile affermare che la [sua] redditività avrebbe potuto essere ancor più elevata».

115    Oltre al fatto che la ricorrente non fornisce una stima in cifre di tale lucro cessante supplementare, le indicazioni, tutto sommato poco chiare, riportate poc’anzi costituiscono solo vaghe affermazioni prive di qualsiasi argomentazione o elemento di prova, che vengono presentate dalla stessa ricorrente come semplici congetture. Così esse non consentono in alcun modo al Tribunale e alla parte convenuta di identificare con la certezza e la precisione necessarie il carattere e la natura del danno fatto valere, né di accertarne la reale sussistenza o di valutarne l’ammontare, anche solo in maniera approssimativa, né, addirittura, di individuare il metodo in base al quale la ricorrente intende calcolare quest’ultimo. L’unica indicazione, figurante al punto 151 del ricorso, secondo cui «la perdita di introiti dev’essere calcolata come la differenza tra gli introiti che la ricorrente avrebbe potuto ottenere in assenza della violazione di legge e gli importi effettivamente percepiti, ivi compresi quelli derivanti da attività sostitutive», non è sufficiente a tal fine, tenuto conto del fatto che la ricorrente non fornisce alcun elemento concreto che consenta di applicare tale proposta al caso di specie.

116    D’altronde, è giocoforza constatare che la ricorrente non espone in misura sufficiente i motivi che giustificherebbero l’omissione, da parte sua, di una stima, anche approssimativa, del lucro cessante supplementare. Tutt’al più, essa asserisce che «non è facile stabilire con esattezza la destinazione delle somme corrispondenti all’importo dei dazi pagati qualora questi ultimi non fossero stati istituiti» e che è «difficile valutare con esattezza determinati elementi del danno». Tali affermazioni, non accompagnate dalla benché minima spiegazione, non possono evidentemente essere considerate una giustificazione sufficiente della totale mancanza di valutazione del danno supplementare.

117    Allo stesso modo, nel caso in cui occorresse ammettere la tesi della ricorrente, esposta nelle sue osservazioni relative alle eccezioni d’irricevibilità, secondo cui la domanda subordinata non sarebbe intesa ad ottenere il risarcimento di un lucro cessante supplementare, ma sarebbe stata formulata solamente per il caso in cui il Tribunale non concedesse il pagamento della somma specifica reclamata, vuoi perché vengono contestati l’importo o il metodo di calcolo del lucro cessante, vuoi a motivo delle difficoltà particolari che il Tribunale potrebbe incontrare nel determinare l’importo esatto del danno, neppure la suddetta domanda può essere considerata ricevibile.

118    Infatti, se la ricorrente intende in tal modo sostenere che l’applicazione del metodo descritto nella domanda principale potrebbe, in realtà, dopo la correzione di determinati errori, sfociare in un risarcimento di importo superiore rispetto a quello calcolato inizialmente, in quanto l’importo complessivo dei dazi pagati sarebbe, in definitiva, più elevato degli importi indicati nel ricorso, così come essa fa valere nelle sue osservazioni sulle eccezioni di irricevibilità, la domanda subordinata, alla stregua della domanda principale, si risolverebbe allora in una domanda sviata di rimborso dei dazi. Se la stessa ricorrente considera che il suo metodo di calcolo del lucro cessante non è pertinente e chiede al Tribunale di definire un altro metodo atto a calcolare tale lucro cessante, la domanda di risarcimento non può allora essere riqualificata come domanda di rimborso dei dazi, tenuto conto del fatto che tale riqualificazione della domanda principale poggia appunto sull’analisi di tale metodo di calcolo. Tuttavia, in quest’ultima ipotesi, occorre sottolineare che non è ammissibile che il Tribunale colmi le lacune del ricorso solo perché la ricorrente glielo chiede espressamente.

119    Inoltre, anche qualora il Tribunale non tenesse conto del metodo di calcolo del lucro cessante proposto dalla ricorrente, vale a dire il metodo secondo il quale il danno sarebbe equivalente agli utili puramente contabili che essa avrebbe realizzato se non avesse effettuato i pagamenti dei dazi antidumping, è giocoforza constatare che non sarebbe possibile determinare con la necessaria precisione la natura del danno lamentato dalla ricorrente. Eccettuati i vaghi elementi relativi agli investimenti che la ricorrente avrebbe asseritamente potuto realizzare se non le fossero stati imposti i dazi antidumping – che, come è stato constatato nei precedenti punti, non soddisfacevano i requisiti minimi di cui all’art. 44, n. 1, lett. c), del regolamento di procedura e che sembrano inoltre riferirsi unicamente ad un danno distinto, che si aggiungerebbe a quello oggetto della domanda principale –, la ricorrente si limita infatti a qualificare tale danno come lucro cessante senza spiegare in che cosa esso consista. Orbene, non spetta al Tribunale statuire in maniera teorica e astratta sul metodo di calcolo idoneo a determinare il lucro cessante sofferto da un’impresa in una situazione come quella della ricorrente. È quest’ultima che ha il compito di precisare in maniera sufficiente i diversi aspetti di tale lucro cessante.

120    Tale conclusione non può essere rimessa in discussione per il fatto che il giudice comunitario, in alcuni casi, ha ammesso la ricevibilità di ricorsi per risarcimento nei quali non era stato specificato l’ammontare esatto del danno, pronunciandosi con sentenza interlocutoria sulla responsabilità della Comunità e rinviando la determinazione dell’entità del risarcimento ad un accordo tra le parti o, in mancanza di accordo, ad una sentenza successiva (v., in tal senso, sentenze della Corte Ireks‑Arkady/Consiglio e Commissione, cit., punto 18; Dumortier Frères e a./Consiglio e Commissione, cit., punto 23; 13 novembre 1984, cause riunite 256/80, 257/80, 265/80, 267/80, 5/81 e 51/81 e 282/82, Birra Wührer e a./Consiglio e Commissione, Racc. pag. 3693, punto 35, e 26 giugno 1990, causa C-152/88, Sofrimport/Commissione, Racc. pag. I‑2477, punto 30).

121    Si deve infatti rilevare che, in tali cause, il danno asserito era descritto in maniera sufficientemente precisa da consentire alla Corte di identificarne la natura esatta e di indicare il metodo che le parti avrebbero dovuto seguire per determinare l’entità del risarcimento, il che, per le ragioni esposte in precedenza, non accade nel caso di specie.

122    Da quanto precede emerge che la domanda subordinata dev’essere dichiarata irricevibile.

123    Di conseguenza, il presente ricorso dev’essere dichiarato irricevibile in toto.

 Sulle spese

124    A norma dell’art. 87, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché il Consiglio e la Commissione ne hanno fatto domanda, la ricorrente, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese.

Per questi motivi,

IL TRIBUNALE (Terza Sezione)

dichiara e statuisce:

1)      Il ricorso è irricevibile.

2)      La ricorrente, Sinara Handel GmbH, è condannata alle spese.

Lussemburgo, 5 febbraio 2007

Il cancelliere

 

      Il presidente

E. Coulon

 

      M. Jaeger


* Lingua processuale: l'inglese.