Language of document : ECLI:EU:C:2021:143

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ATHANASIOS RANTOS

presentate il 25 febbraio 2021 (1)

Causa C821/19

Commissione europea

contro

Ungheria

«Inadempimento di uno Stato – Spazio di libertà, sicurezza e giustizia – Procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale – Direttiva 2013/32/UE – Articolo 33, paragrafo 2 – Motivi di inammissibilità delle domande di protezione internazionale – Carattere esaustivo – Motivo di inammissibilità ulteriore nel diritto nazionale – Articolo 8, paragrafo 2 – Accesso ai valichi di frontiera delle organizzazioni e delle persone che prestano consulenza e assistenza ai richiedenti protezione internazionale – Articolo 12, paragrafo 1, lettera c) – Possibilità per i richiedenti protezione internazionale di comunicare con le organizzazioni e con le persone che prestano consulenza e assistenza – Articolo 22, paragrafo 1 – Possibilità per i richiedenti protezione internazionale di consultare, a loro spese, un avvocato o altro consulente legale – Direttiva 2013/33/UE – Articolo 10, paragrafo 4 – Possibilità per gli avvocati e per gli altri consulenti legali di comunicare con i richiedenti protezione internazionale – Configurazione come reato, nel diritto nazionale, dell’attività realizzata in modo strutturato al fine di prestare assistenza ai richiedenti protezione internazionale – Divieto d’ingresso alle organizzazioni e alle persone che prestano consulenza e assistenza ai richiedenti protezione internazionale nella zona di transito frontaliero»






I.      Introduzione

1.        Con il suo ricorso, la Commissione europea chiede alla Corte di dichiarare che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza del diritto dell’Unione per i seguenti motivi:

–        l’introduzione di un motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale ulteriore rispetto a quelli elencati tassativamente all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32/UE (2);

–        la configurazione come reato dell’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di una procedura di asilo da parte di persone che non soddisfano i criteri per la concessione della protezione internazionale previsti dal diritto nazionale e l’adozione di misure che comportano restrizioni nei confronti delle persone sottoposte a procedimento penale o sanzionate per un siffatto reato, in violazione dell’articolo 8, paragrafo 2, dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, nonché dell’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33/UE (3).

2.        Sono dell’avviso che la prima censura non presenti particolari difficoltà e che si possa decidere in merito guardando alle recenti sentenze della Corte del 19 marzo 2020, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal (Tompa) (4), e del 14 maggio 2020, Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság Dél-alföldi Regionális Igazgatóság (5).

3.        La seconda censura solleva la questione inedita della possibilità per uno Stato membro di configurare come reato l’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di una procedura di asilo da parte di persone che non soddisfano i criteri per la concessione della protezione internazionale stabiliti dal diritto nazionale.

II.    Contesto normativo

A.      Diritto dell’Unione

1.      Disposizioni riguardanti i motivi di inammissibilità delle domande di protezione internazionale

4.        L’articolo 33 della direttiva 2013/32, intitolato «Domande inammissibili», al suo paragrafo 2, prevede quanto segue:

«Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se:

a)      un altro Stato membro ha concesso la protezione internazionale;

b)      un paese che non è uno Stato membro è considerato paese di primo asilo del richiedente a norma dell’articolo 35;

c)      un paese che non è uno Stato membro è considerato paese terzo sicuro per il richiedente a norma dell’articolo 38;

d)      la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE [del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta(6)]; o

e)      una persona a carico del richiedente presenta una domanda, dopo aver acconsentito, a norma dell’articolo 7, paragrafo 2, a che il suo caso faccia parte di una domanda presentata a suo nome e non vi siano elementi relativi alla situazione della persona a carico che giustifichino una domanda separata».

2.      Disposizioni riguardanti il sostegno ai richiedenti protezione internazionale

a)      Direttiva 2013/32

5.        L’articolo 8 della direttiva 2013/32, intitolato «Informazione e consulenza nei centri di trattenimento e ai valichi di frontiera», al suo paragrafo 2, così dispone:

«Gli Stati membri garantiscono che le organizzazioni e le persone che prestano consulenza e assistenza ai richiedenti abbiano effettivo accesso ai richiedenti presenti ai valichi di frontiera, comprese le zone di transito, alle frontiere esterne. Gli Stati membri possono adottare norme relative alla presenza di tali organizzazioni e persone nei suddetti valichi e, in particolare, subordinare l’accesso a un accordo con le autorità competenti degli Stati membri. I limiti su tale accesso possono essere imposti solo qualora, a norma del diritto nazionale, essi siano obiettivamente necessari per la sicurezza, l’ordine pubblico o la gestione amministrativa dei valichi interessati, purché l’accesso non risulti in tal modo seriamente ristretto o non sia reso impossibile».

6.        Il suo articolo 12, intitolato «Garanzie per i richiedenti», al paragrafo 1, prevede quanto segue:

«In relazione alle procedure di cui al capo III, gli Stati membri provvedono affinché tutti i richiedenti godano delle seguenti garanzie:

(…)

c)      non è negata al richiedente la possibilità di comunicare con l’[Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati] o con altre organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti a norma del diritto dello Stato membro interessato;

(…)».

7.        L’articolo 22 della suddetta direttiva, intitolato «Diritto all’assistenza e alla rappresentanza legali in ogni fase della procedura», così recita:

«1.      Ai richiedenti è data la possibilità di consultare, a loro spese, in maniera effettiva un avvocato o altro consulente legale, ammesso o autorizzato a norma del diritto nazionale, sugli aspetti relativi alla domanda di protezione internazionale, in ciascuna fase della procedura, anche in caso di decisione negativa.

2.      Gli Stati membri possono acconsentire a che le organizzazioni non governative prestino assistenza e/o rappresentanza legali gratuite ai richiedenti nell’ambito delle procedure di cui al capo III e al capo V conformemente al diritto nazionale».

b)      Direttiva 2013/33

8.        L’articolo 10 della direttiva 2013/33, intitolato «Condizioni di trattenimento», al suo paragrafo 4, così dispone:

«Gli Stati membri garantiscono ai familiari, avvocati o consulenti legali e rappresentanti di organizzazioni non governative competenti riconosciute dallo Stato membro interessato la possibilità di comunicare con i richiedenti e di rendere loro visita in condizioni che rispettano la vita privata. Possono essere imposte limitazioni all’accesso al centro di trattenimento soltanto se obiettivamente necessarie, in virtù del diritto nazionale, per la sicurezza, l’ordine pubblico o la gestione amministrativa del centro di trattenimento, e purché non restringano drasticamente o rendano impossibile l’accesso».

B.      Diritto ungherese

1.      Disposizioni riguardanti i motivi di inammissibilità delle domande di protezione internazionale

9.        L’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della menedékjogról szóló 2007. évi LXXX. törvény (legge n. LXXX del 2007 sul diritto d’asilo; in prosieguo: la «legge sul diritto d’asilo» (7)), introdotto dall’articolo 7, paragrafo 1, della egyes törvényeknek a jogellenes bevándorlás elleni intézkedésekkel kapcsolatos módosításáról szóló 2018. évi VI. törvény (legge n. VI del 2018 di modifica di determinate leggi in relazione alle misure contro l’immigrazione illegale; in prosieguo: la «legge n. VI del 2018» (8)), prevede un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale, definito nei seguenti termini:

«La domanda è inammissibile qualora (...) il richiedente sia arrivato in Ungheria attraversando un paese in cui egli non è esposto a persecuzioni ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1 [, della legge sul diritto d’asilo] o al rischio di danno grave, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1 [, di detta legge] o in cui è garantito un adeguato livello di protezione».

2.      Disposizioni riguardanti il sostegno ai richiedenti protezione internazionale

a)      Codice penale

10.      L’articolo 353/A della Büntető Törvénykönyvről szóló 2012. évi C. törvény(legge n. C del 2012 che istituisce il codice penale; in prosieguo: il «codice penale» (9)), intitolato «Favoreggiamento dell’immigrazione irregolare», introdotto dall’articolo 11, paragrafo 1, della legge n. VI del 2018, così dispone:

«1.      Chiunque svolga attività organizzative dirette

a)      a consentire l’avvio di una procedura di asilo in Ungheria da parte di una persona che non è perseguitata nel suo paese di origine, nel suo paese di residenza abituale o in un altro paese attraverso il quale è giunta [in Ungheria], per motivi di razza, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale, religione e opinioni politiche, o che non abbia un fondato timore di essere direttamente perseguitata, o

b)      ad aiutare una persona che entra o risiede illegalmente in Ungheria a ottenere un titolo di soggiorno

è passibile di pena detentiva, salvo che non abbia commesso un reato più grave.

2.      Chiunque fornisca risorse materiali che consentano di commettere il reato di cui al paragrafo 1 o svolga regolarmente siffatte attività organizzative è punibile con la reclusione fino a un anno.

3.      Chiunque commetta il reato di cui al paragrafo 1

a)      con l’intento di ottenere un guadagno economico,

b)      aiutando più di una persona o

c)      a una distanza inferiore a otto chilometri dalla frontiera o dal marcatore di confine corrispondente alla frontiera esterna ai sensi dell’articolo 2, punto 2, del regolamento (UE) 2016/399 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, che istituisce un codice unionale relativo al regime di attraversamento delle frontiere da parte delle persone (codice frontiere Schengen) [(10)], è punibile con la pena prevista al paragrafo 2.

4.      La sanzione prevista per l’autore del reato di cui al paragrafo 1 può essere ridotta senza limiti o, nei casi che meritano un trattamento particolare, revocata se l’autore rivela in quali circostanze è stato commesso il reato al più tardi al momento della formulazione dell’imputazione.

5.      Ai fini del presente articolo, le attività organizzative realizzate allo scopo di cui al paragrafo 1 comprendono, in particolare:

a)      il monitoraggio delle frontiere, al confine o presso un marcatore di confine corrispondente alla frontiera esterna dell’Ungheria ai sensi dell’articolo 2, punto 2, del codice frontiere Schengen,

b)      l’elaborazione o la diffusione di documenti informativi o l’incarico a un terzo di compiere tali atti e

c)      la creazione o la gestione di una rete».

b)      Legge sulla polizia

11.      L’articolo 46/F della Rendőrségről szóló 1994. évi XXXIV. törvény (legge n. XXXIV del 1994 sulla polizia, in prosieguo: la «legge sulla polizia» (11)), intitolato «Misure di allontanamento impiegate ai fini della sicurezza delle frontiere», inserito nel capo V di detta legge dall’articolo 2 della legge n. VI del 2018, così recita:

«1.      Allo scopo di mantenere l’ordine alla frontiera di Stato e prevenire eventuali perturbazioni del controllo delle frontiere, gli operatori di polizia impediscono a qualsivoglia persona sottoposta a procedimento penale per i reati di attraversamento illegale delle frontiere (articolo 352/A del codice penale), deterioramento della barriera frontaliera (articolo 352/B del codice penale), ostruzione alla costruzione o alla manutenzione della barriera frontaliera (articolo 352/C del codice penale), traffico di esseri umani (articolo 353 del codice penale), favoreggiamento del soggiorno irregolare (articolo 354 del codice penale) o favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (articolo 353/A del codice penale) di varcare un perimetro situato a una distanza inferiore a otto chilometri dalla frontiera o dal marcatore di confine corrispondente alla frontiera esterna del territorio ungherese, ai sensi dell’articolo 2, punto 2, del [regolamento 2016/399] o impongono che tale persona lasci detta zona qualora si trovi nella stessa.

(...)».

III. Fatti e procedimento precontenzioso

12.      Il 20 giugno 2018 il Parlamento ungherese ha adottato la legge n. VI del 2018. Detta legge ha segnatamente introdotto l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, l’articolo 353/A del codice penale e l’articolo 46/F della legge sulla polizia.

13.      La Commissione ha inviato all’Ungheria una lettera di messa in mora e un parere motivato, rispettivamente il 19 luglio 2018 e il 24 gennaio 2019, in cui ha mosso a tale Stato membro i due addebiti riassunti al paragrafo 1 delle presenti conclusioni.

14.      L’Ungheria ha risposto rispettivamente il 19 settembre 2018 e il 23 marzo 2019, affermando che la normativa ungherese di cui trattasi era conforme al diritto dell’Unione.

IV.    Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti

15.      Con atto introduttivo dell’8 novembre 2019, la Commissione ha proposto il ricorso di cui trattasi.

16.      La Commissione e l’Ungheria hanno presentato osservazioni orali all’udienza tenutasi il 23 novembre 2020.

17.      La Commissione chiede che la Corte voglia:

–        dichiarare, da un lato, che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 avendo introdotto un ulteriore motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale oltre a quelli previsti da tale disposizione, e, dall’altro, che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 8, paragrafo 2, dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, nonché dell’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, configurando come reato l’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di una procedura di asilo da parte di persone che non soddisfano i criteri per la concessione della protezione internazionale previsti dal diritto nazionale e adottando misure che comportano restrizioni nei confronti di persone sottoposte a procedimento penale o sanzionate per un siffatto reato;

–        condannare l’Ungheria alle spese.

18.      L’Ungheria chiede che la Corte voglia:

–        respingere il ricorso;

–        condannare la Commissione alle spese.

V.      Analisi

A.      Sulla prima censura, vertente sull’introduzione di un motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale incompatibile con il diritto dell’Unione

19.      Con la sua prima censura, la Commissione chiede alla Corte di dichiarare che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, introducendo, con l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, un ulteriore motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale oltre a quelli previsti dall’articolo 33, paragrafo 2, di detta direttiva.

20.      In via preliminare, occorre rammentare che, con l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge relativa al diritto di asilo, il legislatore ungherese ha stabilito che una domanda di protezione internazionale è inammissibile se il richiedente è giunto in Ungheria attraversando un paese in cui, da un lato, egli non è esposto a persecuzioni o al rischio di danno grave, oppure, dall’altro, è garantito un adeguato livello di protezione.

21.      Detta legge ha sostanzialmente introdotto un motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale non espressamente previsto all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32.

22.      Si pone pertanto la questione se tale motivo di inammissibilità possa essere considerato una semplice esplicitazione dei motivi previsti nella disposizione in parola, segnatamente di quello relativo al «paese terzo sicuro» ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 2013/32, e, in caso di risposta negativa, se tale nuovo motivo sia incompatibile con detta disposizione.

23.      A tal proposito, rilevo che, nella recente sentenza Tompa, che riguardava parimenti la disposizione della normativa ungherese contestata nella censura di cui trattasi, vale a dire l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, la Corte si è così pronunciata:

–        anzitutto, essa ha confermato il carattere esaustivo dell’elenco di cui all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 (12);

–        la Corte ha poi escluso che i motivi di inammissibilità sanciti dalla normativa ungherese possano costituire un’attuazione di quelli previsti all’articolo 33, paragrafo 2, di detta direttiva (13), ivi compresi il motivo relativo al «paese terzo sicuro» (14) e quello relativo al «paese di primo asilo» (15);

–        infine, la Corte ha statuito che l’articolo 33 della direttiva 2013/32 dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione(16).

24.      Tale interpretazione è stata ribadita dalla Corte nella sentenza Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság, che riguardava parimenti l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo (17).

25.      Pertanto, poiché il governo ungherese non ha presentato nuovi elementi che giustificano la necessità o l’opportunità di ribaltare tale giurisprudenza, ritengo che la soluzione adottata dalla Corte nelle cause sopra citate consenta di risolvere in maniera definitiva la questione esaminata nell’ambito della censura di cui trattasi.

26.      Propongo, quindi, di accogliere la prima censura della Commissione e di dichiarare che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, introducendo un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale oltre a quelli previsti in modo esaustivo da detta disposizione.

B.      Sulla seconda censura, relativa alle restrizioni all’accesso imposte ai richiedenti protezione internazionale nonché alle organizzazioni e alle persone che prestano loro consulenza e assistenza

27.      Con la sua seconda censura, la Commissione chiede alla Corte di dichiarare che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 8, paragrafo 2, dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, nonché dell’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, configurando come reato, mediante l’articolo 353/A del codice penale, l’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di una procedura di asilo da parte di persone che non soddisfano i criteri per la concessione della protezione internazionale previsti dal diritto nazionale e adottando, con l’introduzione dell’articolo 46/F della legge sulla polizia, misure che comportano restrizioni nei confronti delle persone sottoposte a procedimento penale o sanzionate per un siffatto reato.

28.      A tale riguardo, rilevo subito che le disposizioni del diritto dell’Unione riguardanti il sostegno ai richiedenti protezione internazionale (18) garantiscono, da un lato, il diritto di siffatti richiedenti di consultare organizzazioni e persone che prestano consulenza e assistenza e dall’altro, in modo simmetrico, il diritto di tali organizzazioni e persone di avere accesso a detti richiedenti, compresi quelli trattenuti.

29.      Occorre quindi verificare se l’articolo 353/A del codice penale e l’articolo 46/F della legge sulla polizia costituiscano un impedimento all’esercizio dei diritti garantiti dall’articolo 8, paragrafo 2, dall’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e dall’articolo 22 della direttiva 2013/32, nonché dall’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, e, in caso affermativo, se un siffatto impedimento sia giustificato alla luce di tali disposizioni.

1.      Sulla prima parte della seconda censura, relativa allarticolo353/A del codice penale

a)      Sul carattere restrittivo dellarticolo353/A del codice penale

30.      L’articolo 353/A del codice penale configura come reato qualsiasi «attività organizzativa» che consente l’avvio di una procedura di asilo in Ungheria da parte di una persona che non ha, sostanzialmente, diritto alla protezione internazionale secondo le norme nazionali. Detto articolo sembra a prima vista idoneo a costituire un impedimento al godimento dei diritti garantiti dalle disposizioni del diritto dell’Unione invocate dalla Commissione, in quanto pone qualsivoglia persona od organizzazione intenzionata a offrire sostegno ai richiedenti protezione internazionale in una situazione d’incertezza, se non addirittura di concreto rischio di essere sanzionata.

31.      Il governo ungherese fa valere, in primo luogo, che, la configurazione come reato è circoscritta alle violazioni perpetrate con una «chiara intenzione» e concerne unicamente le azioni poste in essere sotto forma di «attività organizzativa»; in secondo luogo, che la normativa controversa non sortisce alcun effetto dissuasivo dimostrabile; e, in terzo luogo, che tale normativa si applica soltanto alle azioni che precedono l’avvio di una procedura di asilo e pertanto non riguarda i «richiedenti protezione internazionale» in senso stretto, che sono i beneficiari dei diritti conferiti dalle direttive 2013/32 e 2013/33.

32.      Per quanto attiene, in primo luogo, all’elemento soggettivo del reato e alla nozione di «attività organizzativa», come fa notare il governo ungherese, la portata dell’articolo 353/A del codice penale dev’essere interpretata alla luce dei chiarimenti forniti dall’Alkotmánybíróság (Corte costituzionale, Ungheria) nella sua decisione n. 3/2019 (19), che fa testo ai fini dell’interpretazione di detto articolo, tanto più che finora tale disposizione sembra non sia stata applicata con frequenza, come confermato dal governo ungherese all’udienza.

33.      Per quanto concerne, innanzitutto, l’elemento soggettivo del reato, l’Alkotmánybíróság (Corte costituzionale) ha precisato nella citata decisione che l’articolo 353/A del codice penale non sanziona le condotte poste in essere per negligenza, bensì esclusivamente le condotte poste in essere deliberatamente, sulla base di una «chiara intenzione» di commettere il reato, e che spetta alle autorità nazionali dimostrare l’esistenza di una siffatta intenzione. Ad ogni modo, detto giudice ha escluso dall’ambito di applicazione dell’articolo summenzionato i comportamenti altruisti informati al dovere di assistenza nei confronti delle persone bisognose e indigenti, che non attengono all’obiettivo della disposizione in parola, precisando al contempo che incombe ai giudici di merito, nella loro attività giurisdizionale, stabilire in quali circostanze un’attività organizzativa possa essere equiparata a un aiuto umanitario, le forme di sostegno che non possono essere sanzionate e il momento in cui i fatti vanno oltre tale contesto (20).

34.      Ciò premesso, rilevo che, in linea di principio, qualsiasi organizzazione o persona che intenda offrire sostegno agisce necessariamente con l’intenzione di consentire alla persona che aiuta di avviare una procedura di asilo e può, quanto meno, nutrire dubbi sul fatto che tale persona soddisfi i requisiti necessari per avere diritto alla protezione internazionale. Infatti, i dubbi in ordine alla veridicità delle dichiarazioni sono insiti nella procedura di asilo, che si svolge precisamente allo scopo di stabilire se sussistano le condizioni per la concessione della protezione internazionale. Spetta quindi alle autorità nazionali competenti, e non ai consulenti legali, alle organizzazioni o alle persone che offrono sostegno ai richiedenti protezione internazionale, valutare se i motivi addotti nella domanda giustifichino la concessione della protezione internazionale conformemente ai requisiti stabiliti dalla legislazione nazionale.

35.      Inoltre, a mio avviso, l’aspetto più importante risiede nel fatto che, nel caso di specie, occorre tenere conto, da un lato, dell’introduzione dell’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, che costituisce l’oggetto della prima censura, e, dall’altro, del fatto che, come osservato dalla Commissione senza essere contraddetta dall’Ungheria, le disposizioni derogatorie applicabili in caso di crisi provocata da un’immigrazione massiccia impongono alle persone desiderose di ottenere una protezione internazionale di recarsi in una delle zone di transito situate alla frontiera serbo-ungherese per presentare la loro domanda e, quindi, avviare la procedura di asilo. Orbene, la Serbia costituisce normalmente un paese terzo in cui non sussiste rischio di persecuzione ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo. Dalla combinazione di tali due elementi risulta che qualsiasi persona od organizzazione che fornisca sostegno ai richiedenti protezione internazionale sarà perfettamente consapevole del fatto che, in tali circostanze, domande del genere sono molto probabilmente destinate al fallimento, e che pertanto è esposta al rischio concreto di essere perseguita penalmente (21).

36.      Ad ogni modo, la configurazione come reato del sostegno ai richiedenti protezione internazionale potrebbe avere un effetto dissuasivo particolarmente forte per tutte le persone od organizzazioni che, scientemente, tentano di promuovere un cambiamento della legislazione o un’interpretazione più elastica del diritto nazionale, o anche di sostenere l’incompatibilità del diritto nazionale pertinente con il diritto dell’Unione. D’altronde, far «evolvere» la normativa nazionale o agevolare l’accesso dei richiedenti alla procedura di asilo o al sostegno umanitario, pur essendo molto difficile o, come nel caso di specie, molto probabile che tali richiedenti non soddisfino tutte le condizioni previste dal diritto nazionale per ottenere la protezione internazionale, rientra generalmente negli obiettivi legittimi di un’organizzazione che presta sostegno ai richiedenti protezione internazionale.

37.      In tali circostanze, l’unica «sanzione» legittima applicabile laddove l’attività di tali persone od organizzazioni miri a consentire l’accesso dei richiedenti al procedimento di asilo al di là delle condizioni legittimamente imposte dalla legislazione nazionale nel rispetto del diritto dell’Unione, e segnatamente dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, può essere, a mio avviso, solo il rigetto delle domande per motivi di inammissibilità o di mancanza di fondamento, e non l’esercizio di azioni penali nei confronti delle persone o delle organizzazioni che agevolano l’avvio dei procedimenti di asilo. Tale constatazione non pregiudica affatto la possibilità d’introdurre e di mantenere sanzioni penali qualora l’attività di dette persone od organizzazioni non si limiti a sostenere i richiedenti protezione internazionale nella presentazione delle loro domande e nell’avvio dei procedimenti di asilo, ma costituisca una vera e propria attività di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, segnatamente in applicazione della direttiva 2002/90/CE (22).

38.      Per quanto riguarda, poi, la nozione di «attività organizzativa», l’Alkotmánybíróság (Corte costituzionale) ha escluso che essa, pur essendo formulata in termini generici, possa violare il principio di legalità («nullum crimen et nulla poena sine lege»), tenuto conto dell’esistenza, nel codice penale, di altre disposizioni che fanno riferimento alla nozione di «organizzativa» o di «attività organizzativa» e che consentono di ricavarne gli elementi costitutivi essenziali (23).

39.      Ciò premesso, ritengo che il fatto di sanzionare soltanto l’attività svolta in modo organizzato non basti a eliminare il carattere restrittivo del reato controverso. Da una parte, la formulazione stessa dell’articolo 353/A del codice penale consente un’interpretazione molto ampia di tale violazione, che comprende il semplice fatto di aiutare una sola persona ad avviare la procedura di asilo. Infatti, la configurazione come circostanze aggravanti dell’«attività regolare» e del sostegno «a più di una persona» all’articolo 353/A, paragrafi 2 e 3, del codice penale comporta che l’ambito di applicazione di tale disposizione possa comprendere anche un’attività che non è svolta regolarmente e che è intesa a sostenere una sola persona. Dall’altra parte, e questo è l’aspetto più importante, le organizzazioni che prestano sostegno ai richiedenti protezione internazionale e che costituiscono i principali destinatari della disposizione in parola svolgono, per definizione, un’«attività organizzata». Pertanto, sebbene la portata dell’articolo 353/A del codice penale sia limitata alle attività organizzative in senso stretto, tale disposizione è idonea a ostacolare l’attività della quasi totalità delle persone o delle organizzazioni che offrono sostegno ai richiedenti protezione internazionale.

40.      In secondo luogo, anche ammettendo, come sostiene il governo ungherese, che la normativa in esame abbia una portata ridotta e conseguenze pratiche trascurabili, in quanto è stata applicata molto raramente e non ha ancora dato luogo a condanne di organizzazioni o di persone, e non sortisca quindi alcun effetto dissuasivo dimostrabile, è giocoforza rilevare che, secondo costante giurisprudenza, il ricorso per inadempimento ha un carattere oggettivo e, di conseguenza, occorre considerare sussistente l’inadempimento degli obblighi incombenti agli Stati membri in forza del Trattato o del diritto derivato, indipendentemente dalla portata o dalla frequenza delle situazioni censurate (24).

41.      In terzo luogo, contrariamente all’argomento addotto dal governo ungherese all’udienza, non si può ritenere che i comportamenti precedenti all’avvio di un procedimento di asilo (25) non riguardino i «richiedenti protezione internazionale», ai sensi delle direttive 2013/32 e 2013/33. Infatti, dato che lo status di richiedente asilo è uno status dichiarativo che sussiste dal momento in cui la persona ha subìto persecuzioni, quest’ultima può essere considerata «richiedente protezione internazionale» anche quando non ha ancora inoltrato formalmente la domanda. Peraltro, con il suo argomento, il governo ungherese equipara erroneamente la presentazione di una domanda al suo inoltro. A tale riguardo, si deve rilevare che, come statuito dalla Corte, una domanda di protezione internazionale si considera presentata non appena la persona interessata abbia manifestato, presso autorità competenti, la propria volontà di beneficiare della protezione internazionale, senza che la manifestazione di tale volontà possa essere sottoposta a una qualche formalità amministrativa (26). D’altronde, sarebbe in contrasto con l’obiettivo della direttiva 2013/32, consistente nel garantire l’accesso a procedure di asilo giuridicamente sicure ed efficaci alle persone che necessitano di protezione internazionale, riconoscere i diritti garantiti da tale direttiva solo a decorrere dall’inoltro di una domanda di protezione internazionale.

42.      Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di concludere che l’articolo 353/A del codice penale è idoneo a costituire un impedimento all’esercizio dei diritti garantiti dal diritto dell’Unione in materia di sostegno ai richiedenti protezione internazionale.

b)      Sulle eventuali giustificazioni

43.      Riguardo alle eventuali giustificazioni delle restrizioni di cui sopra, in primo luogo, occorre rilevare che l’articolo 8, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 e l’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33 prevedono la possibilità di giustificare limitazioni all’accesso delle organizzazioni e delle persone che prestano consulenza e assistenza nonché degli avvocati e dei consulenti legali ai richiedenti protezione internazionale, purché tali limitazioni siano obiettivamente necessarie per la sicurezza, l’ordine pubblico o la gestione amministrativa dei valichi interessati e non sortiscano l’effetto di restringere drasticamente o rendere impossibile l’accesso.

44.      A tale proposito, è sufficiente rilevare che l’articolo 353/A del codice penale non prevede alcuna verifica dei criteri di necessità e di proporzionalità. Al contrario, tale normativa, segnatamente letta in combinato disposto con l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, impedisce di fatto o, quantomeno, limita seriamente qualsiasi attività di sostegno ai richiedenti protezione internazionale da parte di persone o di organizzazioni (27).

45.      In secondo luogo, occorre rammentare che, sebbene ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2013/32 la comunicazione con qualsiasi organizzazione che presti assistenza legale o altra consulenza sia effettuata «a norma del diritto dello Stato membro interessato», tale disposizione non consente allo Stato membro di rimettere in discussione né di limitare in modo sproporzionato l’effettività dei diritti che garantisce.

46.      Mi sembra quindi che gli impedimenti posti dalla normativa nazionale, ossia dall’articolo 353/A del codice penale, all’esercizio dei diritti garantiti all’articolo 8, paragrafo 2, all’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e all’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, nonché all’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, non siano giustificati ai sensi di queste ultime disposizioni.

47.      Pertanto, propongo alla Corte di accogliere la prima parte della seconda censura della Commissione e di dichiarare che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 8, paragrafo 2, dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, nonché dell’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33.

2.      Sulla seconda parte della seconda censura, relativa allarticolo46/F della legge sulla polizia

48.      Ai sensi dell’articolo 46/F della legge sulla polizia, gli operatori di polizia impediscono a qualsivoglia persona sottoposta a procedimento penale, segnatamente per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare di cui all’articolo 353/A del codice penale, di varcare un perimetro situato a una distanza inferiore a otto chilometri dalla frontiera o dal marcatore di confine corrispondente alla frontiera esterna del territorio ungherese o impongono a tale persona di lasciare detta zona qualora vi si trovi.

49.      A mio avviso, l’articolo 46/F della legge sulla polizia, che introduce una restrizione ulteriore nei confronti delle persone o delle organizzazioni sottoposte a procedimento per reati in senso stretto, aumenta innegabilmente gli effetti negativi delle disposizioni cui tale articolo si ricollega, ivi compreso l’articolo 353/A del codice penale.

50.      Ciò premesso, mi sembra che, di per sé, l’articolo 46/F della legge sulla polizia non ponga problemi di compatibilità con le disposizioni pertinenti del diritto dell’Unione. A mio avviso, infatti, detto articolo costituisce la legittima applicazione di una regola generale secondo cui le autorità di polizia vietano l’accesso a luoghi «critici» alle persone sospettate di aver commesso reati, segnatamente ai luoghi in cui tali persone sono sospettate di aver commesso un reato o in cui potrebbero reiterarlo.

51.      Inoltre, il fatto che il divieto riguardi persone semplicemente «sospettate» di un reato mi sembra coerente con il suo carattere transitorio e cautelare. D’altronde, la proporzionalità di tale normativa discende dal fatto che essa si applica soltanto alle persone «sottopost[e] a procedimento penale» e che, come rileva il governo ungherese, per esercitare l’azione penale, sono necessari sospetti relativamente gravi o fondati su elementi concreti.

52.      Inoltre, mi sembra che la Commissione non adduca alcun argomento che dimostri il carattere intrinsecamente restrittivo dell’articolo 46/F della legge sulla polizia, ma si limiti a sottolineare che tale disposizione aumenta l’effetto restrittivo dell’articolo 353/A del codice penale.

53.      Pertanto, ritengo che, se è vero che l’articolo 353/A del codice penale, di per sé o in combinato disposto con l’articolo 46/F della legge sulla polizia, costituisce un impedimento al diritto dei richiedenti protezione internazionale di poter consultare organizzazioni, persone o avvocati e al correlato diritto di tali organizzazioni, persone e avvocati di aver accesso a detti richiedenti, ciò non si verifichi, invece, per quanto riguarda l’articolo 46/F della legge sulla polizia, considerato singolarmente e alla luce delle circostanze del caso di specie.

54.      Di conseguenza, ritengo che la seconda parte della seconda censura della Commissione debba essere respinta.

VI.    Sulle spese

55.      A norma dell’articolo 138, paragrafo 3, prima frase, del regolamento di procedura della Corte, quando, come nel caso di specie, le parti soccombono rispettivamente su uno o più capi, le spese sono compensate. Tuttavia, a norma della seconda frase della disposizione di cui trattasi, qualora ciò appaia giustificato alla luce delle circostanze del caso di specie, la Corte può decidere che una parte sostenga, oltre alle proprie spese, una quota delle spese della controparte.

56.      In base alla soluzione proposta, la Commissione risulta ampiamente vittoriosa, mentre gli argomenti dell’Ungheria meritano accoglimento solo con riferimento a una piccola parte dell’oggetto della controversia, vale a dire solo relativamente alla seconda parte della seconda censura. Pertanto, nella specie, sembra opportuno condannare l’Ungheria a sopportare, oltre alle proprie spese, anche quattro quinti delle spese della Commissione, la quale sopporterà invece, a sua volta, un quinto delle proprie spese.

VII. Conclusione

57.      Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di:

–        dichiarare che l’Ungheria, da un lato, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, introducendo un nuovo motivo di inammissibilità delle domande di protezione internazionale oltre a quelli previsti in modo esaustivo da tale disposizione e, dall’altro, è venuta meno agli obblighi che le incombono in forza dell’articolo 8, paragrafo 2, dell’articolo 12, paragrafo 1, lettera c), e dell’articolo 22, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, nonché dell’articolo 10, paragrafo 4, della direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale, configurando come reato l’attività organizzativa realizzata al fine di consentire l’avvio di un procedimento di asilo da parte di persone che non soddisfano i criteri per la concessione della protezione internazionale previsti dal diritto nazionale;

–        respingere il ricorso quanto al resto;

–        condannare l’Ungheria a sopportare le proprie spese, nonché quattro quinti delle spese della Commissione europea, e condannare la Commissione a sopportare un quinto delle proprie spese.


1      Lingua originale: il francese.


2      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60).


3      Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 96).


4      C‑564/18, in prosieguo: la «sentenza Tompa», EU:C:2020:218.


5      C‑924/19 PPU e C‑925/19 PPU, in prosieguo: la «sentenza Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság», EU:C:2020:367.


6      GU 2011, L 337, pag. 9.


7      Magyar Közlöny 2007/83.


8      Magyar Közlöny 2018/97.


9      Magyar Közlöny 2012/92.


10      GU 2016, L 77, pag. 1.


11      Magyar Közlöny 1994/41.


12      Sentenza Tompa, punti 29 e 30 nonché giurisprudenza ivi citata.


13      Sentenza Tompa, punto 55.


14      Sentenza Tompa, punto 51.


15      Sentenza Tompa, punto 52.


16      Sentenza Tompa, punto 56 e dispositivo.


17      Sentenza Országos Idegenrendészeti Főigazgatóság, punti da 148 a 165.


18      V. paragrafi da 5 a 8 delle presenti conclusioni.


19      Magyar Közlöny 2019/7.


20      Decisione n. 3/2019, punti da 79 a 82.


21      In ogni caso, tale valutazione non cambierebbe nell’ipotesi di un’abrogazione dell’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto d’asilo, in quanto l’articolo 353/A del codice penale concerne segnatamente la situazione di una «persona che non è perseguitata (…) in un altro paese attraverso il quale è giunta [in Ungheria]», nozione molto ampia che potrebbe essere applicata nel senso di escludere dalla protezione internazionale tutti i richiedenti che transitano (necessariamente) attraverso la Serbia.


22      Direttiva 2002/90/CE del Consiglio, del 28 novembre 2002, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali (GU 2002, L 328, pag. 17).


23      Decisione n. 3/2019, punti da 68 a 71.


24      V. sentenze del 30 gennaio 2003, Commissione/Danimarca (C‑226/01, EU:C:2003:60, punto 32 nonché giurisprudenza ivi citata), e del 28 gennaio 2020, Commissione/Italia (Direttiva lotta contro i ritardi di pagamento) (C‑122/18, EU:C:2020:41, punto 64).


25      In sede di udienza il governo ungherese ha precisato che, allorché menziona l’«avvio» della procedura di asilo, l’articolo 353/A del codice penale si riferisce alla fase che segue l’inoltro della domanda di protezione internazionale.


26      V. sentenza del 17 dicembre 2020, Commissione/Ungheria (Accoglienza dei richiedenti protezione internazionale) (C‑808/18, EU:C:2020:1029, punto 97 e giurisprudenza ivi citata). Infatti, come osservato dall’avvocato Pikamäe nelle sue conclusioni in tale causa (C‑808/18, EU:C:2020:493, paragrafi 53 e 68), la direttiva 2013/32 opera una distinzione tra la presentazione di una domanda di protezione internazionale, da un lato, che costituisce unicamente la manifestazione o l’espressione da parte delle persone interessate, senza alcuna formalità amministrativa, del timore di essere rimpatriate nei loro paesi e, l’inoltro di una siffatta domanda, dall’altro.


27      V. paragrafi da 32 a 41 delle presenti conclusioni.