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Causa C8/22

XXX

contro

Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Conseil d’État (Belgio)]

 Sentenza della Corte (Prima Sezione) del 6 luglio 2023

«Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2011/95/UE – Norme relative ai presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o dello status conferito dalla protezione sussidiaria – Articolo 14, paragrafo 4, lettera b) – Revoca dello status di rifugiato – Cittadino di un paese terzo condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità – Pericolo per la comunità – Controllo di proporzionalità»

1.        Controlli alle frontiere, asilo e immigrazione – Politica d’asilo – Status di rifugiato o di beneficiario della protezione sussidiaria – Direttiva 2011/95 – Revoca, cessazione o rifiuto del rinnovo dello status di rifugiato – Pericolo per la comunità dello Stato membro ospitante – Pericolo dimostrato dal semplice fatto che l’interessato è stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità – Inammissibilità

[Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2011/95, considerando 12 e artt. 1, 12, § 2, b), 13, 14, § 4, a) e b), 17, § 1, b) e d), e 21, § 2, b)]

(v. punti 30‑33, 37‑45, dispositivo 1)

2.        Controlli alle frontiere, asilo e immigrazione – Politica d’asilo – Status di rifugiato o di beneficiario della protezione sussidiaria – Direttiva 2011/95 – Presupposti d’applicazione – Pericolo per comunità dello Stato membro ospitante – Pericolo che deve essere reale, attuale e sufficientemente grave – Obbligo dell’autorità competente di procedere a una valutazione di tutte le circostanze specifiche del caso individuale – Revoca dello status di rifugiato che deve costituire un provvedimento proporzionato al pericolo – Criteri di valutazione

[Art. 78, § 1, TFUE; Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 18; direttive del Parlamento europeo e del Consiglio 2011/95, artt. 2, d), 12, § 2, b), 14, § 4, b) e 6, 21, § 2, 23, § 4, 24, § 1, e 25, e 2013/32, art. 45, § 3]

(v. punti 48‑50, 52‑71, dispositivo 2)

Sintesi

Nell’ambito della causa Bundesamt für Fremdenwesen und Asyl (Rifugiato che aveva commesso un reato grave) (C‑663/21), nel dicembre 2015, ad AA è stato riconosciuto lo status di rifugiato in Austria. Tra marzo 2018 e ottobre 2020 egli è stato condannato a più riprese a pene detentive e a pagare un’ammenda per diversi reati tra cui, in particolare, quelli di minaccia pericolosa, distruzione o danneggiamento di beni altrui, uso illegale di stupefacenti, traffico di stupefacenti, percosse nonché comportamento aggressivo nei confronti di un agente di pubblica vigilanza.

Con decisione adottata nel settembre 2019, l’autorità austriaca competente ha revocato ad AA lo status di rifugiato, ha adottato una decisione di rimpatrio accompagnata da un divieto di soggiorno nei suoi confronti e ha fissato un termine per la partenza volontaria, dichiarando al contempo che il suo allontanamento non era consentito.

A seguito di un ricorso proposto da AA, con sentenza adottata nel maggio 2021, il Bundesverwaltungsgericht (Corte amministrativa federale, Austria) ha annullato la citata decisione del settembre 2019. Tale giudice ha constatato che AA era stato condannato con sentenza passata in giudicato per aver commesso un reato di particolare gravità e che egli costituiva un pericolo per la comunità. Tuttavia, esso ha ritenuto che occorresse operare un bilanciamento tra gli interessi dello Stato membro ospietante e quelli dell’interessato a beneficiare di una protezione internazionale, tenendo conto delle misure alle quali sarebbe stato esposto in caso di revoca di tale protezione. Orbene, dato che AA sarebbe esposto, in caso di rimpatrio nel suo paese di origine, a un rischio di tortura o di morte, detto giudice ha ritenuto che i suoi interessi prevalessero su quelli dell’Austria. L’autorità austrica competente ha proposto ricorso per cassazione (Revision) avverso tale sentenza dinanzi al Verwaltungsgerichtshof (Corte amministrativa, Austria).

Nell’ambito della causa Commissaire général aux réfugiés et aux apatrides (Rifugiato che ha commesso un reato grave) (C‑8/22), nel febbraio 2007 a XXX è stato riconosciuto lo status di rifugiato in Belgio. Con sentenza pronunciata nel dicembre 2010, egli è stato condannato a venticinque anni di reclusione, in particolare per la commissione di una rapina, volta all’impossessamento di diversi beni mobili, e di un omicidio doloso, al fine di facilitare tale rapina o di procurarsi l’impunità.

Con decisione adottata nel maggio 2016, l’autorità belga competente gli ha revocato lo status di rifugiato. XXX ha proposto ricorso avverso tale decisione dinanzi al Conseil du contentieux des étrangers (Consiglio per il contenzioso degli stranieri, Belgio) che, con sentenza pronunciata nell’agosto 2019, l’ha respinto. Tale organo giurisdizionale ha ritenuto che il pericolo che XXX costituiva per la società derivasse dalla sua condanna per un reato di particolare gravità, cosicché detta autorità non avrebbe l’onere di dimostrare che XXX costituisca un pericolo reale, attuale e sufficientemente grave per la comunità. Al contrario, sarebbe spettato a quest’ultimo dimostrare di non costituire più, nonostante tale condanna, un siffatto pericolo. XXX ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza dinanzi al Conseil d’État (Consiglio di Stato, Belgio).

Nell’ambito della causa Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Reato di particolare gravità) (C‑402/22), nel luglio 2018, M.A. ha presentato domanda di protezione internazionale nei Paesi Bassi. L’autorità competente dei Paesi Bassi ha respinto tale domanda nel giugno 2020, per il motivo che il richiedente era stato condannato, nel 2018, a una pena detentiva di 24 mesi per aver commesso, nel corso della stessa sera, tre violenze sessuali, un tentativo di violenza sessuale e il furto di un telefono cellulare.

In seguito a un ricorso proposto da M.A., la decisione del giugno 2020 è stata annullata da un giudice di primo grado per insufficienza di motivazione. L’autorità competente dei Paesi Bassi ha interposto appello avverso tale sentenza dinanzi al Raad van State (Consiglio di Stato, Paesi Bassi). Essa sostiene, da un lato, che i fatti addebitati a M.A. devono essere considerati come un unico illecito configurante un reato di particolare gravità e, dall’altro, che la condanna per un reato di particolare gravità dimostra, in linea di principio, che M.A. rappresenta un pericolo per la comunità.

In queste tre cause i giudici del rinvio interrogano la Corte, in sostanza, sulle condizioni alle quali è subordinata la revoca dello status di rifugiato in applicazione dell’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95 (1), nonché sul bilanciamento, in tale contesto, tra gli interessi dello Stato membro ospitante e quelli dell’interessato a beneficiare di una protezione internazionale.

Con queste tre sentenze pronunciate lo stesso giorno la Corte risponde a tali interrogativi, precisando, da un lato, le nozioni di «reato di particolare gravità» e di «pericolo per la comunità» nonché, dall’altro, la portata del controllo di proporzionalità che deve essere effettuato in tale contesto. Essa spiega altresì il rapporto tra la revoca dello status di rifugiato e l’adozione della decisione di rimpatrio.

Giudizio della Corte

La Corte constata anzitutto che l’applicazione dell’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95 è subordinata al soddisfacimento di due condizioni distinte vertenti, da un lato, sul fatto che il cittadino interessato di un paese terzo sia stato condannato con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità e, dall’altro, sul fatto che sia stato dimostrato che tale cittadino di un paese terzo costituisce un pericolo per la comunità dello Stato membro in cui si trova. Di conseguenza, non può ritenersi che la circostanza che la prima di queste due condizioni sia soddisfatta sia sufficiente a dimostrare anche il soddisfacimento della seconda. Una siffatta interpretazione di detta disposizione si evince dalla sua formulazione nonché dal confronto di quest’ultima con quelle dell’articolo 12, paragrafo 2, lettera b)(2), e dell’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2011/95 (3).

Per quanto riguarda la prima di tali condizioni, in assenza di espresso richiamo al diritto degli Stati membri quanto alla determinazione del suo senso e della sua portata, la nozione di «reato di particolare gravità» deve normalmente dar luogo, nell’intera Unione, a un’interpretazione autonoma e uniforme. Da un lato, conformemente al suo senso abituale, il termine «reato» caratterizza, in tale ambito, un atto o un’omissione che costituisce una violazione grave dell’ordinamento giuridico della comunità interessata e che, per tale motivo, è sanzionato penalmente di per sé in seno a detta comunità. Dall’altro lato, l’espressione «di particolare gravità», poiché aggiunge due qualificazioni a tale nozione di «reato», rinvia a un reato caratterizzato da un livello di gravità eccezionale.

Per quanto riguarda il contesto in cui sono utilizzati i termini «reato di particolare gravità», da un lato, occorre tener conto della giurisprudenza della Corte relativa all’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/95, che si riferisce a un «reato grave di diritto comune», e all’articolo 17, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva, che si riferisce a un «reato grave», atteso che tali articoli hanno altresì lo scopo di privare della protezione internazionale il cittadino di un paese terzo che abbia commesso un reato connotato da un livello eccezionale di gravità. Dall’altro lato, dal raffronto tra gli articoli 12, 14, 17 e 21 della direttiva 2011/95 deriva che il legislatore dell’Unione ha imposto requisiti diversi relativi alla gravità dei reati che possono essere invocati per giustificare l’applicazione di una causa di esclusione o di revoca della protezione internazionale o del respingimento di un rifugiato. Infatti, l’articolo 17, paragrafo 3, della direttiva 2011/95 menziona la commissione di «uno o più reati» e l’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), e l’articolo 17, paragrafo 1, lettera b), di tale direttiva si riferiscono alla commissione di un «reato grave». Ne deriva che l’utilizzo, all’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95, dell’espressione «reato di particolare gravità» evidenzia la scelta del legislatore dell’Unione di subordinare l’applicazione di tale disposizione al soddisfacimento, segnatamente, di un requisito particolarmente rigoroso, relativo all’esistenza di una condanna con sentenza passata in giudicato per un reato connotato da gravità eccezionale, superiore a quella dei reati che possono giustificare l’applicazione delle disposizioni summenzionate di tale direttiva.

Per quanto riguarda la valutazione del livello di gravità di un reato alla luce dell’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95, essa deve, indubbiamente, essere effettuata sulla base di uno standard e di criteri comuni. Tuttavia, dal momento che il diritto penale degli Stati membri non è oggetto di misure generali di armonizzazione, essa deve essere effettuata tenendo conto delle scelte operate, nell’ambito del sistema penale dello Stato membro interessato, relativamente all’identificazione dei reati che presentano, in considerazione delle loro caratteristiche specifiche, una gravità eccezionale, in quanto pregiudicano maggiormente l’ordinamento giuridico della comunità.

In ogni caso, dato che tale disposizione si riferisce a una condanna passata in giudicato per «un reato di particolare gravità» al singolare, il livello di gravità di un reato non può essere raggiunto da un cumulo di infrazioni diverse di cui nessuna, in quanto tale, costituisca un reato di particolare gravità.

Infine, per valutare il grado di gravità di un siffatto reato, devono essere valutate tutte le circostanze specifiche del caso controverso. Al riguardo, hanno rilevanza significativa, in particolare, la motivazione della decisione di condanna, la natura nonché il quantum della pena comminata e della pena inflitta, la natura del reato commesso, l’insieme delle circostanze che accompagnano la commissione di tale reato, la dolosità o meno di tale reato, nonché la natura e l’entità dei danni da esso causati.

Per quanto riguarda la seconda condizione, relativa al fatto che sia stato dimostrato che il cittadino di un paese terzo costituisce un pericolo per la comunità dello Stato membro ospitante, la Corte constata, in primo luogo, che una misura di cui all’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95 può essere adottata solo qualora il cittadino interessato di un paese terzo costituisca un pericolo reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della comunità di tale Stato membro. Al riguardo la Corte precisa, in particolare, che dalla formulazione stessa di tale disposizione emerge che essa è applicabile solo qualora tale cittadino «costituisca» un pericolo per la comunità, il che tende ad indicare che tale pericolo deve essere reale ed attuale. Pertanto, più una decisione ai sensi di tale disposizione è adottata in un momento temporale distante rispetto alla condanna definitiva per un reato di particolare gravità, più spetta all’autorità competente prendere in considerazione, in particolare, gli sviluppi successivi alla commissione di un reato siffatto, al fine di determinare se sussista un pericolo reale e sufficientemente grave nel giorno in cui essa deve decidere sull’eventuale revoca dello status di rifugiato. La Corte si basa altresì, a tal riguardo, sul fatto che da un confronto tra le diverse disposizioni della direttiva 2011/95 con l’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), di quest’ultima si evince che l’applicazione di quest’ultima disposizione è subordinata a condizioni rigorose.

In secondo luogo, per quanto riguarda i ruoli, rispettivamente, dell’autorità competente e del cittadino interessato di un paese terzo nell’ambito della valutazione della sussistenza del pericolo, spetta all’autorità competente in sede di applicazione dell’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95 procedere, per ciascun caso individuale, a una valutazione di tutte le circostanze specifiche del caso di cui trattasi. In tale contesto, detta autorità deve disporre di tutte le informazioni rilevanti e procedere alla propria valutazione di tali circostanze, al fine di determinare il senso della propria decisione e di motivare quest’ultima in maniera completa.

In ultimo luogo, la facoltà dello Stato membro di adottare la misura prevista all’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95 deve essere esercitata nel rispetto, in particolare, del principio di proporzionalità il quale implica un bilanciamento tra, da un lato, il pericolo che il cittadino interessato di un paese terzo costituisce per la comunità dello Stato membro in cui si trova e, dall’altro, i diritti che devono essere garantiti alle persone che soddisfano le condizioni sostanziali dell’articolo 2, lettera d), di tale direttiva. Nell’ambito di tale valutazione, l’autorità competente deve anche tener conto dei diritti fondamentali garantiti dal diritto dell’Unione e, segnatamente, verificare la possibilità di adottare altre misure meno lesive dei diritti garantiti ai rifugiati e dei diritti fondamentali di pari efficacia per assicurare la protezione della comunità dello Stato membro ospitante.

Tuttavia, quando adotta una siffatta misura detta autorità non è tenuta, inoltre, a verificare che l’interesse pubblico connesso al rimpatrio di tale cittadino di un paese terzo nel suo paese di origine prevalga sull’interesse del medesimo cittadino al mantenimento della protezione internazionale, in considerazione della portata e della natura delle misure alle quali quest’ultimo sarebbe esposto in caso di rimpatrio nel suo paese di origine. Infatti le conseguenze, per il cittadino interessato di un paese terzo o per la comunità dello Stato membro in cui tale cittadino di un paese terzo si trova, di un eventuale rimpatrio di quest’ultimo nel suo paese di origine sono destinate ad essere prese in considerazione non già al momento dell’adozione della decisione di revoca dello status di rifugiato bensì, eventualmente, qualora l’autorità competente preveda di adottare una decisione di rimpatrio nei confronti di detto cittadino di un paese terzo.

Al riguardo, la Corte precisa che l’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95 corrisponde in parte alle cause di esclusione di cui all’articolo 33 della Convenzione di Ginevra (4). Ciò detto, posto che la prima di tali disposizione prevede, nelle ipotesi in essa previste, la possibilità per gli Stati membri di revocare lo status di rifugiato, mentre la seconda consente il respingimento di un rifugiato che si trovi in una di tali ipotesi verso un paese in cui la sua vita o la sua libertà sia minacciata, il diritto dell’Unione prevede una protezione internazionale dei rifugiati interessati più ampia di quella garantita dalla Convenzione di Ginevra. Di conseguenza, conformemente al diritto dell’Unione, l’autorità competente può essere legittimata a revocare, in applicazione dell’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), della direttiva 2011/95, lo status di rifugiato riconosciuto al cittadino di un paese terzo, senza tuttavia essere necessariamente autorizzata ad allontanarlo verso il suo paese di origine. Inoltre, sul piano procedurale un siffatto allontanamento presupporrebbe l’adozione di una decisione di rimpatrio, nel rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali previste dalla direttiva 2008/115 (5), la quale prevede in particolare, al suo articolo 5, che gli Stati membri siano tenuti, nell’attuazione di tale direttiva, a rispettare il principio del non respingimento. Non si può quindi ritenere che la revoca dello status di rifugiato, in applicazione dell’articolo 14, paragrafo 4, della direttiva 2011/95, implichi una presa di posizione riguardo alla diversa questione se tale persona possa essere allontanata verso il suo paese di origine. In tale contesto, la Corte precisa ancora che l’articolo 5 della direttiva 2008/115 osta all’adozione di una decisione di rimpatrio nei confronti del cittadino di un paese terzo qualora sia accertato che un allontanamento di quest’ultimo verso il paese di destinazione previsto è escluso a tempo indeterminato, in forza del principio del non respingimento.


1      Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9). L’articolo 14, paragrafo 4, lettera b), di tale direttiva enuncia che «[g]li Stati membri hanno la facoltà di revocare, di cessare o di rifiutare di rinnovare lo status riconosciuto a un rifugiato da un organismo statale, amministrativo, giudiziario o quasi giudiziario quando (...) la persona in questione, essendo stata condannata con sentenza passata in giudicato per un reato di particolare gravità, costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro».


2      L’articolo 12, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2011/95 prevede espressamente che il cittadino di un paese terzo debba essere escluso dallo status di rifugiato qualora abbia commesso, al di fuori del paese di accoglienza, un reato grave di diritto ordinario prima di essere ammesso come rifugiato, senza esigere in alcun modo che questi rappresenti un pericolo per la comunità dello Stato membro in cui si trova.


3      L’articolo 17, paragrafo 1, della direttiva 2011/95, concernente il riconoscimento della protezione sussidiaria, la quale può offrire una tutela più limitata rispetto allo status di rifugiato, si riferisce, alla sua lettera b), alla commissione di un reato grave e, alla sua lettera d), alla sussistenza di un pericolo per la comunità, elementi questi che sono esplicitamente presentati come condizioni alternative, implicanti, ciascuna di esse, considerata isolatamente, l’esclusione dal beneficio della protezione sussidiaria.


4      L’articolo 33 della Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], entrata in vigore il 22 aprile 1954, completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967 (in prosieguo: la «Convenzione di Ginevra») prevede quanto segue: «1. Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. 2. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese».


5      Direttiva 2008/115/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 2008, recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare (GU 2008, L 348, pag. 98).