CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

PEDRO CRUZ VILLALÓN

presentate il 14 settembre 2010 1(1)

Causa C‑96/09 P

Anheuser-Busch, Inc.

contro

Budějovický Budvar

«Impugnazione – Marchio comunitario – Art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 – Opposizione del titolare della denominazione di origine Bud – Uso nella normale prassi commerciale – Segno di portata non puramente locale»






Indice


I – Introduzione

II – Ambito normativo

A – L’Accordo di Lisbona

B – La convenzione bilaterale

C – Il diritto dell’Unione

III – Fatti della causa dinanzi al Tribunale di primo grado e sentenza impugnata

A – Fatti e procedimento dinanzi all’UAMI

B – Sintesi della sentenza impugnata

IV – Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti

V – Alcune considerazioni preliminari sull’art. 8 del regolamento n. 40/94

A – L’opposizione fondata su un marchio anteriore registrato: art. 8, nn. 1 e 2

B – L’opposizione fondata su altri segni: art. 8, n. 4

1. Nell’ambito dell’art. 8, n. 4, rientrano segni molto eterogenei

2. Le condizioni di cui all’art. 8, n. 4, sono volte ad assicurare la rilevanza dei segni invocati in forza di tale disposizione

C – Sulla possibilità di applicare per analogia le condizioni di cui all’art. 8, n. 1, al n. 4 dello stesso articolo

VI – Analisi dell’impugnazione

A – Sul primo motivo di impugnazione, relativo alla violazione dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94

1. Prima parte del primo motivo di impugnazione: sulla competenza dell’UAMI a valutare la validità del diritto invocato in forza dell’art. 8, n. 4

a) Definizione delle posizioni

b) Valutazione

2. Seconda parte del primo motivo di impugnazione: sulla condizione relativa all’«uso nella normale prassi commerciale»

a) Quantità e qualità dell’uso

i) Definizione delle posizioni

ii) Valutazione

b) Territorio pertinente per dimostrare l’«uso nella normale prassi commerciale»

i) Definizione delle posizioni

ii) Valutazione

c) Periodo rilevante per valutare l’«uso nella normale prassi commerciale»

i) Definizione delle posizioni

ii) Valutazione

d) Corollario

3. Terza parte del primo motivo di impugnazione: sulla condizione relativa alla «portata non puramente locale»

a) Definizione delle posizioni

b) Valutazione

4. Conclusione

B – Sul secondo motivo di impugnazione, concernente la violazione degli artt. 8, n. 4, e 74, n. 1, del regolamento n. 40/94

1. Definizione delle opposte tesi

2. Valutazione

C – Accoglimento del ricorso e rinvio della causa al Tribunale

VII – Sulle spese

VIII – Conclusione


I –    Introduzione

1.        La presente impugnazione costituisce un ulteriore capitolo della lunga storia processuale che vede opposte la produttrice di birra statunitense Anheuser‑Busch alla ceca Budějovický Budvar, národní podnik (in prosieguo: la «Budvar»), nel cui contesto la Corte si è già pronunciata a più riprese (2). Benché tali precedenti sentenze possano avere una certa incidenza su alcuni aspetti della causa in esame, quello sollevato nel caso di specie è un problema giuridico che finora non è stato esaminato dalla giurisprudenza della Corte.

2.        La sentenza del Tribunale di primo grado 16 dicembre 2008, Budějovický Budvar‑Anheuser‑Busch (BUD) (3), ora impugnata, ha accolto i ricorsi di annullamento proposti dalla Budvar contro una serie di decisioni della seconda commissione di ricorso dell’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli) (in prosieguo: l’«UAMI») con cui era stata respinta l’opposizione proposta dalla Budvar contro la domanda di registrazione del marchio comunitario Bud presentata dalla Anheuser‑Busch.

3.        La particolarità della causa consiste nel fatto che la Budvar si è opposta a tale registrazione del marchio comunitario Bud in forza dell’art. 8, n. 4, del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario (4), facendo valere l’esistenza di un diritto anteriore sulla denominazione Bud costituito da una denominazione d’origine che sarebbe protetta in Austria e in Francia da vari strumenti internazionali.

4.        La Corte è quindi chiamata ad interpretare per la prima volta l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 e dovrà farlo in un contesto che non sembra costituire l’ipotesi più tipica di applicazione della disposizione citata. La logica interna dell’art. 8, n. 4, si adatta con maggiore facilità ai diritti derivanti dal mero utilizzo di un determinato segno (i marchi non registrati, ad esempio, ma anche, a seconda della legislazione nazionale, taluni nomi d’impresa, insegne e altri segni distintivi) che non a quelli tutelati in virtù di una registrazione formale, come nel caso di specie.

5.        Quest’ultima circostanza può forse avere inciso sul senso generale della decisione del Tribunale, ma ritengo che non debba influire sulla soluzione del ricorso di impugnazione. Certamente, l’interpretazione dell’art. 8, n. 4, deve essere abbastanza flessibile da adattarsi alla grande varietà di segni rientranti in detta disposizione. Tuttavia, tale interpretazione deve anche essere tendenzialmente univoca. Se così non fosse, le condizioni poste dalla disposizione non potrebbero svolgere la loro funzione essenziale di assicurare l’affidabilità e la reale entità di tali segni che il legislatore ha loro attribuito.

6.        Tali condizioni si collocano, infatti, su un piano prevalentemente fattuale e il loro rispetto deve essere verificato sotto tale profilo. Ciò deve valere, a mio avviso, anche nei casi, come la fattispecie, in cui l’esistenza di una tutela giuridica formalizzata ed internazionale potrebbe far pensare alla necessità di modulare i requisiti relativi all’«uso» e alla «portata» del segno.

II – Ambito normativo

A –    L’Accordo di Lisbona

7.        L’art. 1, n. 2, dell’Accordo di Lisbona sulla protezione delle denominazioni d’origine e sulla loro registrazione internazionale (5) dispone che i paesi parti di tale Accordo (6) si impegnano a proteggere, sui loro territori, le denominazioni d’origine dei prodotti degli altri paesi dell’«Unione particolare», riconosciuti e protetti a tale titolo nel paese d’origine e registrati presso l’Ufficio internazionale contemplato nella Convenzione istitutiva dell’Organizzazione mondiale della proprietà intellettuale (in prosieguo: l’«OMPI»).

8.        Conformemente all’art. 5 dell’Accordo, la registrazione delle denominazioni di origine viene effettuata, su domanda delle amministrazioni dei paesi contraenti, in nome delle persone fisiche o giuridiche, pubbliche o private, titolari del diritto all’uso di queste denominazioni secondo la loro legislazione nazionale. In tale contesto, le amministrazioni dei paesi contraenti possono dichiarare di non poter assicurare la protezione di una denominazione di origine, con l’indicazione dei motivi, nel termine di un anno a decorrere dal ricevimento della notificazione della registrazione.

9.        Conformemente agli artt. 6 e 7, n. 1, la denominazione di origine registrata in forza dell’Accordo di Lisbona non si può considerare come divenuta generica per tutto il tempo in cui essa risulta protetta come denominazione d’origine nel paese di provenienza.

10.      D’altro canto, ai sensi della regola 16 del regolamento di esecuzione dell’Accordo di Lisbona, qualora gli effetti di una registrazione internazionale siano annullati in un paese contraente e l’annullamento non possa essere oggetto di alcun ricorso, siffatto annullamento deve essere notificato all’Ufficio internazionale dall’amministrazione competente di tale paese contraente.

11.      La denominazione d’origine «Bud» è stata registrata il 10 marzo 1975 con il n. 598, a norma dell’Accordo di Lisbona.

B –    La convenzione bilaterale

12.      L’11 giugno 1976 la Repubblica d’Austria e la Repubblica socialista cecoslovacca hanno concluso un Trattato in materia di tutela delle indicazioni geografiche, denominazioni d’origine ed altre denominazioni attinenti alla provenienza di prodotti agricoli e industriali (in prosieguo: la «convenzione bilaterale») (7).

13.      Conformemente al suo art. 2, per indicazioni di provenienza, denominazioni di origine ed altre denominazioni attinenti alla provenienza ai sensi della convenzione bilaterale s’intendono tutte le indicazioni che si riferiscono, direttamente o indirettamente, alla provenienza dei prodotti.

14.      Ai sensi dell’art. 3, n. 1, «nella Repubblica d’Austria, le denominazioni cecoslovacche indicate nell’accordo da concludersi ai sensi dell’art. 6 saranno riservate esclusivamente ai prodotti cecoslovacchi». L’art. 5, n. 1, parte B, punto 2, menziona le birre tra i generi dei prodotti cechi cui si applica la protezione prevista da tale convenzione bilaterale. L’allegato B di tale accordo, cui fa riferimento l’art. 6 di detta convenzione, prevede, tra le denominazioni cecoslovacche relative a prodotti agricoli e industriali, la denominazione «Bud» (nella rubrica «birre»).

C –    Il diritto dell’Unione

15.      A far data dal 13 aprile 2009 il marchio comunitario è disciplinato dal nuovo regolamento (CE) n. 207/2009 (8). Tuttavia, ai fini della decisione sulla presente impugnazione, continuano ad essere applicabili ratione temporis le disposizioni del regolamento (CE) n. 40/94.

16.      L’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, la cui interpretazione costituisce l’oggetto del ricorso in esame, dispone quanto segue:

«In seguito all’opposizione del titolare di un marchio non registrato o di un altro contrassegno utilizzato nella normale prassi commerciale e di portata non puramente locale, il marchio richiesto è escluso dalla registrazione se e nella misura in cui, conformemente alla legislazione dello Stato membro che disciplina detto contrassegno:

a)      sono stati acquisiti diritti a detto contrassegno prima della data di presentazione della domanda di marchio comunitario, o della data di decorrenza del diritto di priorità invocato per la presentazione della domanda di marchio comunitario;

b)      questo contrassegno dà al suo titolare il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo».

17.      L’art. 43, nn. 2 e 3, del medesimo regolamento così recita:

«2.      Su istanza del richiedente, il titolare di un marchio comunitario anteriore che abbia presentato opposizione deve addurre la prova che nel corso dei cinque anni che precedono la pubblicazione della domanda di marchio comunitario, il marchio comunitario anteriore è stato seriamente utilizzato nella Comunità per i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, e sui quali si fonda l’opposizione, o che vi sono legittime ragioni per la non utilizzazione, purché a tale data il marchio anteriore fosse registrato da almeno cinque anni. In mancanza di tale prova, l’opposizione è respinta. Se il marchio comunitario anteriore è stato utilizzato solo per una parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, ai fini dell’esame dell’opposizione si intende registrato solo per tale parte dei prodotti o dei servizi.

3.      Il paragrafo 2 si applica ai marchi nazionali anteriori di cui all’articolo 8, paragrafo 2, lettera a), fermo restando che l’utilizzazione nella Comunità è sostituita dall’utilizzazione nello Stato membro in cui il marchio nazionale anteriore è tutelato».

18.      Conformemente all’art. 74, n. 1, del regolamento n. 40/94, «[n]el corso della procedura l’Ufficio procede d’ufficio all’esame dei fatti. Tuttavia, in procedure concernenti impedimenti relativi alla registrazione, l’Ufficio si limita, in tale esame, ai fatti, prove ed argomenti addotti e alle richieste presentate dalle parti».

III – Fatti della causa dinanzi al Tribunale di primo grado e sentenza impugnata

A –    Fatti e procedimento dinanzi all’UAMI

19.      Il 1° aprile 1996, il 28 luglio 1999, l’11 aprile e il 4 luglio 2000 la Anheuser‑Busch, Inc. depositava quattro domande di registrazione come marchio comunitario del marchio (figurativo e denominativo) Bud.

20.      Il 5 marzo 1999, il 1° agosto 2000, il 22 maggio e il 5 giugno 2001 la Budvar si opponeva a tali registrazioni in forza dell’art. 42 del regolamento n. 40/94, facendo valere, in primo luogo, ai sensi dell’art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento n. 40/94, il marchio figurativo internazionale n. 361.566, con effetto in Austria, Benelux e Italia e, in secondo luogo, sulla base dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, la denominazione d’origine «Bud» registrata il 10 marzo 1975 presso l’OMPI ai sensi dell’Accordo di Lisbona, con effetto in Francia, Italia e Portogallo, nonché la medesima denominazione d’origine protetta in Austria ai sensi della convenzione bilaterale.

21.      Con decisione 16 luglio 2004 (n. 2326/2004), la divisione d’opposizione accoglieva parzialmente l’opposizione contro la domanda di registrazione di uno dei marchi richiesti. Per contro, con decisioni 23 dicembre 2004 (nn. 4474/2004 e 4475/2004) e 26 gennaio 2005 (n. 117/2005), la divisione di opposizione respingeva le opposizioni contro la domanda di registrazione degli altri tre marchi. La Budvar impugnava queste ultime tre decisioni di rigetto della divisione di opposizione e la Anheuser‑Busch impugnava a sua volta la decisione di accoglimento parziale del 16 luglio 2004.

22.      Con decisioni 14 giugno (procedimento R 234/2005‑2), 28 giugno (procedimento R 241/2005‑2) e 1° settembre 2006 (procedimento R 305/2005‑2), la seconda commissione di ricorso dell’UAMI respingeva i ricorsi proposti dalla Budvar. Con decisione 28 giugno 2006 (procedimento R 802/2004‑2), la commissione di ricorso accoglieva il ricorso proposto dalla Anheuser‑Busch e respingeva integralmente l’opposizione proposta dalla Budvar.

23.      In queste quattro decisioni la commissione di ricorso dell’UAMI rilevava, in primo luogo, che la Budvar non sembrava più riferirsi al marchio figurativo internazionale n. 361556 come fondamento delle sue opposizioni, ma soltanto alla denominazione d’origine «Bud».

24.      In secondo luogo, la commissione di ricorso osservava che era difficile immaginare che il segno BUD potesse essere considerato come una denominazione d’origine, o addirittura come un’indicazione indiretta di provenienza geografica, traendone la conclusione che, ai sensi dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, non poteva essere accolta un’opposizione sulla base di un diritto presentato come una denominazione d’origine ma che, di fatto, non lo era.

25.      In terzo luogo, applicando per analogia le disposizioni dell’art. 43, nn. 2 e 3, del regolamento n. 40/94 e della regola 22 del regolamento (CE) n. 2868/95 (9), la commissione di ricorso riteneva che le prove fornite dalla Budvar riguardo all’uso della denominazione d’origine «bud» in Austria, Francia, Italia e Portogallo fossero insufficienti.

26.      In quarto e ultimo luogo, essa riteneva che l’opposizione dovesse essere respinta in quanto la Budvar non aveva dimostrato che la denominazione d’origine controversa le attribuisse il diritto di vietare l’uso del termine «Bud» come marchio in Austria o in Francia.

B –    Sintesi della sentenza impugnata

27.      Il 26 agosto (10), il 15 settembre (11) e il 14 novembre 2006 (12) la Budvar impugnava dinanzi al Tribunale di primo grado le citate decisioni della commissione di ricorso. A sostegno delle sue domande, la ricorrente deduceva un motivo unico, relativo alla violazione dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94. Tale motivo unico della Budvar si articolava in due parti: la prima verteva sulla validità della denominazione di origine «Bud» (la commissione di ricorso aveva negato che il segno Bud costituisse una denominazione di origine), mentre la seconda riguardava l’applicabilità delle condizioni di cui all’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 (esclusa dalla commissione di ricorso e sostenuta dalla Budvar).

28.      Con sentenza 16 dicembre 2008, impugnata col presente ricorso, il Tribunale di primo grado ha accolto il ricorso di annullamento proposto dalla Budvar, accogliendo la prima e la seconda parte del citato motivo unico.

29.      Il Tribunale ha accolto la prima parte del motivo unico distinguendo ai fini della sua analisi tra la denominazione di origine «bud» registrata ai sensi dell’Accordo di Lisbona e la denominazione «bud» protetta in virtù della convenzione bilaterale.

30.      Riguardo alla prima, il Tribunale ha ricordato che, conformemente alla sua giurisprudenza, «la validità di un marchio nazionale non [può] essere messa in discussione nell’ambito di un procedimento di registrazione di un marchio comunitario» (punto 88), traendone la conclusione che «il sistema istituito dal regolamento n. 40/94 presuppone che l’UAMI prenda in considerazione l’esistenza di diritti anteriori protetti a livello nazionale» (punto 89). Poiché in Francia gli effetti della denominazione d’origine «bud» non erano stati definitivamente annullati, il Tribunale ha considerato che la commissione di ricorso avrebbe dovuto tenere conto del diritto nazionale applicabile e della registrazione effettuata ai sensi dell’Accordo di Lisbona, senza poter rimettere in discussione il fatto che il diritto anteriore invocato costituiva una «denominazione d’origine» (punto 90).

31.      Per quanto riguarda la seconda, il Tribunale ha sottolineato che, ai sensi dell’art. 2 della convenzione bilaterale, «è sufficiente che le indicazioni o denominazioni interessate si riferiscano direttamente o indirettamente alla provenienza di un prodotto per poter essere elencate nell’accordo bilaterale e usufruire, a tale titolo, della protezione conferita dalla convenzione bilaterale» (punto 94). Alla luce dei suddetti elementi, il Tribunale ha ritenuto che la commissione di ricorso avesse considerato erroneamente che la denominazione «Bud» era specificamente protetta in quanto «denominazione d’origine» ai sensi della convenzione bilaterale (punto 95). D’altro canto, il Tribunale ha dichiarato che la convenzione bilaterale produce ancora i suoi effetti in Austria ai fini della protezione della denominazione «Bud», poiché nulla indica che l’Austria o la Repubblica ceca abbiano denunciato la detta convenzione e le controversie pendenti in Austria non hanno portato all’adozione di una decisione giudiziaria definitiva (punto 98).

32.      Alla luce di quanto precede, il Tribunale ha concluso che la commissione di ricorso aveva violato l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, in quanto aveva considerato, in primo luogo, che i diritti anteriori invocati non erano una «denominazione d’origine» e, in secondo luogo, che stabilire se il segno BUD fosse trattato come una denominazione d’origine protetta, in particolare in Francia, aveva un’«importanza secondaria», e aveva concluso che un’opposizione non poteva essere accolta su tale fondamento (punti 92 e 97 della sentenza impugnata).

33.      Il Tribunale ha inoltre accolto la seconda parte del motivo unico di annullamento, relativo all’applicazione delle condizioni di cui all’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94. In tale seconda parte, la Budvar aveva formulato due censure.

34.      La prima riguardava le condizioni relative all’utilizzo del segno nella prassi commerciale e la sua «portata non puramente locale».

35.      Quanto alla verifica della condizione relativa all’utilizzo dei segni controversi nella prassi commerciale, il Tribunale ha ritenuto che la commissione di ricorso avesse commesso un errore di diritto per aver deciso di applicare per analogia le disposizioni comunitarie relative all’uso «effettivo» del marchio anteriore (art. 43, nn. 2 e 3, del regolamento n. 40/94). In primo luogo, l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 non prevede l’utilizzo «effettivo» del segno invocato a sostegno dell’opposizione (punto 164 della sentenza impugnata). In secondo luogo, quanto all’art. 9, n. 1, del regolamento n. 40/94 e agli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1, della direttiva 89/104/CEE (13), la Corte e il Tribunale hanno dichiarato in modo costante che «l’uso di un segno [identico al marchio di cui trattasi] si verifica nella “prassi commerciale” dal momento in cui esso si colloca nel contesto di un’attività commerciale finalizzata a un vantaggio economico, e non nell’ambito privato» (punto 165). In terzo luogo, quanto all’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, «è possibile che taluni segni non perdano i diritti ad essi collegati, anche se non costituiscono oggetto di un uso “effettivo”» (punto 166). E, in quarto luogo, il Tribunale ha rilevato che, applicando per analogia al caso di specie l’art. 43, nn. 2 e 3, del regolamento n. 40/94 e la regola 22 del regolamento n. 2868/95, la commissione di ricorso aveva analizzato in particolare l’uso del segno di cui trattasi in Austria, in Francia, in Italia e in Portogallo separatamente, vale a dire su ciascuno dei territori per i quali vale, secondo la Budvar, la protezione della denominazione «bud», e ciò sebbene i segni di cui all’art. 8, n. 4, del regolamento «poss[a]no costituire oggetto di una protezione su uno specifico territorio, anche se non sono stati utilizzati su tale specifico territorio, ma soltanto su un territorio diverso» (punto 167).

36.      Inoltre, il Tribunale ha dichiarato che «un’indicazione diretta a segnalare la provenienza geografica di un prodotto può essere utilizzata, analogamente ad un marchio, nella prassi commerciale», il che non significa che la denominazione di cui trattasi sia utilizzata «come un marchio», perdendo così la sua funzione primaria (punto 175 della sentenza impugnata).

37.      Quanto alla condizione relativa alla portata, il Tribunale ha ritenuto che l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 riguardi la portata del segno di cui trattasi, e non quella del suo utilizzo. Tale portata del segno riguarda l’estensione geografica della sua protezione, che non deve essere puramente locale. Di conseguenza, la commissione di ricorso aveva commesso un errore di diritto anche quando, relativamente alla Francia, aveva stabilito un nesso tra la prova dell’utilizzo del segno interessato e la condizione relativa al fatto che il diritto di cui trattasi deve avere una portata non puramente locale (punti 180 e 181).

38.      In base a tali considerazioni, il Tribunale ha concluso che la prima censura della seconda parte del motivo unico doveva essere accolta in quanto fondata.

39.      La seconda censura della seconda parte del motivo unico riguardava il diritto derivante dal segno invocato a sostegno dell’opposizione. Su questo punto, la commissione di ricorso aveva fatto unicamente riferimento alle pronunce giurisdizionali rese in Austria e in Francia per concludere che la Budvar non aveva dimostrato che il segno di cui trattasi le conferisse il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo. Il Tribunale ha ricordato, tuttavia, che nessuna delle pronunce invocate aveva acquisito autorità di cosa giudicata, sicché la commissione di ricorso non poteva basarsi unicamente su tali decisioni per giungere alla sua conclusione e avrebbe dovuto tener altresì conto delle disposizioni del diritto nazionale invocate dalla Budvar, compresi l’Accordo di Lisbona e la convenzione bilaterale (punto 192). A tal riguardo, il Tribunale ha ricordato che l’UAMI deve informarsi d’ufficio, con i mezzi che ritiene opportuni, sul diritto nazionale dello Stato membro interessato (punto 193). Conseguentemente, esso ha concluso che la commissione di ricorso aveva commesso un errore non tenendo conto di tutti gli elementi di fatto e di diritto rilevanti per stabilire se, ai sensi dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, il diritto dello Stato membro interessato attribuisse alla Budvar il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo (punto 199).

IV – Procedimento dinanzi alla Corte e conclusioni delle parti

40.      Il ricorso della Anheuser‑Busch è pervenuto in cancelleria della Corte il 10 marzo 2009 e i controricorsi della Budvar e dell’UAMI, rispettivamente, il 22 e il 25 maggio seguenti. Non sono state presentate né una replica né una controreplica.

41.      La Anheuser‑Busch chiede alla Corte di annullare la sentenza impugnata (eccezion fatta per il primo punto del dispositivo, relativo alla riunione delle cause) e di statuire in via definitiva sulla controversia, respingendo il ricorso proposto in primo grado, o, in subordine, di rinviare la causa al Tribunale, in entrambi i casi con condanna della Budvar alle spese.

42.      L’UAMI formula domande analoghe, mentre la Budvar chiede la conferma della sentenza impugnata e la condanna alle spese della ricorrente dinanzi alla Corte.

43.      All’udienza, tenutasi il 2 giugno 2010, i rappresentanti della Anheuser‑Busch, della Budvar e dell’UAMI hanno svolto osservazioni orali e hanno risposto ai quesiti che sono stati loro rivolti dai membri della Grande Sezione e dall’avvocato generale.

V –    Alcune considerazioni preliminari sull’art. 8 del regolamento n. 40/94

44.      Prima di procedere all’analisi della presente impugnazione, occorre svolgere una riflessione generale sull’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, dato che la discussione è incentrata sull’interpretazione di tale disposizione, per la prima volta nella giurisprudenza della Corte. Per la sua esatta comprensione occorre tenere conto anche degli altri paragrafi del citato art. 8.

A –    L’opposizione fondata su un marchio anteriore registrato: art. 8, nn. 1 e 2

45.      L’art. 8, nn. 1 e 2, del regolamento n. 40/94 disciplina l’opposizione alla registrazione di un marchio comunitario fondata su un marchio anteriore. In particolare, il n. 2 consente l’opposizione fondata su un marchio registrato anteriore (comunitario, nazionale o internazionale) e prevede lo stesso trattamento per i marchi nazionali che, pur non essendo stati registrati (14), abbiano acquisito notorietà in uno Stato membro a seguito di un uso particolarmente intenso (15).

46.      Il regolamento prevede una serie di condizioni cui è subordinato l’accoglimento dell’opposizione fondata su uno di tali marchi anteriori.

47.      In primo luogo, conformemente all’art. 43, nn. 2 e 3, del regolamento, il marchio anteriore invocato deve essere stato «seriamente utilizzato» nell’Unione o nello Stato membro di cui trattasi, per i prodotti o i servizi per i quali è stato registrato, nei cinque anni anteriori alla pubblicazione della domanda di marchio comunitario.

48.      In secondo luogo, conformemente all’art. 8, n. 1, del regolamento, il titolare di uno di tali marchi anteriori deve inoltre dimostrare che il marchio alla cui registrazione si oppone è identico o simile al suo e che sussiste un rischio di confusione nel territorio in cui il marchio anteriore è tutelato, a causa dell’identità o somiglianza dei prodotti o servizi per i quali i due marchi sono stati richiesti (16).

49.      La terza condizione, pertanto, è il cosiddetto principio di specialità: è possibile opporsi solo se la registrazione viene richiesta per beni o servizi identici o simili a quelli per i quali è tutelato il marchio anteriore. Orbene, l’applicazione di tale principio di specialità subisce una deroga laddove si tratti di marchi notori nella Comunità o in uno Stato membro. In tal caso, l’opposizione viene accolta anche se i prodotti o servizi non sono simili, sempreché l’uso senza giusto motivo del marchio richiesto possa trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio anteriore o recare pregiudizio agli stessi (art. 8, n. 5).

B –    L’opposizione fondata su altri segni: art. 8, n. 4

50.      A prescindere da quanto precede, l’art. 8 del regolamento n. 40/94 prevede anche la possibilità di invocare, in opposizione alla registrazione di un marchio comunitario, altri segni che non siano marchi registrati né marchi notoriamente conosciuti.

51.      Più concretamente, l’art. 8, n. 4, prevede che può presentare opposizione il «titolare di un marchio non registrato o di un altro contrassegno utilizzato nella normale prassi commerciale e di portata non puramente locale». Tale disposizione fa riferimento ad una categoria relativamente indefinita di segni (1), pur prevedendo talune condizioni volte a garantire la loro rilevanza (2).

1.      Nell’ambito dell’art. 8, n. 4, rientrano segni molto eterogenei

52.      La mancanza di precisione riguardo alla natura dei segni che possono essere invocati a titolo di tale disposizione, fa sì che il n. 4 operi di fatto come una specie di clausola residuale, o come un insieme eterogeneo di segni cui sono riconducibili non solo i marchi registrati che soddisfano il requisito della notorietà (17), ma anche qualsiasi altro segno utilizzato nella prassi commerciale o di portata non puramente locale.

53.      Tale iniziale imprecisione nella definizione dell’ambito di applicazione ratione materiae è dovuta in ampia misura al fatto che i marchi non registrati e gli altri segni menzionati nel citato n. 4 sono creati, riconosciuti e tutelati dai diritti nazionali, e possono quindi presentare un’ampia eterogeneità. Tale eterogeneità trova riscontro nelle «Direttive sull’opposizione» pubblicate dall’UAMI (18), che contengono un elenco non esaustivo dei segni atti a costituire, nei vari Stati membri, «diritti anteriori» ai sensi dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94. Oltre ai marchi non registrati, le suddette linee guida menzionano fra tali segni le denominazioni commerciali e d’impresa, le insegne, i titoli di pubblicazioni e le indicazioni geografiche. In generale, pertanto, la disposizione includerebbe sia segni diversi che adempiono una funzione distintiva o identificativa delle attività commerciali cui si riferiscono, sia altri segni che indicano l’origine dei prodotti o servizi per i quali essi vengono utilizzati.

54.      La maggior parte di tali segni (che siano marchi o meno) non risponde allo schema classico della registrazione, in quanto il diritto al loro utilizzo esclusivo si acquisisce o si consolida con l’uso, senza necessità di una registrazione formale (19). Tuttavia, rientrano nell’art. 8, n. 4, anche i segni che sono stati oggetto di una precedente registrazione, comprese, anche se non si tratta dell’ipotesi più caratteristica di applicazione della norma, le indicazioni geografiche protette in uno Stato membro in quanto registrate ai sensi dell’Accordo di Lisbona o di un altro strumento internazionale.

55.      A questo punto è forse opportuno aprire una parentesi per stabilire quali indicazioni geografiche, in concreto, possano o meno essere invocate in forza dell’art. 8, n. 4.

56.      In primo luogo, vanno escluse le indicazioni geografiche registrate a livello comunitario, poiché, mentre il regolamento n. 40/94 non fornisce alcuna precisazione al riguardo, l’art. 14 del regolamento (CE) n. 510/2006 (20) dispone che, «[q]ualora una denominazione d’origine o un’indicazione geografica sia registrata conformemente al presente regolamento, la domanda di registrazione di un marchio corrispondente ad una delle situazioni di cui all’articolo 13 e concernente lo stesso tipo di prodotto viene respinta, se la domanda di registrazione del marchio è presentata posteriormente alla data di presentazione della domanda di registrazione presso la Commissione». In linea con quanto precede, l’art. 7, n. 1, lett. k), del nuovo regolamento sul marchio comunitario (21) ha incluso le denominazioni d’origine e le indicazioni geografiche comunitarie fra gli impedimenti assoluti alla registrazione di un marchio comunitario.

57.      Conseguentemente, è possibile fare ricorso all’art. 8, n. 4, solo nel caso delle indicazioni geografiche che non sono registrate a livello comunitario, ma vengono tutelate a livello nazionale, fra le quali potrebbero rientrare quelle registrate ai sensi dell’Accordo di Lisbona o di un altro strumento internazionale (22).

58.      Questo tipo di segni gode di una protezione più formalizzata, con previa registrazione. A mio parere, poiché tale registrazione ha carattere costitutivo, la permanenza della registrazione costituisce l’unico elemento di cui si debba tenere conto per verificare la validità dell’indicazione geografica di cui trattasi. Ciò non significa, tuttavia, che la mera registrazione sia sufficiente per poter fare ricorso all’art. 8, n. 4: le condizioni relative al’uso, alla portata e alle caratteristiche del diritto poste da tale disposizione sono esigibili anche nel caso delle indicazioni geografiche non comunitarie, le uniche che possano essere fatte valere contro la domanda di registrazione di un marchio comunitario attraverso l’art. 8, n. 4.

59.      Di conseguenza, e a fronte di quanto suggerito dalla Budvar in udienza (23), ritengo che la natura particolare di questo tipo di segni e la protezione di cui essi possono godere in virtù della loro registrazione a livello internazionale non esimano dal rispetto delle condizioni stabilite da tale disposizione. Solo il rispetto di tali condizioni consente di garantire che, pur trattandosi di indicazioni geografiche semplici (escluse, per tale motivo, dalla possibilità di una tutela comunitaria), esse possiedano una natura e una rilevanza tali da renderle meritevoli di siffatta protezione speciale. Diversamente, esse resterebbero equiparate alle denominazioni di origine e alle indicazioni geografiche comunitarie.

2.      Le condizioni di cui all’art. 8, n. 4, sono volte ad assicurare la rilevanza dei segni invocati in forza di tale disposizione

60.      L’apparente ampiezza dell’art. 8, n. 4, generoso quanto al tipo di segni che danno diritto a formulare un’opposizione per tale via, viene immediatamente ridimensionata introducendo varie condizioni che devono sussistere cumulativamente per giustificare l’impedimento alla registrazione di un marchio comunitario.

61.      Il principale obiettivo delle suddette condizioni è precisamente circoscrivere la portata di tale motivo di opposizione, di modo che possano invocarlo solo i titolari di segni particolarmente rilevanti e importanti. Infatti, il citato art. 4 impone:

–        da un lato, due condizioni volte a garantire che il segno goda di una protezione speciale a livello nazionale (in particolare, che esso dia «al suo titolare il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo») e che il titolare abbia acquisito il diritto di utilizzarlo prima della data di presentazione della domanda di marchio comunitario, o della data di decorrenza del diritto di priorità invocato. Queste due condizioni, enunciate all’art. 8, n. 4, lett. a) e b), devono essere esaminate, come è logico, alla luce della «legislazione dello Stato membro che disciplina detto contrassegno»;

–        dall’altro, due condizioni (l’«utilizzo nella normale prassi commerciale» e la «portata non puramente locale») volte a garantire che, al di là della loro tutela nazionale, si tratti di segni con una certa presenza ed importanza commerciale.

62.      Il legislatore comunitario è dunque partito dall’esigenza di tutelare i segni riconosciuti a livello nazionale, ma ha previsto due livelli di tutela: uno per i segni che presentano un’importanza particolare, in quanto «utilizzat[i] nella normale prassi commerciale» e «di portata non puramente locale», che sono idonei ad impedire la registrazione di un marchio comunitario ai sensi dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, e un altro per i diritti di portata locale, che non possono impedire la registrazione del marchio comunitario, ma possono impedirne l’uso nel territorio in cui il diritto in questione è tutelato, ai sensi dell’art. 107 del medesimo regolamento.

63.      Fra tali segni nazionali risaltano e godono di una tutela speciale, attraverso il duplice criterio dell’«uso» e della «portata», quelli che presentano caratteristiche tali da giustificare l’impedimento alla registrazione di un marchio a livello comunitario. Come osserva correttamente la ricorrente, se qualsiasi segno nazionale potesse impedire la registrazione di un marchio comunitario, sarebbe praticamente impossibile ottenere un marchio unificato per tutta l’Unione europea. Una volta registrato, il marchio comunitario è valido e viene protetto in tutto il territorio dell’Unione (art. 1 del regolamento n. 40/94). Conseguentemente, affinché un segno nazionale, o tutelato in vari Stati membri, possa ostacolare detto processo di registrazione, esso deve possedere una forza particolare, vale a dire caratteristiche che gli consentano di impedire, con effetto in tutta l’Unione, la registrazione di un marchio.

64.      A mio parere, tali caratteristiche non costituiscono una conseguenza diretta dell’eventuale registrazione. Dai termini utilizzati dal legislatore sembra emergere la necessità di effettuare un’analisi più fattuale, legata all’importanza nel commercio. Si tratta, in definitiva, di condizioni che il legislatore pone consapevolmente sul piano fattuale, più vicine ai fatti rispetto al dato astratto della tutela giuridica.

65.      Nella maggior parte dei segni che hanno accesso a tale articolo, i due elementi coesistono in parallelo. Quando non ricorre tale ipotesi, come nel caso di specie, l’art. 8, n. 4, impone un’ulteriore verifica degli elementi di fatto relativi al luogo, al momento e alle condizioni in cui è stato utilizzato in segno in questione. Benché la sua tutela giuridica a livello nazionale sia indipendente da tali circostanze, e sussista senza necessità di un utilizzo, il segno può essere opposto solo se soddisfa le suddette condizioni volte a garantire che esso presenti un minimo di rilevanza.

66.      Infine, ritengo necessario precisare, già a partire da questa esposizione preliminare, che dette condizioni o caratteristiche di cui all’art. 8, n. 4, costituiscono un quadro creato ad hoc dal legislatore e non sono paragonabili alle condizioni stabilite per altre modalità di opposizione alla registrazione di un marchio comunitario.

C –    Sulla possibilità di applicare per analogia le condizioni di cui all’art. 8, n. 1, al n. 4 dello stesso articolo

67.      La sentenza impugnata e lo stesso ricorso di impugnazione utilizzano a più riprese l’argomento della necessità o meno, a seconda dei casi, di applicare all’ambito dell’art. 8, n. 4, le condizioni poste, per l’opposizione basata su un marchio anteriore, dall’art. 8, n. 1, e da altre disposizioni connesse, quale l’art. 43. Tale ricorso parziale all’analogia ha dato luogo, come si vedrà più avanti, a soluzioni incoerenti. Il principale argomento utilizzato a sostegno dell’applicazione analogica dei suddetti artt. 8, n. 1, e 43, nn. 2 e 3, è che i marchi meritano un trattamento più favorevole rispetto agli altri segni, in quanto sia i marchi nazionali (armonizzati), sia il marchio comunitario sono disciplinati da norme omogenee ed accettabili in tutto il territorio dell’Unione e offrono, pertanto, maggiori garanzie rispetto ad un marchio non registrato o ad uno qualunque degli altri segni contemplati dall’art. 8, n. 4.

68.      A mio parere, il complesso di questa argomentazione non è sufficientemente fondato. Il regolamento n. 40/94 ha raggruppato i motivi di opposizione alla registrazione di un marchio comunitario in vari gruppi, collegando a ciascuno di essi condizioni diverse, e costituirebbe una semplificazione eccessiva procedere ad una loro graduazione dal maggiore al minore livello della condizione in funzione del maggiore o minore livello di fiducia che il legislatore possa avere nel segno in questione. Se si osservano meglio le condizioni citate, la tesi non regge.

69.      È vero che l’esistenza di una registrazione o di un’armonizzazione comunitaria sono elementi di cui il legislatore ha tenuto conto, ma unitamente alla natura del segno di cui trattasi: solo così si spiega perché per le denominazioni di origine comunitarie non vengano imposte condizioni relative all’uso (24), mentre per i marchi registrati è richiesto l’uso effettivo per cinque anni. Quanto ai segni di cui all’art. 8, n. 4, il legislatore ha voluto creare una diversa serie di condizioni, sufficientemente rigorosa da non estendere l’applicazione della norma al di là del necessario, ma anche sufficientemente flessibile da adattarsi alle diverse caratteristiche dei segni ai quali potrebbe essere applicabile.

70.      Tale diversità, a mio parere, è l’unico elemento che consenta di spiegare perché l’art. 8, n. 4, non imponga il principio di specialità in relazione alle opposizioni formulate in base a tale disposizione. Al contrario dell’opposizione fondata su un marchio registrato anteriore, che è possibile solo se quest’ultimo riguardi prodotti o servizi identici o simili a quelli del marchio di cui si vuole impedire la registrazione, quando si fa valere un marchio non registrato o un altro segno diverso, il requisito dell’identità o della somiglianza dell’oggetto non risulta necessario (a meno che sia prescritto dal diritto nazionale per conferire al titolare del segno «il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo»). Ciò può apparire ancor più sorprendente, se si osserva che il rispetto del principio di specialità è necessario per poter far valere efficacemente una denominazione di origine o un’indicazione geografica comunitaria in quanto impedimento assoluto alla registrazione di un marchio comunitario successivo (25).

71.      A mio parere, da tutto quanto precede risulta che le maggiori «garanzie» offerte, quanto meno in teoria, dai titoli comunitari od armonizzati non costituiscono l’unico elemento di cui occorra tenere conto nell’interpretazione delle condizioni necessarie per poter utilizzare un determinato segno in opposizione ad un marchio comunitario successivo. In particolare, le condizioni di cui all’art. 8, n. 4, devono essere considerate come un insieme unico e non possono essere paragonate alle soluzioni scelte dal legislatore per fattispecie diverse.

VI – Analisi dell’impugnazione

72.      La ricorrente nel presente procedimento deduce due motivi, fondati, il primo, sulla violazione dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 e, il secondo, sulla violazione degli artt. 8, n. 4, e 74, n. 1, del medesimo regolamento.

A –    Sul primo motivo di impugnazione, relativo alla violazione dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94

73.      Il primo motivo di impugnazione, relativo alla violazione dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, è suddiviso in tre parti.

1.      Prima parte del primo motivo di impugnazione: sulla competenza dell’UAMI a valutare la validità del diritto invocato in forza dell’art. 8, n. 4

a)      Definizione delle posizioni

74.      La Anheuser‑Busch afferma che il Tribunale è incorso in un errore di diritto nel considerare, ai punti 79‑100 della sentenza impugnata, che la commissione di ricorso non era competente ad accertare se la Budvar avesse dimostrato la validità dei diritti anteriori invocati in forza dell’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94.

75.      Nel suo ricorso, la Anheuser‑Busch sostiene che l’UAMI deve accertare se i diritti sui quali si fonda l’opposizione sussistano realmente com’è affermato, se essi siano applicabili e se possano essere invocati contro la domanda di marchio comunitario. Il mero riferimento alla registrazione del diritto a livello nazionale, a parere della ricorrente, non sarebbe sufficiente a dimostrare l’esistenza di tale diritto: la registrazione creerebbe soltanto una semplice presunzione legale.

76.      La Anheuser‑Busch critica inoltre il fatto che il Tribunale, a sostegno della sua tesi, richiami la propria giurisprudenza relativa all’art. 8, n. 1, del regolamento n. 40/94 (26), suggerendone l’applicazione analogica. Secondo tale giurisprudenza, la validità di un marchio nazionale non può essere messa in discussione nell’ambito di un procedimento di registrazione di un marchio comunitario. La ricorrente ritiene che non sussista alcuna base giuridica per stabilire tale analogia con l’art. 8, n. 1, poiché l’esistenza di un’armonizzazione in materia di marchi garantisce che gli stessi criteri e standard vengano applicati ai marchi registrati in tutto il territorio dell’Unione, mentre i segni di cui all’art. 8, n. 4, non sono armonizzati.

b)      Valutazione

77.      A mio parere, non si può dire che il Tribunale abbia proceduto ad un’applicazione analogica dell’art. 8, n. 1, del regolamento n. 40/94. In realtà, la sentenza impugnata si limita ad estendere ai segni di cui al n. 4 il ragionamento seguito dalla giurisprudenza riguardo ai marchi nazionali registrati, considerando che l’UAMI non è competente a pronunciarsi sulla validità di tali segni, in quanto essi, al pari dei suddetti marchi, sono disciplinati dal diritto nazionale dello Stato membro di cui trattasi, e solo in quell’ambito si può decidere della loro validità.

78.      Il fatto che i marchi nazionali siano armonizzati mentre gli altri segni non lo sono, a mio avviso, non costituisce un elemento decisivo a tale riguardo.

79.      Presiedendo il motivo di opposizione di cui all’art. 8, n. 4, il legislatore comunitario ha accordato fiducia anche ai diritti nazionali ivi contemplati, fatto salvo solo l’obbligo di dimostrare la sussistenza delle condizioni volte a limitare l’ambito di applicazione della norma (ossia la priorità temporale del diritto, la circostanza che si tratti di un segno che gode di una tutela specifica a livello nazionale, il suo uso nella normale prassi commerciale e la sua portata non puramente locale). Le autorità dell’Unione possono verificare unicamente se sussistano tali condizioni, ma non rimettere in discussione la validità del diritto nazionale in questione, né la sussistenza della sua tutela nello Stato membro. Se così non fosse, si dovrebbe riconoscere all’UAMI la facoltà di interpretare ed applicare disposizioni nazionali, il che esula totalmente dall’ambito delle sue competenze e potrebbe determinare gravi interferenze nella vita e nella tutela del segno a livello nazionale.

80.      Pertanto, a mio parere, solo nel caso in cui la tutela del segno fosse stata definitivamente annullata nello Stato membro di cui trattasi (con sentenza passata in giudicato o attraverso il procedimento applicabile) l’UAMI avrebbe potuto o dovuto prendere in considerazione tale elemento e respingere l’opposizione basata su tale segno.

81.      Quanto precede risulta con particolare evidenza qualora, come nella specie, la tutela del segno consegua ad un atto formale, quale la registrazione. In tale contesto, è normale che la validità di detta registrazione non possa essere rimessa in discussione nell’ambito di un procedimento di registrazione di un marchio comunitario, ma solo nell’ambito di un procedimento di annullamento ai sensi delle disposizioni che disciplinano tale registrazione.

82.      Nell’ambito dell’Accordo di Lisbona, solo un’autorità amministrativa dei paesi contraenti può annullare gli effetti di una denominazione di origine già registrata, sia dichiarando, nel termine di un anno a decorrere dal ricevimento della notificazione della registrazione, di non poter assicurare la protezione di una denominazione di origine (art. 5 dell’Accordo di Lisbona), sia dichiarandone nulla la protezione nel paese di origine (artt. 6 e 7 dell’Accordo di Lisbona). A parte queste due ipotesi, non è possibile rimettere in discussione la validità della registrazione internazionale e l’efficacia della tutela che questa garantisce nei singoli paesi contraenti.

83.      Quanto alla protezione basata sulla convenzione bilaterale, a mio parere solo la denuncia della convenzione, la sua modifica o una sentenza passata in giudicato che dichiari l’estinzione della tutela nel paese di cui trattasi consentirebbero di escludere l’esistenza di un segno utile ai fini dell’opposizione fondata sull’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94.

84.      Nel caso di specie la commissione di ricorso ha ritenuto di «importanza secondaria» la questione se il segno Bud fosse stato trattato come una denominazione di origine protetta in Francia, Italia e Portogallo, ai sensi dell’Accordo di Lisbona, e in Austria, ai sensi della convenzione bilaterale conclusa fra tale Stato membro e la Repubblica ceca, poiché «un’opposizione non [può] essere accolta sulla base di un diritto presentato come una denominazione d’origine, ma che, di fatto, non è tale». A tal fine, l’UAMI si è basato sulle caratteristiche richieste dalla giurisprudenza e dalla stessa normativa comunitaria (27) per qualificare un segno come denominazione di origine e ha concluso che esse non sussistevano nel segno invocato. Orbene, alla luce di quanto precede, tali considerazioni risultano tutt’altro che decisive. Poiché i diritti invocati non erano stati definitivamente dichiarati nulli secondo le modalità proprie della normativa che li tutela, la commissione di ricorso non poteva rimettere in discussione la loro validità né il fatto che essi costituissero una «denominazione di origine».

85.      Di conseguenza, ritengo che la prima parte del primo motivo di impugnazione debba essere respinta.

2.      Seconda parte del primo motivo di impugnazione: sulla condizione relativa all’«uso nella normale prassi commerciale»

86.      La ricorrente afferma che il Tribunale ha interpretato erroneamente la condizione relativa all’«uso nella normale prassi commerciale» posta dall’art. 8, n. 4, sotto tre profili: in primo luogo, in relazione alla quantità e alla qualità dell’uso, non avendolo assimilato all’«uso effettivo» richiesto per i marchi registrati; in secondo luogo, in relazione al luogo di utilizzo, affermando che si può tenere conto delle prove provenienti da Stati membri diversi da quelli in cui è protetto il diritto invocato, e, in terzo luogo, in relazione al periodo rilevante per dimostrare l’uso, non considerando la data della domanda di registrazione quale data pertinente e sostituendola con la data di pubblicazione di detta domanda.

87.      In tal modo, il Tribunale avrebbe interpretato la condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale» nel senso meno rigoroso possibile, commettendo un errore di diritto.

a)      Quantità e qualità dell’uso

i)      Definizione delle posizioni

88.      La prima di queste tre censure riguarda i punti 160‑178 della sentenza impugnata. In tali punti il Tribunale avrebbe affermato che, nel caso dell’opposizione fondata su un marchio anteriore, la condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale» di cui all’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 non deve essere interpretata nello stesso senso della condizione relativa all’«uso effettivo» che l’art. 43, nn. 2 e 3, del medesimo regolamento pone per l’ipotesi di opposizione fondata su un marchio anteriore, come avrebbe fatto la commissione di ricorso.

89.      La ricorrente critica tale scelta interpretativa sostenendo che, se la condizione dell’«uso effettivo» non fosse applicabile nel contesto dell’art. 8, n. 4, i marchi registrati sarebbero soggetti a condizioni più rigorose rispetto ai segni di cui al citato n. 4 ai fini del loro utilizzo in un’opposizione alla registrazione di un marchio comunitario successivo. Come per constatare la violazione di un marchio (art. 9, n. 1, del regolamento n. 40/94) viene richiesto meno di quel che è richiesto per il suo mantenimento (artt. 15 e 43, nn. 2 e 3, del regolamento), così la Anheuser‑Busch ritiene che si debba pretendere il massimo rigore quando si tratta, come nel caso dell’art. 8, n. 4, di «costituire un diritto atto ad interferire con le attività commerciali di un’altra impresa».

90.      In tal modo, a parere della Anheuser‑Busch, l’applicazione della suddetta condizione dell’«uso effettivo» condurrebbe, da un lato, a non poter tenere conto, quale prova di tale uso, della consegna di campioni gratuiti, i quali, secondo la ricorrente, sono esclusi da tale nozione in virtù della sentenza Silberquelle (28). Inoltre, per poter essere considerato effettivo, l’uso di una denominazione d’origine o di un’indicazione geografica invocata in forza dell’art. 8, n. 4, dovrebbe essere conforme alla funzione essenziale del segno in questione, che è soltanto quella di garantire ai consumatori l’origine geografica dei prodotti e le qualità peculiari loro proprie.

ii)    Valutazione

91.      L’espressione «uso nella normale prassi commerciale» è stata interpretata dalla Budvar nello stesso modo in cui viene interpretata dalla stessa sentenza impugnata. Sostanzialmente, esse utilizzano tale espressione nel senso di un’alternativa tra l’assimilazione alla nozione di «uso effettivo» di cui all’art. 43, n. 2, del regolamento n. 40/94, o all’interpretazione data dalla giurisprudenza ai termini analoghi «usare in commercio», di cui all’art. 9, n. 1, del regolamento n. 40/94, nonché agli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1, della direttiva 89/104.

92.      In effetti, esistono notevoli differenze tra i due livelli d’uso. Da un lato, la giurisprudenza considera che un marchio è oggetto di un «uso effettivo» ai sensi dell’art. 43 del regolamento n. 40/94 allorché «assolve alla sua funzione essenziale, che è di garantire l’identità di origine dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato, al fine di trovare o di mantenere per essi uno sbocco, ad esclusione degli usi simbolici, che sono tesi soltanto a conservare i diritti conferiti dalla registrazione» (29). Quanto alla nozione di «uso nel commercio», finora la giurisprudenza ha avuto occasione di interpretare tale espressione solo nel contesto dell’art. 9, n. 1, del regolamento n. 40/94 e degli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1, della direttiva 89/104, ritenendo che detto uso abbia luogo solo se il segno in questione sia utilizzato «nel contesto di un’attività commerciale finalizzata a un vantaggio economico, e non nell’ambito privato».

93.      A mio parere, tuttavia, tale approccio dualistico non considera la ratio legis dell’art. 8, n. 4. Tale disposizione, da un lato, prevede una serie speciale di condizioni che devono essere interpretate autonomamente rispetto a quelle richieste per gli altri motivi di opposizione; dall’altro, risponde ad una logica propria, che non è quella dell’art. 43, n. 2, ma soprattutto non è quella dell’art. 9, n. 1, del regolamento.

94.      Indubbiamente, l’argomento relativo alla certezza del diritto dedotto dalla Budvar (la condizione deve essere interpretata nello stesso modo in tutte le disposizioni del regolamento in cui compare) non è trascurabile, ma non è idoneo a dare fondamento alla tesi del Tribunale. Di regola, il citato principio impone che l’interpretazione di una nozione giuridica indeterminata sia uniforme, soprattutto quando due disposizioni della stessa norma o di norme dal contenuto collegato utilizzano la medesima terminologia (come avviene indubbiamente nel caso di specie con l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94, l’art. 9, n. 1, del regolamento e gli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1, della direttiva 89/104). Tuttavia, tale criterio interpretativo, secondo cui a una terminologia identica deve essere applicata la stessa definizione, non può essere così rigido da prescindere del tutto dal contesto in cui la nozione di cui trattasi viene utilizzata. In questo caso, la condizione svolge funzioni completamente diverse a seconda della disposizione che la prevede.

95.      L’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 esige, come condizione per poterlo opporre alla domanda di registrazione di un nuovo marchio comunitario, che il segno sia «utilizzato nella normale prassi commerciale»; in questo caso si tratta, quindi, di far sorgere un motivo di opposizione di fronte al tentativo di registrare un marchio comunitario. L’art. 9, n. 1, del medesimo regolamento utilizza, invece, tale espressione per descrivere gli usi di un segno identico o simile ad un marchio comunitario che il titolare di quest’ultimo può vietare; in questa diversa ipotesi, pertanto, lo scopo è garantire, logicamente nei termini quanto più ampi possibile, la portata del diritto esclusivo d’uso spettante al titolare di un marchio comunitario (30).

96.      In questi termini, l’art. 8, n. 4, utilizza l’espressione in senso positivo, esigendo una «soglia d’uso» minima per potersi opporre alla registrazione di un marchio comunitario. L’art. 9, n. 1, invece, utilizza l’espressione in senso negativo, al fine di vietare un tipo di comportamenti «ostili» al marchio registrato nel modo più ampio possibile.

97.      Ciò non significa, tuttavia, che sia corretto interpretare l’art. 8, n. 4, fondandosi sull’art. 43, n. 2, come ha fatto la sentenza impugnata. Intendo dire che l’uso nella prassi commerciale richiede un’interpretazione ad esso propria, che non può essere altro se non quella secondo cui l’opposizione fondata su uno di tali segni deve evidenziare un «uso» degno di tale nome.

98.      A mio parere, pertanto, la condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale» di cui all’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 costituisce, al pari delle altre condizioni previste da tale disposizione, una nozione autonoma (31), che richiede un’interpretazione propria.

99.      In primo luogo, a mio parere, senza che sia indispensabile che il segno venga utilizzato al fine di «trovare o mantenere (...) uno sbocco», è effettivamente richiesto un determinato uso in un contesto commerciale, ad esclusione dell’uso nella sfera privata, ma non è sufficiente, ad esempio, la distribuzione di campioni gratuiti.

100. In secondo luogo, sembra ragionevole anche pretendere che si tratti di un uso conforme alla funzione essenziale del segno in questione. Nel caso delle indicazioni geografiche, detta funzione consiste nel garantire l’identificazione da parte del pubblico dell’origine geografica e/o di certe caratteristiche specifiche del prodotto.

101. Un’interpretazione di questo tipo (che, a mio parere, ha il merito di essere adattabile alla molteplicità di segni diversi rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 8, n. 4) potrebbe rendere pertinenti, se dimostrati, gli argomenti della Anheuser‑Busch relativi al fatto che la Budvar ha utilizzato il segno BUD come marchio e non allo scopo di indicare l’origine geografica del prodotto.

b)      Territorio pertinente per dimostrare l’«uso nella normale prassi commerciale»

i)      Definizione delle posizioni

102. La seconda censura ruota intorno al territorio pertinente per dimostrare la menzionata condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale».

103. La ricorrente sostiene che il Tribunale ha violato il principio di territorialità e ha interpretato erroneamente l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 affermando, ai punti 167 e 168 della sentenza impugnata, che dalla lettera di tale disposizione «non risulta che il segno in questione debba costituire oggetto di un utilizzo sul territorio il cui diritto viene invocato a sostegno della protezione del segno stesso». In particolare, il Tribunale ha fatto riferimento alla necessità di tenere conto delle prove prodotte dalla Budvar in relazione all’uso di «Bud» nel Benelux, in Spagna e nel Regno Unito, sebbene l’opposizione fosse fondata su diritti esclusivi esistenti unicamente in Austria e in Francia.

104. A parere della Anheuser‑Busch, la condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale» può essere riferita solo all’uso del segno nel territorio in cui esso gode della tutela invocata. Così imporrebbe il principio di territorialità applicabile ai diritti di proprietà intellettuale in generale e alle denominazioni di origine in particolare. Infine, la ricorrente torna ad utilizzare l’argomento della comparazione con il regime dei marchi: se si prendesse in considerazione l’uso in questi altri territori, i segni non armonizzati di cui all’art. 8, n. 4, sarebbero trattati in modo più favorevole rispetto ai marchi di cui all’art. 8, nn. 1 e 2, dato che per questi ultimi il medesimo articolo richiede l’uso effettivo nel territorio di cui trattasi.

ii)    Valutazione

105. Riguardo a questa seconda censura, condivido l’argomento della ricorrente basato sul principio di territorialità, ma non quello basato sul confronto con il regime dei marchi, per le ragioni esposte in precedenza.

106. A mio parere, una valutazione territoriale della condizione relativa all’uso è indispensabile a prescindere dal segno invocato. Nel caso dei marchi, l’art. 43, nn. 2 e 3, del regolamento n. 40/94 impone espressamente che venga dimostrato l’uso effettivo «nella Comunità» (qualora si faccia valere un marchio comunitario) o «nello Stato membro in cui il marchio nazionale anteriore è tutelato». Tuttavia, il silenzio dell’art. 8, n. 4, su questo punto non può essere interpretato come volontà di escludere una condizione che è naturalmente imposta in virtù del principio di territorialità, applicabile in generale a tutti i diritti di proprietà intellettuale (32).

107. La normativa comunitaria e la stessa giurisprudenza offrono numerosi esempi di applicazione di tale principio.

108. Dall’art. 8, n. 1, lett. b), del regolamento n. 40/94, ad esempio, emerge che la sussistenza di un rischio di confusione a causa dalla somiglianza tra il marchio di cui si chiede la registrazione ed un marchio anteriore e tra i prodotti o servizi designati dai due marchi dev’essere valutata con riferimento al pubblico del territorio nel quale il marchio anteriore è tutelato (33).

109. L’art. 3, n. 3, della direttiva 89/104, in cui si deroga all’applicazione dei motivi di nullità o degli impedimenti alla registrazione di un marchio che abbia acquisito carattere distintivo «a seguito dell’uso che ne è stato fatto», non precisa dove debba essere verificato tale uso. Tuttavia, la Corte ha dichiarato che a tal fine «è pertinente solo la situazione che prevale nella parte del territorio dello Stato membro interessato (o, eventualmente, nella parte del territorio del Benelux) in cui gli impedimenti alla registrazione sono stati constatati» (34).

110. Parallelamente, l’art. 7, n. 3, del regolamento n. 40/94 prevede una deroga all’applicazione degli impedimenti assoluti alla registrazione di un marchio comunitario quando esso abbia acquisito «un carattere distintivo in seguito all’uso che ne è stato fatto» e la giurisprudenza ha precisato che il marchio può essere registrato in forza della citata disposizione solo se viene fornita la prova che «esso ha acquisito, in seguito all’uso che ne è stato fatto, un carattere distintivo nella parte della Comunità in cui esso non aveva ab initio un tale carattere ai sensi del n. 1, lett. b), del medesimo articolo [7]. La parte della Comunità considerata al n. 2 del detto articolo può essere eventualmente costituita da un solo Stato membro» (35). Pertanto, è sufficiente che un marchio sia privo di carattere distintivo in un solo Stato membro per impedire la registrazione a livello comunitario; per contro, dal momento in cui il marchio di cui si chiede la registrazione abbia acquisito tale carattere distintivo nel territorio in cui ne era privo, l’impedimento non è più applicabile.

111. Infine, ritengo che solo un’applicazione rigorosa del principio di territorialità consenta di rispettare la finalità dell’art. 8, n. 4. Se con la condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale» si mira a garantire che il segno invocato per questa via abbia una certa rilevanza pubblica, è logico che tale rilevanza acquisita con l’uso debba essere dimostrata in relazione al territorio in cui il segno è tutelato e che non sia sufficiente avere utilizzato tale segno in un territorio diverso (che potrebbe anche situarsi al di fuori del territorio dell’Unione), nel quale esso non è tutelato.

c)      Periodo rilevante per valutare l’«uso nella normale prassi commerciale»

i)      Definizione delle posizioni

112. La terza censura fa riferimento al periodo pertinente al fine di valutare la condizione dell’«uso nella normale prassi commerciale» e, in particolare, quella del termine ad quem.

113. A parere della Anheuser‑Busch, il Tribunale avrebbe interpretato erroneamente l’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94 affermando, al punto 169 della sentenza impugnata, che da tale disposizione non risulta che «l’opponente è tenuto a dimostrare che il segno controverso è stato utilizzato precedentemente alla domanda di marchio comunitario», bensì che, «[t]utt’al più, come viene richiesto per i marchi anteriori, e per evitare usi del diritto anteriore dovuti unicamente ad un procedimento di opposizione, si può esigere che il segno in questione sia stato utilizzato prima della pubblicazione della domanda di marchio nel Bollettino dei marchi comunitari».

114. La ricorrente ritiene, invece, che tutte le condizioni per l’opposizione alla registrazione di un marchio debbano sussistere al momento del deposito della domanda relativa al marchio successivo e che non si possa concedere all’opponente un termine più ampio per utilizzare nella prassi commerciale il segno contrario al marchio di cui si chiede la registrazione.

ii)    Valutazione

115. Su questo punto, considero corretta la valutazione della ricorrente secondo cui l’uso del segno deve essere, eventualmente, dimostrato prima del deposito, e non che esso possa aver luogo fino alla pubblicazione della domanda di registrazione.

116. In primo luogo, e per i motivi già esposti nel titolo V delle presenti conclusioni, il silenzio del legislatore obbliga ad effettuare, anche a tale riguardo, un’interpretazione autonoma per l’opposizione in base all’art. 8, n. 4, del regolamento n. 40/94.

117. Da un lato, si deve escludere l’applicazione analogica dell’art. 43 proposta dalla sentenza impugnata (36). Con tale argomento il Tribunale incorre in una grave contraddizione interna, avendo respinto solo alcuni punti prima questa medesima applicazione analogica in relazione alla nozione di «uso nella normale prassi commerciale». Per essere coerenti, se si interpreta l’«uso nella normale prassi commerciale» come qualcosa di diverso dall’«uso effettivo» di cui all’art. 43, n. 2, si deve respingere l’interpretazione della condizione temporale fornita dalla sentenza impugnata. Dall’altro, ciò non significa nemmeno che si possa giungere a tale soluzione con la semplice applicazione analogica della giurisprudenza relativa all’art. 8, n. 5 (37), elaborata in un contesto totalmente diverso (l’opposizione basata su un marchio anteriore che gode di notorietà). Orbene, le sentenze citate dalla ricorrente costituiscono chiare applicazioni del principio di priorità che disciplina i diritti di proprietà industriale e di cui si deve tenere conto anche nel contesto dell’art. 8, n. 4.

118. A mio parere, tale criterio di priorità deve fare riferimento alla data della domanda di registrazione del nuovo marchio comunitario, e non a quella della sua pubblicazione nel Bollettino dei marchi comunitari. Infatti, se si mira a garantire che il segno invocato in opposizione sia stato oggetto di un uso nella prassi commerciale tale da consolidarlo e da attribuirgli l’importanza necessaria per poterlo ragionevolmente opporre alla registrazione di un nuovo marchio comunitario, sembra ragionevole esigere che il segno in questione sia già stato utilizzato prima della domanda di registrazione di cui trattasi.

119. Una soluzione diversa potrebbe favorire le frodi, consentendo al titolare del diritto anteriore di «improvvisare», al solo scopo di farlo valere in opposizione, un uso artificioso del suo segno nel periodo transitorio compreso fra il deposito della domanda di registrazione (che, come è stato confermato in udienza, è possibile conoscere con mezzi informali) e la sua registrazione nel Bollettino dei marchi comunitari (38).

120. Nella sua memoria di intervento, la Budvar sostiene che l’art. 8, n. 4, lett. a), esige espressamente che il diritto di utilizzare il segno sia stato acquisito anteriormente alla data di presentazione della domanda di marchio comunitario o, eventualmente, prima della data di decorrenza della priorità invocata a sostegno della domanda di marchio comunitario, ma non applica questa medesima condizione temporale al requisito dell’uso nella prassi commerciale. A parere della Budvar, sarebbe, pertanto, sufficiente che il diritto sul quale si fonda l’opposizione sia stato acquisito anteriormente al deposito della domanda di marchio, sebbene l’uso di tale diritto abbia avuto luogo solo successivamente, nel periodo che va fino alla pubblicazione ufficiale di tale domanda. Non condivido questa interpretazione della norma. A mio parere, la lettera della disposizione non osta all’estensione della medesima condizione temporale al requisito dell’uso; inoltre, sarebbe più logico che tutte le condizioni di cui all’art. 8, n. 4, fossero coordinate dal punto di vista temporale. Diversamente, come si è rilevato, il sistema potrebbe prestarsi facilmente alle frodi: se l’obiettivo perseguito è, come indica la stessa sentenza impugnata, «evitare usi del diritto anteriore dovuti unicamente ad un procedimento di opposizione», occorre garantire che l’uso del segno confliggente avrebbe avuto luogo indipendentemente dalla presentazione della domanda di marchio comunitario, il che può essere assicurato solo esigendo un uso anteriore al deposito di detta domanda.

121. Infine, la Budvar afferma altresì che la domanda di registrazione è opponibile ai terzi solo se è stata pubblicata. Tale argomento, a mio parere, non è pertinente, poiché nella specie non si tratta di determinare il fatto che dà luogo a tale eventuale opponibilità, bensì di dimostrare che il segno invocato riveste una certa importanza nel commercio.

d)      Corollario

122. Poiché le tre censure sono fondate, ritengo che la seconda parte del primo motivo di impugnazione debba essere accolta.

3.      Terza parte del primo motivo di impugnazione: sulla condizione relativa alla «portata non puramente locale»

a)      Definizione delle posizioni

123. Nella terza parte del primo motivo di impugnazione, la Anheuser‑Busch sostiene che i punti 179‑183 della sentenza impugnata interpretano erroneamente l’espressione «di portata non puramente locale».

124. Pur ammettendo che, secondo l’art. 8, n. 4, ciò che deve avere una «portata non puramente locale» è il segno (e non l’uso), la ricorrente ritiene che il termine «portata» debba essere necessariamente collegato al mercato del paese in cui detto segno è tutelato e che un segno possa avere una «portata» nel commercio solo se viene utilizzato in tale contesto. La mera circostanza che le leggi di due o più Stati concedano diritti esclusivi ad un soggetto in relazione ad un segno specifico non implica che tale segno abbia già per questo solo fatto una «portata» nel commercio in tali Stati.

125. Analogamente, la Anheuser‑Busch ritiene che l’ambito di applicazione geografica della tutela offerta dal diritto nazionale non sia un criterio adeguato a tal fine, dato che, diversamente, la condizione sarebbe soggetta al diritto nazionale degli Stati membri, il che sarebbe contrario alla giurisprudenza secondo cui il diritto dei marchi comunitari è autonomo e non è soggetto all’applicazione della normativa nazionale (sentenza 25 ottobre 2007, causa C‑238/06 P, Develey/UAMI, Racc. pag. I‑9375, punti 65 e 66).

b)      Valutazione

126. A mio parere, la sentenza impugnata fornisce un’interpretazione eccessivamente letterale e aderente al testo dell’art. 8, n. 4.

127. Da un lato, è indubbio che, come afferma la sentenza impugnata (39), l’espressione «di portata non puramente locale» qualifica il segno e non il suo uso, né la prassi commerciale; essa si riferisce, in definitiva, alla portata del segno, e non a quella del suo utilizzo. Ciò è confermato da alcune delle versioni linguistiche della disposizione: la versione italiana è una delle più chiare, poiché introduce la congiunzione «e» («contrassegno utilizzato nella normale prassi commerciale e di portata non puramente locale»), ma neppure danno luogo a dubbi le versioni francese («signe utilisé dans la vie des affaires dont la portée n’est pas seulement locale»), portoghese («sinal utilizado na vida comercial cujo alcance não seja apenas local») o tedesca («eingetragenen Marke oder eines sonstigen im geschäftlichen Verkehr benutzten Kennzeichenrechts von mehr als lediglich örtlicher Bedeutung»), e risulta difficile optare per un’interpretazione diversa anche nel caso di formulazioni che potrebbero sollevare qualche dubbio, come quelle utilizzate nella versione spagnola («signo utilizado en el tráfico económico de alcance no únicamente local») o inglese («sign used in the course of trade of more than mere local significance»).

128. Orbene, nonostante quanto dichiarato dal Tribunale nella sentenza impugnata, le suesposte considerazioni non possono implicare che la portata del segno equivalga al suo ambito geografico di tutela giuridica, né che un segno abbia una portata superiore a quella locale per il semplice fatto di essere giuridicamente tutelato in più di un paese.

129. Come detto, le condizioni di cui all’art. 8, n. 4, non sono circoscritte all’ambito strettamente giuridico. I termini utilizzati dal legislatore comunitario e la finalità stessa della disposizione richiedono un’interpretazione legata ai fatti, all’importanza del segno nel commercio (40).

130. In primo luogo, il termine «portata» e i termini equivalenti utilizzati nelle altre versioni linguistiche sembrano rientrare in un contesto fattuale, e non in quello dell’ambito territoriale di applicazione di una norma di tutela (41). Questa tesi si fonda sul fatto, già sottolineato, che l’art. 8, n. 4, riguarda un insieme eterogeneo di segni, alcuni protetti semplicemente per l’uso e altri previa registrazione.

131. Alla stessa conclusione si perviene, in secondo luogo, dopo avere esaminato il complesso delle condizioni cui il regolamento n. 40/94 subordina la possibilità di invocare un segno come impedimento relativo attraverso detto art. 8, n. 4. Come rilevato in precedenza, tali condizioni possono essere classificate in due grandi gruppi: da un lato, due di diritto nazionale [quelle contemplate alle lett. a) e b) della disposizione], destinate a garantire che il segno sia e sia stato precedentemente oggetto di una tutela speciale a livello nazionale e, dall’altro, due condizioni (l’«uso nella normale prassi commerciale» e la «portata non puramente locale») che la ricorrente considera giustamente come condizioni autonome «di diritto comunitario» e che sono volte a riservare tale modalità di opposizione ai segni che, al di là della loro tutela nazionale, abbiano una certa presenza ed importanza commerciale.

132. Difficilmente il termine «portata» può essere separato dal mercato in cui appare il segno e dall’uso del segno stesso. Non è per caso che si parla di uso del segno «nella prassi commerciale»: sebbene la condizione si riferisca al segno, la sua interpretazione non può essere avulsa dal contesto. La disposizione deve essere interpretata come un tutt’uno.

133. Conseguentemente, i marchi non registrati e gli altri segni di cui all’art. 8, n. 4, possono fungere da impedimenti relativi qualora essi rivestano nella prassi commerciale una portata non puramente locale (42). L’ambito territoriale rispetto al quale deve essere analizzata tale portata è quello in cui il segno gode di tutela giuridica (43), ma la mera esistenza di tale tutela in tutto il territorio di uno Stato membro, o anche in più d’uno, non garantisce che sussista la condizione relativa alla portata.

134. Quanto precede risulta confermato anche qualora si adotti, in terzo luogo, un’interpretazione teleologica. L’introduzione della condizione relativa alla portata corrisponde, come ho rilevato più volte, alla volontà del legislatore di escludere la possibilità di fondarsi sull’art. 8, n. 4, per i segni che non «meritano» di essere idonei ad impedire la registrazione di un marchio simile a livello comunitario (44).

135. Ai sensi dell’art. 1 del regolamento n. 40/94, il marchio comunitario, una volta registrato, è valido e viene tutelato in tutto il territorio dell’Unione. Conseguentemente, affinché un diritto anteriore non registrato possa impedire la registrazione di un marchio comunitario destinato a coprire il territorio dei 27 Stati membri, esso deve rivestire un’importanza tale da giustificarne la prevalenza su detto marchio comunitario successivo. La sua «portata» deve essere tale da consentirgli di impedire, con effetto in tutta l’Unione, la registrazione di un marchio, e questa portata non può riferirsi unicamente all’ambito territoriale di tutela del diritto invocato.

136. La soluzione interpretativa offerta dal Tribunale nella sentenza impugnata si adatta facilmente ai segni che, al pari di Bud, godono di una tutela internazionale formalizzata attraverso una registrazione. Tuttavia, la maggior parte dei segni rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 8, n. 4, non presenta tali caratteristiche.

137. Da un lato, la disposizione di riferimento sembra essere stata pensata fondamentalmente per segni tutelati in un solo Stato membro (45), e non per i casi quantitativamente meno importanti in cui esiste una tutela transnazionale. Interpretare la condizione della «portata» come sinonimo dell’ambito territoriale della tutela giuridica condurrebbe ad escludere a priori la possibilità di invocare in forza dell’art. 8, n. 4, i segni protetti in tutto il territorio di uno Stato membro ma non al di fuori dei suoi confini, poiché detti segni non avrebbero mai una portata superiore a quella locale (46). Per includere tali segni occorre attribuire un significato più fattuale al termine «portata», esigendo che il segno sia conosciuto in un territorio più esteso rispetto, ad esempio, ad un comune o ad una regione.

138. Dall’altro lato, la soluzione proposta dalla sentenza impugnata non si attaglia nemmeno ai segni che, al pari dei marchi non registrati, nascono e sono tutelati per il loro utilizzo, senza necessità di una previa registrazione. In questi casi, che rappresentano la maggioranza dei casi soggetti all’applicazione della disposizione in esame, non è agevole tracciare i confini tra la portata dell’uso e la portata della tutela giuridica.

139. Infine, e contrariamente a quanto dichiarato al punto 180 della sentenza impugnata, ritengo che l’art. 107 del regolamento n. 40/94 non osti all’interpretazione da me proposta.

140. L’art. 8, n. 4, opera in parallelo con l’art. 107, che consente la «coesistenza» del nuovo marchio comunitario con un segno anteriore di portata puramente locale, disponendo che il titolare di tale diritto anteriore (il quale, pertanto, non può essere posto a fondamento dell’opposizione alla registrazione di un marchio comunitario, ma che è tutelato in uno Stato membro), «può opporsi all’uso del marchio comunitario nel territorio in cui tale diritto è tutelato». Dalla disposizione si evince che a una portata locale corrisponde una tutela circoscritta al territorio dello Stato membro, e a una portata superiore a quella locale corrisponde una tutela in tutta l’Unione (47), ma non che la tutela a livello comunitario (in esito all’opposizione alla registrazione del marchio successivo) debba essere concessa solo quando esista tutela giuridica in più di uno Stato membro. L’art. 107 non è sufficiente, a mio parere, per individuare un vincolo indissolubile tra la portata e l’ambito territoriale di tutela nel senso proposto dalla sentenza impugnata.

141. Alla luce di quanto esposto in precedenza, ritengo che, per quanto un’indicazione geografica come Bud sia tutelata in più di uno Stato in forza di un accordo internazionale, essa non soddisfarebbe la condizione della «portata non puramente locale» qualora si possa soltanto dimostrare (come sembra avvenire nel caso di specie) che detta indicazione è conosciuta ed utilizzata in uno degli Stati in cui gode di tutela.

142. Ritengo, pertanto, che la terza parte del primo motivo di impugnazione debba essere accolta.

4.      Conclusione

Alla luce di quanto precede, propongo alla Corte di accogliere la seconda e la terza parte del primo motivo di impugnazione e di respingere la prima parte.

B –    Sul secondo motivo di impugnazione, concernente la violazione degli artt. 8, n. 4, e 74, n. 1, del regolamento n. 40/94

1.      Definizione delle opposte tesi

143. Con il secondo motivo di impugnazione, relativo alla violazione degli artt. 8, n. 4, e 74, n. 1, del regolamento n. 40/94, la ricorrente afferma che il punto 199 della sentenza impugnata contiene un errore di diritto laddove impone alla commissione di ricorso dell’UAMI l’obbligo di informarsi d’ufficio sul diritto nazionale applicabile, inclusa la giurisprudenza relativa al diritto della Budvar di vietare l’uso di un marchio più recente facendo valere un’indicazione geografica. Nel considerare che il risultato dei procedimenti nazionali poteva essere conosciuto attraverso le fonti generalmente accessibili e che, conseguentemente, costituiva un fatto notorio escluso dall’onere della prova imposto all’opponente dall’art. 74 del regolamento, il Tribunale avrebbe violato tale disposizione, secondo la quale, in un procedimento di opposizione, l’esame dell’UAMI dev’essere limitato ai mezzi dedotti e alle richieste presentate dalle parti.

2.      Valutazione

144. Questo secondo motivo di impugnazione solleva, in realtà, due questioni distinte.

145. In primo luogo, occorre esaminare se l’art. 74, n. 1, del regolamento n. 40/94 obblighi o meno l’UAMI ad esaminare d’ufficio lo stato e i risultati dei procedimenti giurisdizionali avviati nello Stato membro di cui trattasi e, di conseguenza, se le decisioni giudiziarie nazionali costituiscano, a tal fine, fatti notori.

146. Nelle decisioni annullate, la commissione di ricorso dell’UAMI ha tenuto conto solo di una serie di decisioni giudiziarie francesi e tedesche con le quali si negava ai titolari del segno Bud la possibilità di vietarne alla Anheuser‑Busch l’uso nei corrispondenti territori nazionali. All’epoca, tali sentenze nazionali non erano definitive, ma la commissione di ricorso non ha tenuto conto di tale elemento, che non era stato dedotto dalla Budvar.

147. A mio parere, il modus operandi della commissione di ricorso dell’UAMI era perfettamente rispettoso delle disposizioni che disciplinano il procedimento di opposizione e, in particolare, del regime generale dell’onere della prova di cui all’art. 74, n. 1, del regolamento n. 40/94. Dopo avere stabilito, come regola generale, l’obbligo dell’UAMI di procedere ad un esame d’ufficio dei fatti, detta disposizione prevede che «[t]uttavia, in procedure concernenti impedimenti relativi alla registrazione, l’Ufficio si limita, in tale esame, ai fatti, prove ed argomenti addotti e alle richieste presentate dalle parti».

148. Pertanto, l’onere della prova ricade interamente sull’opponente e non si può contestare all’Ufficio di non avere preso in considerazione l’esistenza di decisioni giudiziarie che, nonostante quanto affermato dal Tribunale, non costituivano «fatti notori». Anche laddove le fonti che avrebbero potuto fornire tali informazioni fossero «accessibili» alla commissione di ricorso, non spetta a quest’ultima, bensì alla parte interessata, verificare tutti gli elementi addotti nel procedimento e, in particolare, dimostrare se una sentenza pronunciata in una causa nazionale sia o meno passata in giudicato.

149. In secondo luogo, nell’ambito di questo argomento principale del secondo motivo di impugnazione la ricorrente introduce direttamente, sotto il profilo probatorio, una seconda censura. In particolare, la Anheuser‑Busch afferma che «la commissione di ricorso dispone di prove del fatto che la Budvar ha adito senza successo i giudici nazionali affinché riconoscessero i diritti da essa attualmente invocati contro le domande di marchio comunitario presentate dalla Anheuser‑Busch. (…) La Budvar non ha fornito alcuna decisione che le consenta di farsi riconoscere i propri diritti in forza dell’art. 8, n. 4». Il tenore letterale del ricorso di impugnazione farebbe ritenere che, per la Anheuser‑Busch, l’art. 8, n. 4, lett. b), del regolamento debba essere interpretato nel senso che l’opponente deve provare di essere riuscito a vietare l’uso di un marchio successivo e che non sia sufficiente disporre di un diritto astratto a vietare l’uso di un marchio più recente.

150. Se è questa l’interpretazione sostenuta dalla ricorrente, non la condivido. A mio parere, è evidente che l’art. 8, n. 4, lett. b), esige esclusivamente che l’opponente disponga di tale diritto in astratto, come possibilità di ottenere tutela per il suo segno a livello nazionale. L’opposizione sarebbe possibile purché si disponga del diritto, anche qualora esso non sia stato esercitato né esplicitamente riconosciuto in sede giurisdizionale.

151. Si potrebbe sostenere che, se si esige semplicemente il diritto in astratto, perda rilevanza l’intera argomentazione relativa alla situazione processuale nazionale (il carattere definitivo o meno delle decisioni giudiziarie che riconoscono il diritto). Orbene, l’esistenza di sentenze nazionali (passate in giudicato o meno) che escludano, come nella specie, il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo può costituire un indizio dell’insussistenza di tale diritto.

152. Fatta salva quest’ultima precisazione, ritengo che il secondo motivo di impugnazione debba essere accolto.

C –    Accoglimento del ricorso e rinvio della causa al Tribunale

153. Tenuto conto di quanto precede, ritengo che il ricorso debba essere accolto, dichiarando fondati il secondo motivo nonché la seconda e la terza parte del primo motivo, e che la sentenza impugnata debba essere annullata.

154. Poiché gli errori rilevati sembrano sanabili solo attraverso valutazioni di fatto, ritengo che, allo stato degli atti, la Corte non possa pronunciarsi nella causa ai sensi dell’art. 61, primo comma, del suo Statuto, sicché propongo di rinviarla al Tribunale affinché proceda a tali accertamenti e si pronunci nuovamente conformemente ad essi.

155. In particolare, il Tribunale dovrà accertare se la Budvar abbia dimostrato un uso del segno Bud «nella prassi commerciale» anteriore alla data in cui la Anheuser‑Busch ha depositato la prima domanda di registrazione di Bud come marchio comunitario. A tal fine, il Tribunale dovrà applicare un’interpretazione autonoma della condizione relativa all’«uso nella normale prassi commerciale», vale a dire, non per analogia con quella fornita dalla giurisprudenza in relazione alla stessa espressione, ma nel contesto dell’art. 9, n. 1, del medesimo regolamento.

VII – Sulle spese

156. Poiché propongo di rinviare la causa dinanzi al Tribunale, occorre riservare la decisione sulle spese relative al giudizio di impugnazione.

VIII – Conclusione

157. Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di:

1)         accogliere l’impugnazione proposta dalla Anheuser‑Busch contro la sentenza della Prima Sezione del Tribunale 16 dicembre 2008, cause riunite T‑225/06, T‑255/06, T‑257/06 e T‑309/06;

2)         rinviare la causa dinanzi al Tribunale dell’Unione europea;

3)         riservare la decisione sulle spese.


1 – Lingua originale: lo spagnolo.


2 – L’ultima pronuncia è costituita dalla sentenza 29 luglio 2010, causa C‑214/09 P, Anheuser‑Busch/UAMI e Budějovický Budvar (Racc. pag. I‑7665). Per maggiori ragguagli sulle origini storiche del conflitto e sui suoi ultimi capitoli giudiziari, si possono consultare le conclusioni presentate dall’avvocato generale Ruiz‑Jarabo Colomer il 5 febbraio 2009 nella causa C‑478/07, Budějovický Budvar, decisa con sentenza 8 settembre 2009 (Racc. pag. I‑7721).


3 – Cause riunite T‑225/06, T‑255/06, T‑257/06 e T‑309/06 (Racc. pag. II‑3555).


4 – GU 1994, L 11, pag. 1.


5 – Adottato il 31 ottobre 1958, riveduto a Stoccolma il 14 luglio 1967 e modificato il 28 settembre 1979 (Raccolta dei Trattati delle Nazioni Unite, vol. 828, n. 13172, pag. 205).


6 – Attualmente, la cosiddetta «Unione di Lisbona» (http://www.wipo.int/treaties/en) è composta da 26 paesi, fra i quali figura la Repubblica ceca.


7 – Pubblicato, per quanto riguarda l’Austria, nel Bundesgesetzblatt für die Republik Österreich del 19 febbraio 1981 (BGBl. n. 75/1981) ed entrato in vigore a tempo indeterminato il 26 febbraio 1981.


8 – Regolamento del Consiglio 26 febbraio 2009, sul marchio comunitario (GU L 78, pag. 1).


9 – Regolamento della Commissione 13 dicembre 1995, recante modalità di esecuzione del regolamento (CE) n. 40/94 del Consiglio sul marchio comunitario (GU L 303, pag. 1).


10 – Causa T‑225/06.


11 – Cause T‑255/06 e T‑257/06.


12 – Causa T‑309/06.


13 – Direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa (GU 1989, L 40,pag. 1).


14 – L’art. 8, n. 2, lett. c), non fornisce alcuna precisazione al riguardo.


15 – L’art. 6 bis della Convenzione di Parigi 20 marzo 1883, per la protezione della proprietà intellettuale (Raccolta dei Trattati delle Nazioni Unite, vol. 828, n. 11847, pag. 108), al quale rinvia su questo punto il regolamento comunitario, impone di tutelare i marchi notoriamente conosciuti, appartenenti ai beneficiari della Convenzione.


16 – Tuttavia, quando sussista identità tanto tra i marchi quanto tra i prodotti e servizi, il rischio di confusione è presunto: così sembra potersi desumere dall’art. 8, n. 1, lett. a), del regolamento.


17 – In mancanza, l’opposizione dovrebbe fondarsi sul n. 2, lett. c).


18 – Direttive relative ai procedimenti dinanzi all’Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno (marchi, disegni e modelli). Parte C: Opposizione (pagg. 312‑339).


19 – Dati estratti dall’elenco di segni contenuto nelle Direttive sull’opposizione.


20 – Regolamento del Consiglio 20 marzo 2006, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine dei prodotti agricoli e alimentari (GU L 93, pag. 12).


21–      Regolamento n. 207/2009, cit.


22 – Ritengo che, alla luce di quanto dichiarato dalla Corte nella citata sentenza 8 settembre 2009, Budějovický Budvar, l’esistenza di questo tipo di indicazioni geografiche sia possibile se si tratta di indicazioni semplici, non ricomprese nell’ambito di applicazione del regolamento n. 510/2006. Per contro, dalla citata sentenza si può dedurre che le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche qualificate che, pur potendo esserlo, non siano state registrate a livello comunitario non possono continuare ad essere protette a livello nazionale, in particolare attraverso una convenzione bilaterale fra due Stati membri. Dagli atti risulta che il segno BUD è stato espressamente invocato dalla Budvar in quanto «denominazione di origine». Oltre ai dubbi che si potrebbero sollevare in ordine alla sua reale natura, il mero fatto di avere presentato il segno come una denominazione di origine non registrata a livello comunitario potrebbe condurre, applicando la citata giurisprudenza relativa all’esaustività del regolamento n. 510/2006, a negarne la validità ai fini dell’opposizione. Orbene, è evidente che tali considerazioni non hanno alcuna incidenza sul presente procedimento, dato che la Anheuser‑Busch non ha eccepito questo possibile vizio del segno invocato e non si tratta di un motivo che la Corte possa o debba valutare d’ufficio, in particolare nell’ambito di un’impugnazione.


      In relazione ai motivi «di ordine pubblico», v. conclusioni presentate dall’avvocato generale Jacobs il 30 marzo 2000 nella causa C‑210/98 P, Salzgitter/Commissione, decisa con sentenza 13 luglio 2000 (Racc. pag. I‑5843, paragrafi 141‑143); conclusioni presentate dall’avvocato generale Mengozzi il 1° marzo 2007 nella causa C‑443/05 P, Common Market Fertilizers, decisa con sentenza 13 settembre 2007 (Racc. pag. I‑7209, paragrafi 102 e 103). Si può inoltre consultare B. Vesterdorf, «Le relevé d’office par le juge communautaire», in Une Communauté de droit: Festschrift für G.C. Rodríguez Iglesias, Nomos, 2003, pagg. 551 e segg.


23 – La Budvar aveva già mantenuto la stessa posizione dinanzi all’UAMI nel procedimento di opposizione, secondo quanto risulta dal punto 13 b) della citata decisione della commissione di ricorso 14 giugno 2006.


24 – Artt. 14 del regolamento n. 510/2006 e 7, n. 1, lett. k), del nuovo regolamento sul marchio comunitario (regolamento n. 207/2009).


25 – V. le disposizioni citate alla nota precedente.


26 – Sentenze del Tribunale 23 ottobre 2002, causa T‑6/01, Matratzen Concord/UAMI – Hukla Germany (MATRATZEN) (Racc. pag. II‑4335, punto 55); 30 giugno 2004, causa T‑186/02, BMI Bertollo/UAMI – Diesel (DIESELIT) (Racc. pag. II‑1887, punto 71); 21 aprile 2005, causa T‑269/02, PepsiCo/UAMI – Intersnack Knabber‑Gebäck (RUFFLES) (Racc. pag. II‑1341, punto 26), e 22 marzo 2007, causa T‑364/05, Saint‑Gobain Pam/UAMI – Propamsa (PAM PLUVIAL) (Racc. pag. II‑757, punto 88).


27 – Regolamento n. 510/2006.


28 – Sentenza 15 gennaio 2009, causa C‑495/07 (Racc. pag. I‑137, punti 21 e 22).


29 – Sentenze 11 maggio 2006, causa C‑416/04 P, Sunrider/UAMI (Racc. pag. I‑4237, punto 70), e 13 settembre 2007, causa C‑234/06 P, Il Ponte Financiaria/UAMI (Racc. pag. I‑7333, punto 72). V. anche, in relazione all’art. 10, n. 1, sentenza 11 marzo 2003, causa C‑40/01, Ansul (Racc. pag. I‑2439, punto 43), e ordinanza 27 gennaio 2004, causa C‑259/02, La Mer Technology (Racc. pag. I‑1159, punto 27).


30 – Gli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1, della direttiva 89/104 perseguono lo stesso scopo. Condivido quanto affermato dalla mia collega avvocato generale Sharpston, secondo cui l’interpretazione della direttiva 89/104 deve essere coerente con il regolamento n. 40/94 [conclusioni presentate il 12 marzo 2009 nella causa C‑529/07, Chocoladefabriken Lindt & Sprüngli, decisa con sentenza 11 giugno 2009 (Racc. pag. I‑4893, paragrafo 16)], ma non credo che da ciò possa desumersi, come sembra fare la Budvar, che tale «coerenza» debba essere perseguita senza tenere conto della funzione svolta da ciascuna disposizione. Nella specie, si potrebbe esigere coerenza tra gli artt. 5, n. 1, e 6, n. 1, della direttiva, e l’art. 9, n. 1, del regolamento, che sono quelli che presentano un contenuto analogo (e ai quali fa riferimento la giurisprudenza attualmente esistente). L’estensione della loro definizione giurisprudenziale all’art. 8, n. 4, a mio parere, non risulta così evidente.


31 – Di fatto, il segno dovrà, oltre che soddisfare tale condizione comunitaria relativa all’uso nella prassi commerciale, presentare il livello di utilizzo eventualmente richiesto dalle norme dello Stato membro di cui trattasi per poter conferire al suo titolare «il diritto di vietare l’uso di un marchio successivo» [art. 8, n. 4, lett. b), del regolamento].


32 – Tra i pionieri del riconoscimento di tale principio si può citare Hagens, che già nel 1927 mise in discussione la tesi dell’universalità del marchio tradizionalmente difesa dalla dottrina tedesca, affermando che detta tesi era insostenibile in quanto la sua applicazione comporterebbe un’intromissione nella sfera giuridica di Stati esteri sovrani (Hagens, Warenzeichenrecht, Berlino e Leipzig, 1927). La tesi di Hagens venne accolta dalla Corte suprema tedesca con una sentenza del 20 settembre 1927 e appare oggi comunemente accettata come un principio del diritto dei marchi di cui, a mio parere, gli accordi internazionali, basati per la maggior parte sulla reciprocità, non sminuiscono l’importanza.


33 – V., in tal senso, sentenze 26 aprile 2007, causa C‑412/05 P, Alcon/UAMI (Racc. pag. I‑3569, punto 51), e Il Ponte Financiaria/UAMI, citata alla nota 29 (punto 60).


34 – Sentenza 7 settembre 2006, causa C‑108/05, Bovemij Verzekeringen (Racc. pag. I‑7605, punto 22). Anche l’avvocato generale Sharpston, nelle sue conclusioni relative a tale causa, presentate il 30 marzo 2006, parte dalla necessaria valutazione territoriale di dette condizioni e rileva che, a differenza di quanto si può esigere per i marchi nazionali, quando si tratta di marchi comunitari è ragionevole richiedere che il titolare dimostri «il carattere distintivo acquisito attraverso l’uso su una più ampia area geografica» (paragrafo 45).


35 – Sentenza 22 giugno 2006, causa C‑25/05 P, Storck/UAMI (Racc. pag. I‑5719, punto 83).


36 – Sebbene non citi espressamente a tal fine l’art. 43 del regolamento, il punto 169 della sentenza impugnata precisa che il criterio della data di pubblicazione si impone «come viene richiesto per i marchi anteriori», con chiaro riferimento alle condizioni poste dalla suddetta disposizione.


37 – V. nota 36.


38 – Anche in udienza è stato confermato che tale lasso di tempo può durare vari mesi, o anche più di un anno, come nel caso di alcune delle domande di registrazione oggetto della presente causa. In questi casi, il rischio che il deposito della domanda di registrazione sia noto in determinati ambienti prima della sua pubblicazione è, evidentemente, più elevato. Non si può nascondere una certa inquietudine di fronte al fatto che l’unico uso comprovato del segno invocato ha avuto luogo nel periodo compreso tra la domanda di marchio e la sua pubblicazione.


39 – Punto 180.


40 – Mi riferisco a un certo tipo di interpretazione più vicina, ancorché non necessariamente del tutto identica, a quella fornita dall’UAMI nelle sue, già citate, «Direttive sull’opposizione». A parere dell’UAMI, la portata di un segno ai sensi dell’art. 8, n. 4, non può essere esaminata esclusivamente dal punto di vista geografico, dovendosi basare anche sulle «dimensioni economiche dell’uso del segno», valutando l’intensità dell’uso, la sua durata, la diffusione dei beni o servizi per i quali il contrassegno è utilizzato, nonché la promozione pubblicitaria effettuata utilizzando tale contrassegno. Lo stesso Tribunale ha accolto punto per punto tale interpretazione dell’UAMI in un’altra sentenza di poco successiva a quella impugnata: si tratta della sentenza 24 marzo 2009, cause riunite da T‑318/06 a T‑321/06, Moreira da Fonseca/UAMI e General Óptica (Racc. pag. II‑649). Le differenze fra le due sentenze del Tribunale sono state oggetto, su richiesta della stessa Corte, di buona parte degli interventi in udienza. La Anheuser‑Busch e l’UAMI, pur riconoscendo che le sentenze partono da situazioni diverse in fatto e in diritto, hanno affermato che la diversa natura dei segni invocati (un’indicazione geografica nel caso della Budějovický Budvar e un’insegna in quello della General Óptica) era irrilevante e non giustificava la differenza tra le soluzioni. La Budvar, invece, ha sostenuto che la sentenza General Óptica riguardava un segno protetto unicamente in considerazione del suo uso, elemento che, a suo parere, è irrilevante per le denominazioni di origine, che esistono e sono tutelate semplicemente a seguito della loro registrazione. Conseguentemente, la Budvar ha ritenuto che le sentenze non siano contraddittorie e che le condizioni di cui all’art. 8, n. 4, debbano essere valutate caso per caso, tenendo conto della natura del segno invocato. Non condivido tale parere della Budvar.


41 – Il Diccionario de la Real Academia Española defininisce il termine «alcance» come la «capacidad de alcanzar o cubrir una distancia»; l’Accademia francese include, tra i significati del termine «portée», quelli di «distance maximale à laquelle une chose peut exercer son effet, étendue, champ d’action d’un phénomène». Particolarmente espressivo è il termine «significance» utilizzato dalla versione inglese, che il Cambridge Advanced Learner’s Dictionary considera sinonimo di «importance» e di «special meaning».


42 – V., in tal senso, C. Fernández Novoa, El sistema comunitario de marcas, Ed. Montecorvo, Madrid, 1995, pag. 167, e A. Mühlendahl, D. Ohlgart e V. Bomhard, Die Gemeinschaftsmarke, Bech, München, 1998, pag. 38.


43 – Così risulta dal principio di territorialità, esaminato supra.


44 – V., in tal senso, D. Kitchin, D. Llewelyn, J. Mellor, R. Meade, T. Moody‑Stuart e D. Keeling, Kerly’s Law of Trade Marks and Trade Names, Sweet & Maxwell, Londra, 2005, pag. 274.


45 – Per questo si fa riferimento alla «legislazione dello Stato membro che disciplina detto contrassegno».


46 – Dall’interpretazione fornita dal Tribunale si potrebbe dedurre che solo una tutela internazionale garantisca tale portata (v., in tal senso, punto 181 della sentenza impugnata: «i diritti anteriori invocati hanno una portata non puramente locale in quanto la loro protezione, ai sensi dell’art. 1, n. 2, dell’Accordo di Lisbona e dell’art. 1 della convenzione bilaterale, si estende al di fuori del loro territorio d’origine»).


47 – Partendo da questa idea, Fleckenstein ritiene che le due disposizioni costituiscano un «sistema»: J. Fleckenstein, Der Schutz territorial beschränkter Kennzeichen (Peter Lang – Europäische Hochschulschriften, Frankfurt am Main, 1999), pag. 104.