CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
MACIEJ SZPUNAR
presentate il 3 marzo 2021 (1)
Causa C‑741/19
Repubblica di Moldova
contro
Società Komstroy, subentrata nei diritti della società Energoalians
[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi, Francia)]
«Rinvio pregiudiziale – Trattato sulla Carta dell’energia – Nozione di “investimento” – Controversie tra un investitore e una Parte contraente – Situazione puramente esterna all’ordinamento giuridico dell’Unione – Competenza della Corte»
I. Introduzione
1. Le disposizioni del Trattato sulla Carta dell’energia (2) (in prosieguo: il «TCE») sono state oggetto di questioni pregiudiziali, dopo la sua firma da parte dell’Unione europea quasi 30 anni fa, solo in due occasioni, tra cui il presente procedimento (3). La causa in esame riveste quindi un carattere particolare, anzitutto, in quanto offre alla Corte una buona occasione per pronunciarsi sul significato di disposizioni che finora non sono state interpretate.
2. Inoltre, la controversia nel cui ambito si inseriscono le presenti questioni pregiudiziali non coinvolge né l’Unione, né gli Stati membri: essa contrappone la Repubblica di Moldova a una società ucraina e sembra pertanto, prima facie, estranea all’Unione.
3. Infine, secondo la mia analisi, la presente causa dovrebbe indurre la Corte a pronunciarsi su una problematica importante, vale a dire la compatibilità del meccanismo di risoluzione delle controversie istituito dal TCE con il diritto dell’Unione, nel solco tracciato dalla Corte nella sentenza Achmea (4).
II. Contesto normativo
A. TCE
4. Il TCE è stato firmato dall’Unione il 17 dicembre 1994 e approvato a nome dell’Unione con la decisione 98/181. Sono parti del TCE anche tutti gli Stati membri, ad eccezione della Repubblica italiana, nonché 28 paesi terzi.
5. Secondo il preambolo del TCE:
«Le Parti contraenti del presente Trattato,
(…)
vista la Carta europea dell’energia, adottata nel documento conclusivo della Conferenza dell’Aia sulla Carta europea dell’energia, firmata a L’Aia il 17 dicembre 1991,
(...)
nell’intento di attuare il concetto fondamentale dell’iniziativa della Carta europea dell’energia, cioè catalizzare la crescita economica mediante misure per liberalizzare l’investimento e gli scambi nel settore dell’energia;
(...)».
6. Il TCE è costituito da un preambolo e otto parti. Le parti I, II, III e V sono intitolate, rispettivamente, «Definizioni e finalità», «Commercio», «Promozione e tutela degli investimenti» e «Soluzione delle controversie».
7. L’articolo 1 del TCE, intitolato «Definizioni», prevede quanto segue:
«Si applicano, nel presente trattato, le seguenti definizioni:
(...)
6) “investimento”: ogni tipo di attività, detenuta o controllata, direttamente o indirettamente da un investitore e comprendente:
(...)
c) diritti di credito e diritti a prestazioni, in virtù di contratto aventi valore economico e connessi con un investimento;
(...)
f) qualsiasi diritto conferito per (...) contratto (...) a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia.
(...)
Il termine “investimento” si riferisce a qualsiasi investimento associato ad un’attività economica nel settore dell’energia ed a investimenti o categorie di investimenti designati da una Parte contraente nella sua area “Progetti di efficienza della [C]arta [europea dell’energia]” e notificati come tali al Segretariato;
7) “investitore”:
a) rispetto ad una Parte contraente,
i) una persona fisica avente la cittadinanza o nazionalità di detta Parte contraente, o che vi abbia la residenza permanente, in conformità delle sue leggi applicabili;
ii) una società o altro organismo organizzato in conformità alla legge applicabile in detta Parte contraente;
b) rispetto ad uno “Stato terzo”: una persona fisica, una società o altro organismo per il quale ricorrono, mutatis mutandis, le condizioni specificate nel sottoparagrafo a) per una Parte contraente;
8) “investire” o “realizzare investimenti”: operare nuovi investimenti, acquisire in tutto o in parte investimenti già in atto, o optare per altri settori di investimento;
(...)
10) “area”: rispetto ad uno Stato che è Parte contraente:
a) il territorio su cui esercita la sua sovranità, comprendente la terraferma, le acque interne e territoriali;
e
b) nel rispetto e in conformità del diritto internazionale marittimo, il mare, il suolo ed il sottosuolo del mare su cui tale Parte contraente esercita diritti sovrani e la giurisdizione.
Rispetto a una organizzazione regionale d’integrazione economica che sia Parte contraente, con il termine “area” si devono intendere le aree degli Stati membri di detta organizzazione, ai sensi delle disposizioni di cui all’accordo che istituisce l’organizzazione;
(...)».
8. L’articolo 26 del TCE, intitolato «Soluzione delle controversie tra un investitore e una Parte contraente», enuncia quanto segue:
«1. Le controversie tra una Parte contraente riguardanti la presunta violazione di un obbligo posto a suo carico a norma della parte III e un investitore di un’altra Parte contraente, in relazione a un suo investimento nell’area della prima sono da risolvere ove possibile in via amichevole.
2. Ove tali controversie non possano risolversi secondo le disposizioni del paragrafo 1 entro il termine di tre mesi dalla data in cui una delle Parti della controversia abbia richiesto la soluzione amichevole, l’investitore interessato può scegliere di sottoporre la controversia per essere decisa:
a) alle corti o ai tribunali amministrativi della Parte contraente parte della controversia;
o
b) in conformità a qualsiasi procedura applicabile di soluzione di controversie concordata in precedenza;
o
c) in conformità dei seguenti paragrafi del presente articolo.
(...)
6. Un tribunale istituito in virtù del paragrafo 4 decide sulle questioni oggetto di controversia in conformità del presente trattato e delle norme e [dei] principi applicabili del diritto internazionale.
(...)».
B. Diritto francese
9. Ai sensi dell’articolo 1520 del codice di procedura civile francese, il ricorso di annullamento avverso il lodo arbitrale emesso in Francia è ammissibile, in particolare, unicamente se il collegio arbitrale si è dichiarato erroneamente competente o incompetente.
III. Fatti all’origine della controversia di cui al procedimento principale, questioni pregiudiziali e procedimento dinanzi alla Corte
10. In esecuzione di due contratti stipulati il 1° e il 24 febbraio 1999, la società Ukrenergo, produttore ucraino di energia elettrica, vendeva energia elettrica alla società Energoalians, distributore di energia elettrica ucraino, che la rivendeva successivamente alla Derimen Properties Limited (in prosieguo: la «Derimen»), società registrata nelle Isole Vergini britanniche, la quale la rivendeva a sua volta alla società Moldtranselectro, impresa pubblica moldova. I volumi di energia elettrica da fornire venivano concordati di mese in mese direttamente tra la Moldtranselectro e la Ukrenergo, la quale forniva tale energia elettrica alle condizioni «DAF Incoterms 1990», vale a dire fino alla frontiera tra l’Ucraina e la Moldova, lato Ucraina.
11. L’energia elettrica veniva fornita durante il 1999 e il 2000, salvo da maggio a luglio 1999. Per ogni mese di fornitura, la Energoalians doveva essere pagata dalla Derimen, la quale doveva a sua volta ricevere il pagamento dalla Moldtranselectro. I prezzi applicabili ai pagamenti erano fissati dalle clausole aggiuntive del contratto del 24 febbraio 1999, secondo cui il prezzo pagato alla Derimen dalla Moldtranselectro ammontava a circa il doppio di quello pagato alla Energoalians dalla Derimen.
12. La Derimen pagava alla Energoalians per intero l’energia elettrica acquistata, mentre la Moldtranselectro versava alla Derimen solo parte del prezzo.
13. Mediante contratto del 30 maggio 2000, la Derimen cedeva alla Energoalians il credito vantato nei confronti della Moldtranselectro.
14. La Moldtranselectro saldava parzialmente il suo debito cedendo vari crediti alla Energoalians. La Energoalians tentava allora inutilmente di ottenere il pagamento del proprio credito residuo adendo i giudici moldovi e successivamente quelli ucraini.
15. Ritenendo che alcuni atti della Repubblica di Moldova costituissero gravi violazioni degli impegni assunti in base al TCE, la Energoalians avviava il procedimento arbitrale previsto dall’articolo 26 di tale trattato.
16. Con lodo pronunciato a maggioranza a Parigi il 25 ottobre 2013, il tribunale arbitrale ad hoc si dichiarava competente e, ritenendo che la Repubblica di Moldova fosse venuta meno ai propri impegni derivanti dal TCE, la condannava al pagamento di una determinata somma in favore della Energoalians sul fondamento di detto trattato. Il presidente del tribunale arbitrale ad hoc, dal canto suo, esprimeva parere dissenziente in ordine alla competenza del tribunale medesimo.
17. La Repubblica di Moldova proponeva un ricorso di annullamento avverso tale lodo, lamentando la violazione di una disposizione di ordine pubblico, ossia quella relativa alla competenza del tribunale arbitrale ad hoc, ai sensi dell’articolo 1520 del codice di procedura civile francese.
18. Con sentenza del 12 aprile 2016, la cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi, Francia) annullava il lodo in quanto il tribunale arbitrale si era erroneamente dichiarato competente. Essa dichiarava che la controversia tra la Energoalians e la Repubblica di Moldova verteva su un credito, ceduto dalla Derimen, avente ad oggetto unicamente la vendita di energia elettrica. Orbene, in assenza di qualsiasi apporto, a suo avviso tale credito non poteva essere considerato un investimento ai sensi del TCE e, di conseguenza, non poteva fondare la competenza del tribunale arbitrale.
19. In seguito all’impugnazione proposta dalla Komstroy, subentrata nei diritti della Energoalians con atto di trasferimento del 6 ottobre 2014, la Cour de cassation (Corte di cassazione, Francia), con sentenza del 28 marzo 2018, annullava integralmente la sentenza del 12 aprile 2016 e rinviava le parti dinanzi alla cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi) in diversa composizione.
20. Dinanzi a quest’ultima, la Repubblica di Moldova sostiene che il tribunale arbitrale avrebbe dovuto declinare la propria competenza in mancanza di un «investimento» ai sensi del TCE realizzato da un’impresa di una Parte contraente del TCE «nell’area» della Moldova. Essa sostiene che il credito acquistato dalla Energoalians presso la Derimen non è un «investimento» ai sensi dell’articolo 26, paragrafo 1, del TCE, letto alla luce dell’articolo 1, punto 6, di tale trattato, e pertanto non poteva formare oggetto di una procedura arbitrale, la quale è prevista solo dalla parte III del TCE relativa, per l’appunto, agli investimenti. Inoltre, anche supponendo che tale credito possa configurare un investimento, esso non sarebbe stato realizzato da un’impresa di una Parte contraente, essendo la Derimen un’impresa delle Isole Vergini britanniche. Infine, e in ogni caso, detto credito riguarderebbe un’operazione di vendita di energia elettrica che non è stata realizzata «nell’area» della Moldova, poiché l’energia elettrica è stata venduta e trasportata solo fino alla frontiera tra l’Ucraina e la Moldova, lato ucraino.
21. La Komstroy ritiene invece che il tribunale arbitrale fosse competente, ai sensi dell’articolo 26 del TCE, in quanto tutte le condizioni poste da tale disposizione erano soddisfatte, trattandosi di un investimento realizzato nell’area della Moldova.
22. Alla luce di quanto precede, la cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se l’articolo 1, punto 6, del [TCE] debba essere interpretato nel senso che un credito derivante da un contratto di vendita di energia elettrica che non abbia comportato alcun apporto da parte dell’investitore nello Stato ospitante possa configurare un “investimento” ai sensi di detta disposizione.
2) Se l’articolo 26, paragrafo 1, del [TCE] debba essere interpretato nel senso che configura un investimento l’acquisto effettuato da un investitore di una Parte contraente di un credito costituito da un operatore economico estraneo agli Stati parte.
3) Se l’articolo 26, paragrafo 1, del [TCE] debba essere interpretato nel senso che un credito appartenente a un investitore, derivante da un contratto di vendita di energia elettrica fornita alla frontiera dello Stato ospitante, può configurare un investimento realizzato nell’area di un’altra Parte contraente in mancanza di qualsiasi attività economica esercitata dall’investitore sul territorio di quest’ultima».
23. Hanno presentato osservazioni scritte la Repubblica di Moldova, i governi tedesco, spagnolo e polacco, nonché la Commissione europea.
24. All’udienza tenutasi il 17 novembre 2020 sono state presentate osservazioni orali a nome della Repubblica di Moldova, della Komstroy, dei governi francese, tedesco, spagnolo, italiano, ungherese, dei Paesi Bassi, polacco, finlandese e svedese, nonché del Consiglio dell’Unione europea e della Commissione.
IV. Analisi
25. La causa in esame presenta un carattere inedito. Da un lato, le questioni pregiudiziali sollevate dal giudice del rinvio hanno ad oggetto l’interpretazione di talune disposizioni del TCE sulle quali finora la Corte non è mai stata chiamata a pronunciarsi. Dall’altro, la controversia oggetto del procedimento principale oppone un paese terzo rispetto all’Unione, la Repubblica di Moldova, a un’impresa di un altro paese terzo, l’Ucraina.
26. Di conseguenza, la competenza della Corte a rispondere alle questioni sollevate potrebbe essere messa in discussione, trattandosi dell’interpretazione di una convenzione internazionale nell’ambito di una controversia che, quanto meno prima facie, presenta le caratteristiche di quella che si potrebbe definire una situazione «puramente esterna».
27. Devo quindi esaminare, prima di entrare nel merito delle questioni pregiudiziali (B), se sussista la competenza della Corte (A).
A. Sulla competenza della Corte
28. Anzitutto, rammento che l’articolo 267 TFUE prevede che la Corte è competente a pronunciarsi, in via pregiudiziale, sull’interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni dell’Unione, fermo restando che un accordo internazionale concluso dal Consiglio, in conformità agli articoli 217 TFUE e 218 TFUE, costituisce un atto di tal genere. Dal momento che le disposizioni di un siffatto accordo formano, a partire dalla sua entrata in vigore, parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione, la Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dell’accordo stesso (5).
29. Poiché il TCE è stato firmato e approvato a nome dell’Unione, tale accordo deve essere considerato un atto adottato dalle istituzioni dell’Unione ai sensi dell’articolo 267 TFUE. La Corte è quindi competente, prima facie, a pronunciarsi sulle disposizioni del TCE.
30. Tuttavia, tale constatazione non è sufficiente a garantire la competenza della Corte. Infatti, il procedimento principale non coinvolge né l’Unione, né gli Stati membri. Occorre pertanto esaminare se questo elemento possa incidere sulla competenza della Corte a rispondere alle questioni pregiudiziali.
1. Giurisprudenza relativa all’interpretazione delle disposizioni di un accordo internazionale per quanto riguarda la loro applicazione al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione
31. La giurisprudenza ha fornito alcune precisazioni riguardo alla competenza della Corte ad interpretare un accordo internazionale. In particolare, nelle sentenze Andersson e Wåkerås‑Andersson (6) e Salzmann (7), la Corte ha statuito, in riferimento alle disposizioni dell’accordo sullo Spazio economico europeo, del 2 maggio 1992 (GU 1994, L 1, pag. 3; in prosieguo: l’«accordo SEE»), che la Corte non è competente a pronunciarsi sull’interpretazione di un accordo per quanto riguarda la sua applicazione nei paesi terzi.
32. Tale giurisprudenza, trasposta al procedimento principale, indurrebbe la Corte a declinare la propria competenza a pronunciarsi sull’interpretazione del TCE nel caso di una controversia tra una società di un paese terzo e un altro paese terzo. Tuttavia, ritengo che nel caso di specie non s’imponga tale soluzione.
33. La conclusione cui è pervenuta la Corte nelle sentenze Andersson e Wåkerås‑Andersson (8) e Salzmann (9), vale a dire, che essa non era competente ad interpretare le disposizioni dell’accordo SEE, non può essere compresa isolatamente, senza un esame dei motivi alla base di tale conclusione. Il suo ragionamento si fonda su due elementi.
34. Da un lato, la Corte ha spiegato che la sua competenza ad interpretare disposizioni del diritto dell’Unione vale solo per l’Unione (10). In altre parole, la Corte non dichiara la propria competenza ad interpretare disposizioni destinate ad applicarsi all’esterno dell’ordinamento giuridico dell’Unione.
35. Dall’altro lato, l’incompetenza della Corte è parimenti giustificata dall’attribuzione, nel testo stesso dell’accordo SEE, di una competenza ad interpretare le disposizioni di tale accordo alla Corte dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA) (11), per quanto riguarda la sua applicazione all’esterno dell’ordinamento giuridico dell’Unione, garantendo al contempo che tale interpretazione sia conforme alla giurisprudenza della Corte. Invero, dalle disposizioni dell’accordo SEE risulta che, a motivo degli stretti legami di detto accordo con l’ordinamento giuridico dell’Unione, esse devono essere interpretate, nella misura in cui sono identiche nella sostanza alle corrispondenti norme dei trattati e degli atti di esecuzione, conformemente alla giurisprudenza della Corte (12).
36. Ritengo quindi che il ragionamento seguito dalla Corte nelle sentenze Andersson e Wåkerås‑Andersson (13) e Salzmann (14) sia ispirato all’obiettivo del meccanismo di rinvio pregiudiziale previsto all’articolo 267 TFUE, che è inteso per l’appunto a prevenire divergenze nell’interpretazione del diritto dell’Unione all’interno del suo ordinamento giuridico (15).
37. Orbene, tale obiettivo ha anche permesso di giustificare la competenza della Corte ad interpretare disposizioni del diritto dell’Unione nell’ambito di controversie che non rientrano strettamente nell’ordinamento giuridico dell’Unione. In particolare, la Corte ha dichiarato nella sentenza Hermès che, quando una disposizione trova applicazione sia per situazioni che rientrano nel diritto dell’Unione sia per situazioni che non vi rientrano, esiste un interesse certo dell’Unione a che, per evitare future divergenze di interpretazione, questa disposizione riceva un’interpretazione uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui essa verrà applicata. La Corte ha quindi dichiarato la propria competenza ad interpretare una disposizione di un accordo internazionale di cui l’Unione è parte in una situazione non rientrante nell’ambito del diritto dell’Unione (16).
38. Pertanto, le sentenze Andersson e Wåkerås‑Andersson (17) e Salzmann (18) non possono essere intese nel senso che escludono sistematicamente la competenza della Corte ad interpretare disposizioni del diritto dell’Unione nell’ambito di controversie esterne all’ordinamento giuridico dell’Unione. Tale competenza è infatti generalmente riconosciuta quando la disposizione di cui viene chiesta l’interpretazione è applicabile sia a situazioni rientranti nel diritto dell’Unione sia a situazioni che non vi rientrano.
2. Specificità del TCE e loro incidenza sulla trasposizione della relativa giurisprudenza al caso di specie
39. Il TCE presenta inoltre indubbie specificità, sotto due aspetti, e non può quindi essere assimilato tout court all’accordo SEE oggetto della giurisprudenza sopra richiamata.
40. In primo luogo, il TCE non istituisce un giudice incaricato di assicurare un’interpretazione uniforme delle sue disposizioni, in conformità con l’interpretazione datane dalla Corte nell’ambito del suo ordinamento giuridico. Infatti, il TCE è destinato ad essere interpretato solo in occasione della risoluzione di controversie da parte di diversi giudici, arbitrali o nazionali delle parti contraenti, che non possono quindi prevenire divergenze di interpretazione (19).
41. In secondo luogo, come hanno rilevato il governo tedesco nelle sue osservazioni scritte e la Commissione in udienza, il TCE, pur essendo un accordo multilaterale, è costituito da un insieme di obblighi bilaterali tra le parti contraenti, compresi l’Unione e gli Stati membri (20). Gli obblighi istituiti dal TCE consentono essenzialmente di tutelare gli investimenti realizzati da investitori di una Parte contraente in un’altra Parte contraente (21). Pertanto, la violazione di uno di detti obblighi non implica che tutte le Parti contraenti possano sempre chiederne la riparazione, dato che tali obblighi operano solo in maniera bilaterale, tra due Parti contraenti (22).
42. Il TCE istituisce quindi un insieme di obblighi bilaterali volti a disciplinare, nel settore da esso coperto, i rapporti, da un lato, tra le Parti contraenti e, dall’altro, tra gli investitori di una Parte contraente e la Parte contraente nella cui area sono stati realizzati gli investimenti. Ne consegue che, in teoria, tali obblighi potrebbero anche disciplinare, all’interno della stessa Unione, i rapporti tra gli Stati membri e, pertanto, applicarsi all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione.
43. Queste due specificità del TCE, rispetto all’accordo SEE, limitano quindi la possibilità di trasporre la soluzione elaborata nelle sentenze Andersson e Wåkerås‑Andersson (23) e Salzmann (24), relativa all’incompetenza della Corte ad interpretare un accordo internazionale, in situazioni esterne all’ordinamento giuridico dell’Unione.
44. Nel presente procedimento, il giudice del rinvio chiede alla Corte di fornire un’interpretazione di disposizioni di un accordo internazionale che non ricevono un’interpretazione uniforme e conforme alla giurisprudenza della Corte nelle controversie esterne all’Unione e che potrebbero, in linea di principio, essere applicate anche a situazioni interne all’ordinamento giuridico dell’Unione.
45. In tali circostanze, ritengo che non possa escludersi l’interesse dell’Unione a che le disposizioni del TCE ricevano un’interpretazione uniforme. Ne deduco quindi che, in siffatte circostanze, occorre dichiarare la competenza della Corte a rispondere alle questioni pregiudiziali poste nell’ambito della presenta causa.
3. Dubbi riguardo all’applicabilità delle disposizioni del TCE nell’ordinamento giuridico dell’Unione
46. Mi resta ancora da precisare questa affermazione. Tale conclusione si impone solo se le disposizioni di cui viene chiesta l’interpretazione sono effettivamente applicabili nell’ordinamento giuridico dell’Unione. Se così non fosse, verrebbe meno l’interesse dell’Unione alla loro interpretazione uniforme, come pure la competenza della Corte ad interpretarle.
47. Orbene, da un lato, l’articolo 26 del TCE istituisce un meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori di una Parte contraente e una Parte contraente che consente di ricorrere a un tribunale arbitrale. A tale proposito, la Corte ha statuito nella sentenza Achmea (25) che il ricorso a un collegio arbitrale istituito sul fondamento di un trattato di protezione e promozione degli investimenti, concluso tra due Stati membri, non è consentito all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Mi sembra quindi che detta sentenza suggerisca che l’articolo 26 del TCE non sarebbe mai applicabile nell’ordinamento giuridico dell’Unione, cosicché la Corte sarebbe incompetente ad interpretare detta disposizione.
48. Tuttavia, il TCE non è pienamente assimilabile al trattato bilaterale di investimento (di seguito «TBI») preso in esame nella sentenza Achmea e presenta alcune specificità di cui occorre tenere conto per poter fornire una risposta esauriente alla questione della compatibilità con il diritto dell’Unione del meccanismo di risoluzione delle controversie da esso istituito. Invito pertanto la Corte a cogliere questa opportunità per esaminare le implicazioni della menzionata sentenza sull’applicabilità dell’articolo 26 del TCE, dal momento che tale analisi è necessaria al fine di accertare la competenza della Corte a rispondere alle questioni pregiudiziali relative all’interpretazione di detta disposizione.
49. D’altro canto, è vero che la sentenza Achmea non ha risolto la questione più generale della compatibilità con il diritto dell’Unione delle disposizioni sostanziali dei trattati di tutela e promozione degli investimenti, quando siano destinate a disciplinare i rapporti tra gli Stati membri. Tuttavia, detta sentenza ha evidenziato le difficoltà inerenti all’esistenza di tali accordi quando si applichino all’interno dell’Unione (26). Si pone infatti la questione se le disposizioni sostanziali possano essere fatte valere in una controversia tra un investitore di uno Stato membro e un altro Stato membro dinanzi ai giudici di quest’ultimo. Occorre quindi verificare se le disposizioni sostanziali del TCE, sulla scia della sentenza Achmea, possano essere dichiarate incompatibili con il diritto dell’Unione e, pertanto, inapplicabili nell’ambito del suo ordinamento giuridico.
50. Tali verifiche permetteranno di identificare l’interesse dell’Unione all’interpretazione uniforme delle disposizioni del TCE, nonché la competenza della Corte a rispondere alle presenti questioni pregiudiziali.
a) Applicabilità del meccanismo di risoluzione delle controversie istituito all’articolo 26, paragrafo 1, del TCE nell’ordinamento giuridico dell’Unione
51. La questione della compatibilità con il diritto dell’Unione dei meccanismi di risoluzione delle controversie contenuti negli strumenti convenzionali che vincolano gli Stati membri dell’Unione è oggetto da vari anni di un vivace dibattito, sia in dottrina (27) che nella pratica (28).
52. La causa che ha dato luogo alla sentenza Achmea ha rispecchiato detto dibattito e illustra, se ve ne fosse bisogno, i rapporti conflittuali tra il diritto dell’Unione e il diritto dell’arbitrato degli investimenti (29).
1) Sentenza Achmea
53. Nella sentenza Achmea (30), la Corte ha dichiarato che gli articoli 267 TFUE e 344 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano ad una norma contenuta in un accordo internazionale concluso tra due Stati membri, in forza della quale un investitore di uno di detti Stati membri, in caso di controversia riguardante gli investimenti nell’altro Stato membro, può avviare un procedimento contro quest’ultimo Stato membro dinanzi a un tribunale arbitrale, di cui tale Stato membro si è impegnato ad accettare la competenza.
54. In altri termini, la Corte ha statuito che una clausola di risoluzione delle controversie contenuta in un TBI concluso tra due Stati membri è incompatibile con il diritto dell’Unione.
55. In detta sentenza, la Corte ha basato il suo ragionamento su principi fondanti e incontestabili del diritto dell’Unione. Essa ha sottolineato, anzitutto, che un accordo internazionale non può pregiudicare l’ordinamento delle competenze stabilito dai Trattati e, quindi, l’autonomia del sistema giuridico dell’Unione (31). Ha rammentato che l’autonomia del diritto dell’Unione si giustifica sulla base delle caratteristiche essenziali dell’Unione e del diritto dell’Unione, relative, in particolare, alla struttura costituzionale dell’Unione nonché alla natura stessa di tale diritto (32), caratterizzato in particolare dalla sua fonte autonoma, costituita dai Trattati, dal suo primato nonché dalla sua efficacia diretta (33).
56. La Corte ha poi precisato che il diritto dell’Unione poggia, infatti, sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda. Ha inoltre rilevato che tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua (34).
57. Infine, la Corte ha ricordato che, per garantire la preservazione delle caratteristiche specifiche e dell’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’Unione, i Trattati hanno istituito un sistema giurisdizionale destinato ad assicurare la coerenza e l’unità nell’interpretazione del diritto dell’Unione (35). Ha inoltre indicato che la chiave di volta di detto sistema è costituita dal procedimento di rinvio pregiudiziale previsto dall’articolo 267 TFUE, il quale mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati (36).
58. Sulla base di tali principi, la Corte ha rilevato, da un lato, che il collegio arbitrale istituito sul fondamento delle disposizioni del TBI in questione era chiamato ad interpretare o ad applicare il diritto dell’Unione (37). Dall’altro, ha dichiarato che il collegio arbitrale in questione si collocava al di fuori del sistema giurisdizionale dell’Unione, cosicché il meccanismo di risoluzione delle controversie istituito dal TBI poteva escludere che controversie, anche laddove potessero riguardare l’interpretazione o l’applicazione del diritto dell’Unione, fossero risolte in modo da garantire la piena efficacia delle norme dell’Unione (38).
59. La Corte ha rilevato che ciò vale anche se il diritto degli Stati membri prevede la possibilità per i giudici nazionali di controllare il lodo arbitrale, in quanto un controllo siffatto è limitato e può operare solo nella misura in cui lo consenta il diritto nazionale. In tal senso, nella sentenza Achmea, la Corte ha operato una distinzione tra un meccanismo di risoluzione delle controversie contenuto in una convenzione che vincola due Stati membri e l’arbitrato commerciale, che è per l’appunto stato dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione in quanto le disposizioni fondamentali di diritto dell’Unione possono essere esaminate nell’ambito del controllo delle sentenze arbitrali da parte dei giudici nazionali e, se del caso, essere oggetto di un rinvio in via pregiudiziale (39).
60. Sottolineo infatti che esiste una differenza fondamentale tra questi due meccanismi. Una procedura di arbitrato commerciale presuppone l’esercizio ad opera di ciascuna parte della sua autonomia. Essa implica la conclusione di una convenzione di arbitrato, simultaneamente alla conclusione del contratto per il quale le controversie ad esso relative saranno sottoposte ad arbitrato, o dopo l’insorgere della controversia. In altre parole, la competenza del tribunale, nell’arbitrato commerciale, deriva sempre da una convenzione di arbitrato relativa a una controversia precisamente definita in detta convenzione. Non si può ritenere che la competenza di un siffatto tribunale arbitrale rientri nel sistema della tutela giurisdizionale accordata dallo Stato. Essa risulta piuttosto dall’autonomia di ciascuna parte coinvolta nel commercio (40). È infatti da tale autonomia che deriva la possibilità per le parti di decidere di risolvere le controversie ricorrendo all’arbitrato commerciale.
61. Per contro, il meccanismo di risoluzione delle controversie contenuto in un accordo internazionale risponde a una logica diversa (41). In questa ipotesi, tale meccanismo costituisce un’offerta di arbitrato generale e permanente, che spetterà alla controparte accettare o meno. In altre parole, con siffatto meccanismo, lo Stato rinuncia alla possibilità che una controversia che l’oppone ad un investitore di un altro Stato membro e rientra nell’ambito di applicazione di detto accordo sia risolta dai giudici nazionali. Siffatta rinuncia ha carattere sistemico, in quanto può riguardare tutte le controversie rientranti nell’ambito di applicazione di detto accordo. In tal modo, lo Stato istituisce un meccanismo di tutela giurisdizionale, esterno al sistema giurisdizionale da esso accordato.
62. È proprio questo l’aspetto dei meccanismi di arbitrato di investimento previsti da accordi tra Stati membri cui la Corte fa riferimento nella sentenza Achmea: non è infatti ammesso che gli Stati membri possano sottrarre al sistema giurisdizionale dell’Unione, mediante un impegno internazionale, sistematicamente, un insieme di controversie vertenti sull’interpretazione o sull’applicazione del diritto dell’Unione.
63. La Corte ha quindi statuito che il meccanismo di risoluzione delle controversie in questione è tale da rimettere in discussione, oltre al principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri, la salvaguardia del carattere proprio dell’ordinamento istituito dai Trattati, garantito dalla procedura del rinvio pregiudiziale di cui all’articolo 267 TFUE, e non è pertanto compatibile con il principio di leale cooperazione (42). A suo avviso, ne discende che il meccanismo di risoluzione delle controversie contenuto nel TBI in questione, in forza del quale qualsiasi investitore di uno Stato membro può avviare un procedimento nei confronti del secondo Stato membro dinanzi a un collegio arbitrale, pregiudica l’autonomia del diritto dell’Unione (43).
64. Tale soluzione è in definitiva la precisa espressione dell’autonomia del diritto dell’Unione (44), fondata essa stessa sull’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri, i quali condividono un insieme di valori e riconoscono la condivisione effettiva di tali valori. Pertanto, gli Stati membri sono tenuti a ritenere, salvo circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri dell’Unione rispettino l’ordinamento dell’Unione, ivi compresi i diritti fondamentali, segnatamente il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice indipendente, enunciato dall’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (45).
65. In altre parole, proprio perché è ammesso e riconosciuto, nell’ordinamento giuridico dell’Unione, che gli Stati membri rispettano un insieme di valori e di diritti, tra cui lo Stato di diritto e il diritto sancito a un ricorso effettivo, è parimenti garantito che gli investitori degli Stati membri siano, con certezza, sufficientemente protetti (46) nell’ordinamento giuridico dell’Unione, in modo che non sia necessario ricorrere a un sistema esterno ai sistemi giurisdizionali degli Stati membri (47).
66. L’importanza di questi valori, in particolare dello Stato di diritto, è peraltro ribadita dalla Corte in diverse cause (48), sottolineando il ruolo delle istituzioni dell’Unione, in particolare quello della Commissione, responsabili di garantirne il rispetto.
67. La sentenza Achmea ha quindi posto fine agli interrogativi concernenti i rapporti tra il diritto dell’Unione e i meccanismi di risoluzione delle controversie contenuti nei TBI conclusi tra due Stati membri.
68. Peraltro, quasi tutti gli Stati membri hanno successivamente preso atto di tale decisione, esprimendo con diverse dichiarazioni (49) la loro intenzione di denunciare i TBI esistenti tra gli Stati membri. Tali dichiarazioni sono state seguite dalla conclusione, da parte di 23 Stati membri, il 5 maggio 2020, di un accordo sull’estinzione dei trattati Bilaterali di Investimento tra Stati membri dell’Unione (50).
69. Devo altresì precisare che l’incompatibilità di un meccanismo di arbitrato degli investimenti previsto da un accordo internazionale con il diritto dell’Unione risulta direttamente dal principio del primato del diritto dell’Unione. Ne discende la sua inapplicabilità nell’ordinamento giuridico dell’Unione, senza alcun limite temporale, di modo che non può riconoscersi la competenza di un tribunale arbitrale su questa base.
2) Portata della sentenza Achmea nei confronti del TCE
70. Tuttavia, la sentenza Achmea non risolve tutte le questioni relative ai rapporti tra l’arbitrato di investimento e il diritto dell’Unione. In particolare, tale causa verteva su un trattato bilaterale, di cui erano parti due Stati membri. Il TCE, pur prevedendo un meccanismo di risoluzione delle controversie analogo a quello oggetto della sentenza Achmea, in quanto consente di ricorrere a un tribunale arbitrale, è un trattato multilaterale di cui sono parti l’Unione e gli Stati membri.
71. Tali differenze hanno limitato la trasposizione automatica della soluzione elaborata per i TBI al meccanismo di risoluzione delle controversie previsto all’articolo 26 del TCE. Le successive dichiarazioni degli Stati membri a tale proposito illustrano per l’appunto le divergenze esistenti quanto alla possibilità di estendere la portata della sentenza Achmea al meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dal TCE (51) e, soprattutto, quanto alla compatibilità dell’articolo 26 del TCE con il diritto dell’Unione.
72. Occorre quindi stabilire se il ragionamento della Corte nella sentenza Achmea possa applicarsi alla compatibilità del meccanismo di risoluzione delle controversie previsto all’articolo 26 del TCE. A questo proposito, i governi francese, tedesco, spagnolo, italiano, dei Paesi Bassi e polacco nonché la Commissione hanno sostenuto che tale soluzione deve essere accolta e che l’incompatibilità dell’articolo 26 del TCE con il diritto dell’Unione ne comporta l’inapplicabilità nell’ordinamento giuridico dell’Unione. I governi ungherese, finlandese e svedese, dal canto loro, hanno sostenuto in udienza la tesi secondo cui la soluzione elaborata nella sentenza Achmea non può essere applicata al meccanismo di risoluzione delle controversie istituito all’articolo 26 del TCE.
73. Ritengo che il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto all’articolo 26 del TCE, nella parte in cui consente di ricorrere a un tribunale arbitrale, conduca effettivamente ad un risultato analogo al meccanismo di risoluzione delle controversie di cui alla sentenza Achmea, dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione.
74. In primo luogo, rilevo che, al pari del meccanismo di risoluzione delle controversie di cui trattasi nella sentenza Achmea, l’articolo 26 del TCE consente di sottoporre a un tribunale arbitrale degli investimenti controversie che possono riguardare l’interpretazione del diritto dell’Unione.
75. Infatti, l’articolo 26, paragrafo 6, del TCE prevede che il tribunale arbitrale decida sulle questioni oggetto di controversia in conformità del TCE e delle «norme e [dei] principi applicabili del diritto internazionale». Orbene, contrariamente a quanto sostengono i governi finlandese e svedese, e come la Corte ha dichiarato nella sentenza Achmea (52), tenuto conto della natura e delle caratteristiche del diritto dell’Unione, tale diritto deve essere considerato al contempo come facente parte del diritto in vigore in ogni Stato membro e come derivante da un accordo internazionale tra gli Stati membri. Pertanto, il tribunale arbitrale istituito in conformità dell’articolo 26 del TCE è, se del caso, chiamato ad interpretare, o ad applicare, il diritto dell’Unione.
76. In secondo luogo, ritengo che il tribunale arbitrale istituito in conformità dell’articolo 26 del TCE, anche in una controversia avviata da un investitore di uno Stato membro nei confronti di un altro Stato membro, si collochi al di fuori del sistema giurisdizionale dell’Unione (53).
77. Infatti, tale tribunale arbitrale non costituisce un elemento del sistema giurisdizionale degli Stati membri ed è proprio questo carattere derogatorio a giustificare l’esistenza di un simile meccanismo di risoluzione delle controversie. Esso non costituisce neppure un organo giurisdizionale comune a più Stati membri, poiché non presenta alcun collegamento con i sistemi giurisdizionali degli Stati membri.
78. In tali circostanze, il tribunale arbitrale istituito in conformità dell’articolo 26 del TCE non può essere considerato un «organo giurisdizionale di uno degli Stati membri» ai sensi dell’articolo 267 TFUE e non può adire la Corte in via pregiudiziale. Le pronunce di un tribunale siffatto non sono quindi soggette a procedure in grado di garantire effettivamente la piena efficacia delle norme dell’Unione (54).
79. Ne consegue che, al pari del meccanismo di risoluzione delle controversie dichiarato incompatibile con il diritto dell’Unione nella sentenza Achmea, l’articolo 26 del TCE, nella parte in cui consente di ricorrere a un tribunale arbitrale, lede, a mio avviso, l’autonomia del diritto dell’Unione ed è, pertanto, anche incompatibile con il diritto dell’Unione.
80. Tale conclusione non è rimessa in discussione né dalle specificità del TCE, che hanno indotto a mettere in dubbio l’applicazione della sentenza Achmea al meccanismo di risoluzione delle controversie da esso previsto, né dalla giurisprudenza più recente della Corte, invocata in udienza in particolare dai governi ungherese, finlandese e svedese.
i) Irrilevanza delle specificità del TCE rispetto a un TBI
81. È vero che, diversamente da quanto accade con un TBI come quello di cui alla sentenza Achmea, l’Unione è essa stessa parte del TCE ed è quindi vincolata da quest’ultimo. Rilevo inoltre che, in detta sentenza, la Corte ha espressamente sottolineato che il meccanismo di risoluzione delle controversie era previsto da un accordo concluso «non dall’Unione, ma dagli Stati membri» (55). Ciò implica necessariamente che la stessa soluzione non possa applicarsi in relazione ad un accordo internazionale concluso dagli Stati membri e dall’Unione? Ritengo di no.
82. A tale proposito, rilevo che è pacifico che un accordo internazionale che preveda l’istituzione di un organo giurisdizionale incaricato dell’interpretazione delle sue disposizioni e le cui decisioni vincolino le istituzioni, ivi compresa la Corte, non è, in linea di principio, incompatibile con il diritto dell’Unione. Infatti, la competenza dell’Unione in materia di relazioni esterne e la sua capacità di concludere accordi internazionali comportano necessariamente la facoltà di assoggettarsi alle decisioni di un organo giurisdizionale istituito o designato in forza di tali accordi, per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione delle loro disposizioni (56).
83. Tuttavia, tale facoltà può essere ammessa solo a condizione che sia rispettata l’autonomia dell’Unione e del suo ordinamento giuridico (57). Orbene, come ho indicato supra ai paragrafi 78 e 79, il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto all’articolo 26 del TCE, nella parte in cui consente il ricorso all’arbitrato, lede per l’appunto l’autonomia del diritto dell’Unione. Pertanto, il fatto che anche l’Unione sia parte del TCE non può avere alcuna incidenza su tale constatazione.
ii) Distinzione rispetto al parere 1/17
84. Infine, i governi ungherese, finlandese e svedese hanno sostenuto in udienza che il parere 1/17 (Accordo CETA UE‑Canada) (58) aveva introdotto un nuovo schema di analisi dei meccanismi di risoluzione delle controversie esterne al sistema giurisdizionale dell’Unione. Un meccanismo siffatto non sarebbe di per sé incompatibile con il diritto dell’Unione, purché non consenta l’interpretazione o l’applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione da parte di un giudice esterno al sistema giurisdizionale dell’Unione e le decisioni rese da quest’ultimo non possano avere l’effetto di impedire alle istituzioni dell’Unione di funzionare conformemente al quadro costituzionale dell’Unione stessa.
85. Tuttavia, tale argomentazione non è convincente. Da un lato, come esposto supra ai paragrafi 74 e 75, ritengo che l’articolo 26 del TCE consenta proprio l’interpretazione o l’applicazione delle disposizioni del diritto dell’Unione da parte di un tribunale arbitrale esterno al sistema giurisdizionale dell’Unione. L’articolo 26 del TCE differisce inoltre dal meccanismo di risoluzione delle controversie previsto dall’accordo economico e commerciale globale tra il Canada, da una parte, e l’Unione europea e i suoi Stati membri, dall’altra (in prosieguo: il «CETA»), in quanto quest’ultimo prevede una riserva espressa riguardo all’interpretazione del diritto dell’Unione (59), riserva che non esiste nell’articolo 26 del TCE.
86. Dall’altro lato, e soprattutto, rilevo che, nel parere 1/17 (Accordo CETA UE‑Canada) (60), il ragionamento della Corte riguardo al meccanismo di risoluzione delle controversie contenuto nel CETA non può assolutamente influire sull’analisi dell’articolo 26 del TCE. Come rilevato dalla Corte in tale parere, la questione della compatibilità, con il diritto dell’Unione, dell’istituzione o del mantenimento di un tribunale degli investimenti ad opera di un accordo che vincola gli Stati membri tra loro è diversa dalla questione della compatibilità, con detto diritto, dell’istituzione di un tribunale del genere mediante un accordo tra l’Unione e gli Stati terzi (61). L’argomentazione dei governi ungherese, finlandese e svedese potrebbe quindi essere accolta solo se il TCE disciplinasse unicamente i rapporti tra l’Unione e gli Stati terzi.
87. Infatti, mentre gli Stati membri sono tenuti al rispetto del principio di fiducia reciproca, tale principio non si applica affatto nei rapporti tra l’Unione e gli Stati terzi. Più precisamente, i rapporti con gli Stati terzi non si basano sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni e, dunque, rispettano il diritto dell’Unione che li attua. Come rilevato dall’avvocato generale Bot, nel quadro di un accordo con Stati terzi, ogni Parte contraente non fa necessariamente affidamento sul sistema giurisdizionale della controparte al fine di garantire il rispetto delle norme contenute nell’accordo (62). L’assenza di fiducia reciproca, quale esiste all’interno dell’Unione, è proprio il motivo per cui le parti contraenti decidono di concordare su una procedura neutrale di risoluzione delle controversie (63). Una siffatta procedura, esterna alle due parti, consente di garantire la fiducia delle parti contraenti riguardo all’applicazione dell’accordo, senza che tale fiducia possa confondersi con la fiducia reciproca, che struttura i rapporti in seno all’ordinamento giuridico dell’Unione.
88. Pertanto, il parere 1/17 (Accordo CETA UE‑Canada) (64) non incide sull’analisi, alla luce dei principi elaborati nella sentenza Achmea, del meccanismo di risoluzione delle controversie previsto all’articolo 26 del TCE, nella parte in cui consente di ricorrere a un tribunale arbitrale, in quanto detto accordo disciplina i rapporti tra gli Stati membri.
3) Conclusione sull’applicabilità dell’articolo 26 del TCE nell’ordinamento giuridico dell’Unione
89. Dalle considerazioni sin qui svolte risulta che il meccanismo di risoluzione delle controversie previsto all’articolo 26 del TCE è, a mio avviso, incompatibile con il diritto dell’Unione, nella parte in cui consente a un tribunale arbitrale situato al di fuori del sistema giurisdizionale dell’Unione, in occasione di una controversia tra un investitore di uno Stato membro e un altro Stato membro, di interpretare o di applicare il diritto dell’Unione e rimette in discussione, per ciò stesso, il principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri e la salvaguardia del carattere peculiare del diritto istituito dai Trattati, ledendo nel contempo l’autonomia del diritto dell’Unione. Sotto tale profilo, l’articolo 26 del TCE non è pertanto applicabile all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione.
90. Ciò posto, l’impossibilità per un investitore di uno Stato membro di ricorrere all’arbitrato in una controversia che lo oppone ad un altro Stato membro non implica che l’articolo 26 del TCE non sia applicabile in alcun caso all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione. In linea di principio, gli investitori di uno Stato membro potrebbero sempre convenire un altro Stato membro dinanzi ai suoi giudici in relazione ad una controversia ai sensi di detta disposizione (65). Questa possibilità dipende tuttavia dalla questione se le disposizioni sostanziali del TCE possano fondare siffatte domande e se esse siano pertanto, a loro volta, applicabili nell’ordinamento giuridico dell’Unione. Mi soffermerò ora su tale questione.
b) Applicabilità dell’articolo 1, punto 6, del TCE nell’ordinamento giuridico dell’Unione
91. L’articolo 1, punto 6, del TCE definisce la nozione di «investimento» utilizzata nelle disposizioni del TCE e figura nella prima parte del TCE, intitolata «Definizioni e finalità». Tale disposizione fa quindi parte delle disposizioni introduttive del TCE, che sono intese più in generale a stabilire l’ambito di applicazione e l’oggetto del testo e a definire i termini utilizzati nelle sue disposizioni.
92. In altre parole, l’articolo 1, punto 6, del TCE, nella misura in cui delimita l’ambito di applicazione ratione materiae del TCE, ha anche l’effetto di determinare l’applicazione delle disposizioni sostanziali di tutela del TCE.
93. Pertanto, l’applicabilità di tale disposizione nell’ordinamento giuridico dell’Unione dipende essenzialmente dalla questione se le norme sostanziali che essa attua siano esse stesse applicabili nell’ordinamento giuridico dell’Unione, di modo che gli investitori di uno Stato membro possano invocarle in occasione di un ricorso contro un altro Stato membro dinanzi ai giudici di tale Stato.
94. Sebbene non abbia risolto questa questione, la sentenza Achmea ha tuttavia rivelato l’esistenza di dubbi circa la possibilità di applicare, all’interno dell’Unione, le disposizioni sostanziali dei trattati di promozione e tutela degli investimenti in generale, e del TCE in particolare (66).
95. Ritengo tuttavia che non sia possibile, nell’ambito del presente procedimento, e in termini puramente teorici, rispondere con certezza a tale questione. A tale fine sarebbe infatti necessaria un’analisi in abstracto ed esaustiva di tutte le sovrapposizioni che possono esistere tra il diritto dell’Unione e il TCE (67). Orbene, mi sembra sconsigliabile procedere a un’analisi siffatta nella fase dell’esame della competenza della Corte a rispondere alle questioni pregiudiziali e nel contesto della presente causa. Si deve anche sottolineare che tale questione non è stata discussa tra le parti (68).
96. Rilevo inoltre che l’unico argomento relativo all’incompatibilità delle disposizioni sostanziali del TCE con il diritto dell’Unione dedotto nel presente procedimento è stato formulato succintamente dal governo italiano e dalla Commissione, affermando che il diritto dell’Unione prevede strumenti di tutela degli investimenti equivalenti agli strumenti di tutela degli investimenti del TCE. Orbene, prima facie, non mi appaiono chiare le ragioni per le quali tale equivalenza di protezione implicherebbe, di per sé, un’incompatibilità con il diritto dell’Unione.
97. Pertanto, ritengo che l’incompatibilità con il diritto dell’Unione delle disposizioni sostanziali del TCE, ivi compreso l’articolo 1, punto 6, del TCE, non possa, in questa fase e con certezza, essere esclusa o ammessa. Si deve quindi presumere che dette disposizioni siano applicabili nell’ordinamento giuridico dell’Unione.
4. Conclusione sulla competenza della Corte
98. L’articolo 26 del TCE non è, a mio avviso, compatibile con il diritto dell’Unione nella parte in cui prevede il ricorso a un tribunale arbitrale, cosicché un siffatto meccanismo di risoluzione delle controversie non può applicarsi all’interno dell’ordinamento giuridico dell’Unione.
99. Tuttavia, poiché non si può escludere, in questa fase, che le disposizioni sostanziali del TCE, ivi compreso l’articolo 1, punto 6, del TCE, possano essere applicabili nell’ordinamento giuridico dell’Unione, si deve anche presumere che tali disposizioni possano essere fatte valere dagli investitori di uno Stato membro in occasione di una controversia con un altro Stato membro dinanzi ai giudici di quest’ultimo, ai sensi dell’articolo 26 del TCE. Pertanto, si deve ritenere che sia l’articolo 1, punto 6, del TCE che l’articolo 26 del TCE possano essere applicabili nell’ordinamento giuridico dell’Unione.
100. Ne consegue che sussiste un interesse certo dell’Unione a che tali disposizioni ricevano un’interpretazione uniforme, cosicché la Corte dovrebbe essere competente a rispondere a tutte le questioni pregiudiziali.
B. Nel merito
1. Sulla prima questione pregiudiziale: la nozione di «investimento» ai sensi dell’articolo 1, punto 6, del TCE
101. Con la prima questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 1, punto 6, del TCE debba essere interpretato nel senso che un credito derivante da un contratto in materia di energia elettrica che non abbia comportato alcun apporto da parte dell’investitore nello Stato ospitante possa configurare un investimento.
102. In udienza, la Komstroy ha sostenuto che la nozione di «investimento» è definita dal TCE e che tale definizione è di per sé sufficiente, pur essendo suffragata da un elenco non esaustivo di esempi di attività che configurano un investimento ai sensi del TCE. Detta società ha inoltre fatto valere che il significato proprio dei termini dell’articolo 1, punto 6, del TCE è chiaro e che pertanto non occorre interpretarli né fare riferimento a criteri esterni alla definizione data. Infine, la Komstroy sostiene che lo stesso articolo 1, punto 6, del TCE prevede che un credito contrattuale possa essere considerato un investimento, in quanto l’articolo 1, punto 6, lettere c) e f), del TCE menziona, rispettivamente, i «diritti di credito» e «qualsiasi diritto [derivante da un] contratto».
103. La Repubblica di Moldova, i governi spagnolo, dei Paesi Bassi e polacco nonché la Commissione sostengono che un credito derivante da un contratto di vendita non può configurare un investimento ai sensi dell’articolo 1, punto 6, del TCE. Essi sostengono che, sebbene l’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE preveda che un diritto di credito configura un investimento, ciò vale solo a condizione che tale diritto di credito sia «conness[o] con un investimento». Orbene, un diritto di credito derivante da un contratto di vendita non può essere considerato «connesso con un investimento». La Repubblica di Moldova sottolinea inoltre che si dovrebbe fare riferimento al significato ordinario del termine «investimento», il quale implica un apporto di capitale, che mancherebbe nel caso di un credito contrattuale. Infine, la Repubblica di Moldova e la Commissione sottolineano l’importanza di distinguere tra ciò che pertiene al commercio e ciò che pertiene a un investimento, in quanto solo gli investimenti sono tutelati dalla parte III del TCE.
104. L’articolo 1, punto 6, del TCE definisce l’investimento come «ogni tipo di attività, detenuta o controllata, direttamente o indirettamente da un investitore». In tal modo, il TCE fornisce una definizione poco precisa che, prima facie, non sembra limitata solo dall’oggetto dell’attività cui l’investimento è associato. Detta disposizione aggiunge che un investimento ai sensi del TCE deve essere associato ad un’attività economica nel settore dell’energia.
105. Tale definizione è completata da un elenco non esaustivo di esempi specifici di investimenti ai sensi della menzionata disposizione. Ne consegue che, come sostiene la Komstroy, qualora l’attività in questione costituisca chiaramente uno degli investimenti espressamente menzionati all’articolo 1, punto 6, del TCE, non occorre, in linea di principio, procedere all’interpretazione della disposizione in parola (69).
106. Per quanto riguarda i crediti contrattuali, essi possono rientrare nella definizione di cui all’articolo 1, punto 6, del TCE, in virtù sia dell’articolo 1, punto 6, lettera c), sia dell’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE. Sono infatti menzionati i «diritti di credito (...) in virtù di contratto aventi valore economico e connessi con un investimento» (70), nonché «qualsiasi diritto conferito per (...) contratto (...) a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia» (71).
107. Rilevo tuttavia che queste due disposizioni, se pure forniscono esempi di investimenti ai sensi del TCE, tuttavia aggiungono anche condizioni supplementari per qualificare l’investimento. Da un lato, l’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE prevede che un diritto di credito è un investimento a condizione che derivi da un contratto connesso a sua volta con un investimento. Dall’altro, l’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE prevede che un diritto conferito per contratto è un investimento a condizione che esso sia stato conferito per svolgere un’attività economica nel settore dell’energia. In altre parole, un credito derivante da un contratto non è automaticamente un investimento ai sensi del TCE, poiché il medesimo trattato impone talune limitazioni.
108. Orbene, l’aggiunta di tali condizioni rende difficile, se non impossibile, il collegamento univoco di qualsiasi credito contrattuale all’una o all’altra forma di investimento ai sensi dell’articolo 1, punto 6, del TCE. Infatti, un credito contrattuale, in particolare quando derivi da un contratto di vendita di energia elettrica, non può rientrare senza alcun dubbio nell’ambito dell’articolo 1, punto 6, lettere c) o f), del TCE, senza che sia stato prima stabilito cosa implichino le condizioni supplementari enunciate da tali disposizioni.
109. Occorre quindi procedere all’interpretazione di queste due disposizioni, il che, conformemente all’articolo 31, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna (72), deve essere fatto «in buona fede seguendo il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e alla luce del suo oggetto e del suo scopo».
a) Sull’articolo 1, punto 6, letterac), del TCE
110. Per quanto riguarda l’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE, ai sensi del quale il credito deve derivare da un contratto connesso con un investimento, vi rilevo una certa ambiguità. Infatti, tale disposizione definisce i diritti di credito che possono essere considerati come un «investimento» rinviando alla nozione di «investimento». In altri termini, la nozione di «investimento» è al contempo la nozione definita e la nozione utilizzata per definirla. L’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE presenta in tal senso un carattere circolare (73).
111. Pertanto, e per uscire da tale circolarità, il termine «investimento» di cui all’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE può essere inteso solo in un senso diverso da quello specificamente indicato in detta disposizione. Come rilevato dal governo polacco, un diritto di credito è un investimento solo se è costituito in virtù di un contratto connesso a sua volta con un altro investimento ai sensi del TCE, che non rientra nell’ambito dell’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE.
112. Orbene, nessuno degli altri investimenti di cui all’articolo 1, punto 6, del TCE può essere inteso nel senso che comprende la fornitura di energia elettrica, la quale costituisce l’oggetto del contratto da cui deriva il diritto di credito in esame. Nessun comma di tale disposizione riguarda una semplice operazione commerciale (74). Dall’interpretazione letterale dell’articolo 1, punto 6, del TCE risulta quindi che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica e che non ha comportato alcun apporto non costituisce un diritto di credito in virtù di un contratto avente valore economico e connesso con un investimento.
113. L’interpretazione letterale dell’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE è inoltre confermata dal ricorso al senso ordinario del termine «investimento», menzionato in tale disposizione (75).
114. Nel linguaggio comune, come sostenuto dalla Repubblica di Moldova e dalla Commissione, tale termine designa generalmente un’operazione costituita da un apporto finanziario di una certa durata e che comporta un rischio (76).
115. Nello stesso senso, la giurisprudenza arbitrale ha inoltre progressivamente elaborato una definizione oggettiva della nozione di «investimento», secondo la quale un investimento presuppone la presenza di tre elementi: un apporto da parte dell’investitore, una certa durata di esecuzione e una partecipazione ai rischi dell’operazione (77).
116. Sebbene questa definizione sia stata elaborata in relazione alla nozione di «investimento» nella Convenzione per il regolamento delle controversie relative agli investimenti tra Stati e cittadini di altri Stati, firmata a Washington (Stati Uniti) il 18 marzo 1965, mi sembra tuttavia che essa contenga gli elementi essenziali di ciò che può configurare un investimento e sia, in tal senso, spesso richiamata in dottrina quando si tratti di proporre una definizione generale di tale nozione (78).
117. Secondo questa accezione del termine «investimento», un diritto di credito è quindi un investimento ai sensi dell’articolo 1, punto 6, del TCE, a condizione che sia sorto da un contratto che abbia comportato un apporto da parte del presunto investitore e l’aspettativa di un profitto, che non sia garantito. Tale accezione del termine «investimento», come enunciata all’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE, si riscontra inoltre sia nella giurisprudenza arbitrale (79) che in dottrina (80).
118. Orbene, un contratto di fornitura di energia elettrica è una semplice operazione commerciale che non può rientrare nella nozione di «investimento», in quanto non implica né un apporto (81), né un’aspettativa di profitti in funzione dell’apporto. Pertanto, ritengo che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica non sia connesso con un investimento e non soddisfi la condizione enunciata all’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE.
119. Infine, tale interpretazione della nozione «investimento» ai sensi dell’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE, è suffragata dall’analisi della logica d’insieme del TCE e del sistema di tutela degli investimenti istituito. Come rilevato dalla Commissione, il TCE distingue le norme relative al commercio, contenute nella sua parte II, da quelle relative alla promozione e tutela degli investimenti, contenute nella parte III. Pertanto, una semplice operazione commerciale non è, in quanto tale, assimilabile ad un investimento, salvo privare di qualsiasi significato la distinzione tra ciò che rientra nell’ambito del commercio e ciò che costituisce un investimento e richiede, pertanto, una tutela particolare (82).
120. La nozione di «investimento» ai sensi dell’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE non può quindi confondersi con una semplice attività commerciale, cosicché non può rientrarvi un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica, che non implica un apporto e un’aspettativa di profitto in funzione di tale apporto.
b) Sull’articolo 1, punto 6, letteraf), del TCE
121. L’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE riguarda «qualsiasi diritto conferito per (...) contratto (...) a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia». Rammento, a tale proposito, che l’articolo 1, punto 6, del TCE prevede già, in generale, che un investimento ai sensi del TCE deve essere associato ad un’attività economica nel settore dell’energia. Pertanto, la condizione imposta dall’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE non può essere intesa allo stesso modo, dato che, in caso contrario, tale precisazione verrebbe del tutto svuotata di significato.
122. L’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE non riguarda quindi qualsiasi diritto contrattuale connesso con un’attività economica nel settore dell’energia, ma aggiunge una condizione supplementare affinché un diritto contrattuale possa essere considerato un investimento protetto ai sensi del TCE. Ciò risulta dalla formulazione stessa di tale disposizione. Infatti, l’impiego dei termini «a svolgere» indica che il diritto contrattuale in questione deve essere stato conferito ai fini dello svolgimento di un’attività economica nel settore dell’energia (83). Il diritto contrattuale deve consentire lo svolgimento di un’attività economica nel settore dell’energia che il beneficiario non potrebbe svolgere in mancanza di tale diritto. In altre parole, il diritto contrattuale deve permettere lo svolgimento di tale attività e creare le condizioni di tale svolgimento (84).
123. Orbene, se un credito contrattuale è effettivamente un diritto conferito per contratto, tuttavia non si può ritenere che esso consenta di svolgere un’attività economica nel settore dell’energia quando sia acquisito dopo la sua costituzione in capo al titolare originario. In siffatte circostanze, il credito non conferisce al suo titolare il diritto di svolgere un’attività economica nel settore dell’energia, bensì unicamente quello di chiederne il pagamento.
124. Inoltre, quand’anche si dovesse considerare l’origine del credito, quod non, vale a dire il contratto di fornitura di energia elettrica, ritengo che si perverrebbe allo stesso risultato. Se pure un contratto di vendita di energia elettrica tra due imprese consente effettivamente a una di esse di fornire energia elettrica all’altra, tuttavia non è tale contratto ciò che permette di svolgere un’attività economica nel settore dell’energia. La società che fornisce l’energia elettrica è infatti già in grado di fornire l’energia elettrica di cui trattasi alla controparte, sicché il contratto non contiene in alcun caso un’autorizzazione o un diritto a svolgere un’attività economica nel settore dell’energia nel paese ospitante.
125. Pertanto, un credito siffatto non rientra, a mio avviso, nell’ambito dell’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE.
126. Da quanto precede risulta che né l’articolo 1, punto 6, lettera c), né l’articolo 1, punto 6, lettera f), del TCE possono essere interpretati nel senso che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica e che non ha comportato alcun apporto costituisce un investimento ai sensi di tali disposizioni.
c) Sulla definizione generale della nozione di «investimento» all’articolo 1, punto 6, del TCE
127. Resta il fatto che l’articolo 1, punto 6, del TCE contiene anche una definizione generale, certamente vaga, della nozione di «investimento» e che l’elenco di investimenti ivi fornito non è esaustivo. Si potrebbe quindi sostenere che un credito non coperto dall’articolo 1, punto 6, lettere c) o f), del TCE possa tuttavia configurare un investimento ai sensi dell’articolo 1, punto 6, del TCE, in quanto costituisce un’«attività, detenuta o controllata, direttamente o indirettamente da un investitore».
128. Tale argomentazione non è convincente. Come ho sottolineato (85), i crediti contrattuali sono le sole attività per le quali l’articolo 1, punto 6, del TCE prevede limiti espressi al loro riconoscimento come investimenti. Non si può quindi fare riferimento alla definizione generale della nozione di «investimento» al solo scopo di evitare le limitazioni pur previste all’articolo 1, punto 6, lettere c) e f), del TCE, salvo negare l’esistenza di tali precise disposizioni e procedere a un’interpretazione contra legem della nozione di «investimento» ai sensi del TCE.
129. Pertanto, propongo di rispondere alla prima questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 1, punto 6, del TCE deve essere interpretato nel senso che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica che non ha comportato alcun apporto non costituisce un investimento ai sensi di tale disposizione.
2. Sulla seconda questione pregiudiziale
130. Con la seconda questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 26, paragrafo 1, del TCE debba essere interpretato nel senso che configura un investimento l’acquisto effettuato da un’impresa di una Parte contraente di un credito costituito da un operatore economico appartenente ad uno Stato terzo al TCE.
131. A tal riguardo, ricordo che il credito in questione deriva da un rapporto contrattuale tra la Moldtranselectro e la Derimen, società, quest’ultima, registrata nelle Isole Vergini britanniche, ossia uno Stato terzo al TCE.
132. L’articolo 26, paragrafo 1, del TCE consente la risoluzione delle controversie tra una Parte contraente e un investitore di un’altra Parte contraente quando la controversia verta su un investimento realizzato da tale investitore. Il giudice del rinvio si interroga in merito all’eventuale incidenza dell’origine del credito, quando tale credito sia stato originariamente costituito da un operatore economico di uno Stato terzo al TCE, sulla sua qualificazione come «investimento» ai sensi dell’articolo 26, paragrafo 1, del TCE, la quale richiede che un siffatto investimento sia stato realizzato da un investitore di una Parte contraente.
133. Rilevo anzitutto che, alla luce della risposta da me suggerita alla prima questione, non è necessario rispondere alla seconda, in quanto, rispondendo in senso negativo alla prima questione, non occorre accertare se l’origine del credito incida sul suo riconoscimento come investimento realizzato da un investitore di una Parte contraente ai sensi dell’articolo 26, paragrafo 1, del TCE.
134. Esaminerò comunque, a fini di completezza, la seconda questione pregiudiziale, per il caso in cui la Corte non condividesse la mia analisi della prima questione, supponendo che un credito siffatto possa configurare un investimento ai sensi dell’articolo 1, punto 6, del TCE.
135. Come rilevato dal giudice del rinvio, e come sottolinea la Repubblica di Moldova, per stabilire se un investimento sia stato effettivamente «realizzato da un investitore di una Parte contraente», occorre fare riferimento all’articolo 1, punto 8, del TCE, che definisce i termini «realizzare investimenti». Tale disposizione prevede in particolare che un investimento può essere realizzato mediante l’acquisizione in tutto o in parte di investimenti già in atto. Essa non richiede, per contro, che l’investimento già in atto di cui trattasi sia stato originariamente costituito in uno Stato parte del TCE.
136. La Repubblica di Moldova sostiene, tuttavia, che tale condizione esiste. A suo avviso, i termini «investimenti già in atto» devono essere intesi secondo la definizione di «investimento» di cui all’articolo 1, punto 6, del TCE, ai sensi del quale un investimento deve essere «detenut[o] o controllat[o], direttamente o indirettamente da un investitore». Orbene, essa rileva che l’articolo 1, punto 7, del TCE definisce a sua volta il termine «investitore» come «una società o altro organismo organizzato in conformità alla legge applicabile in [una] Parte contraente». Pertanto, essa sostiene che, poiché l’operatore economico, titolare originario del credito considerato, è un operatore di uno Stato terzo al TCE, non può essere considerato un investitore ai sensi dell’articolo 1, punto 7, del TCE, cosicché il credito in questione non può configurare un «investimento già in atto» realizzato da una società di una Parte contraente ai sensi dell’articolo 1, punto 8, e dell’articolo 26, paragrafo 1, del TCE.
137. Tale argomentazione non è convincente. Se pure deve accogliersi il ragionamento della Repubblica di Moldova relativo alla necessità di fare riferimento all’articolo 1, punti da 6 a 8, del TCE per definire ciò che è coperto dai termini «un suo investimento», la conclusione cui essa perviene deriva tuttavia da una lettura parziale di tali disposizioni.
138. Non solo, come ho rilevato (86), l’articolo 1, punto 8, del TCE non impone alcuna condizione relativa all’origine geografica dell’investimento già in atto, ma le disposizioni in esame prevedono espressamente che tale investimento possa essere effettuato da un operatore economico di uno Stato terzo al TCE. Infatti, l’articolo 1, punto 7, del TCE definisce la nozione di «investitore» rispetto sia alle Parti contraenti che agli Stati terzi. È quindi chiaramente ammesso che un investitore possa essere originario di uno Stato terzo al TCE, ma ciò non implica che gli investimenti da esso realizzati non siano investimenti già in atto ai sensi del TCE (87).
139. Pertanto, il fatto che il credito sia stato costituito da un operatore economico di uno Stato terzo al TCE non ha alcuna incidenza sulla sua qualificazione come «investimento già in atto», dal momento che tale operatore deve parimenti essere considerato, secondo i termini del TCE, come un investitore.
140. Ne consegue che l’acquisto, da parte di un operatore di una Parte contraente, di un credito costituito da un operatore economico di uno Stato terzo al TCE deve essere considerato come l’acquisizione di un investimento già in atto e, pertanto, come costituente un investimento realizzato da un investitore di una Parte contraente ai sensi del TCE.
141. La Repubblica di Moldova, la Komstroy e la Commissione hanno tuttavia espresso una riserva quanto alla possibilità di un abuso di diritto in siffatte circostanze. Infatti, non si può escludere che un investimento costituito da un operatore di uno Stato terzo al TCE venga acquisito da un investitore di una Parte contraente al solo scopo di beneficiare della tutela accordata dal TCE, in particolare per azionare l’articolo 26, paragrafo 1, del TCE al fine di proporre un ricorso contro una Parte contraente, ciò che altrimenti non sarebbe possibile.
142. Se è pur vero che tale possibilità esiste, essa tuttavia non può essere sufficiente per escludere automaticamente dal beneficio della tutela degli investimenti conferito dal ricorso alla risoluzione delle controversie un investimento acquisito presso un operatore di uno Stato terzo al TCE. Non solo siffatta interpretazione non mi sembra compatibile con le disposizioni del TCE esaminate supra, ma implicherebbe che nessun investimento acquisito presso un investitore straniero sarebbe mai tutelato in virtù del TCE.
143. In tali circostanze, l’esistenza di un abuso di diritto può essere valutata solo caso per caso e non può giustificare un principio secondo il quale un investimento acquisito da un investitore di una Parte contraente presso un investitore di uno Stato terzo al TCE non deve essere considerato come un investimento realizzato dal primo ai sensi dell’articolo 26, paragrafo 1, del TCE. Spetterà quindi al giudice del rinvio verificare i motivi alla base dell’acquisto, da parte della Komstroy, del credito di cui trattasi, al fine di stabilire se detto acquisto fosse finalizzato unicamente alla proposizione di un ricorso contro la Repubblica di Moldova in forza del TCE.
144. Pertanto, nell’ipotesi in cui la Corte non condividesse la mia analisi relativa alla prima questione pregiudiziale, propongo di rispondere alla seconda questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 26, paragrafo 1, del TCE deve essere interpretato nel senso che l’acquisto di un credito costituito presso un investitore di uno Stato terzo al TCE configura un investimento ai sensi di detta disposizione, salvo che tale acquisto fosse finalizzato unicamente a beneficiare della tutela accordata dalle disposizioni del TCE e, in particolare, a consentire la proposizione di un ricorso dinanzi a un giudice arbitrale contro una Parte contraente, circostanza la cui verifica spetterà al giudice del rinvio.
3. Sulla terza questione pregiudiziale
145. Con la terza questione pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 26, paragrafo 1, del TCE debba essere interpretato nel senso che un credito appartenente a un investitore, derivante da un contratto di vendita di energia elettrica fornita alla frontiera dello Stato ospitante, possa configurare un investimento realizzato nell’area di un’altra Parte contraente in mancanza di qualsiasi attività economica esercitata dall’investitore sul territorio di tale Stato.
146. Rilevo che anche la terza questione ha carattere subordinato. Infatti, se si è risposto alla prima questione pregiudiziale che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica non è un investimento, è irrilevante determinare se tale credito sia stato realizzato nell’area di un’altra Parte contraente.
147. A fini di completezza, risponderò tuttavia alla terza questione pregiudiziale, per il caso in cui la Corte non condividesse la mia analisi della prima e della seconda questione, supponendo, quod non, che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica sia un investimento ai sensi del TCE.
148. La Repubblica di Moldova, sostenuta in tal senso dal governo spagnolo e dalla Commissione, afferma che non è stato realizzato alcun investimento sul suo territorio, in quanto l’energia elettrica fornita in base al contratto dal quale deriva il credito è stata consegnata solo fino alla frontiera tra l’Ucraina e la Moldova, lato ucraino.
149. Tale argomentazione deriva dalla lettura dell’articolo 1, punto 6, lettera c), del TCE, ai sensi del quale un diritto di credito è un investimento se è stato costituito in virtù di un contratto connesso a sua volta con un investimento. Tuttavia, mi sembra che essa non tenga conto di un elemento fondamentale. Infatti, se l’esame dell’investimento con cui sarebbe connesso il contratto dal quale deriva il credito in questione è rilevante per qualificare il credito come «investimento», una volta accertato tale elemento, l’investimento da considerare è solo il credito, senza che occorra fare nuovamente riferimento, in un momento successivo, all’investimento connesso.
150. L’investimento che forma oggetto della controversia e deve pertanto essere esaminato alla luce dell’articolo 26, paragrafo 1, del TCE non è quindi la fornitura di energia elettrica prevista dal contratto da cui deriva il credito, bensì il credito in sé. Occorre quindi solamente stabilire se l’acquisto di un credito siffatto possa essere considerato un investimento nell’area della Moldova, senza che sia necessario accertare se il contratto in virtù del quale tale credito è stato costituito sia connesso con un investimento realizzato, a sua volta, in tale area.
151. L’investimento in questione, vale a dire il credito, è detenuto nella fattispecie da un investitore ucraino, nei confronti di una società con sede in Moldova. Orbene, l’articolo 1, punto 10, del TCE definisce il termine «area» semplicemente come «il territorio su cui esercita la sua sovranità». Ne consegue che un credito detenuto nei confronti di una società stabilita sul territorio moldovo può essere considerato un investimento realizzato nell’area di tale Parte contraente, essendo sufficiente per dimostrarlo l’ubicazione del debitore.
152. Ad ogni modo, si otterrebbe lo stesso risultato se dovesse essere accolto l’argomento della Repubblica di Moldova secondo cui è necessario verificare anche in quale area sia realizzato l’investimento con cui è connesso il contratto dal quale deriva il credito.
153. Formalmente, l’energia elettrica è effettivamente fornita fino alla frontiera con la Moldova. Tuttavia, e salvo adottare una soluzione eccessivamente formalistica, resta il fatto che l’energia elettrica è in definitiva introdotta nella rete moldova e che tale circostanza costituisce il dato essenziale del problema. Il fatto che essa sia stata consegnata dall’operatore da una parte o dall’altra della frontiera non può influire su tale risultato (88). Invero, l’energia elettrica fornita è sempre destinata ad essere distribuita sul territorio moldovo e, pertanto, nell’area di tale Parte contraente (89).
154. Perciò, nell’ipotesi in cui la Corte non condividesse la mia analisi relativa alla prima e alla seconda questione pregiudiziale, propongo di rispondere alla terza questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 26, paragrafo 1, del TCE deve essere interpretato nel senso che un credito detenuto da un investitore di una Parte contraente nei confronti di un operatore di un’altra Parte contraente è un investimento realizzato dal primo nell’area del secondo.
V. Conclusione
155. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, propongo alla Corte di rispondere come segue alle questioni pregiudiziali sollevate dalla cour d’appel de Paris (Corte d’appello di Parigi, Francia):
L’articolo 1, punto 6, del Trattato sulla Carta dell’energia, firmato a Lisbona il 17 dicembre 1994 e approvato a nome dell’Unione europea con la decisione 98/181/CE, CECA, Euratom, del Consiglio e della Commissione, del 23 settembre 1997, concernente la conclusione da parte delle Comunità europee del trattato sulla Carta dell’energia e del protocollo della Carta dell’energia sull’efficienza energetica e sugli aspetti ambientali correlati, deve essere interpretato nel senso che un credito derivante da un contratto di fornitura di energia elettrica che non ha comportato alcun apporto non costituisce un investimento ai sensi di detta disposizione.